ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 409,  comma
5, del codice  di  procedura  penale  promosso  dal  Giudice  per  le
indagini preliminari del Tribunale di Varese, nel procedimento penale
a carico di P.G. con ordinanza del 26 novembre 2012, iscritta  al  n.
224 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  26  marzo  2014  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 26 novembre 2012, il Giudice  per
le indagini preliminari del Tribunale  di  Varese  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 111 e 112  della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 409, comma  5,  del  codice  di
procedura penale, nella parte in cui - alla luce dell'interpretazione
accolta dalla giurisprudenza di legittimita', qualificata dal giudice
a quo come «diritto vivente» - prevede che, ove il pubblico ministero
ometta  di  formulare  l'imputazione  ordinata  dal  giudice  per  le
indagini preliminari, quest'ultimo sia  obbligato  ad  archiviare  la
notizia di reato; 
    che il giudice a quo riferisce di essere  investito  della  terza
richiesta  di  archiviazione  proposta  dal  pubblico  ministero   in
relazione alla medesima notizia di reato, dopo che, in relazione alle
due precedenti richieste, esso rimettente aveva  disposto,  ai  sensi
della norma denunciata, che  fosse  formulata  l'imputazione  per  il
delitto di peculato; 
    che il rimettente si troverebbe, a questo punto, nell'alternativa
tra il fissare una ulteriore udienza in camera di consiglio, a  norma
dell'art. 409, comma 2, cod. proc.  pen.,  per  disporre  ancora  una
volta che il pubblico ministero formuli l'imputazione, con il rischio
di uno «stallo procedimentale»,  o  il  subire  quella  che  potrebbe
essere definita una «archiviazione coatta»; 
    che, a questo riguardo, il giudice a quo rileva come -  superando
un'originaria impostazione  di  diverso  segno,  a  suo  parere  piu'
aderente alla lettera e allo spirito dell'art.  409,  comma  5,  cod.
proc. pen. - si sia affermata, nella giurisprudenza di  legittimita',
l'interpretazione in forza della quale,  ove  il  pubblico  ministero
ometta  di  formulare  l'imputazione  ordinata  dal  giudice  per  le
indagini preliminari, quest'ultimo sarebbe obbligato ad archiviare la
notizia di reato; 
    che, piu' in particolare, secondo  l'orientamento  interpretativo
in questione, nel caso in  cui  il  pubblico  ministero  non  formuli
l'imputazione e insista, invece, nella richiesta di archiviazione, al
giudice per le indagini preliminari non resterebbe altra facolta' che
quella di pronunciare il decreto di archiviazione o di sollecitare il
procuratore generale presso la corte d'appello ad avocare le indagini
e ad esercitare l'azione penale;  ma  qualora  anche  il  procuratore
generale ritenesse di non dover agire, il giudice sarebbe  tenuto  ad
archiviare la notitia criminis, salva  una  successiva  ed  eventuale
riapertura delle indagini, ove ne ricorressero i presupposti; 
    che alla luce di tale interpretazione - configurabile,  in  tesi,
come «diritto vivente» - la norma censurata si porrebbe, tuttavia, in
contrasto con l'art. 112 Cost., che obbliga il pubblico ministero  ad
esercitare l'azione penale: e cio' tanto piu' a fronte del fatto che,
nell'ipotesi   considerata,   l'esistenza   dell'obbligo   e'   stata
riconosciuta dal giudice «terzo e imparziale», il cui  intervento  e'
richiesto dall'art. 409  cod.  proc.  pen.  proprio  a  garanzia  del
rispetto del principio costituzionale in questione; 
    che  nella  predetta  lettura  la  norma  denunciata  violerebbe,
altresi', l'art. 111 Cost., facendo si' che  la  valutazione  di  una
delle parti prevalga su quella dell'organo giurisdizionale; 
    che la questione sarebbe, per altro verso, rilevante,  in  quanto
il rimettente avrebbe gia' fatto inutilmente applicazione della norma
censurata nel  procedimento  a  quo,  nell'interpretazione  che  egli
reputa  «costituzionalmente  orientata»,  ma  non   condivisa   dalla
giurisprudenza di legittimita'; 
    che, d'altro canto, non sarebbe di  alcuna  utilita'  sollecitare
l'intervento del Procuratore  generale  presso  la  Corte  d'appello:
sollecitazione non prevista da alcuna norma, ma che  potrebbe  essere
ritenuta anch'essa  introdotta  nel  sistema  dal  «diritto  vivente»
dianzi ricordato; 
    che nella specie, infatti, il Procuratore generale  sarebbe  gia'
stato compiutamente informato  della  vicenda,  avendo  ricevuto,  ai
sensi dell'art. 409, comma 3, cod. proc.  pen.,  l'avviso  delle  due
udienze camerali fissate dal rimettente  a  fronte  delle  precedenti
richieste  di  archiviazione  presentate   dal   pubblico   ministero
varesino; 
    che a meno, quindi, di ritenere  che  le  predette  comunicazioni
siano  sostanzialmente  inutili,  si   dovrebbe   supporre   che   il
Procuratore  generale  abbia  condiviso  l'opinione  del   requirente
locale, decidendo conseguentemente di non avocare le  indagini  e  di
non  esercitare  l'azione  penale,  malgrado  il  duplice  ordine  di
formulare l'imputazione impartito dal rimettente; 
    che e' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
    Considerato che  il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale di Varese  dubita  della  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento agli artt. 111 e 112 della Costituzione,  dell'art.  409,
comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in  cui  -  alla
luce   dell'interpretazione   offertane   dalla   giurisprudenza   di
legittimita',  qualificabile  secondo  il  rimettente  come  «diritto
vivente» - prevede che, ove il pubblico ministero ometta di formulare
l'imputazione ordinata dal giudice  per  le  indagini  preliminari  e
insista nel chiedere  l'archiviazione  della  notizia  di  reato,  il
giudice sia obbligato ad adottare tale provvedimento; 
    che la questione e' manifestamente  inammissibile  sotto  plurimi
profili; 
    che, in primo luogo, il giudice a quo eleva al rango di  «diritto
vivente» un indirizzo interpretativo  espresso  da  due  pronunce  di
sezioni singole della Corte di cassazione, ampiamente divaricate  sul
piano temporale (sezione IV, 25 novembre 2003-2 aprile 2004, n. 15615
e sezione I, 24 ottobre 1995-24 gennaio 1996, n. 5291):  indirizzo  i
cui  postulati  si  pongono  in  aperta  frizione  con  il   corrente
convincimento - espresso in piu'  occasioni  anche  da  questa  Corte
(sentenze n. 130 del 1993 e n. 263 del 1991,  ordinanze  n.  182  del
1992 e n. 253 del 1991) - secondo cui le prescrizioni  impartite  dal
giudice per le indagini preliminari ai sensi dell'art. 409, commi 4 e
5, cod.  proc.  pen.  (e  segnatamente,  per  quanto  qui  interessa,
l'ordine  di  formulare  l'imputazione  entro  dieci   giorni)   sono
vincolanti per l'organo  dell'accusa,  essendo  siffatta  conclusione
nella  logica  del  meccanismo  di  controllo  giurisdizionale  sulla
determinazione di non agire (sulla inammissibilita' della  questione,
nel caso di inesistenza del «diritto vivente» oggetto di censura o di
sua inesatta ricostruzione da parte del giudice a quo,  ex  plurimis,
sentenza n. 320 del 2009, ordinanze n. 90 del 2009, n. 251  e  n.  64
del 2006); 
    che, al di la' di cio', il rimettente si e' gia'  discostato  dal
supposto «diritto vivente» nel  procedimento  a  quo,  applicando  la
norma   censurata   in   una   diversa   interpretazione,    ritenuta
«costituzionalmente orientata»: in tal modo, dimostrando  chiaramente
di non condividere l'indirizzo censurato; 
    che, infatti, di fronte alla seconda richiesta di  archiviazione,
presentata dal pubblico ministero dopo che in relazione alla prima il
rimettente  aveva  ordinato  la  formulazione  dell'imputazione,   il
rimettente stesso - lungi dall'adottare  il  provvedimento  richiesto
dall'organo dell'accusa - ha ribadito l'anzidetto ordine; 
    che la questione appare, di conseguenza, sollevata  all'improprio
fine di ottenere dalla Corte un avallo dell'interpretazione  ritenuta
dal rimettente corretta e costituzionalmente adeguata,  nonche'  gia'
applicata   nel   procedimento   principale,   contro   una   diversa
interpretazione non condivisa (sulla manifesta inammissibilita' delle
questioni  proposte  con  finalita'  di  avallo  interpretativo,   ex
plurimis, ordinanze n. 26 del 2012, n. 139 del  2011  e  n.  219  del
2010); 
    che a cio' va aggiunto che, prima di  sollevare  la  questione  a
fronte della nuova richiesta di archiviazione presentata dal pubblico
ministero, il rimettente non si e' neppure adeguato in modo  compiuto
all'indirizzo interpretativo censurato; 
    che - stando alla ricostruzione operata dallo  stesso  giudice  a
quo - l'ipotetico «diritto vivente» postulerebbe infatti che,  quando
il  pubblico  ministero  non  ottemperi   all'ordine   di   formulare
l'imputazione e insista nel chiedere l'archiviazione, il giudice  per
le  indagini  preliminari  abbia  due  alternative:  o  aderire  alla
richiesta, ovvero sollecitare il procuratore generale presso la corte
d'appello ad avocare le indagini e  ad  esercitare  l'azione  penale;
solo se  nemmeno  il  procuratore  generale  decidesse  di  agire  il
provvedimento  di  archiviazione  diverrebbe  ineluttabile   per   il
giudice; 
    che,  nella  specie,  il  giudice  a  quo  non   ha   sollecitato
l'avocazione,  reputando  tale  iniziativa  inutile,  posto  che   al
Procuratore generale era gia' stata comunicata,  ai  sensi  dell'art.
409, comma 3, cod. proc. pen., la  fissazione  delle  due  precedenti
udienze in camera di consiglio in esito alle quali il  rimettente  ha
disposto  la  formulazione  dell'imputazione;  dal  che  si  dovrebbe
dedurre che il Procuratore generale, pur informato della vicenda, non
e'  intervenuto  perche'  reputa  corretto  l'operato  del   pubblico
ministero varesino; 
    che il ragionamento non puo' essere condiviso; 
    che e' ben vero, in effetti, che la comunicazione al  procuratore
generale dell'udienza camerale mira a  consentirgli  l'esercizio  del
potere di avocazione (facoltativa) previsto dall'art. 412,  comma  2,
cod. proc. pen., stante la possibilita' che il  mancato  accoglimento
de plano della richiesta di archiviazione sia indice  di  inerzie  da
parte dell'organo requirente locale: ma una cosa e' la  nuda  notizia
della fissazione di un'udienza, altra la sollecitazione ad avocare le
indagini  postulata  dall'indirizzo  giurisprudenziale  assunto  come
«diritto vivente», la quale implica una  specifica  comunicazione  al
procuratore generale dell'esito di detta udienza e del fatto  che  vi
e', per tabulas, una inadempienza del pubblico ministero  all'obbligo
di agire, giudizialmente affermato; 
    che, pertanto, a tutto pure concedere, la questione  risulterebbe
prematura: il giudice a quo avrebbe dovuto preventivamente  avvalersi
dello strumento che - in base alla sua  stessa  ricostruzione  -  gli
sarebbe offerto per evitare di dover archiviare la notizia di reato e
solo  all'esito  eventualmente  porsi  il  dubbio   di   legittimita'
costituzionale  (sulla  manifesta  inammissibilita'  delle  questioni
premature, ex plurimis, ordinanze n. 176 del 2011, n. 277 e n. 96 del
2010); 
    che, da ultimo, emerge  da  plurimi  passaggi  dell'ordinanza  di
rimessione come l'obiettivo perseguito dal  giudice  a  quo,  tramite
l'incidente di legittimita' costituzionale, sia non  tanto  di  poter
continuare  ad  impartire   l'ordine   di   formulare   l'imputazione
nonostante le  reiterate  richieste  di  archiviazione  del  pubblico
ministero, quanto piuttosto di superare  lo  «stallo  procedimentale»
conseguente  al  "rimbalzo"  tra  l'uno  e  le  altre,   suscettibile
potenzialmente di protrarsi sine die; 
    che per questo verso, tuttavia, il petitum del rimettente risulta
indeterminato (sulla manifesta inammissibilita' della questione,  nel
caso di indeterminatezza del petitum, ex plurimis, ordinanze  n.  195
del 2013 e n. 170 del 2012); 
    che  il  giudice  a  quo  si  limita,  infatti,  ad   evidenziare
l'esistenza del problema, senza precisare quale  dovrebbe  essere  il
rimedio processuale all'indicata situazione di «stallo», tra i  molti
astrattamente ipotizzabili: ad esempio, l'attribuzione al giudice per
le  indagini  preliminari  del  potere  di   formulare   direttamente
l'imputazione, in sostituzione del  pubblico  ministero  inadempiente
(soluzione, peraltro, in aperto contrasto con  il  principio  cardine
del sistema accusatorio, adottato dal vigente  codice  di  rito,  «ne
procedat iudex ex officio»), ovvero la previsione  di  un'ipotesi  di
avocazione obbligatoria (a  prescindere  qui  dalla  possibilita'  di
pervenire  a  tale  risultato  gia'  in  via  interpretativa),  o  la
sostituzione del magistrato del pubblico ministero designato  per  il
procedimento,  ovvero  ancora  l'estensione  all'ipotesi  considerata
della disciplina  dei  conflitti  di  competenza;  tutto  cio'  senza
considerare che - come gia' rilevato in materia  da  questa  Corte  -
l'adozione   dell'una   o   dell'altra   di   siffatte    alternative
implicherebbe  scelte   discrezionali,   riservate   come   tali   al
legislatore (ordinanza n. 122 del 1992, con riguardo all'inadempienza
del pubblico ministero  all'ordine  di  svolgere  ulteriori  indagini
impartito ai sensi dell'art. 409, comma 4, cod. proc. pen.); 
    che, per tale complesso di ragioni, la  questione  va  dichiarata
manifestamente inammissibile. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.