ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  18,
secondo  comma,  della  legge  26  luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), promosso  dal  Magistrato  di
sorveglianza  di  Firenze  nel  procedimento  relativo  a  T.D.   con
ordinanza del 27  aprile  2012,  iscritta  al  n.  132  del  registro
ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 20 novembre 2012  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del  27  aprile  2012,  il   Magistrato   di
sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento agli articoli 2,
3, primo e secondo comma, 27,  terzo  comma,  29,  31,  32,  primo  e
secondo  comma,  della  Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 18, secondo comma, della legge 26 luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'), nella  parte  in
cui prevede  il  controllo  visivo  del  personale  di  custodia  sui
colloqui dei detenuti e degli internati,  impedendo  cosi'  a  questi
ultimi di avere rapporti affettivi intimi,  anche  sessuali,  con  il
coniuge o con la persona ad essi legata da uno  stabile  rapporto  di
convivenza. 
    In  via  preliminare,  il  giudice  a  quo  ritiene   di   essere
legittimato a sollevare la questione, in quanto investito del reclamo
proposto  da  un  detenuto  e,   percio',   chiamato   a   «procedere
giurisdizionalmente»,  alla  luce  di  quanto  deciso   dalla   Corte
costituzionale con la sentenza n. 26 del 1999. 
    Cio' premesso, il rimettente osserva come la legge  penitenziaria
includa tra gli elementi del trattamento l'agevolazione dei  rapporti
familiari (art. 15, primo  comma,  della  legge  n.  354  del  1975),
prevedendo  segnatamente  che  «particolare  cura   e'   dedicata   a
mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli
internati con le famiglie» (art. 28 della legge  n.  354  del  1975).
Tale direttiva trova specificazione nel  disposto  dell'art.  61  del
decreto del Presidente  della  Repubblica  30  giugno  2000,  n.  230
(Regolamento recante norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulle
misure privative e limitative  della  liberta'),  in  base  al  quale
possono essere concessi, ai predetti fini, colloqui ulteriori oltre a
quelli  «ordinari»  e  autorizzate   «visite»   che   consentono   di
trascorrere parte della giornata, in appositi locali o all'aperto,  e
di consumare un pasto in compagnia delle persone ammesse ai colloqui:
cio', peraltro, sempre sotto il controllo  visivo  del  personale  di
custodia, prescritto dall'art. 18, secondo comma, della legge n.  354
del 1975. 
    A  prescindere  dall'effetto   limitante   che,   nella   realta'
carceraria del nostro Paese, puo' derivare dalle  concrete  modalita'
dei colloqui - solitamente tenuti in  spazi  ristretti  e  affollati,
tali da inibire anche le semplici manifestazioni di affetto - con  la
previsione    dell'anzidetto    controllo    visivo     l'ordinamento
penitenziario italiano verrebbe ad impedire, in linea  di  principio,
anche  negli  istituti  penitenziari   adeguatamente   attrezzati   -
diversamente da quanto avviene in numerosi altri Stati,  sia  europei
che   extraeuropei   -    l'«espressione    naturale    e    completa
dell'affettivita'» e, «all'interno di essa», «della sessualita'»  tra
il detenuto ed il «partner», sia esso  il  coniuge  o  il  convivente
stabile (equiparato al coniuge ai fini dei colloqui). 
    L'«astinenza  sessuale»  imposta  dalla   norma   denunciata   si
porrebbe, peraltro, in contrasto  con  le  indicazioni  contenute  in
raccomandazioni  del  Consiglio  d'Europa.  La   Raccomandazione   n.
1340(1997), sugli  effetti  sociali  e  familiari  della  detenzione,
adottata dall'Assemblea generale il 22  settembre  1997,  all'art.  6
invita,  infatti,  gli  Stati  membri  a  «migliorare  le  condizioni
previste per le  visite  da  parte  delle  famiglie,  in  particolare
mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti  possano  incontrare
le famiglie da soli». In modo ancora  piu'  puntuale,  la  successiva
Raccomandazione  R  (2006)2  sulle  regole   penitenziarie   europee,
adottata dal Comitato dei ministri l'11 gennaio 2006, prevede, con la
regola n. 24.4, che «le modalita' delle visite devono  permettere  ai
detenuti di  mantenere  e  sviluppare  relazioni  familiari  il  piu'
possibile normali»: concetto - quello di  «normalita'»  -  che  evoca
anche i profili affettivi e sessuali,  come  emerge  dal  commento  a
detta regola, ove si  precisa  che,  «ove  possibile,  devono  essere
autorizzate visite familiari prolungate»,  le  quali  «consentono  ai
detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner», posto  che
«le "visite coniugali" piu' brevi autorizzate a questo  fine  possono
avere un effetto umiliante per entrambi i partner». 
    Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004,
n. 2003/2188(INI), sui  diritti  dei  detenuti  nell'Unione  europea,
nell'invitare il Consiglio a promuovere, sulla base di un  contributo
comune agli Stati membri dell'Unione europea, l'elaborazione  di  una
Carta penitenziaria europea comune  ai  Paesi  membri  del  Consiglio
d'Europa, menziona specificamente, all'art.  1,  lettera  c),  tra  i
diritti da riconoscere ai detenuti, «il diritto ad una vita affettiva
e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi». 
    Sebbene non immediatamente vincolanti per  lo  Stato  italiano  e
tali comunque  da  lasciare  «una  certa  flessibilita'»  nella  loro
attuazione,  le  regole  ora  ricordate   indicherebbero,   peraltro,
chiaramente quale sia la tendenza del «regime penitenziario europeo». 
    Il  problema  della  «sessualita'/affettivita'»   delle   persone
sottoposte a restrizione della liberta' personale non sarebbe d'altra
parte risolto, nel nostro  ordinamento,  dall'istituto  dei  permessi
premio fuori dal carcere, previsto dall'art. 30-ter  della  legge  n.
354 del 1975, trattandosi di istituto  del  quale  puo'  in  concreto
fruire solo una parte minoritaria dei detenuti. Ne rimangono esclusi,
infatti, non solo tutti i detenuti in stato di custodia cautelare, ma
anche una elevata percentuale dei condannati in via definitiva, tanto
piu' dopo le limitazioni introdotte in  rapporto  ai  recidivi  dalla
legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche  al  codice  penale  e  alla
legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche,  di
recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato  per
i recidivi, di usura e di prescrizione). 
    Alla luce di tali considerazioni, il giudice  a  quo  reputa  che
l'art. 18, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, nella parte in
cui prevede il controllo a vista sui colloqui da parte del  personale
di  custodia,  si  ponga   in   contrasto   con   plurimi   parametri
costituzionali. 
    La norma censurata violerebbe,  anzitutto,  l'art.  2  Cost.,  in
forza del quale «la  Repubblica  riconosce  e  garantisce  i  diritti
inviolabili dell'uomo»: diritti che - secondo quanto affermato  dalla
gia' citata sentenza n. 26 del 1999 -  «trovano  nella  posizione  di
coloro  che  sono  sottoposti  a  una  restrizione   della   liberta'
personale, i limiti ad essa inerenti, ma non sono  affatto  annullati
da tale condizione». Il precetto  costituzionale  non  consentirebbe,
dunque,  di  disconoscere  totalmente  il  diritto  del  detenuto  al
rapporto sessuale con il coniuge o con  il  convivente  stabile,  nel
piu'  ampio  ambito  della  espressione  dell'affettivita',  evitando
«l'effetto umiliante (e per questo inumano e  degradante)»  derivante
dalla mera ammissione di «rapporti sessuali fra le parti». 
    Risulterebbe violato, altresi',  l'art.  3  Cost.,  con  riguardo
tanto alla previsione del primo comma, che enuncia  il  principio  di
eguaglianza dei cittadini davanti alla legge,  quanto  a  quella  del
secondo comma, ove si stabilisce che  «e'  compito  della  Repubblica
rimuovere gli ostacoli [...] che [...] impediscono il pieno  sviluppo
della persona umana»; nonche' l'art. 27, terzo  comma,  prima  parte,
Cost., in  forza  del  quale  «le  pene  non  possono  consistere  in
trattamenti contrari al  senso  di  umanita'».  L'astinenza  sessuale
coatta, «colp[endo] il corpo in una delle sue funzioni fondamentali»,
determinerebbe, infatti, il ricorso a pratiche "innaturali", quali la
masturbazione e l'omosessualita' «ricercata o imposta», che non  solo
ostacolerebbero il pieno sviluppo della persona del detenuto,  ma  la
avvilirebbero profondamente, risolvendosi, cosi', in  un  trattamento
contrario al senso di umanita'. 
    Verrebbe, in tal modo, compromessa anche la funzione  rieducativa
della pena, enunciata dall'art. 27, terzo comma, seconda parte, Cost. 
    La norma censurata violerebbe, ancora, l'art. 29  Cost.,  secondo
il quale «la Repubblica  riconosce  i  diritti  della  famiglia  come
societa' naturale fondata  sul  matrimonio»,  e  l'art.  31,  secondo
comma, Cost., che impone la protezione della  maternita',  «favorendo
gli istituti necessari a tale scopo». In contrasto con  il  carattere
«naturale» del vincolo nascente dal matrimonio, postulato  dal  primo
dei due precetti costituzionali ora  citati,  l'inibizione  censurata
determinerebbe,  infatti,  il  fenomeno  "innaturale"  dei  matrimoni
«bianchi» in carcere, celebrati ma non "consumati":  situazione  che,
lungi dal proteggere la maternita', la impedirebbe. 
    L'art. 18,  secondo  comma,  della  legge  n.  354  del  1975  si
porrebbe, da ultimo, in contrasto  con  l'art.  32  Cost.,  tanto  in
rapporto alla previsione del primo comma,  in  base  alla  quale  «la
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto  dell'individuo
e interesse della collettivita'», quanto  in  relazione  al  disposto
della seconda parte del secondo comma, per cui «la legge non puo'  in
alcun caso violare  i  limiti  imposti  dal  rispetto  della  persona
umana». Il ricorso  alla  masturbazione  o  a  pratiche  omosessuali,
conseguente alla  forzata  «astinenza  sessuale»  con  il  «partner»,
comporterebbe, infatti, una «intensificazione dei rapporti a  rischio
e la contestuale riduzione delle difese sul piano della  salute».  La
stessa astinenza, in se' considerata, non  aiuterebbe,  inoltre,  «in
persone che  hanno  ormai  superato  l'eta'  puberale,  uno  sviluppo
normale della sessualita'  con  nocive  ricadute  stressanti  sia  di
ordine fisico che psicologico». 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o,  comunque,
infondata. 
    Ad  avviso  della  difesa  dello  Stato,  la  questione   sarebbe
inammissibile sotto un duplice profilo. 
    In primo luogo, il giudice a quo avrebbe omesso di descrivere  la
fattispecie concreta e, conseguentemente, di motivare sulla rilevanza
della questione.  Il  rimettente  si  sarebbe  limitato,  infatti,  a
riferire di essere investito del reclamo  proposto  da  un  detenuto,
senza fornire alcuna indicazione ne'  in  ordine  alla  natura  e  al
contenuto di tale reclamo, ne' in ordine al regime carcerario cui  il
reclamante e' assoggettato e, in particolare, riguardo al  fatto  che
egli  possa  eventualmente  usufruire  dei  permessi  premio  di  cui
all'art. 30-ter della legge n. 354  del  1975  o  di  altri  benefici
carcerari: ipotesi nella  quale  il  colloquio  non  rappresenterebbe
l'unico strumento per consentire relazioni affettive e  sessuali  con
il partner. 
    In secondo luogo, il giudice a quo - nel richiedere  un  generico
intervento ablativo sull'art. 18, secondo comma, della legge  n.  354
del 1975 - avrebbe formulato un petitum privo dei necessari caratteri
di specificita' e univocita',  e  comunque  incongruo  rispetto  allo
scopo perseguito. Il rimettente  censura,  infatti,  la  disposizione
denunciata sul presupposto che essa  impedirebbe  «la  intimita'  dei
rapporti affettivi e impo[rrebbe] l'astinenza sessuale con il partner
legato  da  rapporto  di  coniugio  o  di  stabile  convivenza  [...]
favorendo il ricorso a pratiche masturbatorie  o  omosessuali».  Tale
contenuto non sarebbe, peraltro, affatto rinvenibile nella  norma  in
discussione, la quale si  limita  a  prevedere  che  «i  colloqui  si
svolgono in appositi  locali,  sotto  il  controllo  a  vista  e  non
auditivo del personale di custodia». Quello denunciato dal rimettente
costituirebbe,  dunque,   un   mero   effetto   eventuale   derivante
dall'applicazione della norma: con la conseguenza  che  la  rimozione
integrale di essa dall'ordinamento si tradurrebbe  in  un  intervento
«improprio, sproporzionato e persino  dannoso».  Le  ragioni  per  le
quali e' previsto il controllo visivo dei colloqui con riguardo  alla
generalita' dei detenuti - ragioni correlate a interessi generali  di
sicurezza sociale, ordine pubblico e  prevenzione  dei  reati  -  non
potrebbero essere, infatti,  totalmente  sacrificate  in  nome  delle
esigenze di intimita' affettiva e sessuale, ma andrebbero - al piu' -
bilanciate con esse. Non sarebbe, percio', ipotizzabile la  rimozione
pura e semplice della norma dall'ordinamento e,  con  essa,  di  ogni
forma di controllo sui colloqui, senza provocare «irrimediabili danni
sistemici». 
    Il giudice a quo avrebbe dovuto, semmai, chiedere  una  pronuncia
«additiva di principio» (che, peraltro, avrebbe  potuto  porre  altri
problemi di ammissibilita'): in particolare, avrebbe dovuto  chiedere
la dichiarazione di incostituzionalita' della norma, nella  parte  in
cui non prevede eccezioni alla regola del «controllo a  vista»  -  da
condizionare al possesso di precisi requisiti e alla verificazione di
determinati  presupposti  -  al   fine   di   tutelare   il   diritto
all'intimita'  affettiva  e  sessuale  del  detenuto  con  i   propri
familiari. 
    Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. 
    Come chiarito  dalla  giurisprudenza  costituzionale,  i  diritti
inviolabili dell'uomo, pur non essendo annullati dalla condizione  di
restrizione della liberta' personale, trovano in  tale  condizione  i
limiti ad essa inerenti, limiti  che  sono  connessi  alle  finalita'
proprie della restrizione stessa. Le  modalita'  di  svolgimento  dei
colloqui, previste dall'art. 18, secondo comma, della  legge  n.  354
del  1975,  rappresenterebbero,  appunto,  il  frutto  del  difficile
equilibrio tra l'esigenza punitiva dello  Stato  e  la  garanzia  dei
diritti fondamentali della persona. 
    Il rimettente avrebbe, inoltre, sottoposto a scrutinio il  citato
art. 18, secondo comma, non perche' tale norma sia effettivamente  in
contrasto con la Costituzione in relazione alle finalita' che le sono
proprie, ma solo perche' essa e' sembrata «l'unica disposizione utile
a segnalare quella che, piu' propriamente, dovrebbe  essere  indicata
come  una  carenza  dell'ordinamento   carcerario».   L'esigenza   di
consentire ai detenuti di praticare attivita' sessuali con il coniuge
o con il  convivente  non  sarebbe,  in  effetti,  soddisfatta  dalla
semplice ablazione  della  norma  in  esame.  A  tal  fine,  sarebbe,
infatti, necessario  -  come  si  afferma  nella  Raccomandazione  n.
1340(1997) del Consiglio d'Europa, citata dallo stesso rimettente (e,
peraltro, non vincolante)  -  mettere  a  disposizione  dei  detenuti
appositi luoghi e predisporre opportune misure organizzative: effetto
che  non  scaturirebbe  dalla  mera  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale invocata nell'ordinanza di rimessione. 
    In questa prospettiva, il problema della sessualita' dei detenuti
meriterebbe, bensi', particolare  attenzione  nelle  competenti  sedi
politiche,  ma  non  potrebbe  comunque  giustificare  l'accoglimento
dell'odierna questione, la quale risulterebbe mal posta in  relazione
alla norma denunciata, che risponderebbe  -  per  quanto  detto  -  a
diverse e prevalenti esigenze di ordine  pubblico,  a  cominciare  da
quella di evitare che i colloqui  si  trasformino  in  occasioni  per
proseguire  le  stesse  attivita'  delittuose   sanzionate   con   la
detenzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Magistrato  di  sorveglianza  di  Firenze  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'articolo 18,  secondo  comma,  della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
nella parte in cui prevede  il  controllo  visivo  del  personale  di
custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, impedendo cosi'
a questi ultimi di avere rapporti affettivi intimi,  anche  sessuali,
con il coniuge o con  la  persona  ad  essi  legata  da  uno  stabile
rapporto di convivenza. 
    Ad avviso del giudice  a  quo,  la  norma  censurata  violerebbe,
anzitutto, l'art. 2 della  Costituzione.  Il  diritto  della  persona
ristretta in carcere ad avere rapporti sessuali con il coniuge o  con
il  convivente  stabile,  nel  senso  piu'  ampio  della  espressione
dell'affettivita',  dovrebbe  ritenersi,  infatti,  compreso  tra   i
diritti inviolabili dell'uomo: diritti  limitati,  ma  non  annullati
dalla condizione di restrizione della liberta' personale. Cio', anche
alla  luce  delle  indicazioni  contenute  in   raccomandazioni   del
Consiglio d'Europa - in  specie,  la  Raccomandazione  n.  1340(1997)
dell'Assemblea generale, sugli  effetti  sociali  e  familiari  della
detenzione (art. 6), e la Raccomandazione R (2006)2 del Comitato  dei
ministri, sulle regole penitenziarie europee (regola n. 24.4) - oltre
che in atti dell'Unione europea, e segnatamente nella Raccomandazione
del Parlamento europeo  n.  2003/2188(INI)  del  9  marzo  2004,  sui
diritti dei detenuti nell'Unione europea (art. 1, lettera c). 
    Risulterebbe violato anche  l'art.  3,  primo  e  secondo  comma,
Cost., poiche' l'inibizione censurata si porrebbe in contrasto con il
principio di eguaglianza e  ostacolerebbe  il  pieno  sviluppo  della
persona del detenuto; nonche'  l'art.  27,  terzo  comma,  Cost.,  in
quanto l'«astinenza sessuale coatta», «colp[endo]  il  corpo  in  una
delle  sue  funzioni  fondamentali»,  determinerebbe  il  ricorso   a
pratiche  "innaturali"  e  degradanti,  quali  la   masturbazione   e
l'omosessualita' «ricercata o imposta», risolvendosi,  cosi',  in  un
trattamento contrario al senso di umanita' e tale da compromettere la
funzione rieducativa della pena. 
    La norma censurata sarebbe, inoltre, incompatibile con l'art.  29
Cost., secondo il quale «la  Repubblica  riconosce  i  diritti  della
famiglia come societa' naturale fondata sul  matrimonio»,  in  quanto
determinerebbe il fenomeno  innaturale  dei  matrimoni  «bianchi»  in
carcere, celebrati ma non consumati; come pure con l'art.  31  Cost.,
giacche' lungi dal proteggere  la  maternita'  -  come  previsto  dal
precetto costituzionale - la impedirebbe. 
    Sarebbe, infine, violato l'art. 32, primo e secondo comma, Cost.,
giacche' l'astinenza sessuale con il partner,  favorendo  il  ricorso
alla  masturbazione  o  a  pratiche  omosessuali,  comporterebbe  una
«intensificazione dei rapporti a rischio e la  contestuale  riduzione
delle difese sul piano della salute» e, in ogni caso, non aiuterebbe,
«in persone che hanno ormai superato l'eta'  puberale,  uno  sviluppo
normale della sessualita'  con  nocive  ricadute  stressanti  sia  di
ordine fisico che psicologico». 
    2.-  La  questione  e'  inammissibile,  sotto  due   distinti   e
concorrenti profili. 
    In primo luogo,  come  eccepito  anche  dall'Avvocatura  generale
dello Stato, il rimettente ha omesso di descrivere in  modo  adeguato
la  fattispecie  concreta  e,  conseguentemente,  di  motivare  sulla
rilevanza della questione. 
    Nell'ordinanza  di  rimessione,  il  giudice  a  quo  si  limita,
infatti, a riferire di essere chiamato a pronunciarsi  sul  «reclamo»
di un detenuto, senza precisarne affatto la natura e il contenuto  e,
quindi, senza indicare la ragione  per  la  quale  occorrerebbe  fare
applicazione della norma censurata nel caso di specie. Il  giudice  a
quo non specifica neppure, d'altra parte, a quale  regime  carcerario
sia sottoposto  il  reclamante  e,  segnatamente,  se  possa  o  meno
beneficiare dei permessi  premio,  previsti  dall'art.  30-ter  della
legge n. 354 del 1975: istituto che - per affermazione  dello  stesso
rimettente - rappresenterebbe  la  soluzione  migliore  dell'esigenza
prospettata,  consentendo  ai  detenuti  di   intrattenere   rapporti
affettivi e sessuali con  il  «partner»  al  di  fuori  dell'ambiente
carcerario, in  maniera  tale  che  la  sua  praticabilita'  potrebbe
eventualmente escludere la necessita'  di  concedere  all'interessato
"colloqui intimi" intramurali. 
    Per  costante  giurisprudenza  di  questa   Corte,   l'omessa   o
insufficiente descrizione  della  fattispecie  oggetto  del  giudizio
principale - non emendabile tramite la lettura diretta degli atti  di
tale   giudizio,   ostandovi   il   principio   di    autosufficienza
dell'ordinanza di rimessione - impedisce la necessaria verifica della
rilevanza  della  questione   e   ne   determina,   di   conseguenza,
l'inammissibilita' (ex plurimis, sentenza n. 338 del 2011,  ordinanze
n. 93 del 2012 e n. 260 del 2011). 
    3.- Il secondo motivo di inammissibilita' si connette al  petitum
e  coincide,  ma  solo  in  parte,  con  quello  che  forma   oggetto
dell'ulteriore eccezione della difesa dello Stato. 
    L'ordinanza di rimessione evoca, in effetti, una esigenza reale e
fortemente  avvertita,  quale  quella  di  permettere  alle   persone
sottoposte a restrizione della liberta' personale  di  continuare  ad
avere  relazioni  affettive  intime,  anche  a  carattere   sessuale:
esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una  risposta
solo parziale  nel  gia'  ricordato  istituto  dei  permessi  premio,
previsto dall'art. 30-ter  della  legge  n.  354  del  1975,  la  cui
fruizione - stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi  -
resta in fatto preclusa a larga parte della  popolazione  carceraria.
Si tratta di un problema che merita  ogni  attenzione  da  parte  del
legislatore, anche alla luce dalle indicazioni provenienti dagli atti
sovranazionali richiamati dal rimettente (peraltro non immediatamente
vincolanti,   come   egli   stesso   ammette)    e    dell'esperienza
comparatistica,  che  vede  un  numero  sempre  crescente  di   Stati
riconoscere, in varie forme e con  diversi  limiti,  il  diritto  dei
detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria: movimento  di
riforma nei cui confronti la Corte europea dei diritti  dell'uomo  ha
reiteratamente espresso il proprio apprezzamento, pur escludendo  che
la Convenzione per la salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali - e in particolare, gli artt. 8, paragrafo 1, e
12 - prescrivano inderogabilmente agli Stati parte  di  permettere  i
rapporti sessuali all'interno del carcere, anche tra coppie coniugate
(Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  sentenze  4  dicembre  2007,
Dickson contro Regno Unito, e 29 luglio 2003, Aliev contro Ucraina). 
    Nella  indicata  prospettiva,  il  giudice  rimettente   appunta,
peraltro, specificamente le sue  censure  sul  disposto  del  secondo
comma dell'art. 18 della legge n. 354 del 1975, in forza del quale  i
colloqui delle persone ristrette in carcere «si svolgono in  appositi
locali, sotto il controllo a vista e non auditivo  del  personale  di
custodia». 
    Risulta,  tuttavia,  evidente  come  un  intervento  puramente  e
semplicemente ablativo della  previsione  del  controllo  visivo  sui
colloqui - quale quello in apparenza richiesto  dal  giudice  a  quo,
alla luce della formulazione letterale del petitum - si  rivelerebbe,
per un verso, eccedente lo  scopo  perseguito  e,  per  altro  verso,
insufficiente a realizzarlo. 
    Il controllo a vista del  personale  di  custodia  non  mira,  in
effetti, ad impedire  in  modo  specifico  ed  esclusivo  i  rapporti
affettivi intimi tra il recluso  e  il  suo  «partner»,  ma  persegue
finalita'  generali  di  tutela   dell'ordine   e   della   sicurezza
all'interno degli istituti penitenziari e di prevenzione  dei  reati.
L'ostacolo  all'esplicazione  del  «diritto  alla   sessualita'»   ne
costituisce solo una delle conseguenze indirette, stante la  naturale
esigenza di intimita' connessa ai rapporti in  questione.  L'asserita
necessita'  costituzionale  di   rimuovere   tale   conseguenza   non
giustificherebbe, dunque, la caduta di  ogni  forma  di  sorveglianza
sulla generalita' dei colloqui. 
    Al  tempo  stesso,  l'eliminazione  del  controllo   visivo   non
basterebbe comunque, di per se', a realizzare l'obiettivo perseguito,
dovendo necessariamente accedere ad  una  disciplina  che  stabilisca
termini e modalita' di esplicazione del diritto di cui si discute: in
particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni
ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione
delle "visite intime", fissare il  loro  numero  e  la  loro  durata,
determinare le misure organizzative. Tutte operazioni che  implicano,
all'evidenza,  scelte  discrezionali,  di  esclusiva  spettanza   del
legislatore: e cio', anche a fronte della ineludibile  necessita'  di
bilanciare  il  diritto  evocato  con   esigenze   contrapposte,   in
particolare con quelle  legate  all'ordine  e  alla  sicurezza  nelle
carceri e, amplius, all'ordine e alla sicurezza  pubblica.  Esigenze,
queste, che la richiamata giurisprudenza della  Corte  di  Strasburgo
ha, peraltro,  ritenuto  idonee  a  giustificare  l'esclusione  delle
cosiddette «visite coniugali»  a  favore  dei  detenuti  -  ancorche'
qualificabile come interferenza con il diritto  al  rispetto  per  la
propria vita familiare, ai sensi dell'art. 8 della Convenzione  -  in
forza di quanto stabilito dal secondo paragrafo di tale articolo. 
    Per avere eloquente dimostrazione della varieta' delle  soluzioni
al riguardo  prospettabili,  e'  del  resto  sufficiente  scorrere  i
numerosi progetti  di  legge  sinora  presentati  in  materia  e  non
coronati da successo, nonche' le discipline concretamente adottate in
altri  Stati,  alle  quali  si  accenna  nella  stessa  ordinanza  di
rimessione. 
    4.- Ne', d'altra parte,  il  problema  potrebbe  essere  superato
ritenendo che il giudice a quo abbia richiesto  a  questa  Corte  una
sentenza additiva "di principio", la  quale  -  secondo  la  dinamica
propria di tale tipo di decisioni - si limiti ad affermare l'esigenza
costituzionale di riconoscere il diritto  in  parola,  demandando  al
legislatore  il  compito  di  definire  modi  e  limiti   della   sua
esplicazione e, nelle more dell'intervento legislativo, lasciando  ai
giudici comuni la possibilita' di garantire interinalmente il diritto
stesso tramite gli strumenti ermeneutici, sulla base della disciplina
in vigore (quella, in specie, dei colloqui e delle visite familiari). 
    La sentenza additiva "di  principio"  in  ipotesi  richiesta  dal
rimettente risulterebbe,  infatti,  essa  stessa  espressiva  di  una
scelta di fondo. 
    Nella  prospettiva  del  giudice  a   quo,   il   «diritto   alla
sessualita'» intra moenia dovrebbe essere, infatti,  riconosciuto  ai
soli detenuti coniugati o che intrattengano  rapporti  di  convivenza
stabile more uxorio, escludendo gli altri (si pensi,  ad  esempio,  a
chi, all'atto dell'ingresso in carcere, abbia una relazione affettiva
"consolidata", ma non ancora accompagnata dalla convivenza, o da  una
convivenza «stabile»).  Detta  soluzione  non  solo  non  e'  l'unica
ipotizzabile  (come  di  nuovo  attestano  i  progetti  di  legge  in
materia),  ma  non  appare  neppure  coerente  con  larga  parte  dei
parametri costituzionali evocati dallo stesso giudice a  quo:  talora
"per eccesso", talaltra "per difetto". 
    5.- La questione va dichiarata,  pertanto,  inammissibile  (sulla
inammissibilita' delle questioni che richiedano  interventi  additivi
in  materia  riservata  alla  discrezionalita'  del  legislatore,  in
assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata,  ex  plurimis,
sentenze n. 134 del 2012 e n. 271 del 2010, ordinanze n. 138 e n. 113
del 2012).