ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli articoli 1  e  3
della legge 24 dicembre 2012,  n.  231  (Conversione  in  legge,  con
modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre  2012,  n.  207,  recante
disposizioni urgenti a  tutela  della  salute,  dell'ambiente  e  dei
livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti  industriali
di interesse strategico nazionale) - recte, degli artt.  1  e  3  del
decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a  tutela
della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso  di
crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale),
come convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge
n. 231 del 2012 - promossi dal Giudice per  le  indagini  preliminari
del Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 22 gennaio  2013
e dal Tribunale ordinario di Taranto con  ordinanza  del  15  gennaio
2013,  iscritte,  rispettivamente,  ai  nn.  19  e  20  del  registro
ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visti gli atti di costituzione di Bruno Ferrante  nella  qualita'
di   Presidente   del   consiglio   di   amministrazione   e   legale
rappresentante di Ilva S.p.A., nonche' gli atti di  intervento  della
Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF  Italia)
Onlus, di Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro,  della  Confederazione
Generale dell'Industria Italiana (Confindustria), della Federacciai -
Federazione Imprese Siderurgiche Italiane, nonche' del Presidente del
Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 9 aprile 2013 il Giudice relatore
Gaetano Silvestri; 
    uditi gli avvocati Luisa Torchia, Francesco Mucciarelli  e  Marco
De  Luca  per  Bruno  Ferrante,  nella  qualita'  di  Presidente  del
consiglio di amministrazione e legale rappresentante di Ilva  S.p.A.,
Francesca Fegatelli per l'Associazione Italiana  per  il  World  Wide
Fund for Nature (WWF  Italia)  Onlus,  Sergio  Torsella  per  Angelo,
Vincenzo e Vittorio Fornaro, Giuseppe Pericu  per  la  Confederazione
Generale dell'Industria Italiana (Confindustria) e per Federacciai  -
Federazione Imprese Siderurgiche Italiane, nonche' gli avvocati dello
Stato Maurizio Borgo e  Gabriella  Palmieri  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. -  Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale
ordinario di Taranto ha sollevato, con ordinanza depositata  in  data
22 gennaio 2013 (r.o. n. 19  del  2013),  questioni  di  legittimita'
costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012,  n.
231 (Conversione in legge, con  modificazioni,  del  decreto-legge  3
dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti  a  tutela  della
salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di  crisi
di stabilimenti industriali  di  interesse  strategico  nazionale)  -
recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre  2012,  n.  207
(Disposizioni urgenti a tutela  della  salute,  dell'ambiente  e  dei
livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti  industriali
di   interesse   strategico   nazionale),   come   convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 - in
relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma,  24,  primo  comma,  25,
primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101,  102,  103,
104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. 
    All'art. 1 del citato d.l. n.  207  del  2012  e'  previsto  che,
presso  gli  stabilimenti  dei  quali  sia  riconosciuto  l'interesse
strategico  nazionale  e  che  occupino  almeno   duecento   persone,
l'esercizio dell'attivita' di impresa, quando sia indispensabile  per
la salvaguardia dell'occupazione e della produzione, possa continuare
per un tempo non superiore a  36  mesi,  anche  nel  caso  sia  stato
disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto  delle
prescrizioni impartite con una  Autorizzazione  Integrata  Ambientale
rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la piu' adeguata
tutela dell'ambiente e della  salute  secondo  le  migliori  tecniche
disponibili. 
    Al successivo art. 3 e' stabilito che l'impianto siderurgico Ilva
di Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale
a norma dell'art. 1, che l'AIA rilasciata alla societa'  Ilva  il  26
ottobre 2012 produce gli effetti autorizzatori  previsti  dal  citato
art. 1, che la societa' indicata  e'  reimmessa  nel  possesso  degli
impianti e  dei  beni  gia'  sottoposti  a  sequestro  dell'autorita'
giudiziaria e che i prodotti in giacenza, compresi quelli  realizzati
antecedentemente alla data di entrata in  vigore  del  decreto-legge,
possono essere commercializzati dall'impresa. 
    1.1.- Dopo aver premesso d'essere investito di due richieste  del
pubblico ministero, relativamente a beni  in  attuale  condizione  di
sequestro,  il  rimettente  illustra  anzitutto   la   sequenza   dei
provvedimenti cautelari succedutisi nel giudizio a quo. 
    Il 25 luglio  2012,  su  richiesta  della  locale  Procura  della
Repubblica, lo stesso giudice a quo aveva disposto l'applicazione  di
misure cautelari personali e reali con riguardo a delitti realizzati,
secondo   l'ipotesi   accusatoria,   nella   gestione   dell'impianto
siderurgico dell'Ilva S.p.A. di Taranto. 
    Si procedeva in particolare, nei confronti  di  amministratori  e
dirigenti della societa', con riguardo a reati  ambientali  integrati
mediante emissioni nocive nell'atmosfera di polveri e gas (artt. 81 e
110 del codice penale; artt. 24 e 25 del d.P.R. 24  maggio  1988,  n.
203, recante «Attuazione delle direttive CEE numeri  80/779,  82/884,
84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di  qualita'  dell'aria,
relativamente  a  specifici  agenti  inquinanti,  e  di  inquinamento
prodotto dagli impianti industriali,  ai  sensi  dell'art.  15  della
legge  16  aprile  1987,  n.  183»;  artt.  256  e  279  del  decreto
legislativo  3  aprile  2006,  n.  152,  recante  «Norme  in  materia
ambientale»). Si procedeva, inoltre, riguardo ad ipotesi di  concorso
nei reati (talvolta continuati) di cui  agli  artt.  434  (Crollo  di
costruzioni o altri disastri dolosi),  437  (Rimozione  od  omissione
dolosa  di  cautele   contro   gli   infortuni   sul   lavoro),   439
(Avvelenamento   di   acque   o   di   sostanze   alimentari),    635
(Danneggiamento), 639 (Deturpamento e imbrattamento di cose  altrui),
674 (Getto pericoloso di cose) del codice penale. 
    I provvedimenti cautelari erano stati  adottati  in  base  ad  un
complesso di risultanze, comprese due perizie assunte  in  regime  di
incidente probatorio (l'una a carattere chimico-ambientale e  l'altra
a carattere medico-epidemiologico). 
    Il rimettente segnala  che  i  provvedimenti  in  questione  sono
divenuti inoppugnabili, perche' confermati dal tribunale del  riesame
con due distinte ordinanze, una delle quali posta ad  oggetto  di  un
ricorso  per  cassazione  poi  respinto  (e'  il  caso  delle  misure
restrittive personali), e l'altra neppure impugnata (e' il caso delle
misure reali). 
    1.1.1.-  La  misura  cautelare  del  sequestro  preventivo  aveva
riguardato ampie porzioni dello stabilimento siderurgico di  Taranto,
senza facolta' d'uso per il gestore, con la nomina concomitante di un
collegio di custodi, il cui mandato non comprendeva la  continuazione
dell'attivita' produttiva,  ma  piuttosto  l'avvio  delle  operazioni
necessarie alla chiusura dell'impianto in condizioni di sicurezza. Il
rimettente  segnala  come  il  Tribunale  del  riesame,  pur   avendo
parzialmente  modificato  il  provvedimento,  avesse  confermato   la
necessita'  di  una  immediata  interruzione   dell'attivita'   nelle
cosiddette «aree a caldo», subordinando l'ipotetica loro  ripresa  ad
una futura autorizzazione,  condizionata  dalla  puntuale  esecuzione
degli interventi prospettati dai  periti  nell'ambito  dell'incidente
probatorio assunto nel giudizio principale, e  dall'instaurazione  di
un sistema di monitoraggio  delle  emissioni.  Il  Tribunale  dunque,
sempre  secondo  il  rimettente,  aveva   chiaramente   disposto   la
"sottrazione"  al  gestore  della  disponibilita'   degli   impianti,
consentendo l'attuazione  di  interventi  «all'esclusivo  fine  della
eliminazione della situazione di pericolo». 
    Riguardo al  sequestro  degli  impianti,  erano  poi  intervenute
alcune  ordinanze  di  rigetto  delle  richieste  di  revoca  o,   in
subordine, di autorizzazione a proseguire le attivita' produttive. 
    Lo stesso giudice a quo, con decreto del 22 novembre 2012,  aveva
disposto anche il sequestro «del prodotto  finito  e/o  semilavorato»
giacente  nelle  aree  di  stoccaggio  dello  stabilimento   Ilva   e
realizzato  in  epoca  successiva  al  sequestro  degli  impianti  di
produzione. La misura era stata applicata anzitutto nella prospettiva
della confisca, a norma dell'art.  240,  primo  comma,  cod.  pen.  e
dell'art. 321, comma 1, del codice di procedura  penale,  trattandosi
del prodotto della condotta illecita consistita nella  «imperterrita»
prosecuzione   dell'attivita'   industriale   inquinante   nonostante
l'esplicito divieto posto dai provvedimenti  giudiziari.  In  secondo
luogo, la cautela era stata adottata, in  applicazione  del  comma  1
dell'art. 321 cod. proc. pen., per il perseguimento  delle  finalita'
di prevenzione tipiche della fattispecie cautelare. 
    Sempre in data 22 novembre 2012 era stata emessa anche una  nuova
ordinanza applicativa di misure personali. Al novero dei  reati  gia'
contestati in precedenza si era aggiunto quello di  associazione  per
delinquere (art. 416, commi primo e secondo, cod. pen.). 
    1.1.2.-  Poste  le  premesse  indicate,  il  Giudice   rimettente
riferisce d'avere  ricevuto  il  4  gennaio  2013,  in  relazione  al
sequestro  dell'impianto  industriale,  una  richiesta  del  pubblico
ministero, volta in sostanza ad «adeguare» il titolo  cautelare  alle
novita' normative nel  frattempo  intervenute,  con  una  contestuale
sollecitazione a rimettere gli atti  alla  Corte  costituzionale  per
l'asserito contrasto tra gli artt. 1 e 3 della legge n. 231 del  2012
(recte, d.l. n. 207 del 2012) e numerosi parametri costituzionali. 
    Secondo la Procura, la cui richiesta e' oggetto di una  estesa  e
testuale citazione  adesiva  da  parte  del  rimettente,  l'Ilva  non
avrebbe dovuto, dopo il sequestro, proseguire l'attivita' produttiva,
ma semmai  cooperare  alla  realizzazione  degli  interventi  tecnici
necessari per la  messa  in  sicurezza  degli  impianti.  Il  portato
essenziale  del  sopravvenuto  decreto-legge   consisterebbe   invece
nell'autorizzazione a proseguire l'attivita' produttiva, dannosa  per
la salute e per l'ambiente, nonostante la condizione di sequestro  in
atto, previa adozione delle sole misure previste nell'AIA rilasciata,
in sede di riesame, il 26 ottobre 2012. La disciplina avrebbe  quindi
privato i custodi giudiziari della loro  funzione  essenziale,  cioe'
quella  di  gestire  l'impianto  al  fine  di  realizzare  tutti  gli
interventi utili alla prevenzione delle emissioni pericolose. Di  qui
la richiesta di revocare la designazione dei citati custodi. Piu'  in
generale, avendo la Procura reimmesso  la  proprieta'  dell'Ilva  nel
possesso degli impianti, con la conseguente possibilita' di  produrre
e commercializzare materiale realizzato nelle parti «a  caldo»  dello
stabilimento,  il  giudice  procedente  e'   stato   sollecitato   ad
«adeguare» lo statuto dei beni in sequestro, concedendo  la  facolta'
d'uso dei medesimi. 
    Contestualmente, e come  anticipato,  il  pubblico  ministero  ha
chiesto sollevarsi varie  questioni  di  legittimita'  costituzionale
della normativa sopravvenuta. 
    1.1.3.-  La  seconda  delle  richieste  presentate   al   giudice
rimettente dalla locale Procura della Repubblica, in data  4  gennaio
2013, ha per oggetto la reiezione dell'istanza con la quale il legale
rappresentante  dell'Ilva  ha  sollecitato  la   «restituzione»   dei
prodotti in sequestro, per effetto di quanto  disposto  dal  comma  3
dell'art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito dalla legge  n.
231 del 2012. 
    Il pubblico ministero ha espresso  il  proprio  avviso  contrario
all'accoglimento   della   domanda,   sul    presupposto    che    la
commercializzazione del prodotto  da  parte  dell'Ilva  implicherebbe
l'irrimediabile dispersione della cosa in sequestro. Al tempo stesso,
la Procura procedente ha nuovamente sollecitato la  rimessione  degli
atti alla Corte costituzionale. 
    1.2.- Il  giudice  rimettente  propone  molteplici  questioni  di
legittimita' in merito agli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012, sia
mediante il richiamo alle osservazioni svolte nelle  richieste  sulle
quali  e'  chiamato  a  provvedere,  sia  mediante  lo  sviluppo   di
argomentazioni proprie. 
    Secondo la prospettazione del pubblico ministero,  la  disciplina
censurata consentirebbe ad una  determinata  impresa,  nonostante  la
connotazione penalmente illecita dell'attivita', di proseguire per 36
mesi la propria produzione, in palese violazione  dell'art.  3  Cost.
Cio' sulla base di un provvedimento amministrativo - la qualifica  di
«stabilimento di interesse strategico nazionale» - i cui  presupposti
non sarebbero delineati dalla legge con la necessaria precisione. 
    La normativa  in  questione  avrebbe  «espropriato»  la  funzione
giurisdizionale, vanificando l'efficacia dei provvedimenti  cautelari
adottati e precludendo l'adozione di nuove cautele,  a  fronte  della
perdurante  attivita'  illecita,  quand'anche  la  stessa  producesse
effetti    lesivi    «non    previsti    dalle    misure     indicate
nell'autorizzazione integrata ambientale». Di fatto - e  sebbene  non
possa parlarsi di «giudicato»  in  senso  proprio  -  il  legislatore
sarebbe intervenuto a modificare un atto  dell'autorita'  giudiziaria
senza mutare il quadro normativo di riferimento, dando  vita  ad  una
legge  provvedimento  fuori  dai  casi  ritenuti  ammissibili   dalla
giurisprudenza costituzionale (e'  citata  la  sentenza  n.  267  del
2007). Di qui la violazione degli artt. 101, 102, 103 e 104 Cost. 
    Al tempo stesso, l'ostacolo frapposto al perseguimento dei  reati
implicherebbe la violazione degli artt. 25 e 27 Cost. In particolare,
stabilendo «come unica  sanzione»,  nel  caso  di  inadempienze  alle
prescrizioni dell'AIA, una pena amministrativa pari ad una quota  del
fatturato, la disciplina censurata sottrarrebbe i fatti illeciti alla
cognizione del loro «giudice naturale», e nel contempo  interverrebbe
«a vanificare il principio di  responsabilita'  penale  personale  in
capo agli autori dei reati  commessi»  nei  tre  anni  successivi  al
rilascio dell'AIA. 
    La preclusione, inoltre, investirebbe il  diritto  delle  persone
offese ad ottenere, secondo il disposto dell'art.  24  Cost.,  tutela
giudiziale  per  la  propria  salute,  compromessa  dalle   emissioni
perduranti  di   sostanze   tossiche,   discriminando   i   cittadini
interessati rispetto ad ogni  altro  danneggiato  da  reato  (art.  3
Cost.). 
    La disciplina censurata, sempre secondo l'opinione fatta  propria
dal giudice a quo, non realizzerebbe un bilanciamento ragionevole tra
il diritto alla salute ed all'ambiente  salubre  da  un  lato  ed  il
diritto  all'iniziativa   economica   dall'altro   (con   conseguente
violazione degli artt. 2, 9, 32  e  41  Cost.).  Neutralizzando  ogni
possibilita' di intervento  inibitorio  sull'ipotetica  continuazione
delle   attivita'   delittuose   (la   stessa   violazione   dell'AIA
implicherebbe una  sanzione  pecuniaria,  ma  non  legittimerebbe  la
revoca dell'autorizzazione  prima  di  36  mesi),  la  legge  sarebbe
intervenuta ad annullare uno degli interessi in  conflitto  a  favore
dell'altro. In pratica, pagando una «tassa» pari al 10% del fatturato
dell'ultimo anno (una legittimazione a  «pagare  la  possibilita'  di
inquinare»),  l'impresa  interessata  acquisterebbe  una   sorta   di
immunita' per il triennio successivo al riesame  dell'autorizzazione.
L'effetto non  sarebbe  escluso  dalla  clausola  di  salvezza  delle
ulteriori norme sanzionatorie (anche penali) inserita in apertura del
comma 3 dell'art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, perche'  nessuna  delle
relative sanzioni sarebbe applicabile prima della fine del triennio. 
    Da ultimo, la parziale coincidenza dei  parametri  nazionali  con
gli strumenti sovranazionali di garanzia dei  diritti  implicherebbe,
sempre  secondo  la  Procura  e  lo  stesso  giudice  rimettente,  la
violazione del  primo  comma  dell'art.  117  Cost.,  avuto  riguardo
anzitutto agli artt. 3 e 35  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione  europea,  e  poi   all'art.   191   del   Trattato   sul
funzionamento dell'Unione europea (TFUE), ove e' fissato il principio
di precauzione (disatteso nella specie oltre la soglia  del  rischio,
fino alla certezza, asseritamente acquisita, di danni  alla  salute).
Nel  contempo,  l'ingiustificata  interferenza  con  il  procedimento
cautelare in corso comporterebbe una  violazione  dell'art.  6  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, sub specie di lesione del diritto ad  un  equo
processo. 
    1.3.- Prima di procedere all'ulteriore esposizione dei motivi  di
asserito contrasto tra le  norme  censurate  e  la  Costituzione,  il
giudice a quo specifica che le  questioni  prospettate  dal  pubblico
ministero sarebbero rilevanti ai fini  della  decisione  da  assumere
sulle relative richieste. 
    Per quanto attiene agli  impianti  in  sequestro,  la  disciplina
censurata non varrebbe a determinare una revoca della cautela, quanto
piuttosto  ad  imporre  il  rilascio  di  una  facolta'  d'uso,  come
richiesto dai magistrati inquirenti. 
    Anche riguardo ai prodotti sequestrati, la normativa in questione
(e segnatamente il comma 3 dell'art. 3, come modificato  in  sede  di
conversione) lascerebbe inalterato nella forma il vincolo  cautelare,
pur legittimando l'Ilva a commercializzare le merci. 
    La  perdurante  «efficacia»  dei   provvedimenti   di   sequestro
imporrebbe - secondo il rimettente - la soluzione delle questioni  di
legittimita' costituzionale prospettate dal pubblico ministero. 
    1.4.- Come si e' detto, il giudice a  quo  condivide  le  censure
prospettate  nelle  richieste  sottoposte   alla   sua   valutazione,
aggiungendone di ulteriori, sia sotto il profilo  argomentativo,  sia
nell'individuazione dei parametri costituzionali di riferimento. 
    1.4.1.- Secondo il rimettente, la normativa de qua  avrebbe  dato
vita ad una «legge provvedimento»  (sono  citate  le  sentenze  della
Corte costituzionale n. 137 e n. 94 del 2009, n. 267 del  2007),  con
lesione del principio  di  separazione  tra  i  poteri  e  violazione
dell'obbligo costituzionale di prevenire e reprimere  i  reati  (sono
citate, a quest'ultimo proposito, le sentenze n. 88 del 1991 e n.  34
del 1973). 
    Gli artt. 1 e 3 del decreto-legge consentirebbero la prosecuzione
dell'attivita',  da  parte  del  gestore   privato,   nonostante   la
permanenza del sequestro, a  prescindere  dalla  qualita'  del  reato
commesso (eventualmente suscettibile di reiterazione), e per  effetto
di un atto dell'autorita' amministrativa  adottabile  anche  dopo  il
sequestro. In questa situazione, la perdurante violazione della legge
penale non potrebbe essere fronteggiata  da  provvedimenti  cautelari
dell'autorita' giudiziaria, e le misure gia' in corso  di  esecuzione
perderebbero la funzione preventiva ad esse tipicamente assegnata. Il
Presidente del Consiglio dei ministri, attribuendo,  con  un  proprio
decreto,  la  qualifica  di  «stabilimento  di  interesse  strategico
nazionale»  (art.  1,  comma  1,  del  d.l.  n.  207),   avrebbe   la
possibilita' di vanificare cautele in atto e di inibire nuove  misure
di protezione  degli  interessi  tutelati  dalla  legge  penale,  con
riguardo  a  specifici  casi.  Cio'  sarebbe  stato   gia'   ritenuto
illegittimo   dalla   giurisprudenza   costituzionale,   posto    che
l'effettivita' della giurisdizione e'  il  portato  del  primo  comma
dell'art. 24 Cost., e  «non  puo'  essere  elusa  o  condizionata  da
valutazioni amministrative di opportunita'» (e' citata la sentenza n.
321 del 1998). 
    Il contrasto col  principio  di  separazione  tra  i  poteri  non
verrebbe meno nell'art. 3 del decreto-legge, ove la qualificazione di
stabilimento di interesse strategico e' attribuita agli  impianti  di
Taranto  dell'Ilva  direttamente  dalla  legge.   La   giurisprudenza
costituzionale,   pur   configurando   l'ammissibilita'   di    leggi
provvedimento, l'avrebbe  subordinata  non  solo  all'osservanza  dei
principi  di   ragionevolezza   e   non   arbitrarieta',   ma   anche
all'integrita'  della  «funzione  giurisdizionale  in   ordine   alla
decisione delle cause in corso» (sono citate le sentenze n. 137 e  n.
94 del 2009, n. 241 del 2008, n. 267 del 2007, n. 492 del 1995).  Con
la precisazione che il risultato di interferenza deve essere valutato
in «considerazione del tempo, delle modalita' e del contesto  in  cui
e' stata emanata la disposizione censurata», dato che questi  fattori
potrebbero svelare la finalita' indebita, anche oltre il dato formale
(sentenza n. 267  del  2007).  La  funzione  giurisdizionale  sarebbe
vulnerata non solo dagli  interventi  sul  giudicato,  ma  anche  per
effetto  di  una  «legge  intenzionalmente  diretta  ad  incidere  su
concrete fattispecie sub iudice» (sentenza  n.  397  del  1994;  sono
citate, nel medesimo contesto, anche le sentenze n. 22 del  2009,  n.
413 del 2008, n. 352 del 2006, n. 374 del 2000, n. 183 del 1987). 
    Nel caso di specie  la  legge  sarebbe  stata  piegata,  in  modo
intenzionale, ad una funzione di sostanziale revoca dei provvedimenti
di sequestro specificamente assunti nei  confronti  dell'Ilva,  quasi
che il legislatore possa atteggiarsi a giudice di grado superiore  (e
possa agire dunque, sul caso concreto, lasciando inalterata  la  base
normativa sulla quale si fondano i provvedimenti «revocati»). 
    La «facolta' d'uso» della cosa  sottoposta  a  sequestro  sarebbe
logicamente  concepibile   solo   quale   effetto   d'una   specifica
valutazione  giudiziale  del  singolo  caso,  mentre,  riguardo  agli
impianti  dell'Ilva,  e'  stata  imposta   a   livello   legislativo.
Analogamente,  la  commercializzazione  dei  prodotti  in  sequestro,
autorizzata  con  legge,  varrebbe   a   vanificare   ogni   utilita'
«conservativa» della cautela in vista della confisca. 
    Per i profili  indicati,  la  disciplina  censurata  risulterebbe
lesiva  del  principio  di  separazione  tra  i  poteri  (artt.  102,
«101/104»,  107  e  111  Cost.),  ed  in  contrasto  con  il   dovere
costituzionale di repressione dei reati, con violazione  degli  artt.
25, 27 e 112 Cost. 
    Gli stessi parametri sarebbero vulnerati anche con riguardo  alla
impossibilita' di prevenire e reprimere reati futuri, sganciati dalle
prescrizioni dell'AIA,  inevitabilmente  connessi  alla  prosecuzione
dell'attivita' produttiva. L'autorizzazione legislativa a condurre lo
stabilimento per 36  mesi  equivarrebbe  ad  una  «sospensione  della
effettivita'    della    tutela     giurisdizionale     dei     beni,
costituzionalmente  rilevanti,  lesi  dai  reati»,  con   l'implicita
violazione del primo comma dell'art. 24 Cost., visto che  le  istanze
private di tutela del diritto fondamentale alla salute non potrebbero
trovare alcuna rispondenza in provvedimenti giudiziari. 
    1.4.2.-  Con  riguardo  alla  disposizione  di  cui  al  comma  2
dell'art. 3 del  d.l.  n.  207  del  2012,  il  rimettente  prospetta
l'ulteriore  violazione  dell'art.  113  Cost.  Infatti   la   norma,
stabilendo  che  l'AIA  rilasciata  all'Ilva  nell'ottobre  del  2012
integra il provvedimento di riesame previsto dal comma 1 dell'art. 1,
ha sostituito  la  legge  ad  un  provvedimento  amministrativo,  nei
confronti del quale  sarebbe  stata  ammissibile  l'ordinaria  tutela
giurisdizionale, secondo quanto garantisce, appunto, l'art. 113 Cost.
In  questa  situazione,  per  altro  verso,  si  determinerebbe   una
ingiustificata discriminazione  tra  gli  impianti  per  i  quali  il
provvedimento deve  essere  assunto  in  sede  amministrativa  e  gli
stabilimenti dell'Ilva. 
    1.4.3.- Tornando a trattare, in generale, degli artt. 1 e  3  del
decreto-legge, il giudice a quo riprende le censure  prospettate  dal
pubblico ministero relativamente a  plurime  violazioni  dell'art.  3
Cost. A parita' di emissioni inquinanti, le  aziende  qualificate  di
«interesse  strategico   nazionale»,   secondo   criteri   oltretutto
generici, godrebbero di una legittimazione a proseguire  l'attivita',
a  differenza  di  aziende  che  non  abbiano  ottenuto  la  medesima
qualificazione. La discriminazione si riprodurrebbe  tra  le  vittime
delle  attivita'  illecite,  con  l'ulteriore  effetto,  per   quelle
interessate dalle emissioni  dell'azienda  legittimata  a  proseguire
l'attivita', di una compressione del diritto di agire in giudizio per
la tutela del proprio interesse (art. 24 Cost.). 
    Il principio di uguaglianza  sarebbe  violato,  nello  specifico,
anche  dal  comma  3  dell'art.  3,  riguardo  alla  possibilita'  di
commercializzare  il  prodotto  dell'attivita'  illecita,   che   non
varrebbe per aziende diverse  il  cui  prodotto  fosse  sottoposto  a
sequestro.  Nella  parte  relativa  alle   merci   realizzate   prima
dell'entrata  in  vigore   del   decreto-legge,   tra   l'altro,   la
disposizione che vanifica il sequestro in  atto  sarebbe  applicabile
alla sola  societa'  Ilva,  introducendo  un  ulteriore  e  specifico
fattore di ingiustificata discriminazione. 
    1.4.4.-  La  disciplina   censurata,   secondo   il   rimettente,
realizzerebbe anche una violazione del principio personalistico e del
principio «solidaristico-sociale». 
    La Costituzione mette in primo piano i diritti fondamentali della
persona umana, sottratta nella sua dignita' e nella sua condizione di
parita' giuridica ad ogni  possibile  strumentalizzazione,  anche  se
finalizzata   all'affermazione   di   interessi    costituzionalmente
apprezzabili (artt. 2 e 3 Cost.). Tra i  diritti  fondamentali  della
persona v'e' senz'altro quello alla salute (art. 32 Cost.), che nella
sua  dimensione  sociale   esprime   un   diritto   alla   salubrita'
dell'ambiente (artt. 2, 9 e 32 Cost.; e'  citata  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 365 del 1993). Per altro verso, in attuazione
del principio «solidaristico-sociale», l'iniziativa economica privata
non puo' svolgersi in modo dannoso per  la  sicurezza  delle  persone
(art. 41 Cost.). 
    Al fine dichiarato di salvaguardare  i  livelli  occupazionali  -
interesse che, secondo il  rimettente,  deve  essere  perseguito  nei
limiti imposti dall'esigenza di garantire i diritti inviolabili sopra
indicati - il d.l. n. 207 del 2012 avrebbe  determinato  la  completa
soccombenza del diritto alla salute ed all'ambiente salubre. Infatti,
per quanto il preambolo del provvedimento si  riferisca  all'esigenza
di rimuovere immediatamente «le condizioni di  criticita'  esistenti»
in  punto  di  sicurezza  degli  impianti,  gli  artt.  1  e  3   non
condizionano affatto la ripresa della produzione  alla  realizzazione
effettiva degli interventi necessari  allo  scopo,  stabilendo  anzi,
esplicitamente, che  le  prescrizioni  dell'AIA  riesaminata  vengano
adempiute nel corso di 36 mesi. Dunque - secondo il rimettente  -  la
produzione sarebbe ripresa nelle identiche condizioni  in  cui  aveva
dovuto essere interrotta per l'illecito  danno  recato  all'ambiente,
alle cose ed alle persone.  Ne'  potrebbe  riconoscersi  una  qualche
efficacia alla previsione sanzionatoria di cui al comma  3  dell'art.
1, che riguarda la mancata osservanza delle prescrizioni impartite in
sede di riesame dell'AIA, visto che la tempistica  per  l'adempimento
sarebbe del tutto assente. Nel contempo, la legge avrebbe paralizzato
ogni nuovo intervento cautelare dell'autorita' giudiziaria. 
    Le prescrizioni censurate, secondo il giudice a quo, svelerebbero
l'intento del Governo e del Parlamento di consentire  "comunque"  che
la produzione dell'Ilva prosegua per tre anni, quali  che  siano  gli
effetti sull'ambiente. Ulteriori indicazioni circa la ratio legis  si
rinverrebbero nell'omessa previsione di garanzie finanziarie a carico
della societa', per gli interventi di risanamento e per il  pagamento
dell'eventuale sanzione pecuniaria. 
    Il rimettente si chiede se il diritto alla salute  sia  realmente
suscettibile di un bilanciamento e, in caso di risposta  affermativa,
quale  sia  il  criterio  utile  ad   individuare   una   soglia   di
ragionevolezza,  sotto  il  profilo  qualitativo  e  quantitativo.  A
motivare implicitamente la risposta negativa, vengono trascritti ampi
stralci  della  Relazione  (approvata  il  17  ottobre  2012)   della
Commissione  parlamentare  di  inchiesta  sulle  attivita'   illecite
connesse al ciclo dei rifiuti, ove si  afferma,  per  un  verso,  che
nessun   interesse   di   carattere   economico-produttivo   potrebbe
legittimare la lesione del diritto alla salute, e, per l'altro verso,
che una lesione siffatta sarebbe gia' stata irrimediabilmente  recata
alla popolazione di  Taranto  e  soprattutto  ai  bambini  di  quella
comunita'. 
    1.4.5.- Ancora una volta riprendendo le eccezioni prospettate dal
pubblico ministero, il rimettente osserva che le violazioni  indicate
determinerebbero un contrasto  concomitante  con  l'art.  117,  primo
comma, Cost., poiche' riferibili anche ai precetti degli artt. 3 e 35
della "Carta di Nizza" (Carta dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea) ed all'art. 191 del TFUE. 
    In particolare, la disciplina censurata sarebbe incompatibile con
il principio di precauzione, considerato che nel caso degli  impianti
siderurgici dell'Ilva di Taranto dovrebbe parlarsi non di rischio, ma
di sicuro danno per la salute pubblica. 
    Infine, sussisterebbe  violazione  del  citato  art.  117,  primo
comma, Cost., per il contrasto tra le  norme  censurate  e  l'art.  6
della Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo,  «come  recepito
dall'art. 52 comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea», anche con riguardo al connotato di indipendenza del giudice
chiamato alla celebrazione dell'equo processo. 
    2.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato il 26 febbraio 2013,  chiedendo  che  le
questioni siano dichiarate inammissibili e/o infondate. 
    2.1.- Dopo  aver  riassunto  gli  antefatti  delle  ordinanze  di
rimessione  e  l'essenza  delle  questioni  sollevate,   l'Avvocatura
generale assume il difetto di rilevanza delle questioni medesime. 
    In primo luogo,  infatti,  il  giudice  a  quo  lamenterebbe  una
indebita lesione delle prerogative giurisdizionali nella  regolazione
dei casi concreti, pur ammettendo, nel contempo, che la legge non  ha
influito sulla condizione di  sequestro  dei  beni  e  che  sarebbero
necessari nuovi provvedimenti giurisdizionali per adeguare il  regime
del sequestro alla normativa sopravvenuta. 
    Riguardo agli impianti produttivi, d'altra  parte,  le  questioni
sollevate sarebbero tardive, dato che  la  Procura  competente,  dopo
l'entrata in vigore della normativa censurata, aveva  gia'  reimmesso
la proprieta' dell'Ilva nel possesso dello stabilimento. 
    Avuto infine riguardo alla disponibilita' dei prodotti  finiti  o
semilavorati, la questione avrebbe «perso di interesse», posto che il
giudice procedente,  con  provvedimento  del  14  febbraio  2013,  ha
disposto  la  vendita  delle  merci  in  sequestro.  Si   ammette   -
dall'Avvocatura  generale  -  che  la  giurisprudenza  costituzionale
misura la rilevanza con riferimento al momento in cui  viene  avviato
l'incidente di legittimita', e tuttavia la disposizione che reimmette
l'Ilva nel possesso dei  prodotti  sarebbe  «autoapplicativa»,  cioe'
avrebbe gia' prodotto interamente i suoi effetti. 
    2.2.-  Secondo  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  le
questioni sollevate,  nonostante  l'evocazione,  quali  parametri  di
legittimita',  di  «ben  diciassette   norme   della   Costituzione»,
sarebbero riducibili a due gruppi fondamentali. 
    2.2.1.- Il primo  nucleo  di  censure  attiene  al  principio  di
separazione tra i poteri ed al dovere dell'ordinamento di prevenire e
reprimere i reati. 
    In realta', la giurisprudenza  costituzionale  avrebbe  da  tempo
chiarito  che  un  intervento  normativo  non  vulnera  la   funzione
giurisdizionale  solo  perche'   produce   effetti   retroattivi   ed
«interagisce con controversie in corso» (sono citate le  sentenze  n.
229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 394 del 1994, n. 402 del 1993). 
    Nella specie si discute  di  provvedimenti  cautelari,  per  loro
natura assunti allo stato  degli  atti  e  suscettibili  di  continuo
adattamento,  tanto  che  il  cosiddetto  «giudicato  cautelare»  non
sarebbe affatto paragonabile alla condizione  di  irrevocabilita'  di
una sentenza. Per altro verso, il legislatore si sarebbe  limitato  a
fronteggiare una grave crisi  in  atto,  che  richiedeva  un  attento
bilanciamento tra le esigenze della produzione e  dell'occupazione  e
quelle  della  salute  e  dell'ambiente  (tutelate,  si  fa   notare,
anticipando l'introduzione delle Best  available  techniques  di  cui
alla Decisione di esecuzione della Commissione  europea  2012/135/UE,
del 28 febbraio 2012, che stabilisce le migliori tecniche disponibili
[BAT] per la produzione di ferro e acciaio ai sensi  della  Direttiva
2010/75/UE del Parlamento  europeo  e  del  Consiglio  relativa  alle
emissioni industriali). 
    E' pienamente concepibile - prosegue l'Avvocatura generale -  che
singoli  casi  concreti  pongano  in  evidenza   la   necessita'   di
affinamenti   e   aggiornamenti   della   legislazione.   Le    leggi
provvedimento,  d'altra  parte,  non  sono  per  se'  vietate   dalla
Costituzione.  La  disciplina  censurata  non  costituisce  un   caso
isolato:  si  ricorda  il  decreto-legge  11  maggio  2007,   n.   61
(Interventi straordinari per superare l'emergenza nel  settore  dello
smaltimento dei  rifiuti  nella  regione  Campania  e  per  garantire
l'esercizio dei propri poteri agli enti  ordinariamente  competenti),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  5
luglio 2007, n. 87, con il quale e' stata prevista la sospensione  di
efficacia dei provvedimenti di sequestro  dell'autorita'  giudiziaria
relativamente a siti oggetto di requisizione da parte del Commissario
straordinario. E' richiamato,  ancora,  il  decreto-legge  23  maggio
2008, n. 90 (Misure straordinarie per  fronteggiare  l'emergenza  nel
settore dello  smaltimento  dei  rifiuti  nella  regione  Campania  e
ulteriori  disposizioni  di  protezione  civile),   convertito,   con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 14 luglio  2008,  n.
123, recante varie  norme  di  diretta  incidenza  sull'efficacia  di
provvedimenti cautelari in  atto  e  sulla  competenza  a  provvedere
ulteriormente. 
    In casi del genere non vi sarebbe alcuna preclusione  di  accesso
alla tutela giurisdizionale dei diritti, ne'  alcuna  inibizione  dei
poteri di indagine e di azione facenti capo  al  pubblico  ministero,
ne' infine alcuna predeterminazione  della  decisione  giudiziale  in
merito ad una singola controversia. La disciplina censurata, oltre ad
introdurre  una  nuova  sanzione  per  le  violazioni  dell'AIA,   ha
specificamente conservato le  sanzioni  preesistenti,  anche  penali.
D'altra parte, la  doglianza  relativa  all'inibizione  di  nuovi  ed
efficaci provvedimenti cautelari di natura  reale  sarebbe  illogica,
ben potendo il legislatore legittimare determinate  condotte  per  il
futuro, ed apparendo congrua, di conseguenza, la  disattivazione  dei
poteri pertinenti alla giurisdizione penale. 
    Neppure sussisterebbe - a parere dell'Avvocatura  generale  -  la
prospettata  violazione  dell'art.  113  Cost.  Sarebbe   del   tutto
naturale,  nel  caso  di  «passaggio  dall'atto  amministrativo  alla
legge», che venga meno la giurisdizione del giudice comune (e' citata
la sentenza della Corte costituzionale n. 20  del  2012),  senza  che
questo comporti una compressione del diritto di  agire  in  giudizio,
poiche' la doglianza,  trasferendosi  sul  piano  della  legittimita'
della norma, puo' riproporsi tramite il  giudice  comune  nell'ambito
della giurisdizione costituzionale (e' citata la sentenza n. 289  del
2010). 
    Infine,  non  vi  sarebbe  alcun  contrasto  tra  la   disciplina
censurata e l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo
e  dunque  con  il  primo  comma  dell'art.  117   Cost.   La   Corte
costituzionale avrebbe gia' stabilito, considerata la  giurisprudenza
della Corte di Strasburgo sul tema, che la  Convenzione  non  esclude
radicalmente la possibilita' di leggi che, operando retroattivamente,
incidano  sull'andamento  di  giudizi  in  corso,  quando  sussistono
esigenze di ordine  pubblico  o  addirittura  «motivi  imperativi  di
interesse generale» (sono citate, nel complesso, le sentenze n. 264 e
n. 15 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 93 del 2011, n. 317 e n. 311  del
2009, n. 362 e n. 172 del 2008). D'altra parte il legislatore, con la
disciplina censurata, non ha modificato  in  senso  peggiorativo  una
posizione  acquisita,  mirando  piuttosto   al   migliore   possibile
bilanciamento  tra   interessi   costituzionalmente   rilevanti,   ed
impedendo che l'espansione incontrollata di una garanzia  comprimesse
intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti. 
    2.2.2.- Il secondo nucleo di  questioni  che  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri individua nell'ordinanza di rimessione attiene
proprio al bilanciamento tra  diritto  alla  salute  ed  all'ambiente
salubre e diritto all'iniziativa economica privata. 
    L'opinione del giudice a quo - secondo cui il diritto alla salute
avrebbe carattere «assoluto», non suscettibile di bilanciamento - non
potrebbe essere condivisa. D'altra parte, come dimostrerebbe gia'  il
preambolo del d.l. n. 207  del  2012,  il  risanamento  del  processo
produttivo costituirebbe lo scopo prioritario dello  stesso  decreto,
pur dovendosi nel contempo garantire altri interessi. 
    Mancando una lesione del  diritto  alla  salute  ed  all'ambiente
salubre, farebbe anche difetto  la  denunciata  violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost., in relazione agli artt.  3,  6  e  35  della
"Carta di Nizza", ed all'art. 191 del TFUE. Si  ribadisce  che  l'AIA
rilasciata il 6 ottobre 2012  anticiperebbe  l'adozione  delle  «BAT»
individuate a  livello  europeo  ed  assicurerebbe  l'osservanza  del
diritto   dell'Unione,   che   esclude   l'assunzione    a    livello
giurisdizionale del compito di dettare le prescrizioni  tecniche  per
il sicuro esercizio delle attivita' produttive. 
    2.2.3.- La conferma dell'assunto di una piena funzionalita' della
disciplina  censurata  alla  tutela  dell'ambiente  e  della  salute,
secondo  l'Avvocatura  generale,  si  rinviene  nell'efficacia  delle
misure assunte in esecuzione dell'AIA  riesaminata  (riduzione  della
produzione, selezione dei combustibili,  modalita'  di  stoccaggio  e
movimentazione delle materie  prime,  ecc.).  Efficacia  che  sarebbe
documentata dai nuovi sistemi di monitoraggio in continuo, dai  quali
verrebbe  notizia  di  un  notevole  miglioramento   della   qualita'
dell'aria, con  valori  di  inquinamento  inferiori  alle  soglie  di
attenzione determinate a livello europeo. 
    3.- La societa'  Ilva  S.p.A.,  in  persona  del  presidente  del
consiglio di amministrazione, si e' costituita nel giudizio con  atto
depositato il  25  febbraio  2013,  chiedendo  che  le  questioni  di
legittimita' siano «rigettate». 
    3.1.- La societa' Ilva, parte nei  subprocedimenti  cautelari  di
sequestro, nella qualita' di proprietaria dei beni strumentali e  dei
prodotti  attualmente  soggetti  a  vincolo  cautelare,  illustra  in
dettaglio alcuni passaggi della vicenda in atto. 
    Dopo aver ricordato come il Tribunale di Taranto,  con  ordinanza
depositata il 20 agosto 2012, avesse corretto  il  provvedimento  del
Giudice per le indagini preliminari,  ammettendo  che  la  produzione
avrebbe potuto continuare, sia pure previa adozione di misure per  il
contenimento delle emissioni, la parte privata  esamina  i  contenuti
dell'AIA rilasciata in sede di riesame, il 26 ottobre  successivo,  a
partire  dall'autorizzazione   per   la   ripresa   delle   attivita'
produttive, legata ad una rigorosa tempistica  per  la  realizzazione
delle misure di risanamento (sostanzialmente coincidenti  con  quelle
indicate dai periti dell'autorita' giudiziaria, e compatibili con  le
«BAT» di ispirazione europea). 
    Mancando della disponibilita' materiale degli impianti, l'Ilva ne
aveva  chiesto  il  dissequestro,  ma  il  giudice  per  le  indagini
preliminari, con provvedimento del 30 novembre 2012,  aveva  respinto
l'istanza, sul presupposto che l'AIA non aveva subordinato la ripresa
delle attivita' produttive alla previa e  completa  attuazione  delle
cautele necessarie a contenere  le  emissioni  nocive  (provvedimento
illegittimo,   secondo   la   parte,   perche'   risoltosi   in   una
disapplicazione  in  via  di  fatto  dell'autorizzazione   conseguita
dall'azienda). Negli stessi giorni, il giudice  aveva  sequestrato  i
prodotti finiti  o  semilavorati,  che  in  effetti  l'azienda  aveva
realizzato dopo il sequestro degli impianti, ma avvalendosi  in  cio'
della «autorizzazione» asseritamente  rilasciata  dal  Tribunale  del
riesame e sotto il controllo dei custodi. 
    Era poi sopravvenuto - prosegue la parte - il  d.l.  n.  207  del
2012 (del quale vengono analizzati  in  dettaglio  i  contenuti),  di
talche' l'Ilva aveva  chiesto  di  rientrare  in  possesso  dei  beni
sequestrati. La Procura di Taranto aveva «immesso [la  societa']  nel
possesso dei beni dell'impresa», fermo restando pero'  il  sequestro,
con la conseguenza che dovevano «essere mantenuti i sigilli in quanto
necessari ad attestare la  sottoposizione  dei  beni  al  vincolo  di
indisponibilita'». Il Giudice per le indagini preliminari, dal  canto
proprio,  aveva  rigettato  l'istanza  concernente  i  prodotti,  sul
presupposto che  lo  ius  superveniens  non  si  applicasse  a  merci
prodotte prima della relativa entrata in vigore. 
    Era poi intervenuta la legge n. 231 del 2012, di conversione  del
d.l.  n.  207,  specificando  che  dovevano  essere   rimessi   nella
disponibilita'  dell'Ilva   anche   i   prodotti   realizzati   prima
dell'adozione dello stesso decreto-legge. Rifiutando di accogliere la
nuova e conseguente istanza di dissequestro formulata dalla societa',
il pubblico ministero si era  rivolto  al  Giudice  per  le  indagini
preliminari per il rigetto, affiancando tale richiesta a quella d'una
modifica del regime cautelare concernente gli impianti di produzione. 
    La societa' Ilva informa che, dopo l'ordinanza con  la  quale  lo
stesso giudice ha sollevato a sua  volta  questioni  di  legittimita'
costituzionale (supra, § 1), e' stata disposta la vendita delle merci
in sequestro, sul presupposto della loro deperibilita' (ordinanza del
14 febbraio 2013). 
    3.2.- Tutto cio' premesso in fatto, la  parte  costituita  assume
che le censure proposte dal rimettente sarebbero infondate. 
    Le disposizioni dell'art. 1 del decreto-legge avrebbero realmente
un carattere generale, riguardando l'intera platea di titolari di AIA
che conducano stabilimenti suscettibili di qualificazione  nel  senso
dell'interesse  nazionale  (lo  stesso   rimettente   finirebbe   con
l'ammetterlo, lamentando l'eccessiva astrattezza  dei  criteri  posti
per la relativa  determinazione  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri). 
    Il  legislatore  avrebbe  realizzato  sul   piano   generale   un
bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo
l'efficacia  dell'AIA  riesaminata,   lasciando   impregiudicate   le
sanzioni  previste  ed  aggiungendone  di  nuove,  implementando  gli
obblighi delle  imprese  in  relazione  alle  cautele  di  protezione
ambientale. 
    La ratio dell'intervento renderebbe  perfettamente  congrua,  tra
l'altro,  la  disciplina   concernente   la   disponibilita'   e   la
commercializzazione  dell'acciaio  prodotto  negli  stabilimenti   di
Taranto,  non  avendo  senso  una  normativa  che  autorizzasse   una
attivita' produttiva  (anche  a  fini  di  salvaguardia  dei  livelli
occupazionali) e pero', nel contempo, vietasse di gestirne i  frutti,
sul piano logistico e su quello economico-finanziario. 
    Non  e'  certo  la  prima  volta,  del  resto,  che   l'interesse
strategico  di  determinate  attivita'  induce  il   legislatore   ad
interventi straordinari ed urgenti. La parte costituita menziona:  il
d.l. n. 90 del 2008, relativo all'emergenza rifiuti in  Campania;  la
legge  23  luglio  2009,  n.  99  (Disposizioni  per  lo  sviluppo  e
l'internazionalizzazione  delle  imprese,  nonche'  in   materia   di
energia),  che  all'art.  25  disciplina  la  materia  delle   scorie
nucleari; la legge 12 novembre 2011,  n.  183  (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge  di
stabilita' 2012), che all'art. 19 appresta speciale protezione per  i
cantieri della linea ferroviaria Torino-Lione;  il  decreto-legge  25
giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo  economico,
la  semplificazione,  la  competitivita',  la  stabilizzazione  della
finanza pubblica  e  la  perequazione  tributaria),  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1 della legge 6 agosto  2008,  n.  133,  che
all'art. 11 prevede il cosiddetto «piano casa»; il  decreto-legge  22
giugno 2012, n. 83  (Misure  urgenti  per  la  crescita  del  Paese),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 7 agosto 2012,
n.   134,   che   all'art.   17-septies   prevede   misure   per   la
ristrutturazione del patrimonio edilizio. 
    Passando all'esame dell'art. 3 del  d.l.  n.  207  del  2012,  la
societa' Ilva sostiene che la norma «fa applicazione, direttamente in
via legislativa, delle disposizioni di cui all'art. 1». In  sostanza,
il legislatore avrebbe verificato la ricorrenza  nel  caso  dell'Ilva
delle condizioni  per  il  riconoscimento  del  carattere  strategico
dell'impianto di Taranto, ed avrebbe «preso atto» della gia'  attuale
esistenza  di  una  AIA  riesaminata,  dichiarando   di   conseguenza
l'effetto di reimmissione dell'azienda nel possesso degli impianti  e
dei prodotti (con l'ulteriore tutela  rappresentata  dall'istituzione
di un Garante indipendente). 
    3.2.1.- Sarebbe infondata, in queste condizioni, la censura mossa
all'art. 1 del decreto, per l'asserito contrasto con l'art.  3  Cost.
Non sarebbe carente, in primo luogo, la  fissazione  dei  presupposti
per l'individuazione dell'interesse strategico nazionale, che attiene
tipicamente alla sfera dell'alta amministrazione  (e'  richiamata,  a
confronto, l'analoga disciplina dettata  per  l'esercizio  di  poteri
straordinari nel settore della difesa ed in altri settori strategici:
decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21,  recante  «Norme  in  materia  di
poteri speciali sugli assetti societari nei settori  della  difesa  e
della sicurezza nazionale, nonche'  per  le  attivita'  di  rilevanza
strategica  nei  settori  dell'energia,   dei   trasporti   e   delle
comunicazioni», convertito,  con  modificazioni,  dall'art.  1  della
legge 11 maggio 2012, n.  56).  Per  altro  verso,  il  principio  di
uguaglianza richiede il difforme trattamento di situazioni diseguali,
individuate secondo un criterio pertinente alla causa dell'intervento
normativo (sono citale le sentenze della Corte costituzionale  n.  89
del  1996  e  n.  15  del  1975).  Lo  stesso  ricorso  al   criterio
(concomitante) del numero  dei  lavoratori  occupati  e'  conforme  a
quanto si riscontra per altre discipline:  e'  citato  l'art.  2  del
decreto  legislativo  8  luglio  1999,  n.  270   (Nuova   disciplina
dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in  stato  di
insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30  luglio  1998,  n.
274), ove la procedura conservativa e' riservata appunto alle aziende
con almeno  200  dipendenti.  La  parte  costituita  osserva  che  il
rimettente - pur  senza  sostenere  in  radice  l'illegittimita'  del
ricorso a criteri quantitativi - non ha indicato tertia comparationis
che,  in  base  al  principio  di  uguaglianza,  dovrebbero   imporre
l'adozione di una diversa  soglia  numerica  di  dipendenti,  il  che
varrebbe a determinare l'inammissibilita' della  questione  sollevata
al proposito (sono citate le sentenze della Corte  costituzionale  n.
131 e n. 33 del 2009, n. 25 del 1991, n. 66 del 1982). 
    Anche il denunciato contrasto dell'art. 3 del decreto con  l'art.
3 Cost. dovrebbe essere escluso. 
    La censura muoverebbe  da  un  travisamento  della  norma  e  del
sistema  che  disciplina  le  attivita'   produttive   potenzialmente
inquinanti. La norma riconosce che l'Ilva si trova  nelle  condizioni
che, in generale, legittimerebbero qualunque azienda  a  produrre  in
base ad una AIA sottoposta a riesame. D'altra parte,  un'azienda  che
produce in  osservanza  dell'AIA  rilasciata  dopo  la  procedura  di
riesame non  commette  alcun  illecito,  non  potendosi  ammettere  -
secondo la parte - che sia  l'autorita'  giudiziaria,  e  non  quella
amministrativa,  a  fissare  i  parametri  di  tollerabilita'   delle
immissioni. In altre parole, l'Ilva non sarebbe trattata diversamente
da ogni altra  azienda  di  interesse  strategico  nazionale  che  si
trovasse nelle medesime condizioni. 
    Pur volendo ammettere che l'art. 3 del decreto  consista  in  una
«norma provvedimento», il legislatore non avrebbe  varcato  i  limiti
posti dalla giurisprudenza costituzionale per la legittimita' di tali
interventi (e' citata la sentenza n. 270 del 2010).  Non  sarebbe  la
prima  volta,  d'altra  parte,  che  il  legislatore  introduce   una
disciplina  particolare  per  cose  gia'   sottoposte   a   sequestro
giudiziario  (d.l.  n.  61  del  2007)  o  detta  deroghe  specifiche
all'applicazione di norme generali (e' richiamata la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 152 del 1985). 
    Nelle fattispecie complesse, non ogni «incoerenza,  disarmonia  o
contraddittorieta'» che  derivi  da  una  norma  puo'  risolversi  in
violazione del principio di uguaglianza, che' altrimenti il controllo
di  legittimita'  delle  leggi  si  trasformerebbe  in  controllo  di
opportunita' (sentenza n. 89 del 1996). 
    Con  specifico  riguardo  alla  commercializzazione  delle  merci
sequestrate, la parte considera palesemente infondata l'opinione  del
rimettente che la stessa non sarebbe giustificata dall'interesse alla
prosecuzione dell'attivita' produttiva, la quale, al  contrario,  non
sarebbe praticamente concepibile in  assenza  di  un  completo  ciclo
economico. 
    Neppure potrebbe ammettersi che, con riferimento alla clausola di
«retroattivita'» introdotta in sede  di  conversione  (riguardo  alla
reimmissione  nel   possesso   delle   merci   prodotte   prima   del
decreto-legge), si sia determinato un ingiustificato  trattamento  di
favore nei confronti dell'Ilva. Il comma 3 dell'art. 3  declina,  per
il singolo caso  in  esame,  una  norma  gia'  desumibile  sul  piano
generale dall'art. 1, che non potrebbe legittimare  la  continuazione
delle  attivita'  produttive  senza  legittimare  l'alienazione   dei
prodotti, e che si  applica  «anche  quando  l'autorita'  giudiziaria
abbia adottato  provvedimenti  di  sequestro  sui  beni  dell'impresa
titolare dello stabilimento». 
    3.2.2.- Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore  nella
funzione  giurisdizionale,  ed  ai  numerosi  parametri  evocati   in
proposito, la parte privata nega, anzitutto,  che  possa  esservi  un
problema di vanificazione del «giudicato». 
    Se di giudicato dovesse parlarsi con riguardo al sequestro  degli
impianti, anzitutto, cio' non potrebbe che farsi in riferimento  alle
statuizioni  del  Tribunale  del   riesame,   che   avrebbe   negato,
accogliendo in parte le censure mosse al  decreto  di  sequestro,  la
necessita' di una  immediata  cessazione  dell'attivita'  produttiva.
Dunque, l'intervento normativo sarebbe valso a favorire  l'attuazione
del giudicato, e non a contrastarlo. 
    In   generale,   la   stessa   fermezza   della    giurisprudenza
costituzionale nella protezione del giudicato sarebbe venuta meno, di
recente, a fronte della necessita' di  garantire  interessi  pubblici
contrastanti  (e'  citata  la  sentenza  n.  113  del  2011,  che  ha
introdotto un diverso caso di revisione quando  si  renda  necessario
dare attuazione ad una decisione  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo). 
    In  ogni  caso,  il  cosiddetto  «giudicato  cautelare»  non   e'
propriamente un giudicato, ma una mera preclusione  processuale,  che
opera rebus sic stantibus, con riguardo alle sole questioni  dedotte,
e non anche a quelle deducibili. Dunque si tratta di  una  situazione
suscettibile di modifica per effetto  di  norme  o  di  provvedimenti
amministrativi  sopravvenuti.  D'altra  parte,  se  l'andamento   del
procedimento cautelare non interferisce con quello del  processo  (e'
citata la sentenza della  Corte  costituzionale  n.  121  del  2009),
allora le norme che incidono sul procedimento cautelare non valgono a
condizionare l'esito del processo. 
    Neppure potrebbe dirsi, nella specie, che sia stata frustrata  la
funzione del giudice, chiamato ad  applicare  mutamenti  del  diritto
oggettivo alle singole fattispecie, come  sempre  accade,  a  maggior
ragione con riguardo a regole retroattive (sono  citate  le  sentenze
della Corte costituzionale n. 1 del 2011, n. 311 e n. 94 del 2009, n.
32 del 2008, n. 352 del 2006, n. 211 del 1998, n. 263 del 1994, n. 91
del 1988). Sarebbe sufficiente, per la legittimita'  dell'intervento,
che il legislatore non detti la regola per un  singolo  giudizio,  ma
ponga una disciplina suscettibile di applicazione in ogni fattispecie
concreta che presenti le medesime caratteristiche. 
    A tale proposito, sarebbe infondato l'assunto del rimettente  per
il  quale  la  normativa  censurata  inciderebbe  sulla   fattispecie
concreta a quadro normativo «invariato». La parte privata ripete  che
l'art. 1 del decreto ha introdotto una normativa  nuova  e  generale,
applicabile a tutte le aziende  di  interesse  strategico  nazionale,
comprese quelle gia' raggiunte da provvedimenti cautelari reali.  Che
poi il novum possa incidere sull'efficacia di statuizioni giudiziali,
che non consistano nel giudicato in senso  proprio,  sarebbe  ipotesi
gia'  ammessa  dalla  giurisprudenza  costituzionale  (e'  citata  la
sentenza n. 282 del 2005). 
    3.2.3.- Non sarebbero vulnerati il  principio  di  legalita',  il
principio di necessita' della prevenzione  e  della  repressione  dei
reati ed il diritto di azione. 
    L'art. 1 del d.l. n.  207  del  2012  si  limita  a  regolare  la
funzione legittimante di un provvedimento amministrativo, tra l'altro
sindacabile   nei   modi   ordinari   e   revocabile   dalla   stessa
amministrazione,   senza   incidere    sull'apparato    sanzionatorio
predisposto per le relative violazioni. Non potrebbe  ammettersi  che
la pendenza di situazioni cautelari impedisca qualunque  nuova  legge
che operi un bilanciamento degli interessi coinvolti dalle  attivita'
produttive. Quanto all'art. 3 - viene ribadito - la norma si limita a
riconoscere la  corrispondenza  del  caso  concreto  alla  previsione
astratta, senza legittimare condotte antecedenti o  condotte  future,
poste in essere in violazione della legge.  Neanche  la  pendenza  di
indagini preliminari (al cui  svolgimento  non  viene  opposto  alcun
intralcio) potrebbe sortire un effetto di paralisi della  normazione.
In astratto, sono del  resto  ammissibili  limiti  e  condizioni  per
l'esercizio dell'azione penale (sono citate le sentenze  della  Corte
costituzionale n. 121 del 2009 e n. 114 del 1982). 
    Infondata infine - a parere della parte costituita -  sarebbe  la
doglianza concernente la presunta «legificazione» dell'AIA rilasciata
all'azienda, e la conseguente frustrazione del diritto  ad  ottenerne
un sindacato giudiziale. Il rinvio dell'art. 3 al  provvedimento  non
avrebbe natura recettizia, avendo la sola funzione di stabilire  che,
nel caso dell'Ilva, l'autorizzazione prevista  dall'art.  1  e'  gia'
stata rilasciata, senza che per questo la stessa autorizzazione perda
la propria  natura  amministrativa  (tanto  da  restare  modificabile
secondo le procedure tipiche del procedimento amministrativo). 
    3.2.4.- La parte costituita  contesta,  ancora,  che  ricorra  la
pretesa lesione del diritto alla salute ed all'ambiente salubre. 
    In realta', la normativa censurata mirerebbe alla miglior  tutela
dei diritti invocati, posto che la cessazione della produzione  e  la
dismissione degli impianti sarebbe, per tali diritti, piu' pericolosa
della continuazione dell'attivita' in condizione di sicurezza. 
    In ogni caso - prosegue la parte - sarebbe erronea la pretesa che
i  diritti   in   questione   siano   insuscettibili   di   qualunque
bilanciamento, cosi' dando vita ad una  gerarchia  tra  valori  della
quale non vi sarebbe traccia in Costituzione (sono citate ex  multis,
a  proposito  della  spettanza  della   composizione   alle   istanze
rappresentative, le sentenze della Corte  costituzionale  n.  27  del
1998 e n. 94 del 1985). A maggior ragione spetterebbe al  legislatore
la determinazione delle  condotte  cui  assegnare  rilevanza  penale,
anche con specifico riguardo alla tutela degli  interessi  presidiati
dall'art. 32 Cost. (sentenze n. 376 del 2000, n. 267 del 1999, n. 447
del 1998, n. 304 del 1994, n. 455 del 1990). 
    Il ragionamento del  rimettente  sarebbe  infondato  anche  nella
parte in cui pretende che la normativa censurata abbia legittimato la
ripresa  delle  attivita'  produttive  senza  necessita'  di   previa
realizzazione  delle  cautele   per   l'ambiente.   L'autorizzazione,
anzitutto, risulta espressamente condizionata  all'adempimento  delle
prescrizioni impartite  con  l'AIA.  La  disciplina  prevede  poi  un
complesso sistema  di  controllo  e  monitoraggio.  Ed  infine,  come
accennato, e' stata introdotta la figura di un Garante  indipendente,
chiamato proprio a verificare l'osservanza delle prescrizioni. 
    Ancora, sarebbe infondata la pretesa  che  il  legislatore  abbia
reso inoperante il sistema  sanzionatorio  e  precauzionale  posto  a
tutela della salute e dell'ambiente. Al contrario, l'art. 1, comma 3,
del     decreto-legge     lascia     espressamente     impregiudicata
l'applicabilita' delle norme sanzionatorie penali ed  amministrative,
cui   si   aggiungono   la   specifica   possibilita'    di    revoca
dell'autorizzazione rilasciata in sede di riesame e  la  comminatoria
di una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato della  societa'.
Tutte le sanzioni in questione potrebbero essere applicate anche  nel
corso dei 36  mesi  che  segnano  la  durata  massima  dell'attivita'
consentita, ne' sarebbe  rilevante  che  non  siano  state  richieste
garanzie finanziarie per il  pagamento  delle  relative  somme,  solo
ipotetico e  comunque  pertinente  ad  importi  non  determinabili  a
priori. 
    3.2.5.- Da ultimo, la societa' Ilva sollecita  una  dichiarazione
di inammissibilita' per le censure riferite al primo comma  dell'art.
117 Cost. Si tratterebbe infatti di censure del tutto generiche. 
    In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, non  sussistendo,
per le ragioni gia' indicate, alcuna lesione del diritto alla  salute
ed all'ambiente salubre, del  principio  di  precauzione  (che'  anzi
vengono anticipate le indicazioni  della  Commissione  europea  sulle
«BAT»), dell'autonomia della giurisdizione e delle regole del  giusto
processo. 
    4.- Con atto di intervento depositato il 26 febbraio 2013, che si
fonda  sull'asserita  qualita'  di  parti  assunta  nel  procedimento
principale, i signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro sollecitano
la declaratoria di illegittimita' costituzionale degli artt.  1  e  3
del d.l. n. 207 del 2012. 
    Dalla documentazione allegata  all'atto  risulta  che  i  signori
Fornaro hanno ricevuto avviso, in qualita' di persone  offese,  della
richiesta e dell'ordinanza giudiziale concernenti  il  compimento  di
perizia  collegiale  chimico-ambientale,  in  regime   di   incidente
probatorio, nell'ambito  delle  indagini  preliminari  concernenti  i
fatti cui si riferiscono i provvedimenti cautelari in atto. 
    4.1.-  Vengono  in  primo  luogo   illustrate   le   ragioni   di
ammissibilita' dell'intervento.  Gli  interessati,  pur  non  essendo
direttamente partecipi del subprocedimento cautelare nel  cui  ambito
e' stata deliberata  l'ordinanza  di  rimessione,  sarebbero  esposti
direttamente  alle  conseguenze  della  decisione   sulle   questioni
sollevate,  posto  che   il   relativo   accoglimento   comporterebbe
l'interruzione delle emissioni nocive in loro danno, le quali  invece
proseguirebbero nel caso  contrario  (e'  citata,  quale  esempio  di
ammissione di un soggetto privo della qualita' di parte nel  giudizio
a quo, la sentenza della Corte costituzionale n. 389 del 2004). 
    4.2.- Secondo gli intervenienti, le questioni sollevate sarebbero
rilevanti, poiche' la piena applicazione delle norme  censurate,  pur
restando ferma la condizione di  sequestro  degli  impianti  e  delle
merci, imporrebbe la revoca della nomina dei custodi  e  comunque  un
mutamento sostanziale  del  loro  ruolo,  data  la  coincidenza  solo
parziale tra le prescrizioni  tecniche  dell'AIA  riesaminata  ed  il
complesso delle misure necessarie per un effettivo risanamento  degli
stabilimenti e dei processi produttivi. 
    4.3.- Dopo avere enunciato il ritenuto fondamento  delle  censure
riferite all'art. 3 Cost., gli intervenienti assumono che  i  diritti
al  lavoro  ed  all'attivita'  produttiva  non  possono  entrare   in
bilanciamento con il diritto alla salute e all'ambiente salubre,  nel
senso che i primi devono essere assicurati solo nella misura  in  cui
non pregiudichino in alcun modo il secondo (sono citate  le  sentenze
della Corte costituzionale n. 378 del 2007, n. 127 del 1990,  n.  210
del 1987, n. 156 del 1986, n. 74 del 1981, n. 88 del  1979).  Analogo
ragionamento andrebbe fatto circa la prevalenza della  necessita'  di
prevenire e reprimere i reati (sentenze n. 146 del 2001 e n. 427  del
2000). 
    Le prescrizioni contenute nell'AIA riesaminata -  che  l'art.  3,
comma 2, del decreto-legge avrebbe elevato  al  rango  legislativo  -
sarebbero inidonee a garantire che  l'attivita'  produttiva  prosegua
senza danneggiare ulteriormente la salute di lavoratori e  cittadini.
Le cosiddette  BAT  dovranno  essere  applicate  ad  oltre  tre  anni
dall'autorizzazione, la quale, peraltro, prevede in  vari  casi  solo
misure di monitoraggio e studi  di  fattibilita',  cioe'  adempimenti
inidonei, per definizione, a garantire nell'immediatezza  il  diritto
alla salute. 
    La presunzione che  il  rispetto  dell'AIA  comporti  un'adeguata
tutela della  salute  e  dell'ambiente,  secondo  gli  intervenienti,
sarebbe del tutto priva di fondamento. 
    D'altra parte, la giurisprudenza costituzionale avrebbe da  tempo
chiarito la necessita'  di  una  effettiva  tutela  risarcitoria  del
diritto alla salute (sono citate le sentenze n. 356 del 1991 e n. 184
del 1986), tutela che sarebbe inibita dalle norme censurate. 
    Il sostanziale divieto di agire nei confronti  dell'Ilva  nei  36
mesi   successivi   al   rilascio   dell'autorizzazione   riesaminata
comporterebbe anche una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.,
in  relazione  all'art.  6  della  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo. La «legificazione»  dell'AIA,  per  altro  verso,  avrebbe
privato  i  cittadini  del   diritto   di   ottenere   il   sindacato
giurisdizionale   su   di   un   atto   di   natura   sostanzialmente
amministrativa (e' citata la sentenza della Corte  di  giustizia  UE,
Grande Sezione, del 18 ottobre  2011,  nei  procedimenti  C-128/09  e
C-135/09). 
    5.- Con atti depositati il 25 febbraio 2013 sono intervenute  nel
giudizio   la   Confederazione   Generale   dell'Industria   Italiana
(Confindustria) e la Federacciai - Federazione  Imprese  Siderurgiche
Italiane, entrambe chiedendo che siano  «respinte»  le  questioni  di
legittimita'  costituzionale  poste  dal  rimettente   con   riguardo
all'art. 1 del d.l. n. 207 del 2012. 
    6.- Con atto depositato il 26 febbraio 2013  e'  intervenuta  nel
giudizio, in persona del legale rappresentante, l'Associazione per il
Word Wide Fund for  Nature  (WWF  Italia)  Onlus,  chiedendo  che  le
disposizioni censurate siano dichiarate illegittime. 
    7.- In data 19 marzo 2013 l'Avvocatura generale dello  Stato,  in
rappresentanza  del  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,   ha
depositato memoria al fine di ribadire le conclusioni  in  precedenza
offerte (supra, § 2). 
    7.1.-  Si  nega  in  particolare   fondamento,   nella   memoria,
all'assunto del rimettente secondo il quale  la  normativa  censurata
avrebbe garantito ai responsabili dell'Ilva una «immunita'»  rispetto
alle norme penali vigenti. In particolare  l'Avvocatura  afferma  che
l'AIA rilasciata all'azienda avrebbe tutti e soli gli effetti  tipici
di una autorizzazione amministrativa, senza scriminare  condotte  che
provochino eventi contro l'incolumita' pubblica o l'integrita' fisica
delle persone. Sul piano processuale, sarebbe  stata  introdotta  una
deroga alla disciplina generale del sequestro preventivo,  stabilendo
che nel caso di impianti strategici la misura non possa implicare  il
blocco della produzione. 
    Non  si  tratterebbe  di  previsione  illegittima,  sia  per   la
ragionevolezza del bilanciamento operato  dal  legislatore,  sia  per
l'inesistenza di quella riserva di funzione giurisdizionale che sola,
a parere  dell'Avvocatura,  potrebbe  legittimare  le  doglianze  del
rimettente.  Questi,  in  altre  parole,  vorrebbe   riservare   alla
giurisdizione non solo la sentenza, ma  ogni  possibile  funzione  di
prevenzione e repressione dei reati, che  l'ordinamento  invece  puo'
ben  attribuire,  nell'ambito  della  ragionevolezza,   a   strumenti
diversificati, cominciando dal regime  autorizzatorio  fondato  sulle
competenze tecniche dell'amministrazione e sulle connesse funzioni di
vigilanza. 
    7.2.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri   nega   che
l'intervento normativo  de  quo  abbia  bilanciato  il  diritto  alla
salute, in se' e per  se'  considerato,  con  esigenze  di  carattere
economico e produttivo: si sarebbe piuttosto  mirato  ad  evitare  un
danno  irrevocabile  per  tali  esigenze  in  rapporto   al   rischio
aggiuntivo  per  la  salute  che   si   determina   per   l'ulteriore
prosecuzione dell'attivita' lungo un periodo di tempo circoscritto  e
con la previa adozione delle cautele necessarie. Un bilanciamento del
quale si assume la piena ragionevolezza. 
    7.3.- Relativamente ai prodotti finiti e semilavorati in  attuale
sequestro, l'Avvocatura generale assume l'erroneita'  della  relativa
qualificazione come «prodotto del reato», poiche' tale ultima nozione
comprenderebbe solo le cose che la legge penale vieta di  realizzare,
e non anche cose  lecitamente  fabbricate,  sia  pure  con  eventuale
violazione di precetti dettati per un altro scopo di tutela. 
    Parimenti censurabile sarebbe, sempre a parere del Presidente del
Consiglio dei ministri, la pretesa  che  il  sequestro  sia  utile  a
prevenire  nuovi  reati,  attraverso  l'eliminazione   del   profitto
economico che potrebbe ricavarsene. Il fondamento della cautela -  si
dice - risiede nella strumentalita' della cosa al reato,  mentre  mai
si sarebbero viste, in precedenza, giustificazioni "motivazionali"  a
sostegno del sequestro. 
    8.-  In  data  19  marzo  2013  la  difesa  dell'Ilva  S.p.A.  ha
depositato memoria mediante la quale ribadisce  le  conclusioni  gia'
rassegnate, con riguardo alle questioni sollevate  sia  nel  giudizio
r.o. n. 19 del 2013, sia nel procedimento r.o. n. 20  del  2013,  del
quale si dira' tra breve. 
    L'Ilva nega anzitutto (con riferimento a rilievi del  WWF  e  dei
signori Fornaro) che l'azienda abbia provocato, anche dopo l'adozione
delle norme censurate, emissioni eccedenti i limiti fissati  nell'AIA
del 4 agosto  2011.  Le  prescrizioni  tecniche  dell'autorizzazione,
d'altra  parte,  sarebbero  perfettamente  idonee  a   garantire   la
protezione dell'ambiente e della salute umana, cosi'  da  privare  di
fondamento la pretesa  che  la  chiusura  dell'impianto  sia  l'unica
soluzione utile ad eliminare il fenomeno dell'inquinamento. 
    In ogni caso, secondo  la  societa',  il  tema  sarebbe  estraneo
all'odierno scrutinio di  costituzionalita',  non  dovendo  la  Corte
sostituire un proprio giudizio tecnico e politico a quelli  espressi,
rispettivamente,   dall'amministrazione   e   dal   legislatore,    e
trattandosi piuttosto di valutare se la discrezionalita'  legislativa
sia stata  esercitata  in  modo  manifestamente  irragionevole  (sono
citate le sentenze della Corte costituzionale n. 110 del 2002, n. 144
del 2001, n. 313 del 1995). 
    Nella memoria si  ribadisce  che  non  vi  sarebbe  stata  alcuna
«legificazione»  dell'AIA  rilasciata  in  esito  alla  procedura  di
riesame,  e  che  dunque  il  provvedimento  avrebbe  potuto   essere
sindacato  nei   modi   ordinari   (compresa,   se   del   caso,   la
disapplicazione  ad  opera  del  giudice   comune).   Si   nota,   in
particolare, che il secondo comma dell'art. 1 del  d.l.  n.  207  del
2012 lascia  espressamente  salve,  tra  le  altre,  le  norme  sulla
procedura amministrativa di riesame dell'autorizzazione. 
    Da ultimo, la parte assume che  sarebbe  alterato,  nella  logica
dell'ordinanza di rimessione, il corretto equilibrio instaurato dalla
Costituzione tra la funzione giurisdizionale e quelle di legislazione
e di amministrazione. A  queste  ultime  sarebbe  riferibile  in  via
primaria,  specie  nella  logica  della  prevenzione  di  accadimenti
futuri, la garanzia della incolumita' pubblica e della  salute  delle
persone (sono citate, in questa prospettiva, le sentenze della  Corte
costituzionale n. 121 del 1999, n. 283 del 1986, n. 70 del  1985,  n.
150 del 1981). La riserva di  giurisdizione  desumibile  dagli  artt.
102, 103 e 104 Cost. andrebbe intesa come riserva di sentenza, e  non
come capacita' inibitoria dell'intervento  giudiziario  in  ordine  a
qualunque forma di espressione del potere  legislativo  e  di  quello
esecutivo ed amministrativo. 
    9.- In data 19 marzo 2013 e' stata depositata, nell'interesse dei
signori Angelo, Vincenzo e  Vittorio  Fornaro,  una  memoria  tesa  a
ribadire le conclusioni gia' offerte (supra, § 4). 
    Oggetto delle censure sarebbe una «legge provvedimento», nata per
intervenire su una sola e specifica situazione (sono citati i  lavori
preparatori della legge  di  conversione),  priva  di  ragionevolezza
(sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 492 del  1995,
n. 346 del 1991, n. 143 del  1989),  e  per  altro  verso  destinata,
comunque,  ad  una  indebita   interferenza   con   il   procedimento
giudiziario in corso, come tra l'altro risulterebbe chiaro alla  luce
dell'occasione e della tempistica (e' citata la sentenza n.  267  del
2007).  La  giurisprudenza  costituzionale  avrebbe  irrevocabilmente
chiarito che le  leggi  provvedimento  non  possono  interferire  con
procedimenti in atto (sentenze n. 137 del 2009, n. 525 e n.  419  del
2000, n. 123  del  1987),  che'  altrimenti  risulterebbe  inciso  il
diritto fondamentale alla difesa. 
    L'art.  3  del  decreto-legge,  mediante  un  rinvio  recettizio,
avrebbe «legificato» l'AIA  riesaminata  dell'ottobre  2012,  con  la
conseguenza, asseritamente paradossale, che  non  sarebbero  impedite
modifiche  ed  aggiornamenti  per  via  amministrativa,  che,   anzi,
sarebbero gia' intervenuti (con modificazioni  dei  tempi  prescritti
per l'adozione di talune cautele). Dunque, l'Ilva starebbe  svolgendo
attivita' produttiva non piu' secondo l'autorizzazione conferita  con
il  d.l.  n.  207  del  2012:  si  tratterebbe  di   una   situazione
irrazionale, gia' stigmatizzata dalla Corte costituzionale in un caso
analogo (sentenza n. 282 del 1990). 
    Ad ogni modo - e cioe' anche volendo  ammettere  la  natura  solo
formale del rinvio all'AIA riesaminata da parte della norma censurata
-  l'effettivita'  del  diritto  di   difesa   sarebbe   pregiudicata
dall'ostacolo posto alla prevenzione ed al perseguimento dei  delitti
sanzionati dal diritto  penale  comune,  visto  tra  l'altro  che  la
clausola di «salvezza» inserita nel comma 3 dell'art. 1 comprende  le
sole sanzioni penali previste dalla normativa di settore. Considerato
che si tratta di mere sanzioni pecuniarie per reati  suscettibili  di
oblazione, il regime di tutela penale dell'ambiente  e  della  salute
resterebbe risolutivamente condizionato, sul piano dell'efficacia, da
un provvedimento del  Ministro  dell'ambiente,  oltretutto  altamente
discrezionale nei fini, data la genericita' della previsione  che  lo
regola. 
    Inoltre,  la  ragionevolezza  del   bilanciamento   operato   dal
legislatore, prevedendo sanzioni  per  le  sole  violazioni  dell'AIA
riesaminata,  dovrebbe  essere  esclusa  in  quanto  le  prescrizioni
adottate con  il  provvedimento  di  riesame  sarebbero  inidonee  ad
assicurare il  risanamento  del  processo  produttivo.  Al  riguardo,
vengono richiamati i  dati  salienti  delle  perizie  effettuate  nel
giudizio penale in  corso,  che  segnalano  imponenti  emissioni  non
convogliate (diffuse e fuggitive): nella  procedura  di  riesame  non
sarebbero  stati  utilizzati  studi   sull'incidenza   delle   misure
prescritte e sarebbero state addirittura trascurate fonti concorrenti
di inquinamento ambientale, connesse alla gestione dei rifiuti e  dei
sottoprodotti, nonche' delle acque reflue e meteoriche. Nel contempo,
i termini per l'adeguamento  alle  prescrizioni  impartite  sarebbero
tali da  azzerarne  l'efficacia  nel  medio  periodo  (tre  anni,  ad
esempio, per la copertura dei parchi minerali), e in parte  sarebbero
stati gia' prorogati dall'amministrazione. 
    Resterebbe dunque confermata l'illecita compressione del  diritto
alla salute ed all'ambiente salubre, la cui  tutela  andrebbe  invece
assicurata quale profilo intrinseco alla garanzia per ciascuno  degli
interessi concorrenti: il diritto  al  lavoro,  in  particolare,  non
potrebbe che essere anche diritto alla sicurezza  ed  all'igiene  del
lavoro medesimo (sono citate, in generale, le  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 40 e n. 39 del 2013, n. 151 del 2012,  n.  137  del
2009, n. 190 del 2001, n. 238 del 1996, n. 479 del 1987,  n.  21  del
1964). 
    10.-  In  data  18  marzo  2013  l'associazione   Federacciai   -
Federazione  Imprese  Siderurgiche  Italiane  ha  depositato  memoria
insistendo per l'accoglimento delle conclusioni gia' offerte  (supra,
§ 5). 
    11.- In data 19 marzo 2013 l'Associazione per il Word  Wide  Fund
for Nature (WWF Italia) Onlus ha depositato  memoria  insistendo  per
l'accoglimento delle conclusioni gia' offerte (supra, § 6). 
    12.- Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di
appello a norma dell'art. 322-bis cod. proc. pen., ha sollevato,  con
ordinanza depositata in data 15 gennaio 2013 (r.o. n. 20  del  2013),
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 della  legge  n.
231 del 2012 - recte, dell'art. 3 del d.l.  n.  207  del  2012,  come
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  n.
231 del 2012 - in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e  122  Cost.,
nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la societa'  Ilva  S.p.A.
di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli
realizzati antecedentemente alla  data  di  entrata  in  vigore»  del
citato d.l.  n.  207  del  2012,  sebbene  posti  ad  oggetto  di  un
provvedimento di sequestro preventivo. 
    12.1.- Il Tribunale riferisce di  essere  investito  dell'appello
proposto dal legale rappresentante dell'Ilva contro  l'ordinanza  del
Giudice per le indagini  preliminari  di  Taranto  che,  in  data  11
dicembre 2012, ha respinto  la  richiesta  di  revoca  del  sequestro
preventivo  disposto  riguardo  ai  prodotti  finiti  o  semilavorati
custoditi  presso  gli  stabilimenti  della  societa'.  Al  fine   di
descrivere  il  contesto  nel  quale  e'  chiamato  ad  operare,   il
rimettente riassume gli avvenimenti,  processuali  e  normativi,  che
hanno condotto all'instaurazione del giudizio impugnatorio. 
    Viene ricordato, in particolare, il provvedimento del  25  luglio
2012 mediante il quale, disponendo il sequestro preventivo di  alcune
aree dello stabilimento siderurgico di Taranto,  il  Giudice  per  le
indagini preliminari aveva nominato un collegio di  custodi  composto
da tre funzionari pubblici con specifiche competenze  industriali,  e
da un dottore  commercialista  per  i  profili  amministrativi  della
gestione. Al collegio dei custodi era stata impartita la direttiva di
avviare «immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza  per  il
blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento  degli  impianti
sopra indicati», assicurando la tutela della pubblica  incolumita'  e
l'integrita' degli impianti stessi. Alla  proprieta'  degli  impianti
era stata dunque negata la facolta' d'uso dei medesimi. 
    Il 20 agosto 2012 il Tribunale  del  riesame  aveva  parzialmente
riformato il provvedimento in questione. Il  custode  con  competenze
amministrative era stato sostituito con il Presidente  del  consiglio
di  amministrazione  dell'Ilva  e  soprattutto,  ferme  le  ulteriori
disposizioni, erano state modificate le direttive per i custodi,  cui
erano stati affidati  i  compiti  di  garantire  la  sicurezza  degli
impianti, eliminare le situazioni di pericolo, monitorare di continuo
le  emissioni  inquinanti.  La  nomina  del   legale   rappresentante
dell'Ilva quale componente del collegio  dei  custodi  e'  stata  poi
revocata nell'ambito di successivi sviluppi della procedura,  ma  per
il resto il provvedimento di riesame, non impugnato  dalla  societa',
si e' stabilizzato. 
    Il quadro cautelare  (essendo  nel  frattempo  intervenuta  l'AIA
riesaminata ad opera del Ministro  competente)  si  era  evoluto  con
l'adozione di un ulteriore decreto di sequestro preventivo, emesso il
22 novembre 2012, riguardo ai  prodotti  finiti  o  semilavorati  che
giacevano nelle zone di stoccaggio dello stabilimento  dell'Ilva.  La
nuova  cautela  era  stata  giustificata  assumendo   la   perdurante
violazione del provvedimento di sequestro degli impianti, in  assenza
di  alcuna  seria  iniziativa  per  la  riduzione   delle   emissioni
inquinanti.  Le  merci  prodotte,  dunque,  avrebbero  costituito  il
prodotto di un reato, suscettibile di confisca  in  applicazione  del
primo comma dell'art. 240 cod. pen., e per l'effetto assoggettabile a
sequestro secondo quanto disposto al comma 2 dell'art. 321 cod. proc.
pen. Ma il sequestro si sarebbe  legittimato,  sempre  a  parere  del
Giudice per le indagini preliminari, anche a norma del comma 1  dello
stesso art. 321, poiche' la libera disponibilita' delle merci avrebbe
favorito la prosecuzione di quel  ciclo  produttivo  che  il  giudice
procedente  considerava  illecito  e  fortemente  lesivo  sul   piano
ambientale e sanitario. 
    L'impugnazione contro il nuovo decreto di sequestro non era stata
coltivata dall'Ilva, il cui  legale  rappresentante  aveva  piuttosto
preferito rivolgersi alla locale Procura della  Repubblica  affinche'
fosse data immediata esecuzione alle norme nel  frattempo  introdotte
con il d.l. n. 207 del 2012. Il pubblico ministero, in effetti, aveva
restituito alla societa' il possesso degli impianti,  ferma  restando
la loro condizione di sequestro, ma aveva chiesto al Giudice  per  le
indagini preliminari di respingere l'analoga domanda per  i  prodotti
in giacenza, ed  il  Giudice  aveva  provveduto  in  conformita'  con
ordinanza dell'11 dicembre 2012. 
    Contro tale ultimo provvedimento e' proposto l'appello  che  deve
essere definito dal giudice a quo. Nell'atto di gravame  si  contesta
che ricorra un fumus adeguato in ordine alla  sussistenza  dei  reati
ipotizzati, si denunciano  vizi  di  motivazione  circa  l'illiceita'
dell'attivita' produttiva e si prospetta la  violazione  delle  norme
contenute nel decreto-legge, significativamente  emendate,  peraltro,
proprio con riguardo all'oggetto dell'ordinanza impugnata. A  seguito
delle modifiche apportate in sede parlamentare, infatti, il  comma  3
dell'art. 3 del decreto  stabilisce  espressamente  che  l'Ilva  deve
considerarsi autorizzata alla  commercializzazione  dei  prodotti  in
giacenza, «ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla  data
di  entrata  in  vigore  del   presente   decreto,   ferma   restando
l'applicazione  di  tutte  le  disposizioni  contenute  nel  medesimo
decreto». 
    L'8  gennaio  2013  il  Tribunale  procedente  ha  celebrato   il
procedimento  camerale.  In  tale  sede,  e  con  successiva  memoria
autorizzata, il pubblico ministero ha chiesto sollevarsi questioni di
legittimita' costituzionale  degli  artt.  1  e  3  della  «legge  24
dicembre 2012, n. 231». L'ordinanza di rimessione accoglie, in parte,
l'indicata sollecitazione. 
    12.2.- In punto di rilevanza  il  rimettente  premette  che,  per
effetto della rinuncia dell'Ilva al ricorso per riesame  inizialmente
proposto  contro  il  decreto  di  sequestro   dei   prodotti,   deve
escludersi,  riguardo  al  fumus  commissi   delicti,   l'intervenuta
formazione del cosiddetto giudicato cautelare, con la conseguenza che
il tema resta liberamente valutabile in sede  di  appello  contro  il
rigetto dell'istanza di restituzione. La circostanza  e'  considerata
significativa sul piano della rilevanza, in quanto, se  mancassero  i
presupposti per la prosecuzione  del  sequestro,  i  beni  andrebbero
restituiti a prescindere dall'applicazione della norma censurata. 
    Sempre a titolo  di  premessa,  il  Tribunale  ricorda  i  limiti
intrinseci della cognizione e della valutazione  cui  il  giudice  e'
chiamato nel procedimento cautelare reale, con  particolare  riguardo
al merito dell'accusa, che deve essere valutata sul solo piano  della
correttezza giuridica. Il fumus e' dunque apprezzato  in  termini  di
mera congruenza  tra  gli  elementi  prospettati  dalle  parti  e  le
conseguenze che se ne  traggono  in  termini  di  qualificazione  dei
fatti,  senza  disponibilita'  di  poteri   istruttori   e   con   la
possibilita' di  negare  la  cautela  solo  in  caso  di  «manifesta,
assoluta ed evidente inconfigurabilita' dell'ipotesi di reato». 
    12.2.1.- Per motivare il proprio giudizio  circa  la  sussistenza
del fumus in ordine ai delitti contestati, ed in particolare circa il
carattere illecito dell'attivita' culminata con la  produzione  delle
merci in sequestro,  il  Tribunale  rimettente  ricorre  ad  un'ampia
citazione del provvedimento impugnato. In tale sede si ricorda che il
sequestro preventivo degli impianti era stato disposto senza facolta'
d'uso e  che  lo  stesso  Tribunale  del  riesame  aveva  autorizzato
interventi tecnici al solo fine di apprestare le  cautele  necessarie
per prevenire nuove immissioni nocive nell'ambiente, precludendo ogni
ulteriore attivita' produttiva fino ad una nuova e positiva  verifica
dei risultati ottenuti. Nondimeno, secondo il Giudice per le indagini
preliminari,  la  proprieta'  dell'Ilva  non  ha   "consegnato"   gli
impianti, ha proseguito la produzione senza significativi  interventi
in chiave di sicurezza ambientale, e si e' rifiutata  di  fornire  ai
custodi la documentazione  pertinente  alla  commercializzazione  dei
propri prodotti. In altre  parole,  la  societa'  avrebbe  continuato
«imperterrita nella criminosa produzione dell'acciaio, nella  vendita
del  frutto  dell'attivita'  criminosa  [...]   assicurandosi   lauti
profitti non curante delle disposizioni dell'autorita' giudiziaria  e
in violazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali». 
    Il  Tribunale  rimettente  disattende,  in  proposito,  la   tesi
difensiva secondo cui il Collegio del  riesame  aveva  consentito  la
prosecuzione dell'attivita' produttiva, sia  pure  nei  limiti  della
necessaria preservazione degli impianti.  Quel  Collegio,  piuttosto,
aveva negato che lo spegnimento degli impianti fosse l'unico modo per
far cessare le emissioni nocive, delegando  ai  custodi  la  verifica
della possibilita' di interventi utili ad assicurare la  prosecuzione
in sicurezza dell'attivita' produttiva; attivita' che avrebbe  potuto
riprendere solo se e quando gli ipotetici interventi sulla  sicurezza
ambientale fossero stati attuati. Una prospettiva pienamente coerente
- secondo il giudice a quo - con la logica del sequestro  preventivo,
che mira a sottrarre la  disponibilita'  della  cosa  al  possessore,
anche al fine di prevenire l'incremento degli  effetti  lesivi  della
condotta delittuosa. La limitata facolta' d'uso,  comunque  accordata
ai soli custodi, aveva avuto per scopo la verifica della possibilita'
di conservare il bene sequestrato, in vista del  bilanciamento  degli
interessi connessi alla sua utilita' per l'esercizio dell'impresa. 
    Di contro, come ammesso dalla stessa parte  privata,  l'attivita'
produttiva  era  proseguita  senza  interruzione  e  con  le   stesse
emissioni  inquinanti  riscontrate  a  monte  del   sequestro   degli
impianti. La tesi difensiva della  necessita'  di  una  produzione  a
basso regime per la conservazione dello stabilimento  viene  respinta
dal Tribunale, in assoluto e comunque alla luce dei dati quantitativi
del prodotto, confermati dal sequestro di oltre un milione e mezzo di
tonnellate di merce. Dunque - si conclude - i lavorati  in  sequestro
devono considerarsi prodotti di reato  e  cose  pertinenti  a  reato,
legittimamente sequestrati a mente del comma  1  dell'art.  321  cod.
proc. pen. e, comunque, ai sensi del comma 2, in quanto  suscettibili
di confisca ex art. 240 cod. pen. 
    12.2.2.- Alla luce del quadro normativo preesistente al  d.l.  n.
207 del 2012, in definitiva, l'appello della societa'  Ilva  dovrebbe
essere respinto. La conclusione  sarebbe  identica  -  a  parere  del
rimettente, e secondo quanto esposto nel  provvedimento  impugnato  -
con riguardo alla versione originaria dell'art. 3  del  provvedimento
governativo, che non avrebbe  contenuto  disposizioni  riferibili  ai
prodotti gia' sottoposti a sequestro prima del provvedimento  stesso.
Una «lettura costituzionalmente orientata» avrebbe imposto,  infatti,
di considerare non retroattiva la  disposizione,  attesa  l'antinomia
esistente tra i profili fondanti della cautela reale e la  restituita
possibilita' di «commercializzazione» della merce sequestrata. 
    In effetti - osserva il Tribunale - la disponibilita' della  cosa
e' logicamente incompatibile con la funzione del sequestro, tanto che
la giurisprudenza di  legittimita'  annulla  le  «concessioni  d'uso»
talvolta rilasciate dal giudice di  merito  per  la  salvaguardia  di
interessi primari della  persona  (sarebbe  il  caso  degli  immobili
abusivi). Il principio varrebbe, a maggior ragione, riguardo a  forme
d'uso che si risolvano nella cessione a terzi delle cose  sequestrate
e dunque nella loro dispersione, tanto che le relative  condotte,  da
parte  del  custode  o  del  proprietario,  costituiscono  un  reato.
Interpretata in chiave retroattiva, la  disposizione  originariamente
introdotta con il  decreto-legge  avrebbe  comportato  la  definitiva
dispersione  delle  merci  sottoposte  a  sequestro,  per   la   loro
immissione  in  un  ciclo  di  trasformazione  che  le  avrebbe  rese
irrecuperabili. 
    La funzione del comma 3 dell'art.  3,  nella  versione  scaturita
dalla legge  di  conversione,  sarebbe,  dunque,  proprio  quella  di
superare il quadro delineato, affinche' la societa' Ilva sia posta in
grado  di   commercializzare   le   merci   sequestrate   prima   del
provvedimento d'urgenza. Il che documenta, secondo il  Tribunale,  la
piena  rilevanza  della  questione  di  legittimita'   costituzionale
proposta  riguardo  alla  norma   in   discorso   (mentre   sarebbero
irrilevanti, e dunque non suscettibili di proposizione, le  ulteriori
questioni prospettate dal pubblico ministero procedente). 
    12.3.- In punto di  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
prospetta anzitutto un contrasto tra la norma censurata  e  l'art.  3
Cost., posto che detta  norma  si  atteggerebbe  a  «legge  del  caso
singolo».  Di  conseguenza,  la  societa'   Ilva   sarebbe   trattata
differentemente da ogni altra  societa'  le  cui  merci  siano  state
sottoposte a sequestro per essere, le stesse merci, il prodotto di un
reato. 
    Il Tribunale ricorda come la giurisprudenza costituzionale  abbia
chiarito la necessita' di  una  ragionevole  giustificazione  per  la
diseguale disciplina  di  situazioni  assimilabili  (sono  citate  le
sentenze della Corte costituzionale n. 1009 del  1988  e  n.  15  del
1960). Nel caso di  specie,  la  norma  censurata  introdurrebbe  una
possibilita' di commercializzazione del bene sequestrato  inibita  in
ogni altra consimile fattispecie,  se  non  addirittura  una  ipotesi
«speciale» di dissequestro, non fondata, come quelle generali,  sulla
cessazione delle esigenze di cautela che impongono il vincolo  reale.
Il legislatore, oltretutto, avrebbe introdotto  una  legge  del  caso
concreto secondo un  bilanciamento  irragionevole  tra  i  valori  in
gioco, difforme da quello che  normalmente  segna  la  disciplina  di
protezione dell'ambiente (e' citato il caso  dell'emergenza  rifiuti,
ove addirittura il legislatore  ha  penalizzato,  talvolta,  condotte
prive di rilevanza fuori delle  porzioni  di  territorio  interessate
dalla stessa emergenza). 
    Il rimettente prospetta la violazione concomitante del  principio
di «ragionevolezza-razionalita'» (e' citata la sentenza  della  Corte
costituzionale n. 204 del  1982).  Viene  ribadito  che  la  funzione
tipica del sequestro preventivo e' quella di  privare  il  possessore
della  disponibilita'  della  cosa,  anche  in  vista  dell'eventuale
confisca. L'autorizzazione  «particolare»  che  la  legge  conferisce
all'Ilva non sarebbe giustificata - secondo il  Tribunale  -  neppure
dalle esigenze di salvaguardia dell'occupazione e  della  produzione,
per la cui tutela l'art.  1  del  d.l.  n.  207  del  2012  consente,
attraverso il riesame dell'AIA, di proseguire l'attivita' industriale
negli   stabilimenti   di   interesse   strategico   nazionale:    la
commercializzazione dei lavorati, infatti, non sarebbe necessaria  ai
fini indicati. 
    La  norma  «generale»  (del  cui  carattere  di  astrattezza   il
rimettente dubita, sia pur senza farne  questione)  avrebbe  il  solo
scopo  di  legittimare  una  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva
nonostante l'intervenuto sequestro degli impianti.  Discostandosi  da
questa  ratio,  la  norma  censurata  avrebbe  accordato  un  diverso
privilegio all'Ilva,  relativamente  ai  prodotti  sequestrati  prima
dell'intervento normativo. Dunque, la legge  avrebbe  introdotto  una
difformita'   di   trattamento   «interna»   ai   casi   particolari,
riconducibili alla previsione  dell'art.  1,  per  i  quali  potrebbe
considerarsi legittima  una  disciplina  piu'  favorevole  di  quella
riservata in generale a coloro che esercitano attivita' di produzione
industriale (e' citata la sentenza della Corte costituzionale  n.  80
del 1969). 
    In realta' - osserva il Tribunale - gli artt. 1 e 2 del  d.l.  n.
207 del 2012 prevedono una facolta' d'uso delle cose in sequestro non
incompatibile ontologicamente con la cautela reale, mentre il comma 3
dell'art. 3 introduce una disposizione radicalmente contrastante  con
la fisionomia della cautela, tanto da risolversi  sostanzialmente  in
una fattispecie di dissequestro  «obbligatorio».  Se  poi  la  stessa
disposizione avesse anche il senso di una legittimazione a posteriori
dell'attivita' produttiva culminata con la realizzazione delle  merci
in questione, resterebbe violato, secondo  il  rimettente,  anche  il
«principio di irretroattivita' della legge», derogabile  solo  quando
cio'  sia  richiesto  dal  criterio  di  ragionevolezza,  senza   mai
«incidere  arbitrariamente  sulle  situazioni  sostanziali  poste  in
essere da leggi precedenti» (sono  citate  le  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 153 e  n.  6  del
1994, n. 283 del 1993). 
    La norma censurata contrasterebbe anche con gli artt. 102  e  104
Cost., che «tutelano le prerogative della funzione  giudiziaria»,  in
quanto incide su un procedimento in corso e varrebbe  a  condizionare
la concreta possibilita' della  confisca  in  esito  al  procedimento
stesso,  sebbene  l'attivita'  produttiva  della  merce,  almeno  per
l'epoca antecedente all'emanazione del d.l. n. 207  del  2012,  debba
considerarsi tuttora illecita. 
    Il Tribunale, dopo aver ricordato il principio di soggezione  del
giudice «solo alla legge», riconosce che tale principio  non  implica
l'illegittimita' di misure retroattive o suscettibili  di  interagire
nella  soluzione  di  controversie  gia'  pendenti  (sono  citate  le
sentenze di questa Corte n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del
1994, n. 402 del 1993). Anche  le  cosiddette  «leggi  provvedimento»
possono essere legittime, a  condizione  pero'  che  non  violino  la
«riserva di giurisdizione», che opera «specie» nel  caso  di  giudizi
pendenti  ed  inibisce  al   Parlamento   l'esercizio   di   funzioni
giurisdizionali, salvi  i  casi  previsti  dalla  Costituzione  (sono
citate le sentenze di questa Corte n. 137 del 2009, n. 241 del  2008,
n. 267 del 2007, n. 321 del 1998, n. 123 del 1987). 
    La norma censurata avrebbe di fatto «direttamente  modificato  un
provvedimento   del   giudice»   (l'ordinanza   posta   ad    oggetto
dell'impugnazione), «senza per altro modificare il  quadro  normativo
sulla base del quale era stato emanato». 
    Infine, il  comma  3  dell'art.  3  del  d.l.  n.  207  del  2012
violerebbe gli artt. 24 e 112 Cost., vulnerando il diritto di  azione
del privato leso nei suoi diritti ed ostacolando la funzione pubblica
di accertamento, repressione e prevenzione dei reati  (e'  citata  la
sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 1973). 
    12.4.- Il Tribunale rimettente tiene a chiarire,  in  conclusione
del  proprio  provvedimento,  che  il  giudizio   impugnatorio   deve
considerarsi sospeso, a norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (Norme sulla  costituzione  e  sul  funzionamento  della  Corte
costituzionale), anche in considerazione del carattere non perentorio
del termine per la relativa  definizione,  posto  che  si  tratta  di
appello contro un provvedimento in materia  di  sequestro  e  non  di
riesame (l'art. 322-bis del codice di rito rinvia all'art. 310 e  non
al comma 10 dell'art. 309). 
    13.- Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato il 26 febbraio 2013,  chiedendo  che  le
questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e/o infondate. 
    13.1.-  Dopo  aver  riassunto  gli  antefatti  dell'ordinanza  di
rimessione e l'essenza delle questioni  prospettate  dal  rimettente,
l'Avvocatura generale assume che il Tribunale di Taranto  si  sarebbe
arrogato (violando gli artt. 101, 117 e  134  Cost.)  un  inesistente
potere di disapplicazione della legge, che spetta solo  di  fronte  a
«norme comunitarie» incompatibili con il diritto interno, e  che  non
potrebbe ritenersi insito nella possibilita' di  sollevare  questioni
di legittimita' costituzionale (e' citata  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 285 del 1990). 
    Sempre in via preliminare, l'Avvocatura generale sostiene che  le
questioni sollevate avrebbero «perso  di  interesse»,  posto  che  il
giudice procedente,  con  provvedimento  del  14  febbraio  2013,  ha
disposto la vendita delle merci in sequestro. 
    13.2.- Secondo il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  le
censure  del   rimettente   sarebbero   riducibili   a   tre   nuclei
fondamentali, restando in ogni caso infondate. 
    13.2.1.- La normativa censurata, in primo luogo,  non  violerebbe
il principio di uguaglianza, costituendo piuttosto  applicazione  del
principio per il quale situazioni che appaiono diverse,  secondo  una
ragionevole identificazione del criterio di  discriminazione,  devono
essere  regolate  differentemente.  Il  principio  di  ragionevolezza
imporrebbe solo congruenza tra la ratio della legge e le disposizioni
adottate. 
    L'osservanza del principio non sarebbe pregiudicata nel  caso  di
leggi provvedimento, sempreche' si  tratti,  appunto,  di  interventi
ragionevoli e non arbitrari, che non interferiscano con  la  funzione
giudiziaria e non vanifichino l'autorita' del giudicato (sono  citate
le sentenze della Corte costituzionale n. 289 e n. 270 del  2010,  n.
137 e n. 94 del 2009, n. 288 e n. 241 del 2008, n. 267 e  n.  11  del
2007, n. 282 del 2005, n. 321 del 1998, n. 492 e n. 347 del 1995,  n.
346 del 1991, n. 143  del  1989,  n.  123  del  1987).  Il  carattere
derogatorio  o  particolare  della  legge  provvedimento   imporrebbe
semplicemente, secondo  l'Avvocatura,  uno  «scrutinio  stretto»  sul
piano della ragionevolezza (sono citate le sentenze n. 429 del  2002,
n. 364 del 1999, n. 185 del 1998, n. 153 e n. 2 del 1997). 
    Cio'  premesso,  la  difesa  erariale  ritiene  non  sospetta  la
disposizione censurata alla luce dei parametri  valutativi  elaborati
dalla giurisprudenza: «tempo,  modalita',  contenuto  e  contesto  di
adozione della disposizione normativa in esame». Il riferimento  alle
merci realizzate prima dell'entrata in vigore del  decreto-legge  non
era contenuto nello stesso decreto, essendo stato  inserito  solo  in
sede di conversione (in accoglimento,  peraltro,  di  un  emendamento
proposto dal Governo). Cio' dimostrerebbe, a  parere  dell'Avvocatura
generale,  che  la  norma  non  mirava   ad   eludere   il   disposto
dell'autorita' giudiziaria, quanto piuttosto a rimuovere un  ostacolo
che avrebbe potuto vanificare (sul  piano  economico  e  finanziario)
l'obiettivo di una ripresa delle attivita' produttive,  e  la  stessa
realizzazione del  piano  di  risanamento  ambientale.  Il  carattere
particolare della disposizione sarebbe il riflesso della peculiarita'
della specifica situazione, «non  assimilabile  ne'  equiparabile  ad
altre esistenti nel Paese». 
    Il blocco delle merci avrebbe vanificato  il  diritto  al  lavoro
degli occupati (art. 4 Cost.) e l'insieme degli  ulteriori  interessi
gravitanti sulla produzione (artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.), con rischi
di grave turbamento dell'ordine pubblico. Nella specie, il diritto di
uguaglianza sarebbe stato bilanciato con  il  principio  di  liberta'
dell'iniziativa economica e, di nuovo,  con  il  diritto  al  lavoro,
facendo applicazione del principio  «solidaristico-sociale»  (art.  2
Cost.) e della stessa direttiva costituzionale per  la  realizzazione
di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini. 
    La disciplina censurata, per altro verso, non avrebbe  vanificato
la tutela  del  diritto  alla  salute  ed  all'ambiente  salubre,  ma
l'avrebbe  semplicemente  bilanciata  con  quella   degli   interessi
concorrenti. 
    L'Avvocatura generale rammenta  che  il  contemperamento  tra  le
ragioni  della  proprieta'  e  quelle  dell'ambiente  costituisce  un
principio generale dell'ordinamento (e'  richiamato  l'art.  844  del
codice civile), ed  impone  forme  di  «normale»  tolleranza  per  le
immissioni, a garanzia del pieno godimento e  sfruttamento  dei  beni
oggetto del diritto di proprieta'. 
    13.2.2.-  A  proposito  dell'addebito  di  interferenza  con   la
funzione  giudiziaria,  che  il  rimettente  muove   alla   normativa
censurata, la difesa del Presidente del Consiglio osserva che sarebbe
stata piuttosto la magistratura tarantina  ad  alterare  il  corretto
bilanciamento degli interessi in gioco e  che  la  necessita'  di  un
riequilibrio, per mano del legislatore, sarebbe dimostrata dal  fatto
che «solo successivamente e dopo l'adozione del decreto-legge [...] i
provvedimenti della magistratura tarantina hanno assunto un contenuto
ed  una   portata   maggiormente   rispettosi   delle   esigenze   di
contemperamento». 
    13.2.3.- Non sarebbero fondate neppure le  doglianze  concernenti
un preteso effetto di inibizione del perseguimento dei reati connessi
all'attivita' produttiva dell'Ilva. 
    La giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che un
intervento normativo non vulnera  la  funzione  giurisdizionale  solo
perche' produce effetti retroattivi ed «interagisce con  controversie
in corso» (sono citate le sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del  1997,
n. 394 del 1994, n. 402 del 1993). 
    Per un verso, si discute nella specie di provvedimenti cautelari,
per loro natura assunti allo  stato  degli  atti  e  suscettibili  di
continuo adattamento, tanto che il cosiddetto  «giudicato  cautelare»
non sarebbe affatto paragonabile alla condizione  di  irrevocabilita'
di una sentenza. Per altro verso, il legislatore si sarebbe  limitato
a fronteggiare una grave crisi in atto,  che  richiedeva  un  attento
bilanciamento tra le esigenze della produzione e  dell'occupazione  e
quelle  della  salute  e  dell'ambiente  (tutelate,  si  fa   notare,
anticipando  l'introduzione  delle  BAT  di  cui  alla  gia'   citata
Decisione della Commissione europea 2012/135/UE). 
    E' pienamente concepibile - prosegue l'Avvocatura generale -  che
singoli  casi  concreti  pongano  in  evidenza   la   necessita'   di
affinamenti   e   aggiornamenti   della   legislazione.   Le    leggi
provvedimento,  d'altra  parte,  non  sono  per  se'  vietate   dalla
Costituzione, tanto che la disciplina censurata  non  costituisce  un
caso isolato: vengono richiamati nuovamente il d.l. n. 61 del 2007 ed
il d.l. n. 90 del 2008 (supra, § 2.2.1.). 
    Nei casi in questione, come in quello  odierno,  non  vi  sarebbe
stata alcuna preclusione di accesso alla tutela  giurisdizionale  dei
diritti, ne' alcuna inibizione dei poteri di  indagine  e  di  azione
facenti   capo   al   pubblico   ministero,   ne'    infine    alcuna
predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola
controversia. La disciplina censurata oggi, oltre ad  introdurre  una
nuova sanzione per le  violazioni  dell'AIA,  avrebbe  specificamente
fatte salve le sanzioni preesistenti, anche penali. 
    13.2.4.- L'Avvocatura generale osserva ulteriormente,  anche  con
riguardo all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo,
come la Convenzione stessa non escluda radicalmente  la  possibilita'
di leggi che, operando retroattivamente, incidano  sull'andamento  di
giudizi in corso, quando sussistano esigenze  di  ordine  pubblico  o
addirittura «motivi imperativi di interesse generale»  (sono  citate,
nel complesso, le sentenze di questa Corte n. 264 e n. 15  del  2012,
n. 303, n. 238 e n. 93 del 2011, n. 317 e n. 311 del 2009, n.  362  e
n. 172 del 2008). D'altra parte il  legislatore,  con  la  disciplina
censurata, non avrebbe modificato in senso peggiorativo una posizione
acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento  tra
interessi costituzionalmente rilevanti,  impedendo  che  l'espansione
incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela
degli interessi concorrenti. 
    In  particolare,  la  commercializzazione  dei  beni  sequestrati
costituirebbe  una  congrua  implicazione  del  bilanciamento  appena
descritto,  perche'  indispensabile  a  fini  di  risanamento   degli
impianti e di conservazione dei livelli occupazionali. 
    13.2.5.- Da ultimo si osserva, ad opera dell'Avvocatura generale,
che la normativa censurata sarebbe parte di un intervento piu' ampio,
volto  alla  riqualificazione  dell'area   industriale   di   Taranto
attraverso la conversione dei processi produttivi ed  il  risanamento
ambientale: sono richiamati il decreto-legge 7 agosto  2012,  n.  129
(Disposizioni  urgenti   per   il   risanamento   ambientale   e   la
riqualificazione del territorio della citta' di Taranto), convertito,
con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 ottobre  2012,
n. 171, e l'art. 27 (rubricato come  «Riordino  della  disciplina  in
materia di riconversione e riqualificazione  produttiva  di  aree  di
crisi industriale complessa»)  del  decreto-legge  n.  83  del  2012,
convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della  legge  n.  134  del
2012. 
    14.- La societa' Ilva  S.p.A.,  in  persona  del  presidente  del
consiglio di amministrazione, si e' costituita nel giudizio con  atto
depositato il  25  febbraio  2013,  chiedendo  che  le  questioni  di
legittimita' siano «rigettate». 
    14.1.- L'atto in questione si apre con  una  ricostruzione  degli
avvenimenti,  di  carattere  processuale  e  normativo,   che   hanno
preceduto l'ordinanza di rimessione, sostanzialmente analoga a quella
gia' proposta nel giudizio r.o. n. 19 del 2013 (supra, § 3.1.). Viene
ribadito, in particolare, che la produzione delle merci in  sequestro
sarebbe stata «espressamente assentita dall'autorita'  giudiziaria  e
condotta, peraltro,  sotto  la  responsabilita'  dei  custodi  ed  il
controllo della Procura». 
    14.2.- La parte costituita eccepisce,  in  primo  luogo,  che  le
censure proposte dal rimettente sarebbero irrilevanti o, quanto meno,
viziate da una insufficiente ponderazione  del  quadro  normativo  di
riferimento (sono citate le sentenze della  Corte  costituzionale  n.
367 del  2010  e  n.  120  del  2006).  In  particolare,  il  giudice
rimettente  non  avrebbe  potuto  prospettare  il  dubbio  circa   la
legittimita' dell'unica norma censurata (il comma 3 dell'art.  3)  se
non estendendo le proprie censure all'art. 1  del  d.l.  n.  207  del
2012, data la stretta connessione esistente tra le due disposizioni. 
    Con il citato art. 1, il legislatore avrebbe realizzato sul piano
generale  un  bilanciamento  tra  interessi  meritevoli  di   tutela,
limitando  nel  tempo  l'efficacia  dell'AIA  riesaminata,  lasciando
impregiudicate  le  sanzioni  previste  ed  aggiungendone  di  nuove,
implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di
protezione ambientale. 
    La disposizione del comma 4, sempre in  linea  generale,  prevede
che l'autorizzazione in esito  al  riesame  possa  essere  rilasciata
anche quando provvedimenti giudiziari di sequestro insistano sui beni
aziendali,  e  che  i  provvedimenti  in  questione  non  impediscono
l'esercizio dell'attivita' di impresa. Dato il carattere generale  ed
astratto  di  tale  ultima  previsione,  avrebbe   sapore   meramente
«nominalistico» la censura prospettata dal Tribunale a proposito  del
fatto che la commercializzazione delle merci dell'Ilva sarebbe  stata
disposta in assenza di una deroga  alle  prescrizioni  dell'art.  321
cod. proc. pen., perche' tale ultima norma sarebbe  ormai  integrata,
sempre  sul  piano  generale,  dall'art.  1  del   decreto-legge   in
discussione. 
    Si tratterebbe  di  un  bilanciamento  spettante  al  legislatore
(salvo il controllo della Corte costituzionale: sentenza n.  264  del
2012), non privo di antecedenti. E' nuovamente  richiamato  l'art.  2
del d.lgs. n. 270 del 1999,  ove  e'  previsto  che  l'interesse  dei
creditori delle imprese di grandi dimensioni debba recedere di fronte
a quello alla conservazione delle risorse produttive  e  dei  livelli
occupazionali. Sono richiamati, ancora, il d.l. n. 90  del  2008,  le
leggi n. 99 del 2009 e n. 183 del 2011, i decreti-legge  n.  112  del
2008 e n. 83 del 2012 (supra, § 3.2.). 
    Il diritto alla prosecuzione dell'attivita' produttiva  e'  stato
bilanciato  -  si   ripete   -   attraverso   la   contenuta   durata
dell'autorizzazione ed un complesso sistema di controlli, esteso fino
alla diretta vigilanza del Parlamento. Cio' detto, non avrebbe  senso
discutere  di  diritto  all'esercizio  dell'impresa  senza   che   ne
discenda, per implicito ma gia' sul piano generale,  la  possibilita'
di commerciare i prodotti dell'attivita' aziendale. 
    Dunque l'art. 3 del d.l. n. 207 del  2012,  secondo  la  societa'
Ilva,  «fa  applicazione,  direttamente  in  via  legislativa,  delle
disposizioni di cui all'art. 1». In sostanza, il legislatore  avrebbe
verificato la ricorrenza delle condizioni per il  riconoscimento  del
carattere strategico dell'impianto  di  Taranto,  ed  avrebbe  «preso
atto»  dell'esistenza  di  una   AIA   riesaminata,   disponendo   di
conseguenza la reimmissione dell'azienda nel possesso degli  impianti
e dei prodotti (con l'ulteriore tutela rappresentata dall'istituzione
di un Garante indipendente). 
    La connessione inscindibile  tra  la  norma  censurata  e  quella
dell'art. 1 renderebbe palese l'irrilevanza della questione sollevata
con riguardo al solo art. 3, comma 3, del decreto. In  effetti  -  si
dice - quand'anche intervenisse una pronuncia  di  illegittimita'  in
ordine  alla  norma  censurata,  il  Tribunale  rimettente   dovrebbe
comunque accogliere l'impugnazione, in applicazione  delle  norme  di
cui agli artt. 1, 2 e 3, comma 1,  dello  stesso  decreto-legge,  che
conferiscono all'Ilva il diritto alla prosecuzione  dell'attivita'  e
dunque alla  commercializzazione  dei  relativi  prodotti,  anche  se
sottoposti a sequestro. 
    14.3.- I rilievi fin qui  illustrati  varrebbero  a  documentare,
secondo la parte costituita, l'infondatezza della  censura  costruita
sull'art. 3 Cost., secondo cui la sola societa'  Ilva  sarebbe  stata
beneficiata   della   possibilita'   di   commercializzare   prodotti
sottoposti a sequestro. 
    Viene  richiamata,  anzitutto,  la  considerazione   che   spetta
comunque alla legge stabilire quali condotte  siano  illecite,  anche
nel rapporto con un pregresso provvedimento  autorizzativo.  In  ogni
caso, il comma 3 dell'art. 3 del d.l. n. 207  del  2012  non  sarebbe
norma del caso singolo, ma  semmai  norma  provvedimento,  come  tale
condizionata, ai fini del sindacato di  legittimita'  costituzionale,
solo  dall'osservanza  dei   principi   di   ragionevolezza   e   non
arbitrarieta' (e' citata la sentenza della  Corte  costituzionale  n.
270 del 2010).  Nella  specie  -  si  ripete  -  la  possibilita'  di
commercio del  prodotto  costituisce  portato  imprescindibile  della
legittimazione a proseguire le attivita' produttive.  D'altra  parte,
e' proprio il  principio  di  uguaglianza  a  richiedere  trattamenti
differenziali per situazioni diverse (sentenza n. 15  del  1975),  ed
implica una necessaria congruenza tra norma e «causa normativa che la
deve assistere» (sentenza n. 89 del 1996). 
    La parte costituita ricorda che gia' in altri casi il legislatore
aveva  neutralizzato  l'effetto   di   sequestri   giudiziari   sulla
utilizzazione produttiva di determinati beni (d.l. n. 81 del 2007)  o
dettato deroghe specifiche all'applicazione  di  norme  generali  (e'
richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 152  del  1985).
Nelle fattispecie  complesse,  non  ogni  «incoerenza,  disarmonia  o
contraddittorieta'» che  derivi  da  una  norma  puo'  risolversi  in
violazione del principio di uguaglianza, che' altrimenti il controllo
di  legittimita'  si  trasformerebbe  in  controllo  di  opportunita'
(sentenza n. 89 del 1996). 
    La societa' Ilva, contestando l'opinione del  rimettente  secondo
cui la commercializzazione  delle  merci  in  sequestro  non  sarebbe
giustificata   dall'interesse   alla   prosecuzione    dell'attivita'
produttiva, osserva  che  quest'ultima  presuppone  la  funzionalita'
dell'intero ciclo economico.  Si  ribadisce,  dunque,  che  la  norma
censurata declina, sul piano del  caso  di  specie,  una  norma  gia'
desumibile sul piano generale dall'art. 1 del decreto-legge. 
    Infondato sarebbe anche  l'assunto  di  una  indebita  «efficacia
retroattiva» della norma censurata, nei  contenuti  modificati  dalla
legge di conversione. La norma infatti non  disporrebbe  che  per  il
futuro, regolando  il  nuovo  regime  giuridico  per  i  prodotti  in
condizione   di   sequestro,   a   titolo   di   mera    ricognizione
dell'operativita' nel caso concreto della regola enunciata  nell'art.
1, specificamente dettata rispetto a  beni  che  gia'  si  trovassero
sottoposti al vincolo. 
    D'altra  parte,  la  giurisprudenza  costituzionale  non  ha  mai
escluso in radice la possibilita' di  norme  retroattive,  quando  le
stesse «vengano a trovare un'adeguata giustificazione sul piano della
ragionevolezza e non si pongano in contrasto  con  altri  principi  o
valori costituzionali specificamente protetti»  (sono  citate,  oltre
alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 1994,  le  sentenze
della stessa Corte n. 58 del 2009, n. 432 del 2007, n. 374 del 2002). 
    Sul piano sostanziale, la parte nega nuovamente  che  l'attivita'
culminata con la produzione dei beni fosse illecita. 
    14.4.- Riguardo alla pretesa interferenza del  legislatore  nella
funzione giurisdizionale, ed alla conseguente violazione degli  artt.
102 e 104 Cost., la parte privata nega, anzitutto, che possa  esservi
un problema di vanificazione del «giudicato» (per la cui  definizione
sono richiamate le sentenze della Corte  costituzionale  n.  170  del
2008, n. 364 e n. 267 del 2007, n. 282 del 2005, n. 525 e n. 374  del
2000, n. 115  del  1990).  Il  cosiddetto  «giudicato  cautelare»  si
risolve in una mera preclusione processuale, e d'altronde  lo  stesso
giudicato formale sarebbe ormai sacrificato quando la relativa tutela
implicherebbe una lesione per i diritti  fondamentali  della  persona
(e' nuovamente citata la sentenza della Corte costituzionale  n.  113
del 2011). 
    In secondo luogo - prosegue la parte costituita -  l'interferenza
determinatasi sui provvedimenti giudiziari, per effetto  della  norma
censurata,  sarebbe  compatibile  con  i  limiti  individuati   dalla
giurisprudenza costituzionale in materia (sono citate le sentenze  n.
93 del 2011, n. 137 del 2009, n. 492 del 1995, n.  397  e  n.  6  del
1994; n. 480 del 1992, n. 346 del 1991, n. 91 del 1988,  n.  123  del
1987, n. 118 del 1957). Occorre  che  il  legislatore  non  detti  la
regola per un singolo giudizio, ma ponga una disciplina  suscettibile
di applicazione in ogni fattispecie concreta che presenti le medesime
caratteristiche. A queste condizioni, il fatto che la  norma  produca
effetti nei giudizi in corso non  potrebbe  essere  considerato  alla
stregua   di   una   interferenza    illegittima    nella    funzione
giurisdizionale (ancora, sentenze n. 1 del 2011, n. 311 e n.  94  del
2009, n. 32 del 2008, n. 352 del 2006, n. 211 del 1998,  n.  263  del
1994). 
    In ogni caso, nella  specie,  non  vi  sarebbe  propriamente  una
influenza  sul  giudizio  in  corso,  o  almeno  non  una   influenza
indipendente da una modifica del quadro normativo in  base  al  quale
era stato assunto il provvedimento giudiziale: modifica  che  invece,
come piu' volte si ripete, sarebbe stata realizzata con l'art. 1  del
decreto-legge in discussione. 
    14.5.- Da ultimo, la  parte  costituita  contesta  che  la  norma
censurata abbia condizionato il diritto ad agire in giudizio  per  la
tutela di diritti ed interessi (art.  24  Cost.)  e  l'esercizio  del
potere-dovere di promuovere l'azione penale  da  parte  del  pubblico
ministero (art. 112 Cost.). 
    La norma in questione avrebbe  mera  funzione  ricognitiva  della
sussistenza, nel caso di specie, dei nuovi criteri di  legittimazione
dell'attivita' produttiva conseguente al rilascio di una AIA in  sede
di riesame. Modifiche della disciplina sostanziale di un illecito non
potrebbero certo essere impedite dall'attuale  pendenza  di  indagini
preliminari.  D'altra  parte,  non   sarebbe   illegittimo   che   il
legislatore ponga cautele e condizioni  per  l'esercizio  dell'azione
penale (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 114 del
1982 e n. 121 del 2009). 
    15.- In data 19 marzo 2013 l'Avvocatura generale dello Stato,  in
rappresentanza  del  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,   ha
depositato memoria al fine di ribadire le conclusioni  in  precedenza
offerte (supra, § 13). Nell'atto vengono svolte alcune considerazioni
aggiuntive, analoghe quelle che si leggono nella  memoria  depositata
per il giudizio r.o. n. 19 del 2013, gia' sopra illustrate (§ 7). 
    16.- In data 19 marzo 2013 e'  stata  depositata,  nell'interesse
dell'Ilva S.p.A., una memoria tesa a  ribadire  le  conclusioni  gia'
offerte, anche con specifico riguardo alle  questioni  sollevate  nel
giudizio r.o. n. 20 del 2013. Il contenuto dell'atto  e'  gia'  stato
illustrato (supra, § 8). 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del   Tribunale
ordinario  di  Taranto  ha  sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012,  n.
231 (Conversione in legge, con  modificazioni,  del  decreto-legge  3
dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti  a  tutela  della
salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di  crisi
di stabilimenti industriali  di  interesse  strategico  nazionale)  -
recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre  2012,  n.  207
(Disposizioni urgenti a tutela  della  salute,  dell'ambiente  e  dei
livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti  industriali
di   interesse   strategico   nazionale),   come   convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 - in
relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma,  24,  primo  comma,  25,
primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101,  102,  103,
104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. 
    L'art. 1 del citato d.l. n. 207 del 2012 e' censurato  in  quanto
prevede che, presso  gli  stabilimenti  dei  quali  sia  riconosciuto
l'interesse strategico  nazionale  con  decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei  ministri  e  che  occupino  almeno  duecento  persone,
l'esercizio dell'attivita' di impresa, quando sia indispensabile  per
la salvaguardia dell'occupazione e della produzione, possa continuare
per un tempo non superiore a  36  mesi,  anche  nel  caso  sia  stato
disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto  delle
prescrizioni impartite con una  autorizzazione  integrata  ambientale
rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la piu' adeguata
tutela dell'ambiente e della  salute  secondo  le  migliori  tecniche
disponibili. 
    Il successivo art. 3 e' oggetto di censura, invece, riguardo alle
seguenti statuizioni:  a)  l'impianto  siderurgico  Ilva  di  Taranto
costituisce stabilimento di interesse strategico  nazionale  a  norma
dell'art. 1; b) l'AIA rilasciata alla societa'  Ilva  il  26  ottobre
2012 produce gli effetti autorizzatori previsti dal citato art. 1; c)
la societa' indicata e' reimmessa nel possesso degli impianti  e  dei
beni gia' sottoposti a sequestro  dell'autorita'  giudiziaria;  d)  i
prodotti in giacenza,  compresi  quelli  realizzati  antecedentemente
alla data di entrata in  vigore  del  decreto-legge,  possono  essere
commercializzati dall'impresa. 
    A parere del giudice rimettente, la  disciplina  censurata  viola
anzitutto l'art. 3 Cost., secondo molteplici profili. Vi sarebbe,  in
primo luogo,  una  discriminazione  ingiustificata  tra  aziende  con
processi produttivi di analoga portata  inquinante,  a  seconda  che,
sulla base di  un  provvedimento  discrezionale  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri (del quale la legge fisserebbe  i  presupposti
in modo solo generico), i relativi stabilimenti siano dichiarati  «di
interesse strategico nazionale», nel qual caso  l'attivita'  illecita
puo' proseguire per 36 mesi, oppure non  lo  siano,  con  conseguente
applicabilita' delle sanzioni  di  legge.  Correlativamente,  sarebbe
introdotta  una  discriminazione  illegittima  tra  cittadini   tutti
esposti ad emissioni  inquinanti,  a  seconda  che,  sulla  base  del
predetto provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, gli
stabilimenti dai quali provengono le emissioni siano o no  dichiarati
«di interesse strategico nazionale», posto che solo  nel  primo  caso
sarebbero inibite le  azioni  a  tutela  dei  diritti  delle  persone
interessate. 
    Con specifico riguardo all'art. 3, comma 2, del d.l. n.  207  del
2012, il  giudice  rimettente  considera  i  cittadini  esposti  alle
emissioni inquinanti dell'Ilva S.p.A. discriminati rispetto ad altri,
pure interessati da fenomeni di  inquinamento  ambientale:  nel  caso
dell'Ilva, infatti, l'AIA rilasciata il 26 ottobre 2012, in  sede  di
riesame, «assurge al rango di atto avente forza  di  legge»,  con  la
conseguenza che agli  interessati  e'  preclusa  la  possibilita'  di
proporre  ricorso  giurisdizionale  contro  il  provvedimento.   Tale
preclusione  -  puo'  dirsi  fin  d'ora  -  implicherebbe  anche   la
violazione dell'art. 113 Cost. 
    In  riferimento  poi  al  comma  3  del  citato  art.  3,   viene
prospettata una illegittima difformita' di trattamento  (rilevante  a
norma  dell'art.  3  Cost.)  tra  aziende  i  cui  prodotti   vengano
sottoposti  a  sequestro  o  lo  siano  stati  in  epoca  antecedente
all'entrata in vigore del decreto-legge, poiche' solo  alla  societa'
Ilva sarebbe consentito di commercializzare  tanto  i  prodotti  gia'
sequestrati  che  quelli  in  ipotesi  assoggettabili  ad   ulteriori
provvedimenti cautelari. 
    Un secondo gruppo di censure attiene  a  violazioni  degli  artt.
101, 102, 103, 104, 107  e  111  Cost.  La  normativa  in  questione,
infatti,  sarebbe  stata  adottata  per  regolare  un  singolo   caso
concreto, oggetto di provvedimenti  giurisdizionali  gia'  assunti  e
passati in «giudicato cautelare», con norme prive  dei  caratteri  di
generalita' ed astrattezza, e senza modificare il quadro normativo di
riferimento, cosi' da vulnerare la riserva di  giurisdizione  ed  «il
principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato». 
    Ancora, la disciplina censurata contrasterebbe con gli artt.  25,
27 e 112  Cost.,  in  quanto  elusiva  dell'obbligo  di  accertare  e
prevenire  i  reati  e  del  dovere,  posto  a  carico  del  pubblico
ministero,  di  esercitare  l'azione   penale:   tale   effetto,   in
particolare,  si  connetterebbe  alla  legittimazione  dell'ulteriore
corso, per 36 mesi, di attivita' produttive altamente inquinanti,  ed
alla previsione della sola pena pecuniaria, per un valore pari ad una
quota  del  fatturato,  riguardo  ad   eventuali   violazioni   delle
prescrizioni impartite mediante l'AIA riesaminata. 
    Per le ragioni appena esposte le norme censurate violerebbero gli
artt. 25 e 27 Cost., implicando una sottrazione di  fatti  penalmente
illeciti al loro «giudice naturale» e vanificando  «il  principio  di
responsabilita' penale personale in capo agli autori»  dei  reati  in
questione. Nella stessa  prospettiva,  la  disciplina  contrasterebbe
anche con l'art. 24 Cost., perche' ne deriverebbe la preclusione,  in
danno dei cittadini danneggiati  dalle  emissioni  inquinanti,  della
possibilita' di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti  e
interessi legittimi. 
    Un ulteriore profilo  «generale»  di  contrasto  con  il  dettato
costituzionale (ed in particolare con gli artt. 2, 9, 32 e 41  Cost.)
e' denunciato  in  quanto,  consentendo  l'esercizio  dell'iniziativa
economica privata con modalita' tali da recare danno  alla  sicurezza
ed alla dignita' umana, la disciplina in  questione  annullerebbe  la
tutela del diritto fondamentale alla salute e all'ambiente salubre. 
    Sarebbe violato, infine,  anche  il  primo  comma  dell'art.  117
Cost., in relazione a  diversi  parametri  interposti.  La  normativa
censurata contrasterebbe, infatti, con gli artt. 3 e 35  della  Carta
dei diritti  fondamentali  dell'Unione  europea,  che  proteggono  il
diritto di ciascuno all'integrita' fisica e psichica ed alla  salute.
Vi sarebbe conflitto, ancora,  con  il  disposto  dell'art.  191  del
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea,  ove  e'  fissato  il
principio  di  precauzione,  disatteso  nella  specie  attraverso  la
legittimazione di attivita' comprovatamente dannose.  Da  ultimo,  il
rimettente prospetta un contrasto con l'art. 6 della Convenzione  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
in forza della lesione recata al diritto ad un equo processo. 
    2.- Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice  di
appello a norma dell'art. 322-bis del codice di procedura penale,  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 3  della
legge n. 231 del 2012 - recte, dell'art. 3 del d.l. n. 207 del  2012,
come convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge
n. 231 del 2012 - in relazione agli artt.  3,  24,  102,  104  e  122
Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la  societa'  Ilva
S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi
quelli realizzati antecedentemente alla data di  entrata  in  vigore»
del citato d.l. n. 207 del 2012,  sebbene  posti  ad  oggetto  di  un
provvedimento di sequestro preventivo. 
    Secondo il rimettente, la norma  censurata  violerebbe  l'art.  3
Cost. sotto molteplici profili. 
    Si tratterebbe anzitutto di una «legge  del  caso  singolo»,  per
mezzo  della  quale  la  societa'  Ilva  sarebbe  ingiustificatamente
favorita rispetto ad ogni altra societa'  le  cui  merci,  in  quanto
prodotto di un reato, siano state sottoposte a sequestro. 
    La disciplina censurata sarebbe poi priva di  ragionevolezza,  in
quanto l'autorizzazione  a  commercializzare  prodotti  in  sequestro
vanifica  la  funzione  tipica  della  misura  cautelare  e  non   e'
giustificata,  per  altro  verso,   dal   fine   di   consentire   la
continuazione delle  attivita'  produttive  e  la  conservazione  dei
livelli occupazionali, per la  cui  assicurazione  la  disponibilita'
delle merci gia' sequestrate non sarebbe stata necessaria. 
    Mancherebbe  una   ragionevole   giustificazione,   dunque,   per
l'efficacia «retroattiva» conferita alla norma censurata. 
    Il Tribunale prospetta l'ulteriore violazione degli artt.  102  e
104 Cost., in quanto il legislatore avrebbe «direttamente  modificato
un  provvedimento  del  giudice»  (l'ordinanza   posta   ad   oggetto
dell'impugnazione dalla quale origina il procedimento a quo),  «senza
per altro modificare il quadro normativo sulla  base  del  quale  era
stato emanato», ed avrebbe pregiudicato la possibilita' di  procedere
a confisca in esito  al  giudizio,  sebbene  le  merci  in  sequestro
debbano tuttora considerarsi prodotto di reato. 
    Infine, vi sarebbe un contrasto tra  la  norma  censurata  e  gli
artt. 24 e 112 Cost., per la provocata lesione del diritto di  azione
del  privato  leso  nei  suoi  diritti  e  per  l'ostacolo  frapposto
all'esercizio della funzione pubblica di accertamento, repressione  e
prevenzione dei reati. 
    3.- I giudizi introdotti dalle due ordinanze in epigrafe, data la
parziale identita' di oggetto, possono essere riuniti, al fine di una
trattazione unitaria delle questioni sollevate. 
    4.-  In  via  preliminare  deve  essere  confermata  l'ordinanza,
adottata nel corso dell'udienza pubblica ed  allegata  alla  presente
sentenza, con  la  quale  sono  stati  dichiarati  inammissibili  gli
interventi  spiegati,  nel  giudizio  r.o.  n.  19  del  2013,  dalla
Confederazione  Generale  dell'Industria  Italiana   (Confindustria),
dalla Federacciai  -  Federazione  Imprese  Siderurgiche  Italiane  e
dall'Associazione Italiana per il Word  Wide  Fund  for  Nature  (WWF
Italia) onlus, mentre e' stato  dichiarato  ammissibile  l'intervento
dei signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro. 
    Invero, i soggetti sopra indicati non sono parti nel  giudizio  a
quo. 
    Per nota  ed  ormai  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,
possono  costituirsi  nel  giudizio   incidentale   di   legittimita'
costituzionale le sole  parti  del  procedimento  principale,  mentre
l'intervento di soggetti estranei (oltre al Presidente del  Consiglio
dei ministri e, nel caso di  legge  regionale,  al  Presidente  della
Giunta regionale) e' ammissibile soltanto per i terzi titolari di  un
interesse qualificato, inerente  in  modo  diretto  ed  immediato  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura. 
    Orbene, nel giudizio da cui  traggono  origine  le  questioni  di
legittimita' costituzionale  in  discussione,  la  Confindustria,  la
Federacciai e il WWF Italia non sono parti,  ne'  sono  titolari  del
predetto interesse qualificato. 
    I signori Angelo, Vincenzo  e  Vittorio  Fornaro,  invece,  hanno
partecipato, in qualita' di persone offese, all'incidente  probatorio
ammesso  dal  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale
ordinario di  Taranto  con  ordinanza  del  27  ottobre  2010;  essi,
pertanto, sono titolari di  un  interesse  qualificato,  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  nel  giudizio  principale,  al  quale
accedono tanto l'incidente probatorio che le procedure concernenti  i
sequestri in atto. 
    Ne derivano la declaratoria d'ammissibilita' dell'intervento  dei
signori  Angelo,  Vincenzo  e  Vittorio  Fornaro  e  la  declaratoria
d'inammissibilita'  degli  interventi  della   Confindustria,   della
Federacciai e del WWF Italia. 
    5.-  Vanno  considerati,  a  questo  punto,  alcuni  profili  che
attengono all'ammissibilita' delle  questioni  sollevate  nell'ambito
del giudizio r.o. n. 19 del 2013. 
    5.1.- Si e' prospettato anzitutto, da parte  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri, un  vizio  di  intrinseca  contraddittorieta'
della  questione  concernente  la  pretesa  interferenza  del  potere
legislativo con le prerogative della giurisdizione.  In  particolare,
il Giudice per le indagini preliminari di Taranto avrebbe  sostenuto,
per un verso, la perdurante attualita' della condizione di  sequestro
degli impianti dello stabilimento siderurgico e dei prodotti giacenti
nelle relative aree di stoccaggio; per altro  avrebbe  lamentato  una
sorta di efficacia diretta della legge sul regime cautelare in atto. 
    L'eccezione  di  inammissibilita',  in  questi  termini,  non  e'
fondata. Il giudice  a  quo  non  sostiene  che  i  provvedimenti  di
sequestro siano  stati  «automaticamente»  travolti  dalla  normativa
censurata, e neppure che sia venuta meno la condizione  di  sequestro
dei beni cui si riferiscono i provvedimenti  citati.  Non  ha  dunque
negato che la disciplina  adottata  da  Governo  e  Parlamento  debba
trovare  applicazione  in  provvedimenti  dell'autorita'  giudiziaria
investita della funzione cautelare, ed anzi tale assunto  costituisce
condizione di rilevanza delle questioni sollevate. Il  rimettente  ha
inteso lamentare, piuttosto, un  preteso  svuotamento  dell'efficacia
delle cautele reali adottate nei  confronti  dell'Ilva,  che  sarebbe
particolarmente  incisivo  quanto  al  materiale  prodotto  dopo   il
sequestro  degli  impianti  e  prima  del  decreto-legge:   materiale
destinato alla confisca ma di fatto irrimediabilmente  distolto  -  a
suo avviso - per effetto  della  commercializzazione  prevista  dalle
norme sopravvenute. 
    E' vero che nell'ordinanza di rimessione viene evocato un effetto
di  «riforma»  del  provvedimento  giudiziale  che   ha   negato   il
dissequestro delle merci, attribuendo al legislatore, con riferimento
alla modifica introdotta in sede di conversione nell'art. 3, comma 3,
del decreto, l'atteggiamento di un «giudice  di  istanza  superiore».
L'argomento  mira,  pero',  ad  evidenziare  una  presunta   volonta'
legislativa di interferire nella disciplina del  caso  concreto,  con
efficacia retroattiva, e non  una  pretesa  efficacia  diretta  della
norma in punto di attualita' della cautela. 
    L'Avvocatura generale ha  eccepito,  inoltre,  che  le  questioni
poste  nell'ambito  del  subprocedimento  cautelare  concernente   il
sequestro degli impianti sarebbero tardive, dato che  la  Procura  di
Taranto, in applicazione del comma 3 dell'art. 3 del  decreto,  aveva
gia' immesso la societa' Ilva, al momento della relativa ordinanza di
rimessione, nel possesso dello  stabilimento.  L'eccezione  non  puo'
essere  accolta.  Non  e'   infatti   priva   di   plausibilita'   la
prospettazione del rimettente secondo cui la normativa  censurata,  e
lo stesso comma 3 dell'art. 3, devono trovare ulteriore applicazione,
attraverso un provvedimento  che  riconosca  e  regoli  la  «facolta'
d'uso» degli impianti, rimasti in condizione di sequestro, e mediante
un provvedimento che valuti la perdurante necessita' dell'ufficio dei
custodi giudiziali, con specificazione,  nel  caso  affermativo,  del
diverso  compito  loro   spettante   alla   luce   della   disciplina
sopravvenuta. 
    Va escluso, infine, che  si  sia  determinata  una  «sopravvenuta
carenza di interesse» delle questioni concernenti  il  sequestro  dei
prodotti finiti o semilavorati, in considerazione del  fatto  che  la
stessa  Autorita'  procedente  ha  ordinato,  in  epoca  recente,  la
«vendita» delle merci. La commercializzazione  dei  prodotti  risulta
disposta in applicazione  non  gia'  della  norma  censurata,  bensi'
dell'art. 260, comma 3, cod. proc. pen. e dell'art. 83 delle relative
disposizioni di attuazione. La relativa disciplina regola i  casi  in
cui il bene sequestrato puo' deteriorarsi e non  implica  affatto  il
dissequestro del bene medesimo, tanto che il vincolo  si  trasferisce
sulle  utilita'  eventualmente  ricavate  attraverso   l'alienazione:
circostanza, questa, esplicitamente  evidenziata  nell'ordinanza  del
Giudice  procedente.  Non  e'  venuto  meno,  quindi,  l'interesse  a
stabilire se sia legittima la  previsione  di  un  inserimento  delle
merci nel normale ciclo  economico  dell'impresa,  che  comporta  tra
l'altro, per l'azienda, la  diretta  ed  incondizionata  acquisizione
delle risorse ricavate dal commercio dei suoi prodotti. 
    5.2.- Sempre nell'ambito del giudizio r.o. n.  19  del  2013,  la
societa' Ilva ha prospettato una  «radicale  inammissibilita'»  della
questione concernente il contrasto tra l'art. 1 del d.l. n.  207  del
2012 e l'art. 3 Cost. Il  rimettente,  in  particolare,  non  avrebbe
indicato il tertium comparationis in base al  quale  potrebbe  essere
sindacata  la  ragionevolezza  della  soglia   minima   di   duecento
dipendenti cui la normativa censurata subordina la  possibilita'  che
il Ministro dell'ambiente, in sede di riesame dell'AIA, autorizzi  la
prosecuzione dell'attivita' produttiva (comma 1 dell'art. 1). 
    E' senz'altro vero che una indicazione  del  genere  non  compare
nell'ordinanza di rimessione. Va escluso, pero', che si trattasse  di
una indicazione necessaria. Il rimettente non pare voler sindacare la
ragionevolezza dell'indice numerico  prescelto  dal  legislatore,  in
assoluto o nella comparazione con situazioni assimilabili, ma  sembra
piuttosto  porre  in  discussione  la   legittimita'   di   qualunque
distinzione nel trattamento di aziende con produzioni inquinanti.  In
questo senso, pur nel contesto di una esposizione assai «discorsiva»,
va interpretata la  questione  di  legittimita'.  Del  resto,  se  il
rimettente avesse voluto invece sollevare la  questione  nei  termini
ipotizzati  dalla  parte,  la  stessa   risulterebbe   manifestamente
inammissibile, dato il carattere oscuro della relativa formulazione. 
    5.3.-  E'  fondata   invece   l'eccezione   di   inammissibilita'
prospettata, sempre nell'interesse della societa' Ilva, riguardo alle
questioni formulate in relazione all'art. 117, primo comma, Cost.  Il
rimettente  si  limita   in   effetti   ad   evocare   una   generica
corrispondenza tra  le  norme  di  tutela  dei  diritti  fondamentali
contenute nella Carta  costituzionale,  asseritamente  violate  dalle
disposizioni oggetto di  censura,  ed  alcune  norme  sovranazionali,
comprese  nella  Convenzione  europea   dei   diritti   dell'uomo   o
nell'ordinamento  dell'Unione  europea.  Non  viene  proposta  alcuna
puntuale considerazione, pero', sulle specifiche ragioni di conflitto
tra il diritto nazionale ed i parametri interposti, dei quali non  e'
illustrata,  neppure  in  termini  sommari,   la   concreta   portata
precettiva. Il diritto dell'Unione, in particolare, e'  genericamente
evocato in rapporto ai principi di precauzione e  di  responsabilita'
per i danni da inquinamento (art. 191 TFUE), senza tenere in concreta
considerazione  la  specifica  produzione  normativa  in  materia  di
siderurgia, compresi i recenti approdi rappresentati dalla  decisione
28  febbraio  2012  (Decisione  di   esecuzione   2012/135/UE   della
Commissione  [...]  che  stabilisce  le  conclusioni  sulle  migliori
tecniche disponibili (BAT) per la produzione di ferro  e  acciaio  ai
sensi  della  direttiva  2010/75/UE  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio relativa alle  emissioni  industriali,  notificata  con  il
numero C[2012] 903) e dalle due risoluzioni  assunte  dal  Parlamento
europeo, sempre  in  tema  di  esercizio  dell'industria  siderurgica
nell'ambito dell'Unione, il giorno 13 dicembre 2012. 
    Va aggiunto che una completa carenza di motivazione,  tale  nella
specie da implicare  dubbi  insuperabili  sul  senso  delle  relative
censure, caratterizza le questioni sollevate in riferimento  all'art.
25, primo comma, ed all'art. 27, primo comma, Cost. Non si  comprende
quale possa essere l'effettiva attinenza del  principio  del  giudice
naturale, precostituito  per  legge,  nel  contesto  di  affermazioni
concernenti una pretesa immunita'  che  deriverebbe  ai  responsabili
dell'Ilva dalla normativa censurata. Se si fosse voluto sostenere che
ogni norma di esenzione da punibilita' «distoglie» l'interessato  dal
giudice «naturale» e che tale  sarebbe  l'effetto  di  una  ipotetica
dequalificazione del reato in illecito amministrativo, sarebbe  stata
necessaria una ben diffusa giustificazione dell'assunto.  Ancor  meno
si comprende il senso dell'affermazione che, per l'asserita immunita'
accordata  riguardo  ai   reati   commessi   nella   gestione   dello
stabilimento di Taranto, sarebbe violata la  regola  di  personalita'
della responsabilita' penale. L'enunciato resta senza spiegazione sia
che si guardi alla  regola  quale  divieto  di  configurazione  della
responsabilita' penale per fatto altrui,  sia  che  si  consideri  il
connesso principio di necessaria «colpevolezza» del fatto  penalmente
sanzionabile. 
    Dunque,  le  questioni  sollevate  in  riferimento  ai  parametri
indicati devono essere dichiarate inammissibili. 
    6.- Sono  state  proposte  eccezioni  di  inammissibilita'  anche
nell'ambito del giudizio r.o. n. 20 del 2013. 
    Si e' gia' detto della  tesi  proposta  dall'Avvocatura  generale
dello Stato,  secondo  cui  la  recente  disposizione  giudiziale  di
vendere  i  prodotti  in  sequestro  implicherebbe  una  sopravvenuta
«carenza di interesse» delle relative questioni. Non resta dunque che
ribadire come permanga, al  contrario,  l'interesse  a  stabilire  la
legittimita'  della  norma  che  consente  alla  societa'   Ilva   di
commercializzare le merci nell'ambito del proprio ciclo  economico  e
produttivo. 
    La parte costituita, dal canto proprio,  eccepisce  l'irrilevanza
della questione sollevata dal Tribunale, sull'assunto che l'ipotetica
eliminazione dall'ordinamento del comma 3  dell'art.  3,  e  comunque
dell'inciso inserito dal Parlamento in sede di  conversione  riguardo
ai prodotti gia' sequestrati prima dell'emanazione del decreto-legge,
non influirebbe sulla decisione che il rimettente deve  assumere  nel
caso  concreto.  Infatti  -  secondo  la  difesa   dell'Ilva   -   le
disposizioni citate  avrebbero  carattere  di  mera  applicazione  ed
esplicazione della disciplina generale di cui all'art. 1 del  decreto
citato.  In  particolare,  la  previsione  che  i  provvedimenti   di
sequestro assunti dall'autorita' giudiziaria «non  impediscono  (...)
l'esercizio  dell'attivita'  d'impresa»   (comma   4)   implicherebbe
chiaramente  la  possibilita'  di  commerciare  prodotti  che   siano
assoggettati a cautela reale, posto che il  commercio  della  propria
produzione, per una azienda  manifatturiera,  costituisce  il  nucleo
fondamentale dell'attivita'. Dunque il Tribunale, se anche  la  norma
censurata fosse dichiarata illegittima, dovrebbe comunque  accogliere
l'appello della societa' Ilva. 
    L'eccezione deve essere disattesa a  prescindere  dalla  corretta
ricostruzione dei rapporti tra le  varie  previsioni  evocate,  sulla
quale si tornera' trattando il merito delle questioni. 
    Un profilo essenziale delle censure  prospettate  dal  Tribunale,
infatti, consiste nell'assunto che il comma 3 dell'art.  3  determina
una situazione di ingiustificato privilegio per l'Ilva rispetto  alla
disciplina dettata per la generalita' delle imprese. In  particolare,
l'inciso  concernente  la   commercializzazione   dei   prodotti   in
sequestro,  compresi  quelli  sottoposti  alla  cautela   prima   del
decreto-legge,  avrebbe  carattere  di  vera  e  propria  innovazione
rispetto ai contenuti normativi della disposizione dettata d'urgenza,
esplicando una indebita efficacia retroattiva. Il  Tribunale  avrebbe
contraddetto la logica delle  proprie  censure  se  avesse  impugnato
anche l'art. 1 del decreto-legge, ed in particolare il relativo comma
4. 
    Nei  termini  in  cui  e'  formulata,  dunque,  la  questione  di
legittimita' appare  rilevante.  Altro  problema,  com'e'  ovvio,  e'
quello del suo  fondamento,  anche  sotto  il  profilo  dei  relativi
presupposti ermeneutici. Ma non potrebbe  dirsi  nella  specie,  come
vorrebbe la parte costituita, che il  rimettente  abbia  operato  una
carente (nel senso di incompleta) ricostruzione del quadro  normativo
di riferimento. 
    7.- Nel merito, le questioni aventi ad oggetto l'art. 1 del  d.l.
n. 207 del 2012 non sono fondate. 
    7.1.-  Giova  precisare   l'effettiva   portata   dell'intervento
normativo compiuto, mediante la norma censurata, in ordine alla crisi
di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale,  volto
a rendere compatibili la tutela dell'ambiente e della salute  con  il
mantenimento  dei  livelli  di  occupazione,  anche  in  presenza  di
provvedimenti di sequestro giudiziario degli impianti. 
    7.2.-  Premessa  generale  dell'applicabilita'  della  norma   in
questione e'  che  vi  sia  stata  la  revisione  dell'autorizzazione
integrata ambientale di cui all'art. 4,  comma  4,  lettera  c),  del
decreto  legislativo  3  aprile  2006,  n.  152  (Norme  in   materia
ambientale), come  modificato  dall'art.  2,  comma  1,  del  decreto
legislativo 29 giugno 2010, n.  128  (Modifiche  ed  integrazioni  al
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme  in  materia
ambientale, a norma dell'art. 12 della legge 18 giugno 2009, n. 69). 
    L'autorita'   competente   rilascia   l'AIA   solo   sulla   base
dell'adozione, da parte del  gestore  dell'impianto,  delle  migliori
tecnologie disponibili (MTD), di cui l'amministrazione  deve  seguire
l'evoluzione.  L'AIA  e'  dunque  un  provvedimento  per  sua  natura
"dinamico", in  quanto  contiene  un  programma  di  riduzione  delle
emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato (di norma  ogni
cinque anni), al fine di recepire gli aggiornamenti delle  tecnologie
cui sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica  nel  settore.
Questo principio e' fissato dall'art. 13 della direttiva  15  gennaio
2008, n. 2008/1/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del  Consiglio
sulla prevenzione  e  la  riduzione  integrate  dell'inquinamento)  e
attuato in Italia dall'art. 29-octies del  codice  dell'ambiente,  il
quale inoltre prevede (al comma 4) che si  faccia  luogo  al  riesame
dell'AIA quando: a) l'inquinamento provocato dall'impianto e' tale da
rendere necessaria la revisione; b) le  MTD  hanno  subito  modifiche
sostanziali, in grado di conseguire una  riduzione  delle  emissioni,
senza imporre costi eccessivi; c) la sicurezza dell'impianto richiede
l'impiego di altre tecniche; d) sono intervenute  nuove  disposizioni
normative comunitarie o nazionali. 
    Il comma 5 dello stesso art. 29-octies prevede, tra l'altro, che,
nel  caso  di  rinnovo  o  riesame  dell'autorizzazione,  l'autorita'
competente possa  consentire  deroghe  temporanee  ai  requisiti  del
provvedimento originario, purche' le nuove disposizioni assicurino il
rispetto degli stessi requisiti entro un  semestre,  ed  il  progetto
determini una riduzione dell'inquinamento. 
    7.3.- Ove si proceda al riesame  dell'AIA,  per  uno  dei  motivi
ricordati nel paragrafo precedente, il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare  puo'  autorizzare  la  prosecuzione
dell'attivita' produttiva per un periodo di  tempo  determinato,  non
superiore a 36 mesi, quando si tratti di stabilimenti  di  «interesse
strategico nazionale»,  individuati  come  tali  da  un  decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri. 
    La qualificazione di cui sopra implica: a) che nello stabilimento
sia occupato, da almeno un anno, un numero di lavoratori  subordinati
non inferiore a duecento, compresi quelli ammessi al  trattamento  di
integrazione dei guadagni; b)  che  vi  sia  assoluta  necessita'  di
salvaguardia dell'occupazione e della produzione;  c)  che  segua  un
provvedimento autorizzatorio del Ministro dell'ambiente, che pone  la
condizione dell'adempimento delle prescrizioni dell'AIA  riesaminata,
con il rispetto delle procedure e dei termini ivi  indicati;  d)  che
l'intervento sia esplicitamente finalizzato ad  «assicurare  la  piu'
adeguata tutela dell'ambiente e  della  salute  secondo  le  migliori
tecniche disponibili». 
    Il comma 4 del citato art. 1 prevede che le  disposizioni  citate
«trovano applicazione  anche  quando  l'autorita'  giudiziaria  abbia
adottato provvedimenti di sequestro sui  beni  dell'impresa  titolare
dello stabilimento. In tale caso i  provvedimenti  di  sequestro  non
impediscono,   nel   corso   del   periodo    di    tempo    indicato
nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attivita' di  impresa  a  norma
del comma 1». 
    7.4.- L'art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, al comma  2,  stabilisce
inoltre: «E'  fatta  comunque  salva  l'applicazione  degli  articoli
29-octies, comma 4, e 29-nonies e 29-decies del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, e successive  modificazioni».  Il  comma  3  del
medesimo art. 1 prevede, in caso di inosservanza  delle  prescrizioni
dell'AIA riesaminata, la «sanzione amministrativa pecuniaria fino  al
10 per cento del  fatturato  della  societa'  risultante  dall'ultimo
bilancio approvato». La disposizione precisa il contesto normativo in
cui la suddetta  sanzione  e'  applicabile:  «Fermo  restando  quanto
previsto dagli articoli 29-decies  e  29-quattuordecies  del  decreto
legislativo n. 152 del 2006 e dalle altre disposizioni  di  carattere
sanzionatorio penali e amministrative contenute  nelle  normative  di
settore [...]». 
    7.5.- E' utile ricordare che il citato art. 29-decies del  codice
dell'ambiente  (esplicitamente  richiamato  dalla  norma   censurata)
prevede una serie di controlli e interventi, a cura  delle  autorita'
competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente
intensita', in rapporto  alla  gravita'  delle  eventuali  violazioni
accertate. 
    In particolare:  1)  i  dati  forniti  dal  gestore  relativi  ai
controlli  sulle  emissioni   richiesti   dall'AIA   sono   messi   a
disposizione del pubblico, secondo le  procedure  previste  dall'art.
29-quater (pubblicazione su quotidiani ed indicazione, su tali organi
di  stampa,  degli   uffici   dove   e'   possibile   consultare   la
documentazione relativa); 2) l'Istituto superiore per la protezione e
la ricerca ambientale (ISPRA) deve accertare: a)  il  rispetto  delle
condizioni poste dall'AIA; b) la regolarita' dei controlli  a  carico
del gestore,  con  particolare  riferimento  alla  regolarita'  delle
misure e dei dispositivi di prevenzione dell'inquinamento nonche'  al
rispetto dei valori limite di emissione; c) l'osservanza da parte del
gestore degli obblighi di comunicazione periodica dei risultati della
sorveglianza sulle emissioni del proprio impianto, specie in caso  di
inconvenienti o  incidenti  che  influiscano  in  modo  significativo
sull'ambiente. 
    Possono essere disposte ispezioni  straordinarie  sugli  impianti
autorizzati alla prosecuzione dell'attivita'. 
    E' previsto altresi'  l'obbligo  del  gestore  di  fornire  tutta
l'assistenza tecnica  necessaria  per  lo  svolgimento  di  qualsiasi
verifica  relativa  all'impianto,  per  prelevare  campioni   o   per
raccogliere qualsiasi informazione necessaria. 
    Gli  esiti  dei  controlli  e  delle  ispezioni   devono   essere
comunicati all'autorita'  competente  ed  al  gestore,  indicando  le
situazioni di mancato rispetto delle  prescrizioni  e  proponendo  le
misure da adottare. 
    Ogni  organo  che  svolge  attivita'  di  vigilanza,   controllo,
ispezione  e  monitoraggio  sugli  impianti  e  che  abbia  acquisito
informazioni   in   materia    ambientale,    rilevanti    ai    fini
dell'applicazione delle norme del codice dell'ambiente, comunica tali
informazioni,  ivi  comprese   le   eventuali   notizie   di   reato,
all'autorita' competente. I risultati del controllo  delle  emissioni
richiesti  dalle  condizioni   dell'AIA   devono   essere   messi   a
disposizione del pubblico. 
    In   caso   di   inosservanza   delle   prescrizioni    contenute
nell'autorizzazione,  l'autorita'  competente  procede,  secondo   la
gravita' delle infrazioni: a) alla  diffida,  assegnando  un  termine
entro il quale devono essere  eliminate  le  irregolarita';  b)  alla
diffida e contestuale sospensione dell'attivita' autorizzata  per  un
tempo determinato, ove si  manifestino  situazioni  di  pericolo  per
l'ambiente; c) alla revoca dell'AIA e alla chiusura dell'impianto, in
caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la  diffida
e in caso di reiterate  violazioni,  che  determinino  situazioni  di
pericolo o di danno per l'ambiente. 
    Occorre ancora porre  in  rilievo  che  l'art.  29-quattuordecies
prevede sanzioni a carico di chi viola le  prescrizioni  dell'AIA,  o
quelle comunque imposte dall'autorita' competente, salvo che il fatto
costituisca piu'  grave  reato  (riferimento,  quest'ultimo,  che  si
risolve anche  nel  richiamo  alle  fattispecie  del  diritto  penale
comune). 
    8.- La semplice ricognizione  della  normativa  sui  controlli  e
sulle sanzioni, tuttora vigente ed  esplicitamente  richiamata  dalla
disposizione  censurata,  contraddice  per  tabulas   l'assunto   del
rimettente Giudice per le indagini preliminari, e cioe' che i 36 mesi
concessi ad una impresa, che abbia le caratteristiche  previste,  per
adeguare la propria attivita' all'AIA riesaminata, «costituiscono una
vera e propria "cappa" di totale "immunita'"  dalle  norme  penali  e
processuali». 
    Non  solo  la  disposizione  censurata  non   stabilisce   alcuna
immunita' penale per il periodo sopra  indicato,  ma,  al  contrario,
rinvia   esplicitamente   sia   alle   sanzioni    penali    previste
dall'ordinamento per i reati in materia ambientale,  sia  all'obbligo
di trasmettere, da parte delle autorita' addette alla vigilanza ed ai
controlli, le eventuali notizie di reato all'autorita'  "competente",
cioe' all'autorita' giudiziaria. 
    La stessa disposizione non introduce  peraltro  alcuna  forma  di
cancellazione  o  attenuazione  delle  responsabilita'  gravanti  sui
soggetti che abbiano compiuto violazioni delle norme penali  poste  a
presidio dell'ambiente e della salute. In  altri  termini,  la  norma
censurata non si configura ne' come abolitio criminis, ne'  come  lex
mitior, e non incide pertanto in alcun modo sulle  indagini,  tuttora
in corso, volte ad accertare la colpevolezza degli  attuali  indagati
nel procedimento principale, per i quali, allo  stato  presente,  non
risulta essere stata ancora formulata richiesta di rinvio a giudizio.
Tanto meno la disposizione e' idonea  a  spiegare  effetti  di  alcun
genere sull'eventuale, futuro processo penale a carico  dei  medesimi
soggetti. 
    L'idea  che  nel  periodo  previsto  dalla  norma  censurata  sia
possibile proseguire  senza  regole  l'attivita'  produttiva  deriva,
nella prospettazione del rimettente, dal rilievo che  le  sanzioni  -
come si e' visto, anche  penali  -  esplicitamente  richiamate  dalla
stessa «non possono comunque essere irrogate prima della scadenza dei
36 mesi. Unica sanzione applicabile prima dei  36  mesi  in  caso  di
inosservanza dei termini AIA e' quella, come  detto,  del  10  %  del
fatturato. Sanzione che ovviamente risulta  totalmente  inadeguata  a
tutelare salute ed ambiente». 
    Non e' dato comprendere  come  si  possa  trarre,  dalla  lettura
dell'art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, la conclusione che la  sanzione
pecuniaria fino al 10%  del  fatturato  sia  l'unica  irrogabile  nel
periodo considerato e che, dunque, la stessa  sia  sostitutiva  delle
altre sanzioni previste dalle leggi vigenti. E'  vero  il  contrario,
giacche' le espressioni usate dal legislatore - «fatta salva», «fermo
restando» -  si  riferiscono  in  modo  evidente  ad  una  disciplina
normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle
preesistenti  sanzioni  amministrative  e  penali,   la   fattispecie
introdotta dal comma 3 del citato art. 1, ovviamente  dalla  data  di
entrata in vigore del decreto-legge. 
    I motivi di  tale  aggravamento  di  responsabilita'  si  possono
rinvenire nell'esigenza di  prevedere  una  reazione  adeguata  delle
autorita' preposte alla  vigilanza  ed  ai  controlli  rispetto  alle
eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA  da  parte  di
una impresa, gia' responsabile di gravi irregolarita', cui  e'  stata
concessa la prosecuzione dell'attivita' produttiva  e  commerciale  a
condizione che la stessa  si  adegui  scrupolosamente  alle  suddette
prescrizioni. 
    Se  l'effetto  della  nuova  normativa  fosse  di  rinviare  alla
scadenza  del  periodo  previsto   ogni   intervento   correttivo   o
sanzionatorio nei confronti dell'impresa che gestisce lo stabilimento
di interesse strategico nazionale, cui e' consentita la continuazione
dell'attivita' nonostante il sequestro giudiziario, non avrebbe senso
la previsione - contenuta nel comma 4 dell'art. 3 del d.l. n. 207 del
2012 - di un Garante «incaricato di vigilare sulla  attuazione  delle
disposizioni del presente decreto». Secondo il comma 6  dello  stesso
articolo 3,  il  Garante  «acquisisce  le  informazioni  e  gli  atti
ritenuti necessari che  l'azienda,  le  amministrazioni  e  gli  enti
interessati devono tempestivamente fornire, segnalando al  Presidente
del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della  tutela
del territorio e del  mare  e  al  Ministro  della  salute  eventuali
criticita' riscontrate nell'attuazione della predetta  autorizzazione
e proponendo le idonee misure, ivi compresa l'eventuale  adozione  di
provvedimenti   di    amministrazione    straordinaria    anche    in
considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione». Lo  stesso
Garante deve promuovere tutte le iniziative  atte  a  realizzare  «la
massima trasparenza per i cittadini». 
    8.1.- Se si leggono tali previsioni in  combinazione  con  quelle
che dispongono la perdurante applicabilita', nel corso dei  36  mesi,
delle sanzioni  amministrative  e  penali  vigenti,  si  giunge  alla
conclusione che non solo non vi e' alcuna sospensione  dei  controlli
di legalita' sull'operato dell'impresa autorizzata alla  prosecuzione
dell'attivita', ma vi sono un rafforzamento ed  un  allargamento  dei
controlli  sull'osservanza  delle  prescrizioni  contenute   nell'AIA
riesaminata. 
    La distinzione tra la situazione normativa precedente all'entrata
in vigore della legge - e, nella generalita' dei  casi,  del  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all'art. 1, comma 1
-  e  l'attuale  disciplina  consiste  nel  fatto   che   l'attivita'
produttiva e'  ritenuta  lecita  alle  condizioni  previste  dall'AIA
riesaminata. Quest'ultima fissa modalita' e tempi  per  l'adeguamento
dell'impianto  produttivo  rispetto   alle   regole   di   protezione
dell'ambiente e della salute, entro il periodo considerato,  con  una
scansione  graduale  degli  interventi,  la  cui  inosservanza   deve
ritenersi  illecita  e  quindi  perseguibile  ai  sensi  delle  leggi
vigenti. 
    In conclusione sul punto, la norma censurata non rende  lecito  a
posteriori cio' che prima era illecito - e tale continua ad essere ai
fini  degli  eventuali  procedimenti  penali  instaurati   in   epoca
anteriore   all'autorizzazione   alla   prosecuzione   dell'attivita'
produttiva  -  ne'  "sterilizza",  sia   pure   temporaneamente,   il
comportamento futuro dell'azienda  rispetto  a  qualunque  infrazione
delle norme di salvaguardia dell'ambiente e della salute.  La  stessa
norma, piuttosto,  traccia  un  percorso  di  risanamento  ambientale
ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni  indicati  e  quella
dell'occupazione, cioe'  tra  beni  tutti  corrispondenti  a  diritti
costituzionalmente protetti. La  deviazione  da  tale  percorso,  non
dovuta a cause di forza maggiore,  implica  l'insorgenza  di  precise
responsabilita' penali, civili e  amministrative,  che  le  autorita'
competenti sono chiamate a far valere secondo le procedure ordinarie.
Non e' pertanto intaccato il potere-dovere del pubblico ministero  di
esercitare l'azione penale, previsto dall'art. 112 Cost., che e'  pur
sempre da inquadrare nelle condizioni  generali  poste  dal  contesto
normativo vigente, ove, dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 207  del
2012,  e'  considerata   lecita   la   continuazione   dell'attivita'
produttiva di  aziende  sottoposte  a  sequestro,  a  condizione  che
vengano osservate le prescrizioni dell'AIA riesaminata,  nelle  quali
si riassumono le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano  la
prosecuzione dell'attivita' stessa. 
    Non e' vero neppure che la disciplina abbia  inibito  il  ricorso
allo strumento cautelare nell'ambito dei  procedimenti  penali  volti
all'accertamento di eventuali illeciti,  commessi  prima  o  dopo  il
rilascio del provvedimento riesaminato, ove ricorrano nuove  esigenze
di cautela. Il comma 4 dell'art. 1 consente chiaramente la permanenza
delle  misure  gia'  adottate  e  mira  solo  ad  escludere   che   i
provvedimenti di sequestro, presenti o futuri,  possano  impedire  la
prosecuzione dell'attivita' produttiva a norma del comma 1. 
    8.2.- Speculare rispetto al  perdurante  potere  delle  autorita'
competenti di accertare le responsabilita' dei titolari  dell'impresa
de qua e' il diritto dei  cittadini,  che  si  ritengano  lesi  nelle
proprie  situazioni  giuridiche  soggettive,  di  adire  il   giudice
competente per ottenere i  provvedimenti  riparatori  e  sanzionatori
previsti dalle leggi vigenti. Tale diritto non  e'  inciso  in  senso
sfavorevole dalla norma censurata, ma  inserito,  come  ogni  pretesa
giuridica, nel contesto normativo di riferimento, che, come  chiarito
sopra, non azzera e neppure sospende il controllo di legalita', ma lo
riconduce alla verifica dell'osservanza delle prescrizioni di  tutela
dell'ambiente e della salute contenute nell'AIA riesaminata. 
    In definitiva, i cittadini non sono privati del diritto di  agire
in  giudizio  per  la  tutela  delle  proprie  situazioni  giuridiche
soggettive, con relative domande risarcitorie, di cui agli artt. 24 e
113 Cost. 
    9.-  La  ratio  della   disciplina   censurata   consiste   nella
realizzazione   di   un   ragionevole   bilanciamento   tra   diritti
fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla  salute
(art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all'ambiente salubre, e  al
lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva  l'interesse  costituzionalmente
rilevante al mantenimento dei  livelli  occupazionali  ed  il  dovere
delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. 
    Tutti i  diritti  fondamentali  tutelati  dalla  Costituzione  si
trovano in rapporto di integrazione  reciproca  e  non  e'  possibile
pertanto individuare uno di essi che  abbia  la  prevalenza  assoluta
sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata
in una serie di norme non coordinate ed in potenziale  conflitto  tra
loro»  (sentenza  n.  264  del  2012).  Se  cosi'   non   fosse,   si
verificherebbe  l'illimitata  espansione  di  uno  dei  diritti,  che
diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni  giuridiche
costituzionalmente riconosciute e protette,  che  costituiscono,  nel
loro insieme, espressione della dignita' della persona. 
    Per le ragioni esposte, non si  puo'  condividere  l'assunto  del
rimettente  giudice  per  le  indagini   preliminari,   secondo   cui
l'aggettivo «fondamentale», contenuto  nell'art.  32  Cost.,  sarebbe
rivelatore di un  «carattere  preminente»  del  diritto  alla  salute
rispetto a tutti i diritti della persona. Ne' la definizione data  da
questa Corte dell'ambiente  e  della  salute  come  «valori  primari»
(sentenza n.  365  del  1993,  citata  dal  rimettente)  implica  una
"rigida"  gerarchia  tra  diritti   fondamentali.   La   Costituzione
italiana,  come  le  altre  Costituzioni  democratiche  e  pluraliste
contemporanee, richiede un continuo e vicendevole  bilanciamento  tra
principi e diritti fondamentali, senza  pretese  di  assolutezza  per
nessuno  di  essi.  La  qualificazione  come  "primari"  dei   valori
dell'ambiente e della salute significa pertanto che  gli  stessi  non
possono   essere   sacrificati   ad   altri   interessi,    ancorche'
costituzionalmente tutelati, non gia' che gli stessi siano posti alla
sommita' di un ordine gerarchico assoluto. Il  punto  di  equilibrio,
proprio perche' dinamico e non prefissato in  anticipo,  deve  essere
valutato - dal  legislatore  nella  statuizione  delle  norme  e  dal
giudice delle leggi  in  sede  di  controllo  -  secondo  criteri  di
proporzionalita' e di  ragionevolezza,  tali  da  non  consentire  un
sacrificio del loro nucleo essenziale. 
    10.- Lo stesso giudice rimettente ritiene che la norma  censurata
«annienti completamente il diritto  alla  salute  e  ad  un  ambiente
salubre a  favore  di  quello  economico  e  produttivo».  Se  questa
valutazione  fosse  rispondente  alla  realta'   normativa,   ci   si
troverebbe senza dubbio di fronte  ad  una  violazione  dell'art.  32
Cost., in quanto  nessuna  esigenza,  per  quanto  costituzionalmente
fondata, potrebbe giustificare la totale compromissione della  salute
e dell'ambiente, per le ragioni prima  illustrate.  Tale  conclusione
non e' tuttavia suffragata da una analisi puntuale della disposizione
censurata. 
    10.1.-  Come   si   e'   rilevato   nei   paragrafi   precedenti,
l'autorizzazione  al  proseguimento  dell'attivita'   produttiva   e'
subordinata, dall'art.  1,  comma  1,  del  d.l.  n.  207  del  2012,
all'osservanza delle prescrizioni dell'AIA riesaminata. La natura  di
tale atto e' amministrativa, con la conseguenza che contro lo  stesso
sono azionabili tutti  i  rimedi  previsti  dall'ordinamento  per  la
tutela dei diritti soggettivi e  degli  interessi  legittimi  davanti
alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. 
    Il richiamo operato in generale  dalla  legge  ha  il  valore  di
costante condizionamento della prosecuzione dell'attivita' produttiva
alla   puntuale   osservanza   delle   prescrizioni   contenute   nel
provvedimento   autorizzatorio,   che   costituisce   l'esito   della
confluenza di plurimi contributi  tecnici  ed  amministrativi  in  un
unico procedimento, nel  quale,  in  conformita'  alla  direttiva  n.
2008/1/CE, devono  trovare  simultanea  applicazione  i  principi  di
prevenzione,  precauzione,  correzione  alla  fonte,  informazione  e
partecipazione,  che  caratterizzano   l'intero   sistema   normativo
ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell'AIA, con le
sue caratteristiche di partecipazione e di  pubblicita',  rappresenta
lo strumento attraverso il quale si perviene,  nella  previsione  del
legislatore, all'individuazione del punto  di  equilibrio  in  ordine
all'accettabilita'  e  alla  gestione  dei   rischi,   che   derivano
dall'attivita' oggetto dell'autorizzazione. 
    Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la
verifica dell'efficacia delle prescrizioni. Cio' chiama in  causa  la
funzione di controllo dell'amministrazione, che si avvale dell'ISPRA,
con la possibilita' che, in caso di accertata inosservanza  da  parte
dei gestori degli impianti, si applichino misure  che  vanno  -  come
gia' rilevato sopra  -  sino  alla  revoca  dell'autorizzazione,  con
chiusura  dell'impianto,  in  caso  di   mancato   adeguamento   alle
prescrizioni  imposte  con  la  diffida  o  a  fronte  di   reiterate
violazioni che determinino pericolo o danno per l'ambiente. 
    Le prescrizioni e misure  contenute  nell'AIA  possono  rivelarsi
inefficaci,   sia    per    responsabilita'    dei    gestori,    sia
indipendentemente da ogni responsabilita' soggettiva.  In  tal  caso,
trova applicazione la disciplina contenuta nell'art. 29-octies, comma
4, del codice dell'ambiente, che impone all'amministrazione di aprire
il procedimento di riesame. 
    10.2.- La norma censurata parte da questo  momento  critico,  nel
quale sono accertate le carenze dell'AIA gia' rilasciata (che possono
aver dato luogo anche a provvedimenti giudiziari  di  sequestro),  ed
avvia un secondo procedimento, che  sfocia  nel  rilascio  di  un'AIA
"riesaminata", nella  quale,  secondo  le  procedure  previste  dalla
legge, sono valutate le insufficienze delle precedenti prescrizioni e
si provvede a dettarne di nuove,  maggiormente  idonee  -  anche  per
l'ausilio di piu' efficaci tecnologie - ad evitare il  ripetersi  dei
fenomeni  di  inquinamento,  che  hanno  portato   all'apertura   del
procedimento di riesame. 
    In  definitiva,  l'AIA  riesaminata  indica  un  nuovo  punto  di
equilibrio, che consente, secondo la  norma  censurata  nel  presente
giudizio,  la  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva   a   diverse
condizioni, nell'ambito delle quali l'attivita'  stessa  deve  essere
ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato
dal legislatore necessario  e  sufficiente  a  rimuovere,  anche  con
investimenti straordinari da parte dell'impresa interessata, le cause
dell'inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute
delle popolazioni. 
    10.3.- Lo schema generale della norma censurata prevede quindi la
combinazione tra un atto amministrativo - che tale  rimane,  come  si
vedra' piu' avanti, anche secondo la disciplina dettata per l'Ilva di
Taranto - ed una previsione legislativa, che  assume  come  punto  di
partenza il nuovo equilibrio  tra  produzione  e  ambiente  delineato
nell'AIA riesaminata. L'individuazione  del  bilanciamento,  che  da'
vita alla nuova AIA, e', come si e' visto, il  risultato  di  apporti
plurimi, tecnici e amministrativi, che puo' essere contestato davanti
al giudice competente, nel caso si  lamentino  vizi  di  legittimita'
dell'atto da parte di  cittadini  che  si  ritengano  lesi  nei  loro
diritti e interessi legittimi. 
    Lo stesso atto, peraltro, non puo' essere contestato  nel  merito
delle scelte  compiute  dalle  amministrazioni  competenti,  che  non
possono essere sostituite da altre  nella  valutazione  discrezionale
delle misure idonee a  tutelare  l'ambiente  ed  a  prevenire  futuri
inquinamenti,  quando  l'esercizio  di  tale   discrezionalita'   non
trasmodi  in  un  vizio  denunciabile  nelle   sedi   giurisdizionali
competenti.  Il  punto  di  equilibrio  contenuto  nell'AIA  non   e'
necessariamente il migliore  in  assoluto  -  essendo  ben  possibile
nutrire altre opinioni sui  mezzi  piu'  efficaci  per  conseguire  i
risultati voluti - ma deve  presumersi  ragionevole,  avuto  riguardo
alle garanzie predisposte dall'ordinamento quanto  all'intervento  di
organi tecnici e del personale competente;  all'individuazione  delle
migliori  tecnologie  disponibili;  alla  partecipazione  di  enti  e
soggetti diversi nel procedimento  preparatorio  e  alla  pubblicita'
dell'iter formativo, che mette cittadini e comunita' nelle condizioni
di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche  giudiziari,
nelle ipotesi di illegittimita', i loro punti di vista. 
    E'  appena  il  caso  di  aggiungere  che   non   rientra   nelle
attribuzioni del giudice una sorta di "riesame del riesame" circa  il
merito  dell'AIA,  sul  presupposto  -  come  sembra  emergere  dalle
considerazioni del rimettente, di cui si dira' piu' avanti, prendendo
in esame le norme relative allo stabilimento Ilva di Taranto - che le
prescrizioni dettate dall'autorita' competente siano insufficienti  e
sicuramente inefficaci nel futuro. In altre parole, le  opinioni  del
giudice, anche se fondate su  particolari  interpretazioni  dei  dati
tecnici a sua disposizione, non possono sostituirsi alle  valutazioni
dell'amministrazione sulla tutela dell'ambiente, rispetto alla futura
attivita' di un'azienda, attribuendo in partenza  una  qualificazione
negativa alle condizioni poste per l'esercizio dell'attivita' stessa,
e neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia. 
    10.4.- In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione
tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1
del d.l. n. 207 del 2012) determina le condizioni e  i  limiti  della
liceita' della prosecuzione di un'attivita' produttiva per  un  tempo
definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento -  dichiarato,  nei
modi previsti dalla legge, di interesse strategico nazionale -  abbia
procurato  inquinamento  dell'ambiente,   al   punto   da   provocare
l'intervento  cautelare  dell'autorita'  giudiziaria.  La   normativa
censurata non prevede, infatti,  la  continuazione  pura  e  semplice
dell'attivita', alle medesime condizioni che avevano reso  necessario
l'intervento repressivo dell'autorita' giudiziaria, ma  impone  nuove
condizioni, la cui osservanza deve essere continuamente  controllata,
con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle  leggi
vigenti per i  comportamenti  illecitamente  lesivi  della  salute  e
dell'ambiente. Essa e' pertanto ispirata alla finalita' di attuare un
non irragionevole bilanciamento tra i  principi  della  tutela  della
salute e dell'occupazione, e non al totale annientamento del primo. 
    11.- La norma generale censurata non si pone in contrasto con  il
principio di eguaglianza,  di  cui  all'art.  3  Cost.,  perche'  non
introduce - come invece affermano i rimettenti -  una  ingiustificata
differenziazione di disciplina tra stabilimenti "strategici" e  altri
impianti, sulla base di un  atto  amministrativo  -  un  decreto  del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  -  dotato   di   eccessiva
discrezionalita',  derivante  dalla  genericita'   dei   criteri   di
individuazione di tali stabilimenti. 
    Si deve  osservare,  in  proposito,  che  l'interesse  strategico
nazionale ad una produzione, piuttosto che ad un'altra,  e'  elemento
variabile, in quanto legato alle congiunture economiche e ad un'altra
serie di fattori non  predeterminabili  (effetti  della  concorrenza,
sviluppo tecnologico, andamento della filiera  di  un  certo  settore
industriale  etc.).   Si   giustifica   pertanto   l'ampiezza   della
discrezionalita' che la norma censurata riconosce al Governo,  e  per
esso al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto  organi  che
concorrono a definire la politica industriale del Paese. Trattandosi,
peraltro, di provvedimento amministrativo, il decreto del  Presidente
del Consiglio dei ministri puo' essere oggetto  di  impugnazione,  al
pari dell'AIA riesaminata del Ministro dell'ambiente, che, secondo la
medesima norma, consente la prosecuzione  dell'attivita'  produttiva,
anche in presenza di sequestri dell'autorita' giudiziaria. 
    Quanto all'indice numerico dei lavoratori occupati, va  ricordato
che si tratta della soglia  gia'  utilizzata  dal  legislatore  nella
disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato di insolvenza, di cui all'art.  2  del  decreto  legislativo  8
luglio  1999,   n.   270   (Nuova   disciplina   dell'amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di  insolvenza,  a  norma
dell'articolo 1  della  legge  30  luglio  1998,  n.  274).  In  tale
disciplina, la tutela dell'attivita' imprenditoriale  e  dei  livelli
occupazionali, come indicati, giustifica la sottrazione  dell'impresa
insolvente al fallimento e l'ingresso in una procedura concorsuale ad
hoc,  con  finalita'  di  conservazione  delle  attivita'  aziendali,
mediante prosecuzione, riattivazione e riconversione dell'esercizio. 
    La norma censurata presenta caratteristiche analoghe,  in  quanto
mira a perpetuare l'esistenza di  grandi  aziende,  la  cui  chiusura
avrebbe gravi effetti sui livelli di occupazione. Si tratta quindi di
una  disciplina   differenziata   per   situazioni   a   loro   volta
differenziate,  meritevoli  di  specifica  attenzione  da  parte  del
legislatore, che non viola  pertanto  il  principio  di  eguaglianza.
Quest'ultimo  impone  -   come   emerge   dalla   nota   e   costante
giurisprudenza di questa Corte -  discipline  eguali  per  situazioni
eguali e discipline diverse per situazioni  diverse,  con  il  limite
generale dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza,  che  non
viene nella fattispecie superato, giacche' le ricadute  sull'economia
nazionale e sui livelli di occupazione sono  diverse,  per  l'effetto
combinato  dei  fattori  cui  prima  si  faceva  cenno.  Sarebbe,  al
contrario, irragionevole una  disciplina  che  parificasse  tutte  le
aziende produttive, a prescindere dalla loro dimensione  e  incidenza
sul  mercato  e,  quindi,  dagli  effetti  che  la   loro   scomparsa
determinerebbe. 
    12.- L'art. 3, comma 1,  del  d.l.  n.  207  del  2012  individua
direttamente nell'impianto siderurgico della societa' Ilva di Taranto
uno stabilimento di interesse strategico nazionale, di  cui  all'art.
1, comma 1, del medesimo atto normativo. 
    Si tratta di legge in luogo di provvedimento, poiche' sostituisce
il proprio dettato  al  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri previsto dalla norma generale. 
    12.1.- Come e' noto, la prevalente dottrina e  la  giurisprudenza
di questa Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile,
in  se'  e  per  se',  con  l'assetto  dei  poteri  stabilito   dalla
Costituzione. In particolare, si deve ribadire  in  questa  sede  che
«nessuna disposizione costituzionale [...] comporta una riserva  agli
organi  amministrativi  o  "esecutivi"   degli   atti   a   contenuto
particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del 1989). 
    Le leggi provvedimento devono soggiacere tuttavia «ad un rigoroso
scrutinio  di  legittimita'  costituzionale  per   il   pericolo   di
disparita' di trattamento insito in previsioni di tipo particolare  e
derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1997; in senso conforme,
sentenza n. 20 del 2012). 
    Questa  Corte  ha   inoltre   precisato   che   la   legittimita'
costituzionale di tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro
specifico contenuto, con la conseguenza che devono emergere i criteri
che ispirano le scelte  con  esse  realizzate,  nonche'  le  relative
modalita' di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137  del  2009,  n.
267 del 2007 e  n.  492  del  1995).  Poiche'  gli  atti  legislativi
normalmente non contengono motivazioni,  «e'  sufficiente  che  detti
criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano
desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa,  in  base
agli ordinari strumenti ermeneutici» (sentenza n. 270 del 2010). 
    Con riferimento alla funzione giurisdizionale,  questa  Corte  ha
stabilito altresi' che non puo' essere consentito al  legislatore  di
«risolvere, con la forma della legge, specifiche  controversie  e  di
vanificare gli effetti  di  una  pronuncia  giurisdizionale  divenuta
intangibile, violando i principi  relativi  ai  rapporti  tra  potere
legislativo e potere giurisdizionale  e  concernenti  la  tutela  dei
diritti e degli  interessi  legittimi»  (sentenza  n.  94  del  2009,
conforme a sentenza n. 374 del 2000). 
    La giurisprudenza della Corte EDU ha costantemente affermato  che
«il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto  processo
custoditi nell'art. 6 precludono, tranne che per  impellenti  ragioni
di  interesse  pubblico,  l'interferenza  dell'assemblea  legislativa
nell'amministrazione  della  giustizia  al  fine  di  influenzare  la
determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte EDU, sez.  II,
sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia, in  conformita'  alla
giurisprudenza precedente). 
    Dal canto suo, la  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea  ha
costantemente affermato che  contro  tutti  gli  atti,  anche  aventi
natura legislativa, «gli Stati devono prevedere  la  possibilita'  di
accesso  a  una  procedura   di   ricorso   dinanzi   a   un   organo
giurisdizionale  o  ad  altro  organo  indipendente   ed   imparziale
istituito dalla legge» (sentenza 16 febbraio 2012, in causa C-182/10,
Solvay et al. vs. Region wallone, in conformita' alla  giurisprudenza
precedente). 
    12.2.- Con riferimento all'individuazione  diretta  dell'impianto
siderurgico della societa' Ilva  di  Taranto  come  «stabilimento  di
interesse strategico nazionale», si deve osservare che a  Taranto  si
e' verificata una situazione grave ed eccezionale, che ha indotto  il
legislatore  ad  omettere,  per  ragioni  di  urgenza,  il  passaggio
attraverso un decreto del Presidente del Consiglio  dei  ministri  in
vista della qualificazione di cui sopra. 
    Sia la normativa  generale  che  quella  particolare  si  muovono
quindi nell'ambito di una situazione di emergenza ambientale, dato il
pregiudizio recato all'ambiente e  alla  salute  degli  abitanti  del
territorio circostante, e di emergenza occupazionale, considerato che
l'eventuale chiusura dell'Ilva potrebbe determinare  la  perdita  del
posto di lavoro per molte migliaia di persone  (tanto  piu'  numerose
comprendendo il cosiddetto indotto). La  temporaneita'  delle  misure
adottate risponde, inoltre,  ad  una  delle  condizioni  poste  dalla
giurisprudenza di questa  Corte  perche'  una  legislazione  speciale
fondata sull'emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile
(sentenza n. 418 del 1992). Le  brevi  notazioni  in  fatto  relative
all'incidenza, sull'ambiente e  sull'occupazione  nel  territorio  di
Taranto,  dell'attivita'  produttiva  dell'Ilva   consentono,   nella
fattispecie, di rinvenire la ratio dell'intervento  legislativo  «nel
peculiare regime che connota le situazioni di emergenza» (sentenza n.
237 del 2007). 
    Il legislatore ha ritenuto di dover  scongiurare  una  gravissima
crisi occupazionale, di peso  ancor  maggiore  nell'attuale  fase  di
recessione  economica  nazionale  e  internazionale,  senza  tuttavia
sottovalutare la grave compromissione della salubrita' dell'ambiente,
e  quindi  della  salute  delle  popolazioni  presenti   nelle   zone
limitrofe. 
    Si deve notare,  al  proposito,  che  l'AIA  riesaminata  del  26
ottobre 2012, esplicitamente richiamata  dall'art.  3  in  esame,  ha
anticipato di quattro anni l'obbligo di adeguamento alle  conclusioni
delle migliori tecniche disponibili relative al settore  siderurgico,
di cui alla decisione della Commissione europea n. 2012/135/UE,  gia'
citata. Difatti, il considerando  8  di  tale  decisione,  dopo  aver
richiamato l'art. 21 della  direttiva  n.  2010/75/UE,stabilisce  che
«entro quattro anni dalla data di pubblicazione delle decisioni sulle
conclusioni sulle BAT [MTD], l'autorita' competente riesamina  e,  se
necessario,  aggiorna  tutte  le  condizioni  di   autorizzazione   e
garantisce che l'installazione sia  conforme  a  tali  condizioni  di
autorizzazione». 
    Si deve pure sottolineare che l'art. 3 del d.l. n. 207  del  2012
non apporta alcuna deroga alla normativa generale contenuta nell'art.
1, ma si limita a dare alla stessa pedissequa esecuzione,  per  mezzo
di un provvedimento con forza di legge, che e' un atto  del  Governo,
di cui fa parte il Presidente del Consiglio dei ministri,  sottoposto
al controllo del Parlamento in sede  di  conversione  e  della  Corte
costituzionale in sede di giudizio incidentale,  come  effettivamente
avvenuto  nel  caso  presente.  Ne'  puo'  dirsi,  come  afferma   il
rimettente  Giudice  per  le  indagini  preliminari,  che  la   forma
legislativa   dell'individuazione   dell'Ilva   di    Taranto    come
«stabilimento  di  interesse  strategico  nazionale»  comprometta  il
diritto di  tutela  giurisdizionale,  che  sarebbe  possibile  invece
esercitare in presenza di un atto  amministrativo.  Questa  Corte  ha
infatti osservato che «in assenza  nell'ordinamento  attuale  di  una
"riserva di amministrazione"  opponibile  al  legislatore,  non  puo'
ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilita'  di  attrarre
nella propria sfera  di  disciplina  oggetti  o  materie  normalmente
affidate all'azione amministrativa [...] con la  conseguenza  che  il
diritto di  difesa  [...]  non  risultera'  annullato,  ma  verra'  a
connotarsi secondo il regime tipico dell'atto  legislativo  adottato,
trasferendosi dall'ambito della  giustizia  amministrativa  a  quello
proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993). 
    Non  ha   neppure   fondamento   l'affermazione,   dello   stesso
rimettente,  che  vi   sia   stata   una   "legificazione"   dell'AIA
riesaminata, con la conseguenza che contro tale atto  amministrativo,
nel caso specifico dell'Ilva di Taranto, non sarebbero  esperibili  i
normali rimedi giurisdizionali. E' vero, al contrario, che  l'AIA  e'
pur  sempre  -  come  statuito  in  via  generale  dall'art.  1,  non
contraddetto dall'art. 3 - un presupposto per l'applicabilita'  dello
speciale   regime   giuridico,   che   consente   la    continuazione
dell'attivita' produttiva alle condizioni  ivi  previste.  In  quanto
presupposto, essa rimane esterna all'atto legislativo, con  tutte  le
conseguenze, in termini di controllo di legalita', da cio' derivanti.
Il comma 2 dell'art. 3 richiama l'AIA del 26 ottobre 2012 allo  scopo
di   ribadire   lo   stretto   condizionamento   della   prosecuzione
dell'attivita' all'osservanza delle nuove prescrizioni poste a tutela
dell'ambiente e della salute, ferma restando naturalmente  la  natura
dinamica  del  provvedimento,   che   puo'   essere   successivamente
modificato  e  integrato,  con  relativa  possibilita'  di   puntuali
controlli in sede giurisdizionale. In altri  termini,  sia  la  norma
generale, sia  quella  che  si  riferisce  in  concreto  all'Ilva  di
Taranto,  si  interpretano  agevolmente  nel  senso   che   l'azienda
interessata e' vincolata al  rispetto  delle  prescrizioni  dell'AIA,
quale e' e quale sara' negli eventuali  sviluppi  successivi,  e  che
l'entrata in vigore del d.l. n. 207 del  2012  non  ha  precluso  ne'
preclude tutti i rimedi giurisdizionali  esperibili  riguardo  ad  un
atto amministrativo. 
    La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l'esistenza  di
una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi,  ove  gli
stessi siano richiamati in una disposizione legislativa,  tranne  che
la natura recettizia del rinvio stesso emerga  in  modo  univoco  dal
testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa,  che
non ricorre necessariamente neppure quando  l'atto  sia  indicato  in
modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e  n.
536 del 1990).  Come  puo'  chiaramente  desumersi  dal  testo  della
disposizione censurata, l'intento del legislatore non e' stato quello
di incorporare l'AIA  nella  legge,  ma  solo  di  prevedere  -  come
illustrato  nel  paragrafo  10  -  un  effetto  combinato   di   atto
amministrativo e legge, effetto che mantiene la sua peculiarita' e la
sua efficienza rispetto al fine, a condizione che rimangano ferme  la
natura dell'uno e dell'altra. 
    12.3.- Dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 207 del  2012  -  che
contiene sia la disciplina generale dell'attivita' degli stabilimenti
di interesse strategico nazionale sottoposti ad AIA riesaminata,  sia
la diretta individuazione dell'Ilva di Taranto come  destinataria  di
tale normativa - il sequestro del materiale  prodotto,  disposto  dal
Giudice  per  le  indagini  preliminari,  e  il  divieto  della   sua
commercializzazione, hanno perduto il loro presupposto giuridico, che
consisteva nell'inibizione, derivante dal precedente sequestro, della
facolta' d'uso dello stabilimento. Quest'ultimo infatti trova la  sua
unica funzione nella produzione dell'acciaio e tale attivita', a  sua
volta, ha senso solo se lo stesso puo' essere commercializzato. 
    Occorre notare come la disciplina generale, di cui all'art. 1 del
decreto-legge citato, preveda che, anche in costanza di provvedimenti
di sequestro dei beni dell'impresa titolare  dello  stabilimento,  e'
consentito «l'esercizio dell'attivita' di  impresa»  (comma  4),  che
comprende sia la produzione che la commercializzazione del  materiale
prodotto, l'una inscindibilmente connessa all'altra. Tanto  la  norma
generale appena richiamata,  quanto  quella  particolare  riferentesi
all'Ilva di Taranto, non  prevedono  ne'  dispongono  la  revoca  dei
sequestri disposti  dall'autorita'  giudiziaria,  ma  autorizzano  la
prosecuzione  dell'attivita'  per  un  periodo   determinato   ed   a
condizione dell'osservanza delle prescrizioni  dell'AIA  riesaminata.
La ratio delle  due  discipline  e'  dunque  che  si  proceda  ad  un
graduale, intenso processo di risanamento degli impianti,  dal  punto
di vista delle emissioni nocive alla  salute  e  all'ambiente,  senza
dover necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento,  con
conseguente nocumento per l'attivita' economica, che determinerebbe a
sua volta un elevato incremento del  tasso  di  disoccupazione,  gia'
oggi  difficilmente  sostenibile  per  i  suoi  costi   sociali.   Se
l'adeguamento  della  struttura  produttiva  non  dovesse   procedere
secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo,
sarebbe cura delle autorita' amministrative preposte al controllo - e
della  stessa  autorita'  giudiziaria,  nell'ambito   delle   proprie
competenze - di adottare  tutte  le  misure  idonee  e  necessarie  a
sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze. 
    12.4.- Il rimettente Giudice per le indagini preliminari  lamenta
che il comma 3 dell'art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 abbia  invaso  la
sfera  di  competenza  costituzionalmente   riservata   all'autorita'
giudiziaria ed abbia quindi violato il  principio  della  separazione
dei poteri. La lesione sarebbe dovuta sia alla reimmissione dell'Ilva
S.p.A. nel possesso dei beni aziendali, sia  all'autorizzazione  alla
commercializzazione dei  prodotti,  ivi  compresi  quelli  realizzati
antecedentemente  alla  data  di  entrata  in  vigore  del   medesimo
decreto-legge. Sarebbe stata, in particolare, violata la  riserva  di
giurisdizione, desumibile dal combinato  disposto  degli  artt.  102,
primo comma, e 104, primo comma,  Cost.  Tale  riserva  implicherebbe
l'intangibilita' del giudicato, che, nella specie,  si  presenterebbe
come «giudicato cautelare», dato che il provvedimento di riesame  sul
sequestro  degli  impianti  non  e'  stato  oggetto  di  ricorso  per
cassazione, e che la societa' Ilva ha rinunciato al gravame  proposto
contro l'analogo provvedimento assunto per  i  materiali  lavorati  e
semilavorati. 
    Si deve precisare preliminarmente che  il  cosiddetto  «giudicato
cautelare» non consiste in una decisione giurisdizionale  definitiva,
che  conclude  un  processo,  ma  e'  un'espressione   di   creazione
giurisprudenziale - oggetto tuttora  di  discussioni  ed  ancora  non
precisato in alcuni  suoi  aspetti  -  con  cui  viene  indicata  una
preclusione endoprocessuale. Si  deve  altresi'  osservare  che  tale
preclusione opera rebus sic stantibus, con la  conseguenza  che  ogni
mutamento  significativo  del  quadro  materiale   o   normativo   di
riferimento vale a rimuoverla, reintroducendo il dovere  del  giudice
di valutare compiutamente l'intera situazione. 
    Sulla base delle precedenti considerazioni, si deve escludere che
la  norma  censurata  abbia  travolto  un   "giudicato"   nel   senso
tecnico-processuale del termine, e  cioe'  -  giova  ripeterlo  -  la
decisione  giudiziale  definitiva  di  una  controversia.   Si   deve
ritenere, invece, che la  disposizione  abbia  modificato  il  quadro
normativo sulla cui  base  sono  stati  emessi  alcuni  provvedimenti
cautelari, ed abbia creato pertanto una nuova situazione di  fatto  e
di diritto, in quanto  la  produzione  puo'  riprendere  non  con  le
modalita'  precedenti  -  che  avevano  dato   luogo   all'intervento
dell'autorita' giudiziaria - ma con modalita'  nuove  e  parzialmente
diverse, ponendo le premesse perche' si verifichino in  futuro  fatti
che dovranno essere nuovamente valutati dai giudici, ove aditi  nelle
forme rituali. 
    12.5.- Occorre inoltre mettere maggiormente a fuoco la nozione di
"riserva di giurisdizione", posta dai rimettenti a  fondamento  della
lamentata violazione del principio della separazione dei poteri. 
    Con tale espressione si possono  indicare  due  distinti,  seppur
collegati, principi, entrambi presenti nella Costituzione. 
    Il primo - enunciato in modo esplicito  da  una  serie  di  norme
costituzionali (artt. 13, 14, 15 e 21) -  consiste  nella  necessita'
che tutti i provvedimenti restrittivi di alcune liberta' fondamentali
debbano   essere   adottati   «con   atto   motivato   dell'autorita'
giudiziaria», a garanzia  del  modo  indipendente  ed  imparziale  di
applicare la legge in  questo  campo.  Intesa  in  questo  senso,  la
riserva di giurisdizione risulta evidentemente  estranea  all'odierno
giudizio. 
    Il secondo  principio  -  non  enunciato  esplicitamente  da  una
singola  norma  costituzionale,  ma  chiaramente  desumibile  in  via
sistematica da tutto il Titolo IV della Parte II della Costituzione -
consiste nella esclusiva competenza dei giudici - ordinari e speciali
- a definire con una pronuncia secondo diritto le  controversie,  che
coinvolgano diritti soggettivi o interessi legittimi, loro sottoposte
secondo le modalita' previste  dall'ordinamento  per  l'accesso  alle
diverse giurisdizioni. Con riferimento alla giurisdizione penale,  la
«riserva di sentenza», di cui sinora s'e' detto, e'  integrata  nella
Costituzione   italiana   dalla   riserva   al   pubblico   ministero
dell'esercizio  dell'azione  penale,  che   costituisce   un   potere
esclusivo,  ma  anche  un  dovere  dei  titolari  di  tale   funzione
giudiziaria (art. 112 Cost.). 
    L'esame delle norme impugnate nel presente giudizio conduce  alla
conclusione che non vi e' violazione della "riserva di giurisdizione"
neppure nella seconda, piu' ampia, accezione illustrata. 
    Pende attualmente davanti all'Autorita' giudiziaria di Taranto un
procedimento penale - ancora nella fase delle indagini preliminari  -
volto ad accertare la responsabilita' penale di alcuni  soggetti,  in
relazione   a   reati,   di   danno   e   di   pericolo,    derivanti
dall'inquinamento provocato negli anni passati  dall'attivita'  dello
stabilimento siderurgico Ilva S.p.A., attivita' che si assume  tenuta
in violazione di  norme  e  prescrizioni  a  tutela  della  salute  e
dell'ambiente. 
    Si puo'  rilevare  con  certezza  che  nessuna  delle  norme  qui
censurate e'  idonea  ad  incidere,  direttamente  o  indirettamente,
sull'accertamento  delle  predette  responsabilita',  e  che   spetta
naturalmente  all'autorita'  giudiziaria,  all'esito  di  un   giusto
processo, l'eventuale  applicazione  delle  sanzioni  previste  dalla
legge. Come si e' gia'  chiarito  al  paragrafo  8,  le  disposizioni
censurate  non  cancellano  alcuna  fattispecie  incriminatrice   ne'
attenuano  le  pene,  ne'   contengono   norme   interpretative   e/o
retroattive in grado di influire in  qualsiasi  modo  sull'esito  del
procedimento penale in corso, come  invece  si  e'  verificato  nella
maggior parte dei casi, di cui  si  sono  dovute  occupare  la  Corte
costituzionale italiana e  la  Corte  di  Strasburgo  nelle  numerose
pronunce  risolutive  di  dubbi  di  legittimita'  riguardanti  leggi
produttive di effetti sulla definizione di processi in corso. 
    12.6.- Residua il problema della legittimita'  dell'incidenza  di
una   norma   legislativa   su   provvedimenti   cautelari   adottati
dall'autorita' giudiziaria non in funzione conservativa  delle  fonti
di prova - nel qual caso si ricadrebbe nell'incidenza sull'esito  del
processo  -  ma  con  finalita'  preventive,  sia  in   ordine   alla
possibilita' di aggravamento o protrazione dei reati commessi o  alla
prevedibile commissione di ulteriori reati (art.  321,  primo  comma,
cod. proc. pen.), sia  in  ordine  alla  conservazione  di  beni  che
possono formare oggetto  di  confisca,  in  caso  di  condanna  degli
imputati (art. 321, secondo comma,  cod.  proc.  pen.,  in  relazione
all'art. 240 cod. pen.). 
    Il sequestro degli  impianti,  senza  facolta'  d'uso,  e'  stato
disposto a norma del primo comma dell'art. 321 cod.  proc.  pen.,  in
base  all'assunto  che  la  continuazione  dell'attivita'  produttiva
avrebbe  senza  dubbio  aggravato  l'inquinamento  ambientale,   gia'
accertato con perizia disposta in sede  di  incidente  probatorio,  e
avrebbe provocato ulteriore nocumento ai lavoratori  dell'impianto  e
agli abitanti delle aree viciniori. 
    Si  deve  rilevare  in   proposito   che   l'aggravamento   delle
conseguenze di reati gia' commessi o la commissione di nuovi reati e'
preventivabile solo a parita' delle condizioni di fatto e di  diritto
antecedenti  all'adozione  del  provvedimento  cautelare.  Mutato  il
quadro  normativo  -  che  in  effetti  non  e'  rimasto   invariato,
contrariamente a quanto sostenuto dai rimettenti - le  condizioni  di
liceita'  della  produzione  sono  cambiate  e  gli  eventuali  nuovi
illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni  attuali
e non di quelle precedenti. Si deve anche mettere in rilievo  che  la
produzione siderurgica e' in se' e per se' lecita,  e  puo'  divenire
illecita  solo  in  caso  di  inosservanza  delle   norme   e   delle
prescrizioni dettate a salvaguardia  della  salute  e  dell'ambiente.
Mutate quelle norme e quelle prescrizioni, occorre una valutazione ex
novo della liceita' dei fatti e  dei  comportamenti,  partendo  dalla
nuova base normativa. Ne' puo' essere ammesso  che  un  giudice  (ivi
compresa questa Corte) ritenga  illegittima  la  nuova  normativa  in
forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della  stessa,  a
prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi,
costituzionali  o  ordinari,  sovrapponendo  le  proprie  valutazioni
discrezionali  a  quelle  del  legislatore  e  delle  amministrazioni
competenti. Tale sindacato sarebbe possibile solo in presenza di  una
manifesta  irragionevolezza  della  nuova  disciplina   dettata   dal
legislatore   e   delle   nuove   prescrizioni   contenute   nell'AIA
riesaminata. Si tratta di un'eventualita' da escludere, nella specie,
per le ragioni illustrate nei paragrafi  precedenti,  che  convergono
verso la considerazione complessiva che sia il  legislatore,  sia  le
amministrazioni  competenti,  hanno  costruito  una   situazione   di
equilibrio non irragionevole. Cio'  esclude,  come  detto  prima,  un
"riesame  del  riesame",  che  non  compete   ad   alcuna   autorita'
giurisdizionale. 
    Si deve ritenere, in generale, che l'art. 1 del d.l. n. 207 abbia
introdotto una nuova determinazione normativa  all'interno  dell'art.
321, primo comma,  cod.  proc.  pen.,  nel  senso  che  il  sequestro
preventivo, ove ricorrano le condizioni previste dal  comma  1  della
disposizione, deve consentire  la  facolta'  d'uso,  salvo  che,  nel
futuro, vengano trasgredite  le  prescrizioni  dell'AIA  riesaminata.
Nessuna  incidenza  sull'attivita'  passata   e   sulla   valutazione
giuridica della stessa e quindi  nessuna  ricaduta  sul  processo  in
corso, ma solo una proiezione circa  i  futuri  effetti  della  nuova
disciplina. La reimmissione della societa' Ilva S.p.A.  nel  possesso
degli impianti e' la  conseguenza  obbligata  di  tale  nuovo  quadro
normativo,  affinche'  la  produzione  possa  continuare  alle  nuove
condizioni,  la  cui  osservanza  sara'  valutata  dalle   competenti
autorita'  di  controllo  e  la  cui  intrinseca  sufficienza   sara'
verificata, sempre in  futuro,  secondo  le  procedure  previste  dal
codice dell'ambiente.