ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli articoli  34  e
623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale promosso dal
Giudice per le indagini preliminari del  Tribunale  di  Velletri  nel
procedimento penale a carico di B.M. con  ordinanza  del  26  ottobre
2012, iscritta al n. 307 del registro  ordinanze  2012  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale,
dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 19  giugno  2013  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 26 ottobre 2012, il  Giudice  per
le indagini preliminari del Tribunale di Velletri  ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 3 e 111, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale degli  articoli  34  e  623,
comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella  parte  in
cui non prevedono l'incompatibilita' a  partecipare  al  giudizio  di
rinvio  del  giudice  che,  quale  giudice   dell'esecuzione,   abbia
pronunciato ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di
applicazione della disciplina del reato continuato,  annullata  dalla
Corte di cassazione. 
    Il rimettente riferisce di avere rigettato, con ordinanza del  18
maggio 2011, in veste di giudice dell'esecuzione, la richiesta di  un
condannato intesa ad ottenere, ai  sensi  dell'art.  671  cod.  proc.
pen., l'applicazione della disciplina della continuazione in rapporto
a due reati di rapina  aggravata,  commessi  in  concorso  con  altra
persona e giudicati separatamente.  La  decisione  era  basata  sulla
ritenuta impossibilita' di ricondurre i due episodi delittuosi ad  un
medesimo disegno criminoso, trattandosi di fatti commessi  in  giorni
diversi, in danno di differenti istituti  di  credito  e  in  diverse
localita'. 
    Il provvedimento era stato annullato con rinvio  dalla  Corte  di
cassazione, per incompletezza della motivazione in ordine allo  stato
di  tossicodipendenza  del  ricorrente:  condizione  non   menzionata
nell'ordinanza  impugnata  e  che  doveva  essere  presa  invece   in
considerazione alla luce del disposto del comma 1 dell'art. 671  cod.
proc. pen., in  forza  del  quale  «fra  gli  elementi  che  incidono
sull'applicazione del reato continuato vi e' la consumazione di  piu'
reati in relazione allo stato di tossicodipendenza». Gli  atti  erano
stati quindi rinviati allo stesso Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Velletri, affinche' esaminasse «in  piena  autonomia
di  giudizio»  l'istanza   del   condannato,   colmando   le   lacune
motivazionali. 
    Ritenendo di  trovarsi  in  situazione  di  incompatibilita',  il
giudice a quo aveva rimesso gli atti al magistrato designato per tale
evenienza,  sulla  base  delle  tabelle  giudiziarie.  Il  magistrato
coordinatore della sezione, tuttavia, aveva nuovamente  assegnato  il
procedimento al rimettente, rilevando come  la  Corte  di  cassazione
avesse chiarito che e'  legittima  l'ordinanza  emessa,  in  sede  di
giudizio di rinvio, dallo stesso  giudice  autore  del  provvedimento
annullato, in quanto la diversita' della persona fisica  del  giudice
chiamato  a  decidere  dopo  l'annullamento  con  rinvio  e'  imposta
dall'art. 623,  comma  1,  lettera  d),  cod.  proc.  pen.  solo  con
riferimento alle sentenze. 
    Tanto premesso,  il  giudice  a  quo  osserva  come,  se  dovesse
pronunciarsi nuovamente sull'istanza  del  condannato,  tornerebbe  a
respingerla, essendo - a suo avviso -  l'art.  671  cod.  proc.  pen.
comunque inapplicabile nel caso in esame. Secondo quanto emerge dalla
sentenza di condanna relativa alla prima delle due  rapine,  infatti,
l'istante ha dichiarato di essersi determinato a commettere il  reato
in  quanto  aveva  contratto  debiti  con  spacciatori  di   sostanze
stupefacenti. Tale dichiarazione -  priva  peraltro  di  elementi  di
riscontro - non varrebbe a rendere operante la  previsione  normativa
considerata,  la  quale  riconosce  la  possibilita'  di  configurare
l'identita' del disegno criminoso solo in  relazione  allo  stato  di
tossicodipendenza  del  condannato,  e  non  alle   sue   esposizioni
debitorie. L'esistenza  della  condizione  di  tossicodipendenza  non
sarebbe, d'altra parte, desumibile dalla  documentazione  prodotta  a
sostegno dell'istanza, dalla quale risulta che l'interessato e' stato
«pres[o] in carico» dal servizio per le tossicodipendenze solo alcuni
mesi dopo la commissione delle rapine. 
    Recependo l'eccezione  formulata  dal  difensore,  il  rimettente
reputa, tuttavia, pregiudiziale rispetto alla  pronuncia  sul  merito
dell'istanza la questione di legittimita' costituzionale degli  artt.
34 e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nella  parte  in  cui
non prevedono l'incompatibilita' a partecipare al giudizio di  rinvio
del giudice che, quale  giudice  dell'esecuzione,  abbia  pronunciato
ordinanza - annullata dalla Corte di cassazione - di  accoglimento  o
di rigetto della richiesta di applicazione della continuazione. 
    Al riguardo, il giudice a quo rileva come  la  giurisprudenza  di
legittimita'  abbia  ritenuto  che,  nel  caso  di  annullamento   di
provvedimenti de libertate, il giudice del rinvio possa identificarsi
in quello stesso che ha emesso l'ordinanza  annullata,  giacche',  in
tale ipotesi, il giudice non si pronuncia sul merito dell'imputazione
e non esprime, cosi', quel «giudizio» che l'art. 34 cod.  proc.  pen.
individua come secondo termine della relazione di incompatibilita'. 
    Nella specie, per converso, esso giudice  rimettente,  rigettando
l'istanza originaria, avrebbe gia' espresso - sia pure con  la  forma
dell'ordinanza e non della sentenza - un giudizio di  merito,  avente
ad  oggetto  il  disconoscimento  dell'esistenza  di   una   medesima
risoluzione  criminosa  al  di  sotto  dei  due  episodi  delittuosi:
valutazione  che  postulerebbe  un  esame  «non   secondario»   delle
modalita' e delle circostanze delle singole condotte. 
    La mancata previsione dell'incompatibilita' nel caso  considerato
risulterebbe, pertanto, lesiva dell'art. 111, secondo  comma,  Cost.,
in forza del quale il giudice deve essere  terzo  e  imparziale,  non
apparendo tale quel giudice che,  dopo  essersi  pronunciato  su  una
questione esprimendo un giudizio di merito, venga nuovamente chiamato
a decidere la medesima questione, sia pure al fine  di  integrare  la
motivazione. 
    Sarebbe violato, altresi',  l'art.  3  Cost.,  sotto  il  profilo
dell'ingiustificata disparita'  di  trattamento  tra  le  fasi  della
cognizione e dell'esecuzione. Nell'ipotesi in cui  il  giudice  abbia
deciso con sentenza in  sede  cognitiva,  l'annullamento  con  rinvio
della sua decisione comporta, infatti, ai sensi  dell'art.  623  cod.
proc.  pen.,  l'impossibilita'  per  quel  giudice   di   pronunciare
nuovamente sulla vicenda. Se l'identico giudizio e' invece espresso -
come nella  specie  -  in  fase  di  esecuzione,  e  dunque  mediante
ordinanza (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.), l'ulteriore pronuncia
del medesimo giudice sulla stessa questione non e' invece preclusa. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. 
    Ad  avviso  della  difesa  dello  Stato,  la  questione   sarebbe
inammissibile sia per l'insufficienza  della  motivazione  in  ordine
alla non manifesta infondatezza, sia  per  la  mancata  verifica,  da
parte   del   giudice   rimettente,   della   possibilita'   di   una
interpretazione   costituzionalmente   orientata   nella    normativa
censurata. 
    Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. Al riguardo,
l'Avvocatura  dello  Stato   rileva   come   la   giurisprudenza   di
legittimita'  sia  costante  nel  ritenere   che,   nell'ipotesi   di
annullamento con rinvio al tribunale del riesame, non sussiste alcuna
incompatibilita' a partecipare al giudizio di  rinvio  nei  confronti
dei magistrati che hanno  adottato  la  decisione  annullata,  tenuto
conto sia della mancanza di indicazioni in tal  senso  nell'art.  623
cod. proc. pen. - ove anzi si prevede, nel caso  di  annullamento  di
un'ordinanza,  il  rinvio  allo  stesso  giudice  che  ha  emesso  il
provvedimento  -  sia  della  natura  incidentale  del  giudizio   de
libertate. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  di
Velletri dubita della legittimita' costituzionale degli articoli 34 e
623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte
in cui non prevedono l'incompatibilita' a partecipare al giudizio  di
rinvio  del  giudice  che,  quale  giudice   dell'esecuzione,   abbia
pronunciato ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di
applicazione della disciplina del reato continuato,  annullata  dalla
Corte di cassazione. 
    Le norme  censurate  violerebbero,  in  parte  qua,  l'art.  111,
secondo comma, della Costituzione, in forza del quale il giudice deve
essere terzo e imparziale, non apparendo tale il  giudice  che,  dopo
essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito
- quale quello inerente alla riconducibilita' di  distinti  fatti  di
reato a un unico disegno criminoso  -  venga  nuovamente  chiamato  a
decidere la medesima questione. 
    Sarebbe  leso,  altresi',  l'art.  3  Cost.,  sotto  il   profilo
dell'ingiustificata disparita'  di  trattamento  tra  le  fasi  della
cognizione e dell'esecuzione,  posto  che,  nell'ipotesi  in  cui  il
giudice abbia deciso con sentenza in fase  cognitiva,  l'annullamento
con rinvio della sua decisione comporta, ai sensi dell'art. 623  cod.
proc.  pen.,  l'impossibilita'  per  quel  giudice   di   pronunciare
nuovamente sulla vicenda, mentre cio'  non  avviene  se  il  medesimo
giudizio e' espresso in sede esecutiva, e dunque mediante ordinanza. 
    2.- In via preliminare, va disattesa l'eccezione  dell'Avvocatura
dello Stato di inammissibilita'  della  questione  per  insufficienza
della motivazione sulla non manifesta infondatezza. 
    Il giudice rimettente ha esposto, infatti,  in  modo  compiuto  e
adeguato le ragioni del ritenuto contrasto delle norme denunciate con
i parametri costituzionali evocati, nei termini che si sono  poc'anzi
riassunti. 
    3.- Parimenti infondata e'  l'ulteriore  eccezione  della  difesa
dello Stato - prospettata, peraltro, anch'essa in  termini  meramente
assertivi  -  di  inammissibilita'   della   questione   per   omessa
sperimentazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata. 
    Alla stregua di quanto si osservera' subito appresso, la premessa
ermeneutica che fonda il quesito di costituzionalita' -  stando  alla
quale le norme censurate non prevedono l'incompatibilita' del giudice
nel caso considerato - appare, infatti,  oggettivamente  conforme  al
dato normativo e comunque rispondente al corrente orientamento  della
giurisprudenza di legittimita', cosi' da poter essere  assunta  quale
"diritto vivente". 
    4.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    Il tema sottoposto all'esame della Corte attiene segnatamente  ai
limiti di operativita' della incompatibilita' cosiddetta "verticale". 
    In proposito, giova premettere che, per reiterata affermazione di
questa Corte, le norme sull'incompatibilita' del giudice  determinata
da atti compiuti nel procedimento, di  cui  all'art.  34  cod.  proc.
pen., presidiano  i  valori  della  sua  terzieta'  e  imparzialita',
attualmente  oggetto  di  espressa  previsione  nel   secondo   comma
dell'art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23  novembre
1999,  n.  2  (Inserimento   dei   principi   del   giusto   processo
nell'articolo  111  della  Costituzione),  ma  gia'   in   precedenza
pacificamente insiti nel sistema costituzionale.  Le  predette  norme
risultano volte, in particolare, ad  evitare  che  la  decisione  sul
merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla  "forza
della prevenzione" - ossia dalla naturale tendenza a  confermare  una
decisione gia' presa o a mantenere un atteggiamento  gia'  assunto  -
scaturente da valutazioni cui il giudice  sia  stato  precedentemente
chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze
n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001). 
    In questa prospettiva, il comma 1 dell'art. 34 cod. proc. pen. si
occupa,  in  via  prioritaria,  delle  ipotesi  di   incompatibilita'
conseguenti  alla   progressione   "in   verticale"   del   processo,
determinata dalla articolazione e dalla  sequenzialita'  dei  diversi
gradi di giudizio. Si tratta  di  un  tipo  di  incompatibilita'  che
salvaguarda la stessa effettivita' del sistema delle impugnazioni, le
quali rinvengono, in  linea  generale,  la  loro  ratio  di  garanzia
nell'alterita' tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata  e
quello chiamato a riesaminarla. 
    In linea  con  la  tradizione  storica,  la  citata  disposizione
prevede l'incompatibilita' verticale non solo in senso  "ascendente",
ma anche in senso "discendente": con riguardo, cioe', al giudizio  di
rinvio dopo l'annullamento. L'evidenziato effetto di condizionamento,
derivante dalla "forza della prevenzione", e'  ravvisabile,  infatti,
anche nell'ambito del giudizio in questione, trattandosi di una nuova
fase del processo di  merito,  destinata  in  parte  a  rinnovare  le
attivita' poste nel nulla per effetto della sentenza  di  cassazione,
in parte ad aggiungere ulteriori attivita' a quelle annullate. 
    Il comma  1  dell'art.  34  cod.  proc.  pen.  limita,  tuttavia,
l'incompatibilita'   "verticale"   -   sia   essa   "ascendente"    o
"discendente" - al giudice che, in un grado del  procedimento,  abbia
pronunciato o concorso a pronunciare «sentenza»: con cio' escludendo,
a contrario, che l'incompatibilita'  scatti  a  fronte  dell'avvenuta
pronuncia  di  provvedimenti  di  altro  tipo,  e   segnatamente   di
ordinanze. Si tratta di  soluzione  espressiva,  in  linea  generale,
dell'intento  di  conservare,  da  un  lato,  l'unita'  di   giudizio
all'interno del grado, che  sarebbe  inopportuno  frammentare,  e  di
evitare,   dall'altro,   una    eccessiva    dilatazione    dell'area
dell'incompatibilita'. 
    Con specifico riferimento all'incompatibilita' a  partecipare  al
giudizio di rinvio, la previsione dell'art. 34, comma 1,  cod.  proc.
pen. viene, peraltro, a saldarsi con le  disposizioni  dell'art.  623
cod. proc. pen., che individuano il giudice competente a  pronunciare
dopo   l'annullamento   da   parte   della   Corte   di   cassazione.
L'insussistenza dell'incompatibilita' nel  caso  di  annullamento  di
un'ordinanza trova, per questo verso, specifica conferma.  Il  citato
art. 623 prende, infatti, espressamente in considerazione  l'esigenza
di evitare la coincidenza soggettiva tra giudice del rinvio e giudice
che ha pronunciato il provvedimento impugnato solo con riguardo  alle
sentenze  (lettera  d):  mentre,  nel   caso   di   annullamento   di
un'ordinanza, si limita puramente e semplicemente a stabilire che gli
atti debbano essere  trasmessi  «al  giudice  che  l'ha  pronunciata»
(lettera a). 
    Alla  luce  di  tale  dato   normativo   la   giurisprudenza   di
legittimita' ha, quindi, reiteratamente  affermato  che  in  sede  di
rinvio puo'  provvedere  lo  stesso  giudice-persona  fisica  che  ha
pronunciato l'ordinanza annullata. Tale principio e' stato enunciato,
in particolare, con riguardo all'ipotesi dell'annullamento con rinvio
di ordinanze in materia di misure cautelari personali, corroborandolo
con considerazioni attinenti alla natura  delle  valutazioni  cui  il
giudice e' in quel caso chiamato. Ma a conclusioni analoghe la  Corte
di cassazione e' pervenuta anche in relazione a un complesso di altre
fattispecie, tra cui l'annullamento con rinvio di  provvedimenti  del
giudice dell'esecuzione -  i  quali  assumono  tipicamente  la  forma
dell'ordinanza, ai sensi dell'art. 666, comma 6, cod.  proc.  pen.  -
ivi compresi quelli che  qui  specificamente  interessano,  ossia  le
ordinanze attinenti a richieste di applicazione  della  continuazione
in executivis (si veda, in particolare, Cass.,  19  dicembre  2007-15
gennaio 2008, n. 2098). 
    5.- La mancata previsione dell'incompatibilita'  in  tale  ultima
ipotesi confligge, tuttavia, con entrambi  i  parametri  evocati  dal
giudice rimettente, determinando  una  incongruenza  interna  tra  la
ratio dell'art. 671 cod. proc. pen. e i suoi effetti. 
    Recando, per corrente notazione, una delle novita' piu' rilevanti
del vigente codice di rito in punto di oggetto della  competenza  del
giudice  dell'esecuzione,   la   disposizione   in   parola   abilita
quest'ultimo ad applicare, su richiesta del condannato o del pubblico
ministero, la disciplina del concorso formale e del reato  continuato
in relazione ai fatti giudicati con piu' sentenze  o  decreti  penali
irrevocabili, pronunciati in procedimenti distinti contro  la  stessa
persona. 
    La previsione trova  la  sua  ratio  "storica"  nell'esigenza  di
compensare, su un diverso versante, il favor separationis che  ispira
il sistema processuale di tipo accusatorio. La drastica riduzione dei
casi di connessione tra procedimenti - cui  rimaneva  originariamente
estranea  l'ipotesi  del  reato  continuato   -   rendeva,   infatti,
particolarmente acuta la  necessita'  introdurre  strumenti  atti  ad
evitare  l'irrimediabile  perdita  dei   vantaggi   derivanti   dalla
continuazione (cumulo giuridico delle pene)  da  parte  dell'imputato
che, in quanto giudicato separatamente (anziche' cumulativamente) per
i singoli episodi criminosi, si fosse vista preclusa la  possibilita'
di una valutazione globale della sua posizione in sede cognitiva, con
evidente pregiudizio di posizioni  costituzionalmente  presidiate,  a
cominciare dal principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). 
    Il mutamento di indirizzo legislativo registratosi  al  principio
degli anni '90 - che ha portato all'inserimento  della  continuazione
tra i casi di connessione (art. 12, comma 1, lettera  b,  cod.  proc.
pen., come modificato dal decreto-legge 20  novembre  1991,  n.  367,
recante «Coordinamento delle indagini nei procedimenti per  reati  di
criminalita' organizzata», convertito, con modificazioni, nella legge
20 gennaio 1992, n. 8) - si e' limitato a ridurre il campo  operativo
della norma, ma non ne ha appannato  ne'  la  ratio,  ne'  l'utilita'
pratica.  L'applicabilita'  della  continuazione  in  sede  esecutiva
consente tuttora di  evitare  irragionevoli  sperequazioni  dovute  a
fattori  meramente  casuali,  per  effetto  dei  quali  i  reati   in
continuazione  (o  in  concorso  formale)   siano   stati   giudicati
nell'ambito di processi  distinti,  anziche'  in  un  unico  processo
cumulativo (ordinanza n. 43 del 2013). 
    Ma se l'esigenza di ripristinare l'eguaglianza vale  in  rapporto
alla determinazione del trattamento sanzionatorio  (applicazione  del
cumulo giuridico delle pene, in luogo del cumulo materiale), essa non
puo' non valere anche in relazione all'applicazione della  disciplina
sull'incompatibilita'  del  giudice,  posta  a  presidio  della   sua
imparzialita'. 
    Come denuncia  l'odierno  rimettente,  se  e'  il  giudice  della
cognizione a negare l'identita' del disegno criminoso, l'annullamento
su  questo  punto  della  sua  sentenza  lo  rende  incompatibile   a
partecipare al giudizio di rinvio, ai sensi dell'art.  34,  comma  1,
cod. proc. pen. Se l'identica  valutazione  e'  operata  dal  giudice
dell'esecuzione, cio' viceversa non avviene. 
    6.- Nella verifica  della  ragionevolezza  di  un  simile  regime
differenziato, non si possono,  d'altra  parte,  non  considerare  le
eccezionali    caratteristiche    dell'intervento     del     giudice
dell'esecuzione nel caso in esame (ordinanza n. 43 del 2013). 
    La soluzione offerta dal legislatore al problema  del  ripristino
dell'eguaglianza  -  quella,  appunto,  di   demandare   al   giudice
dell'esecuzione la "sintesi" delle condotte giudicate  separatamente,
determinandone le conseguenze ai sensi dell'art. 81 del codice penale
- comporta una evidente "frattura" dell'ordinario discrimen tra  fase
cognitiva e fase esecutiva, sotto un duplice profilo. 
    Da un lato, infatti, il giudice dell'esecuzione si vede investito
di un accertamento che non attiene affatto all'esecuzione  (sia  pure
lato sensu intesa) delle pronunce di condanna delle quali si discute,
quanto piuttosto al merito delle  imputazioni.  Al  riguardo,  si  e'
icasticamente parlato di un frammento di  cognizione  inserito  nella
fase di esecuzione  penale.  La  verifica  della  sussistenza  di  un
medesimo   disegno   criminoso   -   l'accertamento,    cioe',    che
l'interessato, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto
una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si  accingeva  a
commettere e che detti reati siano stati ispirati  ad  una  finalita'
unitaria  -  implica,  in  effetti,  valutazioni   tecnico-giuridiche
attinenti al fatto, tanto sul piano teorico che su quello  operativo,
avuto riguardo al materiale probatorio da scrutinare. 
    Dall'altro lato, la  soluzione  normativa  in  discorso  comporta
l'apertura di una evidente breccia nel  principio  di  intangibilita'
del giudicato. All'esito del riconoscimento  della  continuazione  (o
del concorso formale), il giudice dell'esecuzione si trova,  infatti,
abilitato a modificare il trattamento sanzionatorio inflitto in  sede
cognitiva: non solo, e anzitutto, riducendo le  pene  principali,  ma
anche, eventualmente, eliminando o riducendo pene accessorie e misure
di  sicurezza  o  altri  effetti  penali  della  condanna   (sono   i
provvedimenti consequenziali cui si riferisce il  comma  3  dell'art.
671 cod. proc. pen.). Lo stesso  comma  3  dell'art.  671  riconosce,
altresi', espressamente  al  giudice  dell'esecuzione  il  potere  di
concedere la sospensione condizionale della pena e  la  non  menzione
della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando cio'
derivi  dal  riconoscimento  della  continuazione  (o  del   concorso
formale). 
    L'apprezzamento demandato al  giudice  dell'esecuzione  presenta,
dunque, tutte le  caratteristiche  del  «giudizio»,  quali  delineate
dalla giurisprudenza di questa Corte ai fini dell'identificazione del
secondo    termine    della     relazione     di     incompatibilita'
costituzionalmente rilevante, espressivo  della  sede  "pregiudicata"
dall'effetto di "condizionamento" scaturente  dall'avvenuta  adozione
di una precedente decisione sulla medesima res  iudicanda.  Tale  e',
infatti, il «"giudizio" contenutisticamente  inteso,  e  cioe'  [...]
ogni  sequenza  procedimentale   -   anche   diversa   dal   giudizio
dibattimentale - la quale, collocandosi in una fase diversa da quella
in  cui  si  e'  svolta  l'attivita'  "pregiudicante",  implichi  una
valutazione sul merito dell'accusa, e  non  determinazioni  incidenti
sul semplice svolgimento del processo, ancorche' adottate sulla  base
di un apprezzamento delle risultanze processuali»  (sentenza  n.  224
del 2001):  in  altre  parole  e  piu'  in  breve,  e'  pregiudicante
«qualsiasi tipo di giudizio, [...] che in base a un esame delle prove
pervenga a una decisione di  merito»  (sentenza  n.  131  del  1996).
Tratti, questi, senz'altro riscontrabili - per quanto detto  -  nella
decisione assunta dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art.  671
cod. proc. pen. 
    7.- Gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), cod. proc.
pen.  vanno  dichiarati,  pertanto,  costituzionalmente  illegittimi,
nella parte in  cui  non  prevedono  che  non  possa  partecipare  al
giudizio di rinvio dopo l'annullamento il giudice che ha  pronunciato
o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento  o  rigetto  della
richiesta di applicazione in  sede  esecutiva  della  disciplina  del
reato continuato, ai sensi dell'art. 671 cod. proc. pen. 
    La dichiarazione di illegittimita' costituzionale va  estesa,  in
via  consequenziale,   all'ipotesi   dell'annullamento   con   rinvio
dell'ordinanza che si pronunci sulla  richiesta  di  applicazione  in
sede esecutiva della disciplina  del  concorso  formale:  fattispecie
regolata congiuntamente a quella oggetto  del  quesito  dallo  stesso
art. 671 cod. proc. pen. e in rapporto alla quale valgono  le  stesse
considerazioni.