ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  degli  artt.  630  e
637, comma 3, del codice di procedura penale,  promosso  dalla  Corte
d'appello di Napoli nel procedimento penale  a  carico  di  P.G.  con
ordinanza del  19  marzo  2013,  iscritta  al  n.  198  del  registro
ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visti l'atto di costituzione di P.G. nonche' l'atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 25 marzo 2014 il Giudice relatore
Giuseppe Frigo; 
    uditi l'avvocato Carmine Giovine  per  P.G.  e  l'avvocato  dello
Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 19 marzo 2013, la Corte d'appello di Napoli
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  24,  quarto  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita'  costituzionale  degli  artt.
630 e 637, comma 3, del codice di procedura penale, «nella  parte  in
cui non consentono la revisione della condanna sulla base della  sola
diversa valutazione delle  prove  assunte  nel  precedente  giudizio,
allorche' risulti evidente che la condanna stessa si e' fondata su un
errore di fatto  incontrovertibilmente  emergente  da  quelle  stesse
prove». 
    La Corte rimettente premette di essere investita della  richiesta
di revisione proposta da una persona condannata, con  sentenza  della
Corte  d'appello  di  Salerno  del  7  febbraio   2007   -   divenuta
irrevocabile il 29 febbraio 2008, a seguito  della  dichiarazione  di
inammissibilita' del ricorso per cassazione proposto contro  di  essa
dall'imputato - alla pena di due mesi e venti  giorni  di  arresto  e
18.000 euro di ammenda, per i reati di cui all'art. 20, primo  comma,
lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia  di
controllo dell'attivita' urbanistico-edilizia, sanzioni,  recupero  e
sanatoria  delle  opere  edilizie)  e  all'art.   163   del   decreto
legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico  delle  disposizioni
legislative in materia  di  beni  culturali  e  ambientali,  a  norma
dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352). 
    Riferisce,  altresi',  il  giudice  a  quo  che,  nella  suddetta
sentenza di condanna - confermativa, sul punto, di quella  emessa  in
primo grado - la Corte salernitana  aveva  ritenuto  che,  alla  luce
delle risultanze  processuali,  l'imputato  avesse  realizzato  opere
edilizie  difformi  da  quelle  per  le  quali  aveva   ottenuto   la
concessione e che nessuna incidenza sulla sua responsabilita'  penale
potesse, altresi', avere l'autorizzazione in sanatoria  rilasciatagli
il 10 febbraio 2002  dal  Comune  di  Pontecagnano  Faiano  ai  sensi
dell'art. 10 della legge n. 47 del 1985, la quale  avrebbe  viceversa
confermato la sussistenza delle difformita' contestate. 
    Nella richiesta di revisione, l'istante ha esposto che,  dopo  il
passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la  Procura  della
Repubblica presso la Corte d'appello  di  Salerno  aveva  avviato  il
procedimento per l'esecuzione dell'ordine di demolizione delle opere.
Il  tecnico  comunale  incaricato  degli  accertamenti   preliminari,
all'esito  di  un  sopralluogo,   aveva   peraltro   accertato   che,
contrariamente a quanto ritenuto nel precedente giudizio,  l'immobile
oggetto del procedimento di esecuzione era conforme alle prescrizioni
dell'autorizzazione in sanatoria: circostanza, questa, confermata  in
una successiva nota del  responsabile  del  settore  urbanistico  del
Comune. 
    Ad avviso del condannato,  il  predetto  «accertamento  tecnico»,
svolto da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue  funzioni  e
come tale dotato di «fede  privilegiata»,  costituirebbe  una  «nuova
prova sopravvenuta», ai sensi dell'art. 630, comma 1, numero 3), cod.
proc. pen., atta a dimostrare che i reati edilizi erano  estinti  per
effetto di sanatoria e, dunque,  a  legittimare  la  revisione  della
sentenza di condanna (art. 631 in riferimento all'art. 531 cod. proc.
pen.). 
    La Corte rimettente nega, tuttavia, validita' a tale tesi.  Dagli
atti del giudizio di cognizione emergerebbe, infatti, che  i  giudici
avevano preso in esame l'autorizzazione rilasciata all'imputato,  che
sanava le opere qualificate come abusive  nel  capo  di  imputazione,
attribuendo, tuttavia, una erronea valenza alla frase contenuta nella
parte finale del provvedimento - ambigua, se isolata dal  contesto  -
in base alla quale la sanatoria era subordinata alla  condizione  che
«l'unita' immobiliare, ad ultimazione dei lavori, resti  la  medesima
di cui alla concessione edilizia n. 38/98, escludendo frazionamenti o
divisioni di unita' immobiliari  non  espressamente  autorizzate».  I
giudici del precedente giudizio avevano, infatti,  ritenuto  che  con
tale  «contraddittoria  espressione»  -  da  essi   stessi   definita
«sibillin[a]»  -  l'amministrazione  comunale,  anziche'  porre   una
prescrizione  rivolta  all'interessato,  intendesse  escludere  dalla
sanatoria le medesime opere che, viceversa, erano state  autorizzate.
In tal modo, i giudici della cognizione - sia in sede di  merito  che
in sede di legittimita' - sarebbero incorsi in un  errore  di  fatto,
reso evidente anche  dalla  considerazione  che  non  avrebbe  alcuna
logica  la  sanatoria  di  un'opera   parzialmente   difforme   dalla
concessione edilizia, subordinata alla condizione che l'opera  stessa
rispetti la concessione. 
    Il rilevato errore di fatto avrebbe  avuto,  d'altro  canto,  una
incidenza decisiva sulla condanna, giacche', in sua assenza, il reato
di cui all'art. 20, primo comma, lettera c), della legge  n.  47  del
1985  avrebbe  dovuto  essere  dichiarato  estinto  per   intervenuto
condono. Ne' rileverebbe la concomitante condanna per il reato di cui
all'art. 163 del d.lgs. n.  490  del  1999,  essendo  ammissibile  la
revisione parziale. 
    Nondimeno, la  circostanza  che  il  provvedimento  di  sanatoria
figurasse gia' tra gli atti a disposizione dei giudici del precedente
giudizio (e da essi concretamente  presi  in  esame)  impedirebbe  di
ritenere  che  l'attestazione  circa  la  corrispondenza  tra   opere
realizzate  e  opere  sanate,   rilasciata   dal   tecnico   comunale
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di  condanna
e confermata tramite la testimonianza assunta in sede  di  revisione,
costituisca una «prova nuova», nei sensi  in  cui  tale  concetto  e'
inteso   dal   «diritto   vivente».   L'attestazione   in   questione
integrerebbe,  in  effetti,  solo  «una  sorta  di   "interpretazione
autentica" del provvedimento amministrativo da parte del  funzionario
che lo ha redatto, volt[a] a rimuoverne [...] il  rilevato  carattere
di ambiguita' che aveva indotto in errore di fatto  i  giudici  della
cognizione». 
    L'elemento  in  esame  non  legittimerebbe,  di  conseguenza,  la
revisione della condanna, posto che, ai sensi degli artt. 630 e  637,
comma 3, cod. proc. pen., come interpretati  dal  «diritto  vivente»,
non  sarebbe  ammessa  la  revisione  in   assenza   di   una   prova
«obiettivamente nuova,  ossia  nemmeno  implicitamente  valutata  dal
giudice della cognizione». 
    Il  giudice  a   quo   dubita,   tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale delle citate disposizioni,  nella  parte  in  cui  non
consentono la revisione sulla base  della  sola  diversa  valutazione
delle prove assunte nel precedente giudizio,  allorche'  la  condanna
risulti  fondata  su  un  errore   di   fatto   incontrovertibilmente
desumibile  da  quelle  stesse  prove.   La   preclusione   censurata
violerebbe,  in  specie,  l'art.  24,  quarto  comma,  Cost.  -   che
configura, secondo la giurisprudenza di  questa  Corte,  l'«immediato
referente» costituzionale dell'istituto della revisione -  in  quanto
implicherebbe l'«elisione  del  diritto  dell'imputato  ingiustamente
condannato ad ottenere la revisione della ingiusta condanna». 
    A parere  della  Corte  rimettente,  infatti,  la  revisione  non
potrebbe   essere   negata,   senza   violare   l'evocato   parametro
costituzionale, quando emerga con assoluta certezza che  la  condanna
si e' basata su un errore di fatto, anche se  desumibile  dalle  sole
prove gia' esaminate dal giudice del precedente giudizio. 
    La questione sarebbe, altresi', rilevante nel giudizio a quo.  In
assenza della possibilita' di  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata delle norme censurate, stante il carattere  espresso  della
preclusione da esse sancita, l'unica  alternativa  al  rigetto  della
richiesta  di  revisione  sarebbe  rappresentata  dalla  proposizione
dell'incidente di legittimita' costituzionale. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile. 
    Secondo la difesa dello Stato, la questione  mirerebbe,  infatti,
ad introdurre un nuovo mezzo straordinario di  impugnazione  volto  a
porre rimedio ad errori contenuti nei provvedimenti  giurisdizionali:
intervento che - come gia' deciso  da  questa  Corte  in  circostanze
analoghe - implicherebbe, per la varieta' delle soluzioni  possibili,
scelte discrezionali riservate al legislatore. 
    3.- Si e' costituita la parte istante nel giudizio di  revisione,
la  quale  ha  chiesto,  in  via  principale,  l'accoglimento   della
questione e, in subordine, che la Corte precisi che, alla luce di una
interpretazione costituzionalmente orientata, rientra nell'ipotesi di
revisione prevista dall'art. 630, comma 1,  lettera  c),  cod.  proc.
pen. anche il caso - oggetto del giudizio a quo -  in  cui  la  nuova
prova,  pur  vertendo  su  un  tema  gia'  esaminato  nel  precedente
giudizio, valga a dimostrare l'errore di fatto in cui e'  incorso  il
relativo giudice. 
    4.-  Nell'imminenza  dell'udienza  pubblica,  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri ha depositato una  memoria,  con  la  quale  -
oltre a ribadire il profilo di inammissibilita' gia' prospettato - ha
chiesto che la questione  venga  dichiarata  comunque  infondata  nel
merito. 
    Ad avviso dell'Avvocatura  dello  Stato,  l'intervento  richiesto
dalla  Corte  rimettente   trasformerebbe   la   revisione   in   una
impugnazione tardiva che permette di dedurre in ogni tempo  cio'  che
nel processo definitivamente  concluso  non  e'  stato  rilevato,  in
contrasto con il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile. Nella specie, la sopravvenuta dichiarazione  del  tecnico
comunale non costituirebbe una nuova prova, ma un  semplice  elemento
utile per una diversa valutazione di prove gia' assunte:  valutazione
che l'imputato aveva la possibilita' di prospettare, con gli ordinari
strumenti processuali, nel giudizio di merito. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La  Corte  d'appello  di  Napoli  dubita  della  legittimita'
costituzionale degli  artt.  630  e  637,  comma  3,  del  codice  di
procedura penale, nella parte in  cui  non  consentono  la  revisione
delle sentenze di condanna irrevocabili sulla base della sola diversa
valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, allorche' la
condanna risulti fondata su un errore di fatto «incontrovertibilmente
emergente da quelle stesse prove». 
    Ad  avviso  della  Corte  rimettente,  la  preclusione  censurata
violerebbe   l'art.   24,   quarto   comma,    della    Costituzione,
compromettendo il diritto della persona ingiustamente  condannata  ad
ottenere senza limiti  di  tempo  la  rimozione  della  pronuncia  di
condanna. 
    2.- La questione e' inammissibile. 
    Nella formulazione del petitum, il  giudice  a  quo  coniuga  due
concetti tra loro antinomici: da un lato, l'errore di valutazione (la
«diversa valutazione delle prove» - che nella prospettiva della Corte
rimettente dovrebbe giustificare la revisione - e',  infatti,  quella
destinata  a  correggere  una   precedente   valutazione   inesatta);
dall'altro, l'errore di fatto. 
    Alla luce di nozioni  generalmente  accolte  -  tanto  in  ambito
processuale penale che processuale civile - l'errore  di  fatto,  con
riguardo ai provvedimenti giurisdizionali, e' la falsa percezione  da
parte del giudice, per equivoco o svista, di  quanto  emergeva  dagli
atti del giudizio e che non  soltanto  era  incontroverso,  ma  anche
incontrovertibile.  Si  tratta,  dunque,  di  un   errore   meramente
percettivo, che non coinvolge in nessun modo l'attivita' valutativa e
interpretativa  di  situazioni  processuali  esattamente  colte   dal
giudice nella loro oggettivita'. 
    Di contro, allorche'  il  giudice  ha  esattamente  percepito  la
realta' processuale, ma erra nell'attribuirle una determinata valenza
probatoria in luogo di  un'altra,  si  e'  di  fronte  ad  un  errore
valutativo o di giudizio. E' chiaro, dunque, che  il  primo  tipo  di
errore esclude l'altro, e viceversa. 
    3.-  Alla  luce  del   tenore   complessivo   dell'ordinanza   di
rimessione, appare peraltro evidente come il risultato perseguito dal
giudice a quo non sia quello di rendere  emendabili  tout  court,  in
sede di revisione, gli errori di tipo valutativo:  prospettiva  nella
quale l'infondatezza della questione risulterebbe palese,  posto  che
la regola enunciata dall'art. 637, comma 1,  cod.  proc.  pen.  -  in
forza della quale il giudice della revisione «non puo' pronunciare il
proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa  valutazione
delle  prove  assunte  nel  precedente  giudizio»  -  ha  una   ratio
solidissima, nella sua ovvieta'.  Se  fosse  possibile  rimettere  in
discussione sine die gli apprezzamenti del materiale probatorio (gia'
esistente) posti a base delle pronunce di condanna, i giudizi  penali
non avrebbero mai fine e rimarrebbe svuotato il  concetto  stesso  di
giudicato, il quale mira ad assicurare una  tutela  certa  e  stabile
delle situazioni giuridiche, escludendo, con cio', una condizione  di
perenne sindacabilita' delle decisioni. 
    L'obiettivo cui mira il giudice a quo e', per  converso  e  nella
sostanza, quello di rendere emendabili, tramite  lo  strumento  della
revisione, gli errori  di  fatto  che  abbiano  avuto  una  influenza
decisiva sulla pronuncia di condanna. 
    In questa ottica, e' peraltro dirimente il rilievo  che  l'errore
addebitato, nel caso di specie, dalla Corte partenopea ai giudici del
precedente giudizio non e', con tutta evidenza, un errore  di  fatto,
ma un errore a carattere valutativo. 
    Alla  luce  di  quanto  riferito  nell'ordinanza  di  rimessione,
infatti, i predetti giudici hanno rilevato in modo corretto il tenore
letterale del provvedimento su cui fa perno la richiesta di revisione
- costituito  dall'autorizzazione  in  sanatoria  delle  opere  edili
abusive per le quali l'imputato era stato tratto a giudizio  -  senza
incorrere  in  alcuna   falsa   percezione   dell'oggettiva   realta'
processuale. I medesimi giudici avrebbero invece errato,  secondo  la
Corte rimettente, nell'interpretare una frase contenuta  nella  parte
conclusiva del provvedimento - da essi definita «sibillin[a]»  e  che
lo stesso giudice a quo qualifica come «contraddittoria» e  «ambigua»
- scorgendovi una conferma dell'abusivita' dei lavori in discussione,
anziche' una  prescrizione  condizionante  la  sanatoria,  rispettata
dall'imputato. Tema, questo, che -  sempre  secondo  quanto  riferito
dalla Corte partenopea - costituiva un punto controverso sul quale la
sentenza irrevocabile ha specificamente pronunciato. 
    4.- La circostanza che si sia, dunque, chiaramente di  fronte  ad
un (supposto) errore a carattere valutativo, e non gia' ad un  errore
di fatto - come invece opinato dalla  Corte  rimettente  -  rende  la
questione inammissibile per difetto di rilevanza. Cio', a prescindere
da ogni  rilievo  sul  merito  delle  censure,  in  ordine  al  quale
varrebbero  comunque  considerazioni   analoghe   a   quelle   dianzi
prospettate, posto che gli errori di fatto compiuti dai  giudici  del
merito,  «incontrovertibilmente  emergent[i]  da[lle]  stesse  prove»
poste a base della loro decisione, sono emendabili (e debbono  essere
quindi dedotti) tramite i  mezzi  ordinari  di  impugnazione,  mentre
quelli incorsi nel giudizio di cassazione possono essere corretti  (e
vanno  quindi  dedotti)  tramite  il  ricorso  straordinario  di  cui
all'art. 625-bis cod. proc. pen. (soggetto  anch'esso  a  termine  di
decadenza, ai sensi del comma 2 di tale articolo, proprio al fine  di
evitare che la sentenza irrevocabile di condanna resti "instabile"  a
tempo  indeterminato),  senza  che  possa  ravvisarsi  la  necessita'
costituzionale di consentire  la  deduzione  sine  die  dei  medesimi
errori "a valle" del giudicato, tramite l'istituto della revisione.