IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento per dichiarazione di fallimento rubricato al n. RG 1031/2012. 1. Con ricorso depositato in data 17 maggio 2012 i componenti effettivi del collegio sindacale della societa' VZM S.p.A. in liquidazione, con sede in Milano, via Ripamonti n. 66, Sigg.ri Erosio Prina, Mario Reggio e Guido Scaramelli, hanno chiesto che sia dichiarato il fallimento della suddetta societa'. Al fine di dimostrare lo stato d'insolvenza in cui versa la VZM S.p.A., i sindaci ricorrenti hanno evidenziato che: - gia' in data 7.6.2011 essi avevano invitato gli azionisti a presentare un'istanza di fallimento in proprio alla luce dei deficit di Euro 4.160.000,00 espresso dal bilancio relativo all'esercizio 2010; - erano poi naufragati anche i tentativi di articolare una domanda di concordato preventivo; - in data 26.3.2012 il liquidatore, Sig. Franco Denti, aveva comunicato agli azionisti che la situazione debitoria di VZM S.p.A. era diventata pari ad Euro 10.363.537,00 e che il capitale sociale di Euro 162.300,00 era stato completamente assorbito dalle perdite, ulteriormente aggravate dall'azzeramento della partecipazione nella societa' Apri Italia S.p.A. a seguito del fallimento di quest'ultima; - in data 26.4.2012, riunitasi l'assemblea sociale per l'approvazione del bilancio relativo all'esercizio 2011, il collegio sindacale aveva reso noto che il deficit era aumentato ad Euro 7.036.667,00. Hanno quindi prodotto la situazione debitoria della societa' e l'intero fascicolo del bilancio relativo all'esercizio 2011, da cui emerge la situazione di incapacita' della VZM S.p.A. di far fronte regolarmente alle sue obbligazioni. Al fine di comprovare poi la propria legittimazione attiva alla presentazione del ricorso di fallimento per conto ed in nome della societa' VZM S.p.A., i componenti del collegio sindacale hanno evidenziato che il liquidatore, Sig. Franco Denti, ha dichiarato espressamente, e poi comunicato formalmente ai soci e al collegio sindacale, che l'unica conclusione che egli avrebbe potuto prendere dinanzi alla situazione di insolvenza della societa', da lui stesso ampiamente riconosciuta, sarebbe stata quella di presentare istanza di fallimento, ma che, essendo tale conclusione sgradita ad alcuni azionisti, aveva deciso di non presentarla, di talche', non ravvisando altra soluzione che quella di dimettersi per evitare di incorrere in responsabilita', aveva conseguentemente rassegnato le sue dimissioni. I ricorrenti hanno quindi riferito che, finora, il liquidatore non e' stato ancora sostituito, nonostante sia stata convocata un'assemblea finalizzata proprio a tale sostituzione. Hanno quindi ritenuto che, dinanzi a tale situazione di inerzia, essi potessero surrogarsi al liquidatore e presentare quindi, al suo posto, il ricorso di fallimento (in proprio) per la societa' VZM S.p.A. Il Presidente, in veste di Giudice Relatore, preso atto che, alla luce di tale auto-qualificazione del ricorso dal parte dei sindaci ricorrenti, esso doveva essere trattato come ricorso di fallimento in proprio della societa', salva la valutazione circa l'effettiva sussistenza della legittimazione attiva in capo agli istanti, ha ritenuto opportuno e conseguente riferire subito in Camera di Consiglio. 2. Questo Collegio reputa che, in effetti, come emerge dall'inequivoco tenore del ricorso, sindaci abbiano inteso proporre un'istanza di fallimento della societa' in proprio, ma senza averne i poteri rappresentativi. Essi hanno infatti presentato il ricorso sul presupposto - erroneo - di poter agire in surroga del liquidatore dimissionario ed inerte. Il collegio sindacale, tuttavia, non aveva tale potere, posto che, fino al momento della sua effettiva sostituzione, il liquidatore ancora e', e resta, il rappresentante legale della societa', operando e potendo operare in regime di prorogatio (e quindi non sussistendo nemmeno la possibilita' di sostituirlo con un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. in difetto dei relativi presupposti). Di converso, il collegio sindacale, anche laddove si ponga la necessita' di adottare misure straordinarie, finanche urgenti, in caso di inerzia del liquidatore, puo' solo convocare l'assemblea, ma non sostituirsi tout court all'organo gestorio (arg. ex artt. 2406, 2477, quinto comma, 2488 e 2489 c.c.)(cfr., tra le altre, Cassazione penale, sez. V, 12 novembre 2001, n. 45237, secondo cui la legge riconosce ai sindaci poteri di controllo e verifica che non sono meramente contabili e si estendono al contenuto della gestione, ma non conferisce al collegio sindacale poteri di amministrazione attiva, nemmeno in via di sostituzione). Ne consegue che, nella specie, una volta rilevato tale difetto di legittimazione/capacita' processuale, ed accertato che comunque il liquidatore dimissionario ha gia' formalmente dichiarato di non voler presentare l'istanza di fallimento per conto della societa' VZM S.p.A - come i ricorrenti hanno non solo allegato, ma anche documentalmente comprovato - il ricorso dovrebbe de plano dichiararsi inammissibile. 3. Deve tuttavia osservarsi che, se fosse stata ancora vigente la disciplina di cui all'art. 6 I.fall. nel testo anteriore a quello modificato con la riforma del 2006, innanzi ad una comprovata situazione di insolvenza come quella in cui versa la societa' VZM S.p.A. il ricorso proposto dal collegio sindacale, pur se non considerabile come atto ritualmente imputabile alla societa', avrebbe potuto essere recepito come semplice esposto comunque idoneo ad attivare il potere del Tribunale fallimentare di dichiarare il fallimento ex officio, visto che tale potere gli era attribuito espressamente dall'originario testo della predetta norma, mentre gli e' stato poi sottratto dall'art. 4 del D.Lgs. n. 5/2006 a decorrere dal 16.7.2006. Tale considerazione, evidentemente, non viene fatta in questa sede a fini meramente esornativi. Essa, invece, ha nel caso di specie un pertinente significato ai fini del decidere, poiche' il Tribunale reputa, da un lato, che l'espunzione cosi operata non sia stata legittima, ponendosi senza alcun dubbio al di fuori del perimetro della delega che il Governo aveva ricevuto dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n. 80; e, dall'altro, che nessun Giudicante, dinanzi ad una situazione procedimentale che, come quella di specie, evoca espressamente quel potere ufficioso illegittimamente abrogato, possa ignorare tale violazione costituzionale, per quanto siano gia' ormai passati alcuni anni da quando essa e' stata perpetrata. Il Tribunale, in buona sostanza, non puo' affatto avallare la pur diffusa idea - sottilmente corriva alla ragion fattasi - che il tempo trascorso abbia reso di fatto inopportuno rilevare formalmente l'attuazione esorbitante della delega, non potendo il Giudice ordinario esprimere nella sua funzione di controllo costituzionale diffuso un'assoluta discrezionalita', perche' finirebbe per sottrarre in tal modo il potere di giudicare della questione (per quanto ritenuta rilevante e non manifestamente infondata) proprio alla Corte costituzionale, che e' l'unico Giudice competente a risolverla. Quanto alla ritenuta sussistenza della detta violazione, i criteri direttivi di cui all'art. 1, sesto comma, della legge n. 80/2005 non consentono sotto alcun profilo, nemmeno a volerli interpretare nella massima estensione immaginabile, di individuare un qualsiasi riferimento, per quanto indiretto, alla possibilita' di espungere il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio. Tale disposizione stabiliva infatti che, nell'esercizio della delega di cui al comma 5, il Governo avrebbe dovuto attenersi a principi e criteri direttivi espressamente riguardanti: l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita' del fallimento; l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia; l'ampliamento delle competenze del comitato dei creditori; il coordinamento dei poteri degli altri organi della procedura; la modifica di alcuni specifici profili della disciplina concorsuale (circa i requisiti per la nomina a curatore, le conseguenze personali del fallimento, gli effetti della revocazione, il termine di decadenza per l'esercizio dell'azione revocatoria, gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici pendenti, la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa, l'accertamento del passivo, la ripartizione dell'attivo e il concordato fallimentare); l'introduzione dell'obbligo per il curatore di predisporre un programma di liquidazione; l'introduzione della disciplina dell'esdebitazione; l'abrogazione della disciplina del procedimento sommario e dell'amministrazione controllata; l'attribuzione di un privilegio generale mobiliare ai crediti di rivalsa verso il cessionario previsti dalle norme relative all'imposta sul valore aggiunto. Alla luce di tale elencazione, per quanto qui soltanto sommariamente riportata, e' di palmare evidenza che, in sede di attuazione delle delega, il Governo non potesse toccare affatto l'art. 6 I.fall. nella parte in cui tale norma prevedeva l'iniziativa del Tribunale fallimentare ai fini della dichiarazione di fallimento ex officio. Puo' forse essere utile rilevare che, nel commentare specificamente la norma in oggetto, il vizio di esorbitanza (o eccesso) nell'attuazione della delega e' stato gia' denunciato anche da quasi tutta la dottrina, che non ha nemmeno omesso di evidenziare come l'eliminazione dell'iniziativa officiosa abbia di fatto anche reso - senza che ve ne fosse alcuna necessita' - meno efficiente e celere la procedura. E' poi anche il caso di rimarcare come la cancellazione del potere di dichiarare il fallimento d'ufficio nemmeno possa ricollegarsi ad una generica necessita' di coordinamento con altre disposizioni vigenti (finalita' richiamata dal quinto comma dell'art. 1 della L. n. 80/2005): a) certamente non con riferimento a norme di rango costituzionale, essendo stato anzi espressamente escluso dalla stessa Consulta che il vecchio testo dell'art. 6, nella parte in cui attribuiva al Tribunale il potere di dichiarare d'ufficio il fallimento, contrastasse con norme costituzionali, compreso l'art. 111 Cost., giudicato pienamente compatibile con la suddetta norma (cfr. C. Cost. 15 luglio 2003 n. 240, secondo cui "e' infondata, in riferimento all'art. 111, comma 2, cost., la q.l.c. dell'art. 6 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nella parte in cui prevede che il fallimento possa essere dichiarato d'ufficio. Premesso che in relazione al principio di imparzialita' e terzieta', come connaturale alla funzione giurisdizionale, il novellato art. 111 cost. non introduce alcuna sostanziale innovazione o accentuazione, ne' un nuovo valore costituzionale, rappresentando l'espressione 'giudice terzo e imparziale' la sintesi di una serie di valori che connotano il modo in cui, nel suo complesso, l'ordinamento deve far si' che il giudice si ponga di fronte alla res iudicanda, e che detto principio puo' e deve trovare attuazione con le peculiarita' proprie di ciascun tipo di procedimento, l'iniziativa officiosa - prevista dal legislatore in ragione di peculiari esigenze di effettivita' della tutela giurisdizionale - non lede il fondamentale principio di imparzialita' e terzieta' del giudice, quando il procedimento e' strutturato in modo che, ad onta dell'officiosita' dell'iniziativa, il giudice conservi il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti, il che si verifica nel caso in cui la conoscenza di una situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza - notitia decoctionis - derivi non gia' dalla scienza privata del giudice, ma da una fonte qualificata, perche' formalmente acquisita nel corso di un procedimento, del quale il giudice sia, come tale, investito"); b) non in relazione a singole norme di rango ordinario dello stesso sistema gius-concorsuale o piu' in generale in relazione ad un'ipotetica organicita' della riforma delle procedure concorsuali: quanto a quest'ultima, perche' rivelatasi - per comune opinione - tutt'altro che organica e sistematica (tanto da aver richiesto le numerose correzioni successivamente apportate con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 e con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella L. 30 luglio 2010, n. 122); quanto alle altre norme del sistema gius-concorsuale, sia tenuto conto che nessuna di esse sembra esprimere una ratio oggettivamente incompatibile con il potere del Tribunale di dichiarare d'ufficio il fallimento, sia considerato che l'unico profilo "finalistico" genericamente invocabile a questo riguardo, quello del parziale ridimensionamento del ruolo dell'Autorita' giudiziaria nel contesto della procedura fallimentare, evidentemente non implicava necessariamente, di per se' solo, una riduzione generalizzata di tale ruolo con riferimento ad ogni luogo normativo in cui la sua sfera d'azione si esprimeva, tanto meno con riguardo alla fase di apertura del fallimento; lo dimostra ad esempio il fatto che la stessa procedura di amministrazione straordinaria, che per definizione contempla un piu' ampio intervento del potere amministrativo a discapito di quello del tribunale, abbia conservato intatte le disposizioni che prevedono il potere officioso del Tribunale quanto alla dichiarazione dello stato di insolvenza (ancor oggi, infatti, l'art. 3, primo comma, del D.Lgs. n. 270/1999 prevede che l'accertamento dello stato di insolvenza possa avvenire d'ufficio, e tale norma certamente non e' stata ancora abrogata, nemmeno per implicito, come dimostra del resto la sua persistente applicazione da parte della giurisprudenza di merito; inoltre, l'art. 11 di tale D.Lgs. prevede che vi sia l'automatica conversione in fallimento quando si accerti con sentenza passata in giudicato la mancanza dei requisiti soggettivi per l'apertura dell'A.S., e cio' a prescindere dalla esistenza di un ricorso, e quindi anche d'ufficio; gli artt. 69 e 70 a loro volta continuano a prevedere il potere del tribunale di convertire d'ufficio in fallimento la procedura di amministrazione straordinaria in qualsiasi momento, anche al termine della procedura); si puo' anzi osservare, con argomento a fortiori, che nella procedura di amministrazione straordinaria riservata alle imprese di maggiori dimensioni (D.L. n. 347/2003 conv. in L. n. 39/2004, cd. Legge Parmalat o Marzano), e' addirittura la stessa autorita' amministrativa a poter aprire d'ufficio la procedura, a comprova del fatto che tale potere officioso e' tutt'altro che allotrio rispetto al sistema concorsuale, qualunque sia l'organo che ne appaia investito. In definitiva, la cancellazione - per mezzo di un decreto legislativo - dell'iniziativa officiosa del tribunale prevista dall'art. 6 I.fall. avrebbe richiesto necessariamente un'indicazione esplicita in tal senso da parte della legge delega, mentre, come s'e' detto, difettava un qualunque criterio direttivo dal quale potesse inferirsi (anche solo indirettamente) che il mandato conferito al Governo si estendesse anche al profilo in esame. Ci si trova di fronte, dunque, ad un vizio di esorbitante attuazione della delega e il Tribunale non puo' esimersi dal rilevarlo, qualunque idea esso possa avere sull'utilita' o meno, nel merito, dell'intervenuta modifica normativa, trattandosi di una patente violazione, formale e sostanziale, del potere legislativo che la Costituzione attribuisce esclusivamente al Parlamento, dinanzi alla quale e' evidentemente preclusa ogni valutazione di merito o di opportunita'. Pertanto non sarebbe neppure pertinente obiettare che oggi, alla stregua della riformata normativa, la notitia decoctionis puo' comunque pervenire ad un organo pubblico, e da esso essere poi resa oggetto di iniziativa ai fini della declaratoria di fallimento, anche se tale organo non e' piu' il Tribunale, ma e' (solo) il pubblico ministero. Dinanzi al vizio di eccesso di delega qui denunciato, infatti, non viene affatto in considerazione, ne' puo' essere oggetto di valutazione, il merito della scelta governativa di affidare (solo) al PM - quale organo pubblico - piuttosto che al Tribunale il potere di iniziativa (senza poi considerare che, secondo la S. Corte di cassazione - v. la sentenza n. 4632 del 28.22009 -, l'iniziativa del PM nemmeno potrebbe essere attivata da questo Giudice, pur quando esso abbia acquisito - e per aver acquisito -, come nel caso di specie, conoscenza della situazione d'insolvenza sulla base di notizie provenienti da terzi nei sensi di cui alla citata C. Cost. 15 luglio 2003 n. 240). E' pertanto conseguente sollevare questione di legittimita' costituzionalita' in via incidentale per le sopra illustrate ragioni, senza neppure la necessita' di dilungarsi piu' di tanto sulla rilevanza della questione ai fini del decidere, posto che l'insolvenza della societa' VZM S.p.A. risulta essere - come gia' detto - ampiamente comprovata. Pertanto se, emendata la norma illegittima, e ripristinata la disposizione abrogata, potesse e dovesse ritenersi ancora sussistente il potere del tribunale di aprire la procedura concorsuale ex officio, risulterebbero automaticamente superati tutti i limiti e le preclusioni attinenti al difetto di legittimazione attiva degli istanti e, in ragione della gia' constatata insolvenza in cui versa la societa' debitrice, il suo fallimento potrebbe essere dichiarato d'ufficio. In conclusione, ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale avente ad oggetto l'art. 4 del D.Lgs. n. 5/2009, nella parte in cui tale norma ha cancellato dal primo comma dell'art. 6 I.fall. (nel testo previgente) l'inciso "oppure d'ufficio", in riferimento all'art. 77 Cost. e al tenore letterale e logico della legge delega (art. 1, quinto e sesto comma, L. n. 80/2005), questo Tribunale, in via pregiudiziale ed incidentale, rimette gli atti del presente giudizio alla Corte Costituzionale, affinche' essa si pronunci sul punto.