ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  degli  articoli  7,
comma 1, e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni
urgenti per l'efficacia  e  l'efficienza  dell'Amministrazione  della
giustizia), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  19  gennaio
2001, n. 4, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali,
nel procedimento penale  a  carico  di  E.S.  con  ordinanza  del  10
settembre 2012, iscritta al n. 268  del  registro  ordinanze  2012  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  48,  prima
serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24  aprile  2013  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e  pervenuta  a
questa Corte il 6 novembre 2012 (r.o. n. 268 del 2012), la  Corte  di
cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in  riferimento  agli
articoli 3 e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione  all'articolo  7   della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(d'ora in  avanti:  «CEDU»),  firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950
(ratificata e resa esecutiva con la legge 4  agosto  1955,  n.  848),
questioni di legittimita' costituzionale degli articoli  7  e  8  del
decreto-legge 24 novembre 2000,  n.  341  (Disposizioni  urgenti  per
l'efficacia e  l'efficienza  dell'Amministrazione  della  giustizia),
convertito, con modificazioni, dalla legge 19  gennaio  2001,  n.  4,
nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente
e, piu' specificamente, in relazione alla posizione  di  coloro  che,
pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato  nella  vigenza
della  sola  legge  16  dicembre  1999,  n.   479   (Modifiche   alle
disposizioni sul procedimento davanti al  tribunale  in  composizione
monocratica  e  altre  modifiche  al  codice  di  procedura   penale.
Modifiche   al   codice   penale   e   all'ordinamento   giudiziario.
Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennita'
spettanti al  giudice  di  pace  e  di  esercizio  della  professione
forense), sono stati giudicati successivamente, quando cioe',  a  far
data  dal  pomeriggio  del  24  novembre  2000  (pubblicazione  della
Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 del regio decreto  7  giugno
1923, n. 1252, recante «Passaggio della Gazzetta Ufficiale del  Regno
dalla dipendenza del Ministero dell'interno a  quella  del  Ministero
della giustizia e degli affari di culto e norme per la compilazione e
la  pubblicazione  di  essa»),  era  entrato  in  vigore  il   citato
decreto-legge, con  conseguente  applicazione  del  piu'  sfavorevole
trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto. 
    Il giudice a quo premette  di  essere  investito  di  un  ricorso
avverso un provvedimento del Tribunale di  Spoleto,  in  funzione  di
giudice dell'esecuzione penale, che aveva rigettato la richiesta  del
condannato, ai sensi degli artt. 666 e 670 del  codice  di  procedura
penale,  di  sostituzione  della  pena  dell'ergastolo   con   quella
temporanea di trenta anni  di  reclusione,  affermando  che  «nessuna
violazione del principio di legalita' di cui all'art.  7  della  CEDU
era stata accertata, nel caso specifico, dalla Corte EDU, sicche' non
era sopravvenuto all'esecutivita' della condanna alcun fatto nuovo». 
    La Corte di cassazione rileva che il ricorrente,  condannato  con
sentenza della Corte di assise di Catania, in data  18  luglio  1998,
alla pena dell'ergastolo con isolamento  diurno,  perche'  dichiarato
colpevole di due omicidi volontari e della connessa violazione  della
normativa sulle armi, aveva proposto appello e che nel corso di  tale
giudizio era entrata in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16  dicembre
1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1,  lettera  b),  aveva  aggiunto
alla fine del comma 2 dell'art.  442  cod.  proc.  pen.  il  seguente
periodo:  «Alla  pena  dell'ergastolo  e'  sostituita  quella   della
reclusione di anni trenta», reintroducendo cosi' la possibilita'  per
la persona imputata  di  reati  punibili  con  la  pena  perpetua  di
accedere al rito abbreviato. 
    Aggiunge la Corte rimettente che  il  ricorrente,  il  12  giugno
2000, nel corso del giudizio di appello, avvalendosi della riapertura
dei termini, disposta dall'art.  4-ter  del  decreto-legge  7  aprile
2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei  termini  di  custodia
cautelare  nella  fase  del  giudizio  abbreviato),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 5  giugno  2000,  n.  144,  aveva  chiesto
procedersi con il rito  abbreviato,  con  l'effetto  che,  in  virtu'
dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (nel testo  vigente  in  quel
momento), la pena dell'ergastolo,  con  o  senza  isolamento  diurno,
andava sostituita con quella di anni trenta di reclusione. 
    Prima  della  conclusione  del  giudizio  d'appello,  pero',  era
entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge  n.  4  del  2001,  il  cui  art.  7,  nel
dichiarato intento di dare una interpretazione autentica  al  secondo
periodo dell'art. 442, comma 2,  cod.  proc.  pen.,  come  modificato
dalla legge n. 479 del 1999, aveva stabilito che l'espressione  «pena
dell'ergastolo»   ivi   contenuta    doveva    intendersi    riferita
all'ergastolo senza isolamento diurno  e  aveva  inserito  alla  fine
della stessa disposizione un terzo periodo, secondo  il  quale  «Alla
pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi  di  concorso  di
reati e di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo». 
    In applicazione del citato art. 7 la Corte di assise  di  appello
di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001 (divenuta irrevocabile il
14  novembre  2003),   aveva   inflitto   al   ricorrente   la   pena
dell'ergastolo. 
    La Corte di cassazione ricorda che, avverso il provvedimento  del
Tribunale di Spoleto, in  funzione  di  giudice  dell'esecuzione,  e'
stato proposto  ricorso,  deducendo  una  violazione  di  legge,  con
riferimento agli artt. 6 e 7  della  CEDU  e  442  cod.  proc.  pen.,
nonche' la mancanza, la contraddittorieta' e la manifesta illogicita'
della motivazione. 
    Il  ricorso  e'   stato   assegnato   alle   sezioni   unite   in
considerazione della speciale importanza  della  questione,  relativa
alla possibilita' per il giudice dell'esecuzione, in  attuazione  dei
principi enunciati dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo  (d'ora
in avanti: «Corte EDU»)  con  la  sentenza  della  Grande  Camera  17
settembre  2009,  Scoppola  contro  Italia,  di  sostituire  la  pena
dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio  abbreviato,  con  la
pena di trenta  anni  di  reclusione,  in  tal  modo  modificando  il
giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi  intervenute
in materia, di quella piu' favorevole. 
    Il rimettente, premesso che le Parti contraenti  della  CEDU,  ai
sensi  dell'art.  46  della  citata  Convenzione,  si   impegnano   a
conformarsi alle  sentenze  definitive  pronunciate  dalla  Corte  di
Strasburgo nelle controversie nelle quali sono parti e che  lo  Stato
convenuto ha l'obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo  del
Comitato  dei  ministri,  «le  misure  generali  e/o,  se  del  caso,
individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne  le
conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe», rileva  che
la Corte EDU, la quale ha il compito istituzionale di interpretare  e
applicare la CEDU, quando accerta violazioni della stessa connesse  a
problemi  sistematici  e   strutturali   dell'ordinamento   giuridico
nazionale, pone in  essere  una  cosiddetta  "procedura  di  sentenza
pilota", che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a
livello nazionale i problemi rilevati, in modo  da  riconoscere  alle
persone  interessate,  che  versano  nella  stessa  condizione  della
persona il cui caso e' stato specificamente preso in  considerazione,
i diritti e le liberta' convenzionali, offrendo loro  la  riparazione
piu' rapida, si' da alleggerire il carico della Corte sovranazionale. 
    In  questa  prospettiva,  la  giurisprudenza  della  Corte   EDU,
originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche controversie
relative a casi concreti, si sarebbe caratterizzata  nel  tempo  «per
una  evoluzione  improntata  alla  valorizzazione  di  una   funzione
paracostituzionale di tutela dell'interesse generale al rispetto  del
diritto oggettivo», fornendo sempre  piu'  spesso,  nel  rilevare  la
contrarieta' alla CEDU di situazioni  interne  di  portata  generale,
indicazioni allo  Stato  responsabile  sui  rimedi  da  adottare  per
rimuovere il contrasto. 
    Secondo la Corte di cassazione, di fronte a pacifiche  violazioni
convenzionali di carattere oggettivo e generale, gia'  in  precedenza
accertate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di  cui
all'art. 34 CEDU e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una
sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione «non possono  essere  di
ostacolo  ad  un  intervento  dell'ordinamento  giuridico   italiano,
attraverso  la  giurisdizione,  per  eliminare  una   situazione   di
illegalita'  convenzionale,  anche  sacrificando  il   valore   della
certezza del giudicato», da ritenersi certamente recessivo, allorche'
risulti compromesso un diritto fondamentale della persona,  quale  e'
quello che incide sulla liberta' personale. 
    Il giudice a quo ricorda il contenuto della sentenza della  Corte
EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, che viene in  rilievo
nel caso in esame, perche' presenta i connotati  sostanziali  di  una
"sentenza pilota", in quanto, pur non fornendo specifiche indicazioni
sulle misure generali da adottare, «evidenzia  comunque  l'esistenza,
all'interno  dell'ordinamento  giuridico  italiano,  di  un  problema
strutturale dovuto alla non conformita' rispetto alla CEDU  dell'art.
7 del decreto-legge n. 341 del  2000,  nella  interpretazione  datane
dalla giurisprudenza interna». 
    Ne conseguirebbe che eventuali effetti  ancora  perduranti  della
violazione, determinata da una illegittima applicazione di una  norma
interna di diritto  penale  sostanziale  interpretata  in  senso  non
convenzionalmente orientato, «devono dunque essere rimossi anche  nei
confronti  di  coloro  che,  pur  non  avendo  proposto   ricorso   a
Strasburgo, si trovano in una situazione identica  a  quella  oggetto
della decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola». 
    Secondo la sentenza Scoppola, l'art. 7 della CEDU non  garantisce
soltanto il principio di non retroattivita' delle leggi  penali  piu'
severe, ma impone anche che, nel caso  in  cui  la  legge  penale  in
vigore al momento della commissione del  reato  e  quelle  successive
approvate  prima  della  condanna  definitiva  siano  differenti,  il
giudice  debba  applicare  quella  le  cui  disposizioni  sono   piu'
favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione  di
leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell'art. 7, paragrafo
1, della CEDU, l'applicazione della pena piu' sfavorevole al reo. 
    Le sezioni unite della Corte di cassazione aggiungono che per  la
Corte EDU l'art. 442 cod. proc. pen., nella parte in  cui  indica  la
misura della pena da infliggere in  caso  di  condanna  all'esito  di
giudizio abbreviato, e'  norma  di  diritto  penale  sostanziale  che
soggiace alle regole sulla retroattivita' di  cui  all'art.  7  della
CEDU, con la conseguenza della violazione di tale  ultima  norma  nel
caso in cui non venga inflitta all'imputato la  pena  piu'  mite  tra
quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del fatto
a quello della sentenza  definitiva.  La  pronuncia  della  Corte  di
Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa dell'art.  7
del decreto-legge n. 341 del 2000,  conclude  che  Scoppola,  essendo
stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della legge  n.  479  del
1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell'art. 7 della  CEDU,  cosi'
come interpretato, a vedersi infliggere la pena  di  trenta  anni  di
reclusione, piu' mite, rispetto sia a quella prevista (ergastolo  con
isolamento diurno) al momento della  commissione  del  fatto,  sia  a
quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dall'art.  7  del
decreto-legge n. 341 del 2000. 
    Secondo la Corte di cassazione «tale precedente  sovranazionale»,
censurando  il  meccanismo  processuale  col  quale  si   attribuisce
efficacia retroattiva all'art. 7, comma 1, del decreto-legge  n.  341
del  2000,  qualificato  come   norma   d'interpretazione   autentica
dell'art. 442 cod. proc. pen. (nel testo  risultante  dalla  modifica
operata dalla legge n. 479 del 1999) enuncia, in linea di  principio,
una «regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale,  e'
astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata»
e quindi anche al caso dell'attuale ricorrente. 
    Ne conseguirebbe che  l'avere  inflitto  al  ricorrente,  la  cui
posizione e' sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola,  la
pena dell'ergastolo, anziche' quella  di  trent'anni  di  reclusione,
avrebbe violato il suo diritto all'applicazione retroattiva  (art.  7
della CEDU) della legge  penale  piu'  favorevole,  e  la  violazione
inevitabilmente si rifletterebbe,  con  effetti  perduranti  in  fase
esecutiva, sul diritto fondamentale alla liberta' personale. 
    Questa situazione, anche a costo di porre in crisi il "dogma" del
giudicato, non  potrebbe  essere  tollerata,  perche'  legittimerebbe
«l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di
la' della species facti, illegittima dall'interprete autentico  della
CEDU», determinando una patente violazione del principio  di  parita'
di trattamento tra condannati che versano in identica  posizione.  Il
caso sarebbe diverso da quello dell'applicazione illegittima  di  una
pena  esclusivamente  perche'  avvenuta  in  seguito  a  un  giudizio
ritenuto dalla Corte EDU non equo ai sensi dell'art. 6 della CEDU, in
quanto in questo caso «l'apprezzamento, vertendo su eventuali errores
in procedendo», dovrebbe essere compiuto caso per caso, si' che  solo
«un vincolante  dictum  della  Corte  di  Strasburgo  sulla  medesima
fattispecie» potrebbe mettere in discussione il giudicato. 
    Il caso in esame non sarebbe dissimile da ogni  altra  situazione
in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale  dichiarata
ex post, nella sua parte precettiva o  sanzionatoria,  illegittima  o
comunque inapplicabile perche' in contrasto con una  norma  di  rango
superiore. 
    Non sarebbe di ostacolo l'irrevocabilita' del giudicato,  la  cui
crisi sarebbe «riscontrabile nell'art. 2, comma  terzo,  cod.  pen.»,
secondo cui la pena detentiva inflitta  con  condanna  definitiva  si
converte automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se  la
legge posteriore al giudicato  prevede  esclusivamente  quest'ultima,
«regola questa che deroga a quella  posta  invece  dal  quarto  comma
dello stesso art. 2 cod. pen. (primato della lex  mitior,  salvo  che
sia stata pronunciata sentenza irrevocabile)». 
    Alla novita'  normativa  richiesta  dall'art.  2  citato  sarebbe
assimilabile, in via analogica, il novum dettato dalla Corte  EDU  in
tema  di  legalita'  della  pena.  In  entrambi  i  casi   l'esigenza
imprescindibile di far cessare gli effetti  negativi  dell'esecuzione
di  una  pena  contra  legem  dovrebbe  prevalere  sulla  tenuta  del
giudicato. 
    Stante la centrale rilevanza assunta dalla decisione della  Corte
EDU  sul  caso  Scoppola  nella  valutazione  della   posizione   del
ricorrente, s'imporrebbe la verifica della compatibilita' degli artt.
7  e  8  del  decreto-legge  n.  341  del   2000,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge  n.  4  del  2001,  con  il  principio  di
legalita'   convenzionale   di   cui   all'art.   7    della    CEDU,
nell'interpretazione datane dalla Corte europea,  costituente,  quale
norma interposta, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117,
primo comma, Cost. 
    Il  giudice  a  quo  ritiene  che  non   vi   siano   spazi   per
un'interpretazione conforme alla CEDU  delle  disposizioni  suddette,
dalla cui applicazione e' derivata e tuttora deriva la violazione del
diritto fondamentale del condannato all'applicazione della norma piu'
favorevole, costituita nel caso  specifico  dall'art.  30,  comma  1,
lettera b),  della  legge  n.  479  del  1999.  Tale  conclusione  si
imporrebbe  alla   stregua   della   espressa   qualificazione   come
"interpretazione autentica", contenuta nel titolo del  Capo  III  del
decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 4 del 2001, del tenore dell'art. 7 del citato  decreto-legge
e del contenuto della  relativa  Relazione  governativa,  in  cui  si
precisa che la disposizione intende risolvere in via interpretativa i
dubbi circa l'applicabilita' della disciplina sul giudizio abbreviato
nei  casi  in  cui,  stante  il  concorso   di   reati,   alla   pena
dell'ergastolo debba aggiungersi anche  la  sanzione  dell'isolamento
diurno. 
    La legge interpretativa, in quanto materialmente  successiva  nel
tempo a quella interpretata, con cui  si  salda  dando  luogo  ad  un
precetto normativo unitario, avrebbe efficacia retroattiva in  deroga
al principio di irretroattivita' della  legge  in  generale,  fissato
dall'art. 11 delle preleggi. 
    La disciplina  di  natura  transitoria  di  cui  all'art.  8  del
decreto-legge  n.  341  del  2000,  come  sostituito   in   sede   di
conversione, che prevede la facolta'  dell'imputato  di  revocare  la
richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui e' applicabile o  e'
stata  applicata  la  pena  dell'ergastolo  con  isolamento   diurno,
confermerebbe  l'efficacia  retroattiva  attribuita  dal  legislatore
all'art. 7 citato. 
    L'impossibilita' di una interpretazione della  normativa  interna
conforme all'art. 7 della CEDU ha indotto la Corte  di  cassazione  a
ritenere non manifestamente infondate le  questioni  di  legittimita'
costituzionale, in riferimento agli  artt.  3  e  117,  primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, degli artt. 7
e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 4 del 2001,  nella  parte  in  cui  tali  disposizioni
interne operano retroattivamente e piu' specificamente, in  relazione
alla posizione di coloro  che,  pur  avendo  formulato  richiesta  di
giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479  del  1999,
sono stati giudicati successivamente, quando cioe', a  far  data  dal
pomeriggio  del  24  novembre  2000  (pubblicazione  della   Gazzetta
Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 del regio decreto n. 1252 del  1923),
era entrato in vigore il citato  decreto-legge,  con  la  conseguente
applicabilita' del piu'  sfavorevole  trattamento  sanzionatorio  ivi
previsto. 
    Il  giudice  a   quo,   premessa   la   distinzione   tra   legge
autenticamente interpretativa, che  si  limita  a  indicare  il  vero
significato del testo  della  legge  preesistente  e  legge  che  pur
formalmente dichiarata interpretativa si  rivela  invece  innovativa,
perche' intacca antinomicamente la ratio della legge, osserva che  la
cosiddetta «interpretazione  autentica  dell'art.  442  comma  2  del
codice di procedura penale», operata dall'art. 7 del decreto-legge n.
341 del 2000, rientra nella  seconda  categoria  di  norme.  Cio'  in
quanto il testo dell'art. 442, comma 2, secondo periodo,  cod.  proc.
pen., cosi'  come  introdotto  dalla  legge  n.  479  del  1999,  non
presenterebbe  alcuna  ambiguita'  interpretativa,  perche'  la  pena
dell'ergastolo  (con  o  senza  isolamento  diurno)   doveva   essere
sostituita, in caso di giudizio abbreviato, con  la  pena  di  trenta
anni di reclusione. 
    Secondo la Corte di cassazione, il legislatore del  2000  avrebbe
inteso porre  rimedio  a  tale  insoddisfacente  disciplina  e,  «per
incidere immediatamente sui processi in corso aventi ad oggetto gravi
fatti omicidiari, ha optato per la legge interpretativa, anche se non
v'era  alcun  effettivo  problema  ermeneutico  da   risolvere»,   ma
semplicemente   l'esigenza   «di   diversificare    il    trattamento
sanzionatorio in relazione alla pluralita' o unicita' di  imputazioni
importanti l'ergastolo». 
    Ne  conseguirebbe  che  il   giudice   ordinario,   non   potendo
disapplicare  la  legge  formalmente  interpretativa,  potrebbe  solo
sottoporla all'esame della Corte costituzionale. 
    Sottolinea, inoltre, la  Corte  di  cassazione  che  gli  aspetti
processuali  propri  del  giudizio   abbreviato   sono   strettamente
collegati «con aspetti sostanziali, dovendosi  tali  ritenere  quelli
relativi alla diminuzione o alla  sostituzione  della  pena,  profilo
questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento  penale  di
favore». La richiesta di  giudizio  abbreviato  cristallizzerebbe  il
trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa,  con  l'effetto
che una norma sopravvenuta di sfavore non  potrebbe  retroattivamente
deludere   e   vanificare   il    legittimo    affidamento    riposto
dall'interessato nello  svolgimento  del  giudizio  secondo  le  piu'
favorevoli regole in vigore all'epoca della scelta processuale. 
    La norma dell'art. 7 e di riflesso quella del successivo  art.  8
del decreto-legge n. 341 del 2000 sembrerebbero essere  in  contrasto
in primo luogo con il parametro di cui  all'art.  117,  primo  comma,
Cost., nella parte in cui impone la conformazione della  legislazione
interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, e  quindi
alla  norma  interposta  contenuta  nell'art.  7  della   CEDU,   che
delineerebbe,  secondo  l'interpretazione  datane  dalla   Corte   di
Strasburgo, un nuovo profilo di tutela  del  principio  di  legalita'
convenzionale in materia penale: non solo la  irretroattivita'  della
legge penale piu' severa,  principio  gia'  contenuto  nell'art.  25,
secondo comma, Cost., ma anche e implicitamente la  retroattivita'  o
l'ultrattivita' della lex mitior,  in  quanto  andrebbe  ad  incidere
sulla configurabilita' del reato o sulla specie e sull'entita'  della
pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona. 
    In conclusione, secondo la Corte, sarebbe «proprio l'applicazione
retroattiva  in  malam  partem  della  c.d.  legge  interpretativa  a
determinare  la  violazione  del  diritto  del  soggetto  interessato
all'operativita',  invece,  della  legge   piu'   mite   tra   quelle
succedutesi  nell'arco  temporale  2  gennaio-24  novembre  2000,  in
presenza del presupposto processuale  rappresentato  dalla  richiesta
del rito abbreviato effettuata nello stesso periodo, e a  legittimare
i dubbi di costituzionalita' della medesima legge interpretativa». 
    La citata normativa interna, stante il suo carattere retroattivo,
contrasterebbe inoltre con l'art. 3  Cost.,  violando  il  canone  di
ragionevolezza  e  il  principio  di  uguaglianza.   Essa,   infatti,
interverrebbe sull'art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.
nel testo risultante dalla legge n. 479 del 1999, in assenza  di  una
situazione di oggettiva incertezza del dato normativo di riferimento.
Tradirebbe poi il principio dell'affidamento connaturato  allo  Stato
di diritto, legittimamente sorto nel soggetto al momento della scelta
del  rito  alternativo  regolato  da  una  norma   piu'   favorevole.
Determinerebbe, infine,  ingiustificate  disparita'  di  trattamento,
dipendenti dai variabili tempi processuali, tra soggetti che  versano
in un'identica posizione sostanziale. 
    In punto di rilevanza, la Corte  di  cassazione  precisa  che  la
decisione della vicenda in esame dovrebbe  comportare  l'applicazione
dell'art. 7  del  decreto-legge  n.  341  del  2000  e  non  potrebbe
prescindere  dai  riflessi  che  su  tale  norma  spiega   anche   la
disposizione transitoria di cui al successivo art. 8, come sostituito
in sede di conversione dalla legge  n.  4  del  2001.  Sussisterebbe,
quindi, un rapporto di strumentalita' necessaria tra  la  risoluzione
delle questioni di costituzionalita' e la  definizione  dell'attivato
incidente di esecuzione. 
    Aggiunge la Corte rimettente  che  l'eventuale  dichiarazione  di
incostituzionalita' delle norme interne, avendo una forza invalidante
ex tunc, la cui portata,  gia'  implicita  nell'art.  136  Cost.,  e'
chiarita dall'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale), inciderebbe sull'esecuzione ancora  in  corso  della
pena illegittimamente inflitta  in  applicazione  della  piu'  severa
norma penale sostanziale, sospettata, nella parte relativa  alla  sua
efficacia  retroattiva,  di  essere  in  contrasto   con   la   Carta
costituzionale. 
    L'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dispone  che,
quando in  applicazione  della  norma  dichiarata  costituzionalmente
illegittima e' stata pronunciata sentenza irrevocabile  di  condanna,
ne cessano l'esecuzione e tutti gli  effetti  penali,  e  secondo  la
Corte di cassazione, da questa disposizione consegue che,  «nel  caso
di  dichiarazione  di  incostituzionalita'  di   una   norma   penale
sostanziale, la tutela della liberta' personale si unisce alla  forza
espansiva della dichiarazione di incostituzionalita' e travolge anche
il giudicato, con effetti diretti sull'esecuzione,  ancora  in  atto,
della condanna irrevocabile». 
    Il campo di operativita' dell'art. 30, quarto comma, sarebbe piu'
esteso rispetto a quello dell'art. 673 cod. proc. pen., il  quale  si
riferirebbe all'abrogazione o dichiarazione di incostituzionalita' di
fattispecie  incriminatrici   nella   loro   interezza,   in   quanto
impedirebbe anche l'esecuzione della pena o della  frazione  di  pena
inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima
sul punto, senza coinvolgere il precetto. 
    Il citato art. 30, quarto comma, si porrebbe come eccezione  alla
regola di cui al quarto comma dell'art. 2 del codice penale,  secondo
cui si applica al reo la disposizione piu' favorevole, salvo che  sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile, e legittimerebbe  quindi  il
superamento del giudicato di fronte alle  primarie  esigenze,  insite
nell'intero sistema penale, di tutelare il diritto fondamentale della
persona alla legalita' della  pena  anche  in  fase  esecutiva  e  di
assicurare parita' di trattamento tra i condannati che versano in una
identica situazione. 
    2.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  ed
infondate. 
    L'Avvocatura dello Stato osserva che in  seguito  all'entrata  in
vigore, in data 1° dicembre 2009, del  Trattato  di  Lisbona  del  13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2  agosto  2008,
n. 130, e' stata impressa una diversa configurazione al rapporto  tra
le norme della CEDU e l'ordinamento interno. In  virtu'  dell'art.  6
del predetto Trattato, indipendentemente dalla formale adesione  alla
CEDU,  da  parte  dell'Unione  europea,  i  diritti  elencati   dalla
Convenzione verrebbero ricondotti all'interno delle fonti dell'Unione
sia in via diretta ed immediata, tramite il loro riconoscimento  come
«principi generali del diritto dell'Unione», sia in via mediata, come
conseguenza del riconoscimento che la Carta dei diritti  fondamentali
dell'Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati. 
    Secondo l'Avvocatura, a  norma  dell'art.  49,  primo  paragrafo,
della Carta da ultimo citata, se successivamente alla commissione del
reato, la legge  prevede  l'applicazione  di  una  pena  piu'  lieve,
occorre applicare quest'ultima. In virtu' dell'art. 52  della  Carta,
inoltre,  tutti  i  diritti  previsti  dalla  CEDU  che  trovino   un
corrispondente all'interno della Carta di Nizza dovrebbero  ritenersi
tutelati anche a livello comunitario. 
    Di conseguenza il giudice comune sarebbe  tenuto  a  disapplicare
qualsiasi norma nazionale «in contrasto con  i  diritti  fondamentali
sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull'art. 11 Cost.,
secondo cui  "le  norme  di  diritto  comunitario  sono  direttamente
operanti nell'ordinamento interno"». 
    Questa interpretazione non troverebbe «ostacoli di operativita'»,
in quanto il principio di retroattivita' o  ultrattivita'  della  lex
mitior in relazione all'esecuzione penale si  armonizzerebbe  con  la
disposizione di cui all'art. 30, quarto comma, della legge n. 87  del
1953, che impedisce l'esecuzione di una pena o  di  una  frazione  di
pena inflitta in base ad una norma dichiarata illegittima,  incidendo
su una situazione non ancora esaurita, «senza coinvolgere il precetto
penale, assicurando la legalita' della pena  attraverso  un'effettiva
parita' di trattamento nei confronti di condannati che versano in una
identica situazione di diritto». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e  pervenuta  a
questa Corte il 6 novembre 2012,  la  Corte  di  cassazione,  sezioni
unite penali, in riferimento agli articoli  3  e  117,  primo  comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione  all'articolo  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il  4
novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848), ha sollevato questioni di legittimita'  costituzionale
degli articoli 7 e 8 del  decreto-legge  24  novembre  2000,  n.  341
(Disposizioni    urgenti    per    l'efficacia     e     l'efficienza
dell'Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni,
dalla  legge  19  gennaio  2001,  n.  4,  nella  parte  in  cui  tali
disposizioni operano  retroattivamente  e,  piu'  specificamente,  in
relazione  alla  posizione  di  coloro  che,  pur  avendo   formulato
richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della  sola  legge  16
dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni  sul  procedimento
davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al
codice  di  procedura  penale.   Modifiche   al   codice   penale   e
all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia  di  contenzioso
civile pendente, di indennita' spettanti al  giudice  di  pace  e  di
esercizio  della   professione   forense),   sono   stati   giudicati
successivamente, quando cioe', a  far  data  dal  pomeriggio  del  24
novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale),  era  entrato
in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicabilita' del
piu' sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto da tale decreto. 
    La Corte di cassazione e' stata investita con un  ricorso  contro
un provvedimento del Tribunale di Spoleto che, in sede esecutiva,  ha
rigettato la richiesta di un condannato diretta a vedersi  sostituire
la  pena  dell'ergastolo,  applicata  nel  corso   di   un   giudizio
abbreviato, con la pena di trenta anni  di  reclusione,  sostituzione
che, secondo il  ricorso,  si  sarebbe  dovuta  disporre  perche'  il
condannato si trovava in una situazione analoga a quella che nel caso
Scoppola contro Italia aveva formato  oggetto  della  sentenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo (d'ora in avanti:  «Corte  EDU»),
Grande Camera, 17 settembre 2009. 
    Con questa sentenza la Corte EDU aveva rilevato la violazione  da
parte dello Stato italiano dell'art.  7,  paragrafo  1,  della  CEDU,
cagionata dall'applicazione dell'art. 7 del decreto-legge n. 341  del
2000  e  aveva  dichiarato  che  lo  Stato  italiano  era  tenuto  ad
assicurare che la pena dell'ergastolo, inflitta al ricorrente,  fosse
sostituita con una pena non superiore a quella  della  reclusione  di
anni trenta. 
    Il Tribunale di Spoleto, al quale il condannato  si  era  rivolto
per ottenere la sostituzione della pena, aveva rigettato la richiesta
rilevando che nessuna violazione dell'art. 7  della  CEDU  era  stata
accertata dalla Corte EDU nel caso del richiedente. 
    Le sezioni unite della Corte di cassazione, che  non  condividono
le ragioni del rigetto,  hanno  proposto  questioni  di  legittimita'
costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341  del  2000,
ritenendo che queste norme siano di ostacolo al doveroso accoglimento
della richiesta di sostituzione della pena. 
    2.- Secondo le sezioni unite, la  sentenza  della  Corte  EDU  ha
rilevato  nel  nostro  ordinamento  un  problema  strutturale  e  gli
eventuali effetti, tuttora perduranti, della violazione devono essere
eliminati, perche' essa contiene una «regola di giudizio  di  portata
generale,  che,  in  quanto  tale,  e'  astrattamente  applicabile  a
fattispecie identiche a quella esaminata». 
    Il giudice a quo, nell'esercizio dei suoi poteri di apprezzamento
e qualificazione della fattispecie sottoposta  alla  sua  cognizione,
premette che il ricorrente si trova  in  una  situazione  identica  a
quella che ha connotato il caso Scoppola e percio' ritiene che  anche
nei suoi confronti la pena dell'ergastolo, applicata in  forza  della
norma convenzionalmente illegittima, dovrebbe essere  sostituita  con
la pena  di  trenta  anni  di  reclusione.  «Di  fronte  a  pacifiche
violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale,  gia'  in
precedenza stigmatizzate in sede europea - aggiunge il giudice a  quo
- il mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU (ricorso
individuale) e la conseguente mancanza, nel  caso  concreto,  di  una
sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non  possono  essere  di
ostacolo  a  un  intervento  dell'ordinamento   giuridico   italiano,
attraverso  la  giurisdizione,  per  eliminare  una   situazione   di
illegalita'  convenzionale,  anche  sacrificando  il   valore   della
certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e
pregnanti  compromissioni  in  atto  di  diritti  fondamentali  della
persona. La preclusione, effetto  proprio  del  giudicato,  non  puo'
operare  allorquando  risulti  pretermesso,  con   effetti   negativi
perduranti, un diritto fondamentale della persona,  quale  certamente
e' quello che incide sulla liberta': s'impone,  pertanto,  in  questo
caso  di  emendare   "dallo   stigma   dell'ingiustizia"   una   tale
situazione». Il caso, secondo l'ordinanza di rimessione, non  sarebbe
dissimile da quello in cui vi e' stata una condanna in forza  di  una
legge dichiarata ex post  costituzionalmente  illegittima  nella  sua
parte precettiva o sanzionatoria. 
    A parere  delle  sezioni  unite,  all'applicazione  della  regola
contenuta nella sentenza  Scoppola  si  oppone  pero'  l'art.  7  del
decreto-legge n. 341 del 2000,  che,  per  i  motivi  indicati  nella
sentenza della Corte EDU, appare costituzionalmente illegittimo e, in
base all'art. 30, quarto comma, della legge 11  marzo  1953,  n.  87,
recante «Norme sulla costituzione e  sul  funzionamento  della  Corte
costituzionale» (il quale dispone che quando  in  applicazione  della
norma dichiarata costituzionalmente illegittima e' stata  pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli
effetti penali), la dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 7 consentirebbe l'applicazione dell'art. 442, comma 2, cod.
proc. pen. nel testo anteriore  alla  modificazione  operata  con  il
decreto-legge n. 341 del 2000 e, dunque,  la  richiesta  sostituzione
della pena. Infatti, secondo le  sezioni  unite,  l'art.  30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 dovrebbe  operare  con  un  duplice
effetto, per superare sia il limite  del  giudicato  sia  quello  del
quarto  comma  dell'art.  2  del  codice  penale,  il  quale  esclude
l'applicabilita'   di   disposizioni   «piu'   favorevoli   al   reo»
sopravvenute, qualora «sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». 
    3.- Il quadro  normativo  interno  nel  cui  ambito  si  pone  la
questione e' caratterizzato da una successione di varie leggi. 
    La disposizione originaria dell'art. 442,  comma  2,  cod.  proc.
pen. prevedeva, nel caso  di  giudizio  abbreviato,  la  sostituzione
della pena dell'ergastolo con quella di trenta  anni  di  reclusione.
Questa norma e' stata pero' dichiarata costituzionalmente illegittima
per eccesso di delega (sentenza n. 176 del 1991) e,  di  conseguenza,
tra il 1991 e il 1999, l'accesso al rito abbreviato, sulla base degli
artt. 438 e 442 cod. proc. pen., all'epoca vigenti, e' stato precluso
agli imputati dei delitti puniti con l'ergastolo. 
    L'art. 30, comma 1, lettera b), della  legge  n.  479  del  1999,
entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato l'art. 442,  comma
2, cod. proc. pen., reintroducendo la possibilita' di  procedere  con
il giudizio abbreviato per i reati punibili  con  l'ergastolo,  e  ha
previsto la sostituzione di questa pena con quella di trenta anni  di
reclusione. 
    Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato  in  vigore
lo stesso 24 novembre 2000, e convertito dalla legge 19 gennaio 2001,
n. 4, all'art. 7, ha modificato  nuovamente  l'art.  442  cod.  proc.
pen.,  stabilendo,  in  via  di   interpretazione   autentica   della
precedente modifica, che «nell'art.  442,  comma  2,  del  codice  di
procedura penale, l'espressione  "pena  dell'ergastolo"  e'  riferita
all'ergastolo  senza  isolamento  diurno»  (art.  7,  comma   1),   e
aggiungendo alla fine del comma 2 dell'art. 442 cod.  proc.  pen.  la
proposizione: «Alla pena dell'ergastolo con  isolamento  diurno,  nei
casi di concorso di reati e di reato continuato, e' sostituita quella
dell'ergastolo» (art. 7, comma 2). In via transitoria, l'art.  8  del
medesimo decreto-legge ha  consentito  a  chi  avesse  formulato  una
richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della legge  n.  479  del
1999 di revocarla entro trenta  giorni  dall'entrata  in  vigore  del
decreto-legge con l'effetto che il processo sarebbe proseguito con il
rito ordinario. 
    In  seguito  a  quest'ultima  modifica  normativa,  il   giudizio
abbreviato, che si conferma applicabile alla generalita' dei  delitti
puniti con l'ergastolo, consente al condannato di  beneficiare  della
sostituzione della pena dell'ergastolo senza  isolamento  diurno  con
quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione  della  pena
dell'ergastolo  con  isolamento  diurno  con  quella   dell'ergastolo
semplice. 
    4.- Con la  sentenza  del  17  settembre  2009,  Scoppola  contro
Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha preso  in  considerazione
il quadro  normativo  sopraindicato,  e  in  particolare  la  vicenda
relativa alla  successione  tra  la  legge  n.  479  del  1999  e  il
decreto-legge n. 341 del 2000, ravvisando una violazione degli  artt.
6 e 7 della CEDU. 
    In particolare, la Corte EDU ha ritenuto che l'art. 442, comma 2,
cod. proc. pen., ancorche' contenuto in  una  legge  processuale,  e'
norma di diritto penale sostanziale, in quanto, «se e' vero  che  gli
articoli 438 e 441-443 del c.p.p. descrivono il campo di applicazione
e le fasi processuali del giudizio  abbreviato,  rimane  comunque  il
fatto che il paragrafo 2 dell'articolo 442  e'  interamente  dedicato
alla severita' della pena da infliggere  quando  il  processo  si  e'
svolto secondo questa procedura semplificata». Si tratta  percio'  di
una  norma  che  rientra  nel  campo  di  applicazione  dell'art.  7,
paragrafo  1,  della  Convenzione,  che,   secondo   una   innovativa
interpretazione della Corte di Strasburgo, comprende anche il diritto
dell'imputato di  beneficiare  della  legge  penale  successiva  alla
commissione del reato che prevede una sanzione meno severa di  quella
stabilita in precedenza: nel caso di specie  la  sanzione  di  trenta
anni di reclusione, pure nel caso di reati puniti con l'ergastolo con
isolamento diurno, poi sostituita  retroattivamente  con  quella  del
semplice ergastolo. 
    5.- Delimitato il quadro normativo in cui si colloca la questione
in esame, va considerato che l'Avvocatura generale dello Stato ne  ha
eccepito l'inammissibilita', sostenendo che, in  seguito  all'entrata
in vigore, il 1° dicembre  2009,  del  Trattato  di  Lisbona  del  13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo  con  la  legge  2  agosto
2008, n.  130,  e'  stata  impressa  una  diversa  configurazione  al
rapporto tra le norme della CEDU e l'ordinamento interno.  In  virtu'
dell'art. 6 del Trattato, indipendentemente  dalla  formale  adesione
alla CEDU da parte dell'Unione  europea,  i  diritti  elencati  dalla
Convenzione  sarebbero  stati  ricondotti  all'interno  delle   fonti
dell'Unione,  sia  in  via  diretta  e  immediata,  tramite  il  loro
riconoscimento come «principi generali del diritto dell'Unione»,  sia
in via mediata, come conseguenza del riconoscimento che la Carta  dei
diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  ha  lo   stesso   valore
giuridico dei trattati. 
    Secondo l'Avvocatura dello Stato, a norma dell'art. 49, paragrafo
1, della Carta dei  diritti  fondamentali,  se  successivamente  alla
commissione del reato sopravviene una legge che prevede una pena piu'
lieve, e' questa che deve trovare applicazione. In  virtu'  dell'art.
52 della Carta, inoltre, tutti i  diritti  previsti  dalla  CEDU  che
trovino in essa una corrispondenza devono ritenersi tutelati anche  a
livello  comunitario.  Di  conseguenza  il  giudice  comune  dovrebbe
disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto  con  i  diritti
fondamentali sanciti  dalla  CEDU,  in  base  al  principio,  fondato
sull'art. 11 Cost., secondo cui le norme di diritto comunitario  sono
direttamente operanti nell'ordinamento interno». 
    L'eccezione di inammissibilita' e' priva di fondamento. 
    Come e' gia' stato rilevato, l'adesione dell'Unione europea  alla
CEDU non e' ancora avvenuta, «rendendo  allo  stato  improduttiva  di
effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del  Trattato
sull'Unione  europea,  come  modificato  dal  Trattato  di   Lisbona»
(sentenze n. 303 e n. 80 del 2011). 
    Inoltre questa Corte ha gia' avuto occasione di chiarire che, «in
linea di principio, dalla  qualificazione  dei  diritti  fondamentali
oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto
comunitario non puo' farsi discendere la riferibilita' alla CEDU  del
parametro  di  cui  all'art.  11  Cost.,  ne',  correlativamente,  la
spettanza al giudice comune del potere-dovere  di  non  applicare  le
norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze  n.
303 del 2011; n. 349 del 2007). E' da aggiungere che «i  principi  in
questione rilevano unicamente in rapporto  alle  fattispecie  cui  il
diritto comunitario (oggi, il diritto  dell'Unione)  e'  applicabile»
(sentenze n. 303 e n. 80 del 2011), e poiche' nel caso di specie  non
siamo  di  fronte  ad  una  fattispecie  riconducibile   al   diritto
comunitario non vi e'  spazio  per  un'eventuale  disapplicazione  da
parte del giudice ordinario. 
    La stessa Corte di giustizia dell'Unione  europea  ha  del  resto
ritenuto che il rinvio operato dall'art. 6, paragrafo 3, del Trattato
sull'Unione europea alla CEDU non regola i rapporti  tra  ordinamenti
nazionali e CEDU ne', tantomeno, impone al giudice nazionale, in caso
di conflitto tra una norma di  diritto  nazionale  e  la  Convenzione
europea, di applicare direttamente le disposizioni  di  quest'ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale  in  contrasto  con  essa
(sentenza del 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj). 
    6.- Un profilo di inammissibilita' e' invece ravvisabile rispetto
alla questione avente ad oggetto l'art. 8 del  decreto-legge  n.  341
del 2000, che disciplina, in via transitoria, il potere dell'imputato
di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nel termine di trenta
giorni dalla data di entrata in  vigore  del  decreto  in  questione.
Infatti, mentre le censure di costituzionalita' riguardano sia l'art.
7 sia l'art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000,  nell'ordinanza  di
rimessione manca  la  motivazione  sulla  rilevanza  della  questione
relativa a quest'ultima norma, della quale non e'  indicato  l'ambito
di applicabilita' nel giudizio principale. 
    Ne consegue l'inammissibilita' della questione relativa  all'art.
8. 
    7.- Dal tenore complessivo dell'ordinanza  di  rimessione  emerge
che la questione di  legittimita'  costituzionale,  pur  coinvolgendo
formalmente l'intero art. 7 del decreto-legge n. 341 del  2000,  deve
intendersi limitata al solo comma 1 di tale articolo, che, in  virtu'
della sua pretesa natura interpretativa, ne determina  l'applicazione
retroattiva.  L'art.  7,  comma  2,   dello   stesso   decreto-legge,
modificando l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., si limita a dettare
la nuova disciplina del  rito  abbreviato  per  i  reati  puniti  con
l'ergastolo, da applicarsi "a  regime"  e  dunque  nelle  fattispecie
successive alla sua entrata in vigore, che  non  riguardano  il  caso
oggetto del giudizio a quo. 
    7.1.- Una volta limitato il campo delle censure al solo  art.  7,
comma 1, del decreto-legge n. 341 del  2000  vanno  esaminati  alcuni
altri    aspetti     problematici,     con     possibili     riflessi
sull'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale. 
    L'ordinanza della Corte di cassazione muove dal  presupposto  che
alla sentenza della Corte EDU emessa nei confronti di Scoppola  debba
darsi applicazione anche nei casi,  come  quello  in  questione,  che
presentano le medesime caratteristiche, senza  che  occorra  per  gli
stessi una specifica pronuncia della Corte EDU. 
    La norma fondamentale in tema di esecuzione delle sentenze  della
Corte EDU e' costituita dall'art. 46, paragrafo 1,  della  CEDU,  che
impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze  definitive
della Corte sulle controversie nelle quali  sono  parte».  Gli  altri
paragrafi dell'art. 46 (dal 2 al 5) disciplinano  le  competenze  del
Comitato  dei  ministri   e   della   stessa   Corte   nell'esercizio
dell'attivita' di controllo sull'esecuzione delle sentenze  da  parte
degli Stati responsabili delle violazioni della CEDU. 
    L'art. 46 va letto in combinazione con l'art. 41  della  CEDU,  a
norma del quale, «se la Corte dichiara che  vi  e'  stata  violazione
della Convenzione o dei suoi  Protocolli  e  se  il  diritto  interno
dell'Alta parte contraente non permette che  in  modo  imperfetto  di
rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del
caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa»  (sentenza  n.  113  del
2011). 
    Nell'applicazione delle norme  convenzionali  ora  ricordate,  la
Corte  EDU  ha  per  lungo  tempo  mantenuto  un   atteggiamento   di
self-restraint,  ponendo  l'accento  sulla   natura   "essenzialmente
dichiarativa" delle proprie sentenze e  sulla  liberta'  degli  Stati
nella scelta dei mezzi da utilizzare  per  conformarsi  ad  esse,  ma
questo   atteggiamento   e'   stato   decisamente   superato    dalla
giurisprudenza piu' recente. 
    A partire dalla sentenza della Corte  EDU  del  13  luglio  2000,
Scozzari e Giunta contro Italia, si e' affermato il principio - ormai
consolidato - in forza del  quale,  «quando  la  Corte  constata  una
violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo  giuridico  non  solo  di
versare agli interessati  le  somme  attribuite  a  titolo  dell'equa
soddisfazione previste dall'articolo 41,  ma  anche  di  adottare  le
misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (Corte EDU,
Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte  EDU,
Grande Camera, 1° marzo 2006,  Sejdovic  contro  Italia;  Corte  EDU,
Grande Camera, 8 aprile 2004,  Assanidze  contro  Georgia).  Cio'  in
quanto, in base all'art. 41 della CEDU, le somme assegnate  a  titolo
di equo indennizzo mirano unicamente ad accordare un risarcimento per
i  danni  subiti  dagli  interessati  nella  misura  in  cui   questi
costituiscano una conseguenza della violazione che non puo'  in  ogni
caso essere cancellata (Corte EDU, Grande  Camera,  13  luglio  2000,
Scozzari e Giunta contro Italia). 
    La finalita' delle misure individuali che lo Stato  convenuto  e'
chiamato ad adottare viene puntualmente individuata  dalla  Corte  di
Strasburgo  nella  restitutio  in  integrum  della  situazione  della
vittima. Queste misure  devono  porre,  cioe',  «il  ricorrente,  per
quanto possibile, in una situazione equivalente a quella  in  cui  si
troverebbe se non vi fosse  stata  una  inosservanza  delle  esigenze
della  Convenzione»,  giacche'  «una  sentenza   che   constata   una
violazione comporta per lo Stato  convenuto  l'obbligo  giuridico  ai
sensi  dell'articolo  46  della  Convenzione  di  porre   fine   alla
violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire  per
quanto  possibile  la  situazione  anteriore  a   quest'ultima»   (ex
plurimis, Corte EDU,  Grande  Camera,  17  settembre  2009,  Scoppola
contro Italia; Corte EDU, 8 febbraio 2007,  Kollcaku  contro  Italia;
Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia;  Corte  EDU,  18
maggio 2004, Somogyi contro  Italia;  Corte  EDU,  Grande  Camera,  8
aprile 2004, Assanidze contro Georgia). 
    In una prospettiva piu' ampia, lo Stato convenuto e' tenuto anche
a rimuovere gli impedimenti che,  nella  legislazione  nazionale,  si
frappongono  al   conseguimento   dell'obiettivo:   «ratificando   la
Convenzione gli Stati contraenti si impegnano», infatti, «a  far  si'
che il  loro  diritto  interno  sia  compatibile  con  quest'ultima»,
sicche' «e'  lo  Stato  convenuto  a  dover  eliminare,  nel  proprio
ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un  adeguato
ripristino  della  situazione  del  ricorrente»  (Corte  EDU,  Grande
Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU,  Grande
Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia). 
    7.2.- Particolari obblighi di conformazione alle  pronunce  della
Corte EDU sono posti  dalle  cosiddette  sentenze  pilota,  le  quali
traggono origine dalla circostanza che spesso vengono presentati alla
Corte numerosi ricorsi  relativi  alla  stessa  situazione  giuridica
interna all'ordinamento dello  Stato  convenuto.  Normalmente  questi
ricorsi scaturiscono da un contesto interno di carattere generale (in
quanto coinvolgente una pluralita' di persone) in  contrasto  con  la
CEDU, e mettono in evidenza  un  problema  di  carattere  strutturale
nell'ordinamento dello Stato convenuto. In queste sentenze  la  Corte
non si limita a individuare il problema che il caso presenta,  ma  si
spinge sino a indicare le misure piu' idonee per  risolverlo.  Se  lo
Stato  responsabile  della  violazione  strutturale  accertata  dalla
sentenza pilota  adotta  le  misure  generali  necessarie,  la  Corte
procede alla cancellazione dal ruolo  degli  altri  ricorsi  relativi
alla medesima questione; in caso contrario, essa ne riprende l'esame.
Come esempi di sentenze pilota si ricordano  la  sentenza  Broniowski
contro Polonia, del 22 giugno  2004,  quella  Hutten  Czapska  contro
Polonia, del 19 giugno 2006, e piu' recentemente  quella  Torreggiani
ed altri contro Italia, dell'8  gennaio  2013.  La  prassi  e'  stata
disciplinata nel nuovo art. 61 del regolamento della Corte, in vigore
dal 31 marzo 2010. 
    Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione,  la  sentenza
della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre  2009,  Scoppola  contro
Italia, «che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati
sostanziali di una "sentenza pilota", in quanto, pur astenendosi  dal
fornire specifiche indicazioni sulle  misure  generali  da  adottare,
evidenzia   comunque   l'esistenza,   all'interno    dell'ordinamento
giuridico italiano,  di  un  problema  strutturale  dovuto  alla  non
conformita' rispetto alla CEDU dell'art. 7 del decreto-legge  n.  341
del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna». 
    Il riferimento alle "sentenze pilota" pero' nel caso in esame non
e' puntuale, dato che sono le stesse parole della sentenza Scoppola a
segnare un distacco da tale modello la' dove essa precisa che, «nella
presente causa, la Corte non ritiene necessario indicare delle misure
generali  che  si   impongano   a   livello   nazionale   nell'ambito
dell'esecuzione  della  presente  sentenza».  La  sentenza   prosegue
concentrandosi sulle misure individuali, che devono essere  «volte  a
porre  il  ricorrente,  per  quanto  possibile,  in  una   situazione
equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse  stata  una
inosservanza delle esigenze della Convenzione», e aggiunge,  piu'  in
generale, che «una sentenza che constata una violazione comporta  per
lo Stato convenuto l'obbligo  giuridico  ai  sensi  dell'articolo  46
della Convenzione di porre fine alla violazione e  di  eliminarne  le
conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione
anteriore a quest'ultima». 
    Cio' premesso, deve rilevarsi  che  le  modalita'  attraverso  le
quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali alle  sentenze
della Corte di Strasburgo non sempre  sono  puntualmente  determinate
nel  loro  contenuto  da  tali  pronunce,  ma  ben   possono   essere
individuate con un ragionevole margine di apprezzamento. Percio'  non
e' necessario che le sentenze della Corte EDU specifichino le "misure
generali" da adottare per ritenere che  esse,  pur  discrezionalmente
configurabili,  costituiscono  comunque  una  necessaria  conseguenza
della  violazione  strutturale  della  CEDU  da  parte  della   legge
nazionale. 
    Quando cio' accade  e'  fatto  obbligo  ai  poteri  dello  Stato,
ciascuno  nel  rigoroso  rispetto  delle  proprie  attribuzioni,   di
adoperarsi affinche' gli effetti normativi lesivi della CEDU cessino.
Deve quindi ritenersi che il  cosiddetto  contenuto  rilevante  della
sentenza Scoppola, vale a dire la parte di essa rispetto  alla  quale
si forma l'obbligo posto dall'art. 46, paragrafo 1,  della  CEDU,  e,
piu' in generale, si individuano quegli aspetti dei  quali  lo  Stato
responsabile della violazione deve tenere conto  per  determinare  le
misure da adottare per conformarsi ad esse, ha una portata piu' ampia
di quella che,  per  quanto  concerne  specificamente  la  violazione
riscontrata, emerge dal dispositivo, nel quale la Corte EDU si limita
a dichiarare che e' «lo Stato convenuto a  dover  assicurare  che  la
pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente  sia  sostituita  con  una
pena conforme ai principi enunciati nella presente  sentenza»,  cioe'
con la pena di trenta anni di reclusione. 
    Al riguardo si deve ricordare che,  all'indomani  della  sentenza
Scoppola, lo Stato italiano ha comunicato al  Comitato  dei  ministri
del   Consiglio   d'Europa,   l'organo    preposto    al    controllo
sull'esecuzione delle pronunce della Corte EDU, di avere, quanto alle
misure  individuali,  attivato,   nella   forma   dell'incidente   di
esecuzione,  la  procedura  rivolta  alla  sostituzione  della   pena
dell'ergastolo  con  quella  di  trenta  anni   di   reclusione.   In
particolare nel foglio annesso  alla  Risoluzione  del  Comitato  dei
ministri CM/ResDH(2011)66 si da' atto che la Procura generale  presso
la Corte di cassazione ha  trasmesso  la  sentenza  in  oggetto  alla
Procura generale presso  la  Corte  di  appello  di  Roma,  autorita'
giudiziaria competente ad eseguire la sentenza di condanna emessa nei
confronti di Scoppola, e che la Procura generale presso la  Corte  di
appello di Roma, a sua volta, ha  investito  la  Corte  d'appello  in
sede, quale giudice dell'esecuzione. 
    Nel foglio annesso si precisa  ulteriormente  che  l'11  febbraio
2010 la Corte di cassazione ha accolto la richiesta  del  Procuratore
generale e che dunque la pena dell'ergastolo e' stata sostituita  con
quella di trenta anni di reclusione. Inoltre,  con  riferimento  alle
misure generali, lo  Stato  italiano  ha  comunicato  che  alla  luce
dell'«effetto diretto» accordato dai giudici italiani  alle  sentenze
della Corte europea, e in  vista  delle  possibilita'  offerte  dalla
procedura dell'incidente  di  esecuzione  alle  persone  che  possono
trovarsi in  una  situazione  simile  a  quella  del  ricorrente  nel
presente caso, le autorita' italiane considerano che la pubblicazione
e la diffusione della  sentenza  della  Corte  europea  ai  tribunali
competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire  violazioni
simili. 
    Il Comitato, nella risoluzione citata, adottata l'8 giugno  2011,
dopo avere esaminato le misure individuali e  generali,  prese  dallo
Stato italiano (indicate appunto nel foglio annesso),  ha  dichiarato
che questo aveva  adempiuto  agli  obblighi  previsti  dall'art.  46,
paragrafo 2, della Convenzione e ha deciso di chiudere il caso. 
    Tutte  le  ragioni  considerate   inducono   a   concludere   che
fondatamente la Corte di  cassazione  ha  ritenuto  che  la  sentenza
Scoppola non consenta all'Italia di limitarsi a  sostituire  la  pena
dell'ergastolo applicata in quel caso, ma la obblighi a porre  riparo
alla violazione riscontrata a livello normativo e  a  rimuoverne  gli
effetti nei confronti di tutti i  condannati  che  si  trovano  nelle
medesime condizioni di Scoppola. 
    7.3.- Spetta  anzitutto  al  legislatore  rilevare  il  conflitto
verificatosi  tra  l'ordinamento  nazionale  e   il   sistema   della
Convenzione e  rimuovere  le  disposizioni  che  lo  hanno  generato,
privandole di effetti; se pero' il legislatore non interviene,  sorge
il  problema  relativo   alla   eliminazione   degli   effetti   gia'
definitivamente prodotti in fattispecie uguali a  quella  in  cui  e'
stata riscontrata l'illegittimita'  convenzionale  ma  che  non  sono
state  denunciate  innanzi   alla   Corte   EDU,   diventando   cosi'
inoppugnabili. Esiste infatti una radicale differenza tra coloro che,
una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al  sistema  di
giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono  avvalsi
di tale facolta', con la conseguenza che la loro vicenda processuale,
definita  ormai  con  la  formazione  del  giudicato,  non  e'   piu'
suscettibile del rimedio convenzionale. 
    Il  valore  del  giudicato,  attraverso  il  quale  si  esprimono
preminenti  ragioni  di  certezza  del  diritto   e   di   stabilita'
nell'assetto dei rapporti giuridici, del resto, non e' estraneo  alla
Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato
un limite all'espansione della legge  penale  piu'  favorevole,  come
questa Corte ha gia' avuto occasione di porre in  evidenza  (sentenza
n. 236 del 2011). Percio' e' da ritenere che, in linea di  principio,
l'obbligo  di   adeguamento   alla   Convenzione,   nel   significato
attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi,  diversi
da quello  oggetto  della  pronuncia,  nei  quali  per  l'ordinamento
interno si e' formato il giudicato, e che le deroghe  a  tale  limite
vanno ricavate, non dalla CEDU, che  non  le  esige,  ma  nell'ambito
dell'ordinamento nazionale. 
    Quest'ultimo,   difatti,    conosce    ipotesi    di    flessione
dell'intangibilita' del giudicato, che la legge prevede nei  casi  in
cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano  ritenere
prevalenti opposti valori, ugualmente di dignita' costituzionale,  ai
quali il legislatore intende assicurare un primato. 
    Tra questi, non vi e'  dubbio  che  possa  essere  annoverata  la
tutela della liberta' personale, laddove essa venga  ristretta  sulla
base di una  norma  incriminatrice  successivamente  abrogata  oppure
modificata in favore del  reo:  «per  il  principio  di  eguaglianza,
infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di piu',
l'abolitio criminis, disposte dal legislatore in  dipendenza  di  una
mutata  valutazione  del   disvalore   del   fatto   tipico,   devono
riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la
condotta in un  momento  anteriore,  salvo  che,  in  senso  opposto,
ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236  del
2011). 
    Il legislatore a fronte dell'abolitio criminis non  ha  ravvisato
tale ragione giustificativa e ha previsto la  revoca  della  sentenza
(art.  673  cod.  proc.  pen.),   disponendo   che   devono   cessare
l'esecuzione della condanna e gli effetti  penali  (art.  2,  secondo
comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito  che  «Se  vi  e'  stata
condanna  a  pena   detentiva   e   la   legge   posteriore   prevede
esclusivamente la pena pecuniaria,  la  pena  detentiva  inflitta  si
converte immediatamente  nella  corrispondente  pena  pecuniaria,  ai
sensi dell'articolo 135» (art. 2, terzo comma, cod. pen.). 
    A questa Corte compete percio' di rilevare che,  nell'ambito  del
diritto  penale  sostanziale,  e'  proprio  l'ordinamento  interno  a
reputare recessivo il valore del giudicato,  in  presenza  di  alcune
sopravvenienze relative alla punibilita' e  al  trattamento  punitivo
del condannato. 
    Al giudice comune, e in particolar modo  al  giudice  rimettente,
quale massimo organo di nomofilachia compete, invece, di  determinare
l'esatto  campo  di  applicazione   in   sede   esecutiva   di   tali
sopravvenienze,  ovvero   della   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale della norma incriminatrice  (art.  30,  quarto  comma,
della legge 11 marzo 1953,  n.  87),  e,  nell'ipotesi  in  cui  tale
determinazione rilevi ai fini della proposizione di una questione  di
legittimita' costituzionale, spiegarne  le  ragioni  in  termini  non
implausibili. 
    Nel caso in esame le sezioni unite  rimettenti,  con  motivazione
che soddisfa tale ultimo requisito, hanno argomentato  che,  in  base
all'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953,  il  giudicato
penale non impedisce al giudice di intervenire sul  titolo  esecutivo
per modificare la pena, quando la misura di questa e' prevista da una
norma di cui e' stata riconosciuta l'illegittimita' convenzionale,  e
quando tale riconoscimento sorregge un giudizio  altamente  probabile
di illegittimita' costituzionale della norma per violazione dell'art.
117, primo comma, Cost. 
    Nell'ambito    dell'odierno     incidente     di     legittimita'
costituzionale, tale rilievo e' sufficiente per concludere  che,  con
riferimento al procedimento di adeguamento  dell'ordinamento  interno
alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della  Corte
EDU nel caso Scoppola,  il  giudicato  non  costituisce  un  ostacolo
insuperabile che, come invece accade di regola,  limiti  gli  effetti
dell'obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice. 
    Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi
sono percio'  ostacoli  che  si  frappongano  alla  estensione  degli
effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella  relativa  a
Scoppola, sulle quali si sia gia' formato il giudicato. 
    8.- Bisogna ora chiedersi quale sia il  procedimento  da  seguire
per conformarsi alla sentenza della Corte EDU e, in  particolare,  se
il  giudice  dell'esecuzione  abbia  "competenza"  al  riguardo.   In
proposito va rilevato  che  il  procedimento  di  revisione  previsto
dall'art. 630 cod.  proc.  pen.,  quale  risulta  per  effetto  della
dichiarazione di illegittimita' costituzionale di cui  alla  sentenza
n. 113 del 2011 di questa Corte, non e' adeguato al caso  di  specie,
nel  quale  non  e'  necessaria  una  "riapertura  del  processo"  di
cognizione  ma  occorre  piu'  semplicemente  incidere   sul   titolo
esecutivo, in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme
alla CEDU e gia' precisamente determinata nella misura dalla legge. 
    Per una simile attivita' processuale e' sufficiente un intervento
del giudice dell'esecuzione (che infatti e' stato attivato  nel  caso
oggetto del giudizio principale), specie se si  considera  l'ampiezza
dei poteri ormai riconosciuti  dall'ordinamento  processuale  a  tale
giudice,  che  non  si  limita  a  conoscere  delle  questioni  sulla
validita'  e  sull'efficacia  del  titolo  esecutivo  ma   e'   anche
abilitato, in vari casi, ad incidere su  di  esso  (artt.  669,  670,
comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.). 
    Del resto non e'  senza  significato  che,  come  e'  gia'  stato
ricordato, dopo la sentenza Scoppola l'Italia abbia fatto riferimento
proprio al procedimento esecutivo, quando, tra l'altro, ha comunicato
al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa che, in  vista  delle
possibilita' offerte dalla  procedura  dell'incidente  di  esecuzione
alle persone che possono trovarsi in una situazione simile  a  quella
del ricorrente nel presente caso, le autorita'  italiane  considerano
che la pubblicazione e  la  diffusione  della  sentenza  della  Corte
europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti  per
prevenire violazioni simili. 
    Se la sentenza della Corte EDU cui  occorre  conformarsi  implica
l'illegittimita' costituzionale di una norma  nazionale  ci  si  deve
anche chiedere se la sua esecuzione da parte  del  giudice  nazionale
debba passare o meno attraverso la pronuncia di tale illegittimita'. 
    Nei confronti di Scoppola si e' data, da  parte  della  Corte  di
cassazione, direttamente esecuzione alla sentenza della Corte europea
con la procedura del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc.
pen., ma nel caso in esame, in cui rispetto al ricorrente  manca  una
pronuncia specifica della Corte  EDU,  e'  da  ritenere  che  occorra
sollevare una questione di legittimita'  costituzionale  della  norma
convenzionalmente illegittima, come appunto hanno  fatto  le  sezioni
unite della Corte di cassazione. 
    Una  volta  considerato  anche  questo  profilo,  e'  chiara   la
rilevanza della questione di  legittimita'  costituzionale  sollevata
dalle sezioni unite della Corte di cassazione  rispetto  all'art.  7,
comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, che impedisce di definire
la vicenda processuale in osservanza dell'obbligo  costituzionale  di
adeguamento alla sentenza della Corte EDU, che  di  quella  norma  ha
rilevato il contrasto con l'art. 7, paragrafo 1, della CEDU. 
    Si  tratta,  com'e'  chiaro,  di  una  conclusione  che  riguarda
esclusivamente l'ipotesi in cui  si  debba  applicare  una  decisione
della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un  caso  che
sia identico a  quello  deciso  e  non  richieda  la  riapertura  del
processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva.
Le stesse sezioni unite hanno avvertito che «diverso e'  il  caso  di
una pena  rivelatasi  illegittima,  esclusivamente  perche'  inflitta
all'esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai  sensi
dell'art. 6 della CEDU: in questa ipotesi, l'apprezzamento,  vertendo
su  eventuali  errores  in  procedendo   e   implicando   valutazioni
strettamente correlate  alla  fattispecie  specifica,  non  puo'  che
essere compiuto caso per caso, con l'effetto che il giudicato interno
puo' essere posto in discussione soltanto di fronte ad un  vincolante
dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie». 
    Di  conseguenza  si  deve  concludere   che   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1,  del  decreto-legge
n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all'art. 117, primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 7 della CEDU, e' rilevante. 
    La  questione  di  legittimita'   costituzionale   proposta   con
riferimento all'art. 3 Cost. invece  e'  inammissibile,  perche'  non
attiene alla necessita' di conformarsi a  una  sentenza  della  Corte
EDU, cioe' al solo caso che, come si e' visto, puo'  giustificare  un
incidente di legittimita' costituzionale sollevato  nel  procedimento
di esecuzione nei confronti di una norma applicata  nel  giudizio  di
cognizione. 
    9.- Nel  merito,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7
della CEDU, e' fondata. 
    La norma impugnata si colloca al termine di  una  successione  di
tre distinte discipline. La prima e' quella dell'art. 442,  comma  2,
cod. proc. pen., come risultava  in  seguito  alla  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale  contenuta  nella  sentenza  di  questa
Corte n. 176 del 1991, che precludeva la  possibilita'  del  giudizio
abbreviato (e dunque  della  relativa  diminuzione  di  pena)  per  i
procedimenti concernenti reati punibili con l'ergastolo.  La  seconda
e' quella introdotta dalla legge n. 479 del 1999,  il  cui  art.  30,
comma 1, lettera b), aveva  reso  nuovamente  possibile  il  giudizio
abbreviato per i reati puniti con  la  pena  dell'ergastolo,  perche'
aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen. il
seguente periodo: «Alla  pena  dell'ergastolo  e'  sostituita  quella
della  reclusione  di  anni  trenta».  La   terza   e'   quella   del
decreto-legge n. 341 del 2000, il cui art. 7, nel dichiarato  intento
di dare l'interpretazione autentica  dell'art.  442,  comma  2,  cod.
proc. pen., aveva stabilito che l'espressione «pena  dell'ergastolo»,
ivi  contenuta,  dovesse  «intendersi  riferita  all'ergastolo  senza
isolamento diurno», e alla fine del comma 2 aveva aggiunto  un  terzo
periodo, cosi' formulato: «Alla pena  dell'ergastolo  con  isolamento
diurno, nei casi di concorso di  reati  e  di  reato  continuato,  e'
sostituita quella dell'ergastolo». 
    La sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009,  Scoppola  contro
Italia ha  affermato  che  l'art.  442,  comma  2,  cod.  proc.  pen.
costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante
la severita' della pena da infliggere in caso di condanna secondo  il
rito abbreviato» e che l'art. 7, comma 1, del  decreto-legge  n.  341
del 2000, nonostante la formulazione, non e'  in  realta'  una  norma
interpretativa, perche' «l'art. 442, comma 2,  cod.  proc.  pen.  non
presentava alcuna ambiguita' particolare; esso  indicava  chiaramente
che la pena dell'ergastolo era sostituita da quella della  reclusione
di  anni  trenta,  e  non  faceva   distinzioni   tra   la   condanna
all'ergastolo con o senza isolamento diurno».  Inoltre,  aggiunge  la
sentenza Scoppola, «il Governo non ha prodotto  esempi  di  conflitti
giurisprudenziali  ai  quali  l'art.   442   sopra   citato   avrebbe
presumibilmente dato luogo». 
    Si   tratta   di   valutazioni   ineccepibili   anche   in   base
all'ordinamento interno. 
    La natura sostanziale della disposizione dell'art. 442, comma  2,
cod. proc. pen. era stata gia' chiaramente  affermata  dalle  sezioni
unite della Corte di cassazione con la  sentenza  6  marzo  1992,  n.
2977. Allora era venuta in questione una situazione opposta a  quella
attuale. La Corte costituzionale con la  sentenza  n.  176  del  1991
aveva dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale,  per  eccesso  di
delega, del secondo periodo dell'art. 442 cod. proc. pen.,  uguale  a
quello attualmente vigente, e occorreva  decidere  come  trattare  le
condanne gia' intervenute in applicazione  della  norma  di  cui  era
stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale.  Le  sezioni  unite
hanno  ritenuto  che  non  importasse  «stabilire  la  natura   della
diminuzione  o  della  sostituzione  della   pena»,   ma   importasse
«piuttosto rilevare che  essa  si  risolve  indiscutibilmente  in  un
trattamento penale di favore», e hanno  affermato  che  la  pronuncia
della Corte costituzionale «non puo' determinare effetti svantaggiosi
per  gli  imputati  di  reati  punibili  con  l'ergastolo  che  hanno
richiesto  il   giudizio   abbreviato   prima   della   dichiarazione
dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 442, comma 2, cod. proc.
pen. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di
favore di cui  hanno  goduto  in  collegamento  con  il  procedimento
speciale», i cui atti di conseguenza non possono essere annullati. 
    E' vero inoltre che l'art. 7, comma 1, del decreto-legge  n.  341
del 2000 costituisce solo formalmente una  norma  interpretativa:  e'
questa una qualifica non corrispondente  alla  realta',  che  gli  e'
stata data per determinare un  effetto  retroattivo,  altrimenti  non
consentito. Infatti, come e' stato precisato  da  questa  Corte,  «la
legge interpretativa ha lo scopo di chiarire "situazioni di oggettiva
incertezza  del  dato  normativo",  in  ragione  di   "un   dibattito
giurisprudenziale  irrisolto"  (sentenza  n.  311  del  2009),  o  di
"ristabilire  un'interpretazione  piu'   aderente   alla   originaria
volonta' del legislatore" (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela
della  certezza  del  diritto  e  dell'eguaglianza   dei   cittadini»
(sentenze n. 103 del 2013 e n. 78 del 2012). 
    Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato  che,
come ha osservato la sentenza Scoppola, l'art.  442,  comma  2,  cod.
proc.   pen.,   cioe'   l'oggetto   della   pretesa   interpretazione
legislativa, era chiaro, non presentava ambiguita' e non  aveva  dato
luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena dell'ergastolo,
perche'  non  si  dubitava  che  essa  riguardasse  sia   l'ergastolo
"semplice" sia quello con isolamento diurno. 
    In sostanza, l'art. 7, comma 1,  del  decreto-legge  n.  341  del
2000, con il suo effetto  retroattivo,  ha  determinato  la  condanna
all'ergastolo di imputati ai  quali  era  applicabile  il  precedente
testo dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a  questo
avrebbero dovuto essere  condannati  alla  pena  di  trenta  anni  di
reclusione. 
    La Corte EDU, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009,  ha
ritenuto, mutando il proprio precedente e  consolidato  orientamento,
che «l'art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non  sancisce  solo  il
principio della irretroattivita' delle leggi penali piu'  severe,  ma
anche, e implicitamente,  il  principio  della  retroattivita'  della
legge penale meno severa», che si traduce «nella norma  secondo  cui,
se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e
le leggi penali posteriori adottate  prima  della  pronuncia  di  una
sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le
cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato». 
    Si tratta, nell'ambito dell'art. 7, paragrafo 1, della  CEDU,  di
un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell'art.  2
cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo e' stato elevato al rango di
principio della Convenzione. 
    Posto questo principio la Corte ha rilevato  che  «l'articolo  30
della legge n. 479 del 1999 si traduce  in  una  disposizione  penale
posteriore che prevede una pena meno  severa»  e  che  «l'articolo  7
della Convenzione [...]  imponeva  dunque  di  farne  beneficiare  il
ricorrente». Di conseguenza, secondo la Corte, «nella fattispecie  vi
e' stata violazione dell'articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione». 
    Com'e' noto, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349  del  2007,
la giurisprudenza di questa Corte e' costante nel  ritenere  che  «le
norme della CEDU  -  nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita  per  dare  a
esse interpretazione e applicazione  (art.  32,  paragrafo  1,  della
Convenzione)  -  integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 236, n.
113, n. 80 - che conferma la validita'  di  tale  ricostruzione  dopo
l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 -  e
n. 1 del 2011; n. 196 del 2010; n. 311  del  2009),  e  deve  percio'
concludersi che, costituendo l'art. 7 della Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, rispetto all'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  una
norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte  europea
dei diritti dell'uomo con la sentenza  della  Grande  Camera  del  17
settembre 2009, Scoppola  contro  Italia,  comporta  l'illegittimita'
costituzionale della norma impugnata.