ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 69,  quarto
comma, del codice penale, promosso  dalla  Corte  di  cassazione  nel
procedimento penale a carico di D.C.L., con ordinanza del 15  ottobre
2013, iscritta al n. 275 del registro  ordinanze  2013  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  52,  prima   serie
speciale, dell'anno 2013. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  D.C.L.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  marzo  2014  il   Giudice
relatore Giorgio Lattanzi; 
    uditi l'avvocato Alfredo Guarino per D.C.L.  e  l'avvocato  dello
Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte di cassazione, terza sezione penale,  con  ordinanza
del 15 ottobre  2013  (r.o.  n.  275  del  2013),  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto  comma,
del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975,
n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di  giudizio
di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e
di prescrizione),  nella  parte  in  cui  stabilisce  il  divieto  di
prevalenza della circostanza  attenuante  di  cui  all'art.  609-bis,
terzo comma, cod. pen., sulla recidiva reiterata, prevista  dall'art.
99, quarto comma, cod. pen. 
    La Corte rimettente premette che,  con  sentenza  del  15  luglio
2011, il Tribunale ordinario di  Torre  Annunziata  aveva  dichiarato
D.C.L. colpevole dei reati di cui agli artt.  81,  capoverso,  572  e
609-bis cod. pen. e lo aveva condannato alla pena di quattro  anni  e
sei mesi di reclusione, ritenendo  l'attenuante  prevista  dal  terzo
comma  dell'art.  609-bis  cod.  pen.  prevalente  sulla   contestata
recidiva reiterata e infraquinquennale. 
    La Corte d'appello di Napoli, in  accoglimento  dell'appello  del
pubblico ministero, aveva parzialmente riformato la sentenza di primo
grado, rideterminando la pena in  sei  anni  di  reclusione,  perche'
aveva ritenuto che rispetto  alla  recidiva  prevista  dall'art.  99,
quarto comma, cod. pen., il giudizio di comparazione con l'attenuante
del fatto di minore gravita' non potesse  essere  effettuato  che  in
termini di equivalenza. 
    L'imputato aveva proposto ricorso per cassazione,  deducendo  che
il giudice di appello aveva aggravato la pena senza tener conto delle
risultanze processuali e della valutazione dell'attenuante  dell'art.
609-bis, terzo comma, cod. pen., fatta dal giudice di primo grado,  e
aveva altresi' sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede  il
divieto di prevalenza della circostanza attenuante  di  cui  all'art.
609-bis, terzo comma, cod. pen., sulla recidiva  reiterata,  prevista
dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. 
    Il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale  e  di
legittimita' che  ha  prospettato  un'interpretazione  dell'art.  99,
quarto comma, cod. pen., tale da configurare un'ipotesi  di  recidiva
facoltativa,  che  il  giudice  puo'  sia   escludere,   sia   invece
riconoscere,   qualora   il   nuovo   episodio   delittuoso    appaia
concretamente significativo, in rapporto alla natura e  al  tempo  di
commissione dei precedenti, sotto il profilo  della  piu'  accentuata
colpevolezza e della maggiore pericolosita' del reo. 
    Nel caso di specie, prosegue la Corte rimettente, il  giudice  di
secondo grado aveva ritenuto che la contestata recidiva  non  potesse
essere  esclusa,  perche'  «i  reati  contestati  all'imputato,  gia'
gravato di precedenti per evasione e violazione della normativa sugli
stupefacenti, costituivano  espressione  di  maggior  colpevolezza  e
pericolosita' sociale in quanto si inquadravano "senza dubbio  alcuno
in  una  progressione  criminosa  ulteriore,  essendo   ampliato   il
ventaglio  di  beni  aggrediti  dalle  condotte  antigiuridiche   del
D.C.L."», e aveva ritenuto che il giudizio  di  comparazione  tra  la
ritenuta  recidiva  e  la  circostanza  attenuante  di  cui  all'art.
609-bis, terzo comma, cod. pen., potesse essere espresso  in  termini
di equivalenza, dato «il tassativo disposto di cui all'art. 69, comma
4,  c.p.»  da  cui  discende  automaticamente  «l'impossibilita'   di
ritenere la prevalenza della circostanza attenuante». 
    Ritenuta  percio'  la  rilevanza  della  questione,   e   facendo
riferimento alla sentenza di questa Corte n. 68 del 2012, la Corte di
cassazione rileva che «al pari della configurazione delle fattispecie
astratte di reato anche la commisurazione delle sanzioni per ciascuna
di esse e' materia affidata alla discrezionalita' del legislatore  in
quanto  involge  apprezzamenti  tipicamente   politici.   Le   scelte
legislative sono pertanto sindacabili soltanto ove  trasmodino  nella
manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come avviene a fronte  di
sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette  da
alcuna ragionevole giustificazione», sicche' la Corte  costituzionale
avrebbe il compito di verificare  che  l'uso  della  discrezionalita'
legislativa rispetti sia  il  limite  della  ragionevolezza,  sia  il
principio  di  proporzionalita'  tra  qualita'  e   quantita'   della
sanzione, da un lato, e offesa, dall'altro. 
    Cio' posto, la questione sarebbe non manifestamente infondata con
riferimento   ai   principi   di   uguaglianza,   ragionevolezza    e
proporzionalita' sanciti dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 
    La Corte rimettente ricorda che la legge 15 febbraio 1996, n.  66
(Norme contro la violenza sessuale), ricorrendo all'unitaria  nozione
di atti sessuali, ha unificato nella violenza sessuale le fattispecie
di congiunzione carnale violenta e  di  atti  di  libidine  violenti,
previste dalla precedente normativa, e che «la "unificazione" in  una
sola [ipotesi] criminosa di ogni attentato  alla  sfera  sessuale  ha
indotto il legislatore, per differenziare sul piano sanzionatorio  le
ipotesi meno gravi (rientranti secondo la previgente disciplina negli
atti  di  libidine),  a  configurare   una   circostanza   attenuante
speciale». Cosi', mentre l'art.  609-bis,  primo  comma,  cod.  pen.,
prevede una pena da cinque a dieci anni di reclusione, il terzo comma
stabilisce che «nei casi di minore gravita'» la pena e' diminuita  in
misura non eccedente i due terzi, sicche', in caso di  riconoscimento
di siffatta attenuante, la stessa «(applicandosi  l'attenuante  nella
massima estensione) puo' variare da un minimo di 1 anno e 8  mesi  di
reclusione ad un massimo di 3 anni e 4 mesi». 
    La Corte aggiunge che «il massimo della pena  edittale,  previsto
nell'ipotesi di riconoscimento della circostanza attenuante  speciale
di  minore  gravita'  (anni  3  a  mesi  4),  e'   [...],   in   modo
considerevole, inferiore al minimo della pena prevista per  l'ipotesi
di cui al comma 1 (anni 5)», e cio'  perche'  le  ipotesi  di  minore
gravita' di cui  al  terzo  comma  dell'art.  609-bis  cod.  pen.  si
differenziano, rispetto a quelle delineate dal primo  comma,  per  la
minore offesa alla liberta' sessuale cagionata dal fatto di reato. 
    Questa  differenza,  peraltro,  era  stata  tenuta  presente  dal
legislatore anche in materia di misure cautelari,  in  quanto,  prima
della sentenza n. 265 del 2010, con cui la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato l'illegittimita' dell'art. 275, comma 3, secondo  e  terzo
periodo, del codice di procedura penale (nella parte  in  cui  -  nel
prevedere che, quando sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma,  609-bis
e 609-quater del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono  essere
soddisfatte con altre misure), la presunzione prevista da tale  comma
non si applicava, per espressa esclusione normativa, alle ipotesi  di
minore gravita' previste dal terzo comma dell'art. 609-bis cod. pen. 
    Richiamata  la  giurisprudenza  di  legittimita'  sull'attenuante
speciale  in  oggetto,  la  Corte  rimettente  conclude  che   questa
circostanza rappresenta  un  «temperamento  dell'unificazione  in  un
unico reato di condotte che si differenziano nettamente in  relazione
alla diversa intensita' della lesione del bene  giuridico  tutelato»,
con la conseguenza che «la norma di cui all'art. 69 co.  4  c.p.  che
[ne] prevede il divieto di prevalenza [...]  sulla  recidiva  di  cui
all'art. 99 co. 4 c.p. impedisce  sostanzialmente  l'applicazione  di
una sanzione adeguata e proporzionata all'entita' (anche  se  minima)
dell'aggressione alla sfera sessuale della vittima, ponendo l'accento
esclusivamente sulle condizioni soggettive del reo». 
    La  norma  censurata  sarebbe,  pertanto,  in  contrasto  con  il
principio di  uguaglianza  perche'  fatti  anche  di  minima  entita'
vengono,  per  effetto  del   divieto   in   questione,   ad   essere
irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista  dal  primo
comma dell'art. 609-bis cod. pen., per le ipotesi  di  violenza  piu'
gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo  bene
giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia  per
il danno arrecato  alla  vittima.  L'autore  di  condotte  di  minore
gravita', che sia recidivo ex  art.  99,  quarto  comma,  cod.  pen.,
sarebbe infatti punito con la stessa pena prevista per  chi  pone  in
essere comportamenti ben piu' gravi sotto il profilo dell'offesa alla
liberta' sessuale della vittima. 
    Tale incongruita' sarebbe piu' evidente quando non si  tratta  di
recidiva specifica, perche' in tal caso il reo  non  potrebbe  essere
ritenuto incline a commettere reati della stessa indole. 
    Sussisterebbe,  inoltre,   la   violazione   del   principio   di
proporzionalita' della pena, in  quanto,  come  gia'  rilevato  dalla
Corte costituzionale nella sentenza  n.  251  del  2012,  l'incidenza
della regola preclusiva sancita  dall'art.  69,  quarto  comma,  cod.
pen., attribuisce alla risposta punitiva i connotati di una  sanzione
palesemente sproporzionata e, dunque, inevitabilmente avvertita  come
ingiusta dal condannato. Percio', secondo la Corte  rimettente,  deve
concludersi che la norma censurata  e'  in  contrasto  anche  con  la
finalita' rieducativa della pena, che implica un costante  «principio
di proporzione» tra qualita'  e  quantita'  della  sanzione,  da  una
parte, e offesa, dall'altra. 
    2.- E' intervenuto nel giudizio di  legittimita'  costituzionale,
con  memoria  depositata  il  16  gennaio  2014,  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, e ha chiesto che la  questione  sia  dichiarata
inammissibile o, comunque, non fondata. 
    Ad avviso della difesa  dello  Stato,  la  Corte  rimettente  non
avrebbe  descritto  sufficientemente  la  fattispecie   oggetto   del
giudizio, in quanto non avrebbe specificato «i fatti in base ai quali
sia stata valutata  giuridicamente  corretta  la  non  praticabilita'
della esclusione dell'aggravante della recidiva». Il giudice  a  quo,
in particolare, non avrebbe «illustrato per quale motivo nel caso  di
specie sia da negare la possibilita' di tenere conto della  lesivita'
oggettiva del fatto, escludendo rilievo ad una condizione  soggettiva
dell'imputato  che  non  e'  affatto  espressione  di  una   medesima
devianza». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile per  difetto
di motivazione sulla rilevanza. 
    L'Avvocatura generale dello  Stato  aggiunge  che,  comunque,  la
questione non e' fondata. Con la  riforma  dell'art.  69  cod.  pen.,
introdotta dal decreto-legge 11 aprile  1974,  n.  99  (Provvedimenti
urgenti  sulla  giustizia  penale),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220,  si  sarebbe
gravato il giudice di un potere discrezionale estremamente lato,  con
il pericolo di provocare disparita' e incertezze in sede applicativa.
La dilatazione del giudizio di bilanciamento conseguente alla riforma
del 1974 avrebbe in seguito  indotto  piu'  volte  il  legislatore  a
circoscriverlo o ad escluderlo per  talune  circostanze,  e  in  tale
contesto si inserirebbe la modifica dell'art. 69, quarto comma,  cod.
pen., la cui ratio  e'  chiaramente  volta  a  «inasprire  il  regime
sanzionatorio di coloro che  versano  nella  situazione  di  recidiva
reiterata, impedendo che tale importante  circostanza  sia  sottratta
alla commisurazione della pena in concreto»: si  tratterebbe  di  una
scelta discrezionale del legislatore, immune dalle censure denunciate
dal giudice rimettente. 
    La norma censurata non sarebbe in contrasto con il  principio  di
ragionevolezza,  in  quanto  tenderebbe  ad  attuare  «una  forma  di
prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime
sanzionatorio».  Essa,  inoltre,  non  comporterebbe  un'applicazione
sproporzionata della pena, perche' sanziona coloro che hanno commesso
un altro reato essendo gia' recidivi, cosi'  dimostrando  un  alto  e
persistente  grado  di  antisocialita'.  Inoltre,  non  si   potrebbe
ragionevolmente   ritenere   che   la   previsione   di   trattamenti
sanzionatori piu' rigorosi per i recidivi reiterati possa determinare
l'applicazione di una pena di per se' sproporzionata, e cio'  sarebbe
sufficiente per escludere anche qualsiasi conflitto con  la  funzione
rieducativa della pena.  La  commisurazione  della  pena,  sottolinea
l'Avvocatura generale dello  Stato,  e'  demandata  al  giudice  alla
stregua dei principi fissati dal legislatore, che nel caso di  specie
avrebbe inteso sanzionare il fenomeno  della  recidiva  reiterata  in
se', a prescindere dalla gravita' dei fatti commessi, dai loro  tempi
e modi e dalle sanzioni irrogate, in quanto «il  fatto  stesso  della
persistenza  nelle  condotte  antisociali,  quali  che  esse   siano,
dimostra che la funzione  rieducativa  non  ha  potuto  efficacemente
esplicarsi  nei  confronti  del  soggetto,  e  quindi  e'  necessario
assicurare la possibilita' (quantomeno escludendo la prevalenza delle
attenuanti) che, attraverso l'applicazione della pena, tale  funzione
trovi una nuova occasione di svolgimento». 
    La giurisprudenza  costituzionale,  osserva  ancora  l'Avvocatura
generale dello Stato,  ha  chiarito  come,  salvo  che  per  i  reati
previsti dall'art. 407, comma 2, lettera  a),  cod.  proc.  pen.,  la
recidiva conservi il carattere  discrezionale  o  facoltativo,  cosi'
restando integro il potere del giudice  di  escludere  l'applicazione
della circostanza qualora ritenga che la ricaduta nel reato  non  sia
«indice di  insensibilita'  etico/sociale  del  colpevole».  Percio',
anche nelle ipotesi di  recidiva  reiterata,  il  giudice  di  merito
sarebbe tuttora in grado, motivando adeguatamente  la  decisione,  di
commisurare il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravita'  del
fatto e alla reale necessita' di rieducazione mostrata dal colpevole. 
    3.- Nel giudizio  di  costituzionalita'  si  e'  costituito,  con
memoria depositata il  3  gennaio  2014,  D.C.L.,  che  ha  sostenuto
l'illegittimita' costituzionale della norma censurata. 
    Secondo la difesa dell'imputato la normativa in oggetto rende  la
pena, per le ipotesi di cui all'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.,
«irragionevolmente eccessiva» e non rispondente  alla  necessita'  di
«prevenzione  generale  e  speciale»,  sia  perche'  la   circostanza
attenuante speciale puo' riguardare «anche soltanto lievi toccamenti,
sfregamenti, baci, come nel caso di specie [in cui l'imputato]  aveva
tentato di ristabilire il rapporto con la moglie da cui era separato,
con atti di eccessiva affettuosita', in un momento in cui la consorte
non era consenziente a ricevere», sia perche' «l'assenza di  recidiva
specifica non manifesta alcuna proclivita' alla commissione di  reati
della stessa indole». 
    La difesa dell'imputato richiama la sentenza n. 251 del 2012  con
cui  la   Corte   costituzionale   ha   dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen, nella  parte  in
cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante  di
cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309  (Testo
unico delle leggi in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei  relativi
stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto
comma, cod. pen., ritenendo che  «i  medesimi  argomenti  [...]  sono
ancor piu' validi e pregnanti  quando  riferiti  all'ipotesi  di  cui
all'art. 609-bis comma 3 c.p.», in quanto in tal caso «anche se vi e'
lesione del medesimo bene giuridico rispetto all'art.  609-bis  c.p.,
cioe' l'autodeterminazione sessuale e la violazione della  integrita'
fisica e psichica, la struttura ontologica del reato, con riferimento
alla  condotta,  denota  fattispecie  di  assai  diversa   rilevanza,
offensivita' e  pericolosita',  dal  momento  che,  ad  esempio,  una
bestiale violenza sessuale, cagionante gravi danni fisici e  psichici
alla vittima, non puo' essere comparata, in relazione alla  struttura
della condotta, ad un tentativo, sia pure illecito e maldestro, di un
contatto sessuale». 
    L'applicazione  della  norma   censurata,   quindi,   produrrebbe
conseguenze irragionevoli  ed  elusive  dell'art.  27,  terzo  comma,
Cost., imponendo al giudice la necessita'  di  infliggere,  anche  in
caso di recidiva specifica, sia pure per reati di minore  intensita',
una pena che non sia inferiore a 5 anni di reclusione, e di  dare  un
peso irragionevolmente e sproporzionatamente eccessivo a qualsivoglia
precedente penale rispetto alle  concrete  modalita'  della  condotta
offensiva. Si lede cosi', ad avviso della  difesa  dell'imputato,  un
principio cardine dell'ordinamento, secondo cui la pena  deve  essere
determinata «in relazione alle condizioni soggettive  del  reo  e  in
relazione alla gravita' oggettiva del fatto». Peraltro, il  principio
di  proporzionalita'  della  pena  rispetto  al  fatto  di  reato  e'
enunciato non solo dalla  Costituzione,  ma  anche  dalla  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata  il  7  dicembre
2000 a Nizza e, in una versione  adattata,  il  12  dicembre  2007  a
Strasburgo, con conseguente violazione dell'art.  117,  primo  comma,
Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, terza sezione penale,  con  ordinanza
del 15 ottobre  2013  (r.o.  n.  275  del  2013),  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto  comma,
del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975,
n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di  giudizio
di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e
di prescrizione),  nella  parte  in  cui  stabilisce  il  divieto  di
prevalenza della circostanza  attenuante  di  cui  all'art.  609-bis,
terzo comma, cod. pen., sulla recidiva reiterata, prevista  dall'art.
99, quarto comma, cod. pen. 
    Il giudice a quo ricorda che la legge 15  febbraio  1996,  n.  66
(Norme contro la violenza sessuale), ricorrendo all'unitaria  nozione
di atti sessuali, ha unificato nella violenza sessuale le fattispecie
di congiunzione carnale violenta e  di  atti  di  libidine  violenti,
previste  dalla  precedente  normativa.   Ad   avviso   della   Corte
rimettente,  proprio  «la  "unificazione"  in  una   sola   [ipotesi]
criminosa di  ogni  attentato  alla  sfera  sessuale  ha  indotto  il
legislatore, per differenziare sul  piano  sanzionatorio  le  ipotesi
meno gravi (rientranti secondo la previgente disciplina negli atti di
libidine), a configurare una circostanza  attenuante  speciale»,  che
ricorre quando il fatto di reato ha recato  una  minore  offesa  alla
liberta' sessuale della vittima. 
    La conclusione che  l'attenuante  dei  casi  di  minore  gravita'
concerna le condotte caratterizzate da una minore  «intensita'  della
lesione  del  bene  giuridico  tutelato»  troverebbe  conferma  nella
divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per la
fattispecie base del primo comma dell'art. 609-bis cod. pen., per  la
quale e' prevista una pena da cinque a dieci anni  di  reclusione,  e
per la  fattispecie  circostanziata  del  terzo  comma  del  medesimo
articolo, il quale stabilisce che «nei casi di  minore  gravita'»  la
pena e' diminuita in misura non eccedente i due terzi. 
    Ad avviso del giudice a quo, quindi, la norma  censurata  sarebbe
irragionevole  e  violerebbe  il  principio  di  uguaglianza  di  cui
all'art. 3 Cost., in quanto fatti anche di  minima  entita'  vengono,
per effetto del divieto in  questione,  ad  essere  irragionevolmente
sanzionati con la stessa pena, prevista  dal  primo  comma  dell'art.
609-bis cod. pen., per le ipotesi di violenza piu' gravi, vale a dire
per condotte che, pur aggredendo il  medesimo  bene  giuridico,  sono
completamente diverse,  sia  per  le  modalita',  sia  per  il  danno
arrecato alla vittima, con la conseguenza che l'autore di condotte di
minore gravita', che sia recidivo ex  art.  99,  quarto  comma,  cod.
pen., e' punito con la stessa pena prevista per chi  pone  in  essere
comportamenti ben  piu'  gravi  sotto  il  profilo  dell'offesa  alla
liberta' sessuale della vittima. 
    Inoltre, la norma impugnata sarebbe in contrasto con il principio
di  proporzionalita'  della  pena  (art.  27,  terzo  comma,  Cost.),
perche', come e' stato gia' rilevato da questa Corte  nella  sentenza
n.  251  del  2012,  «l'incidenza  della  regola  preclusiva  sancita
dall'art. 69, quarto comma, cod. pen. [...] attribuisce alla risposta
punitiva i  connotati  di  una  pena  palesemente  sproporzionata  e,
dunque,  inevitabilmente  avvertita  come  ingiusta  dal   condannato
(sentenza n. 68 del 2012)», soprattutto con riferimento alle  ipotesi
di minore gravita' previste dal terzo comma  dell'art.  609-bis  cod.
pen., che si differenziano, rispetto a  quelle  delineate  dal  primo
comma, per la minore offesa  alla  liberta'  sessuale  cagionata  dal
fatto di reato. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' della questione per difetto di  motivazione  sulla
rilevanza:  la  Corte  rimettente,  infatti,  non  avrebbe  descritto
sufficientemente la fattispecie  oggetto  del  giudizio,  non  avendo
specificato  «i  fatti  in  base  ai   quali   sia   stata   valutata
giuridicamente  corretta  la  non  praticabilita'  della   esclusione
dell'aggravante della recidiva». Il giudice a  quo,  in  particolare,
non avrebbe «illustrato per quale motivo nel caso di  specie  sia  da
negare la possibilita' di tenere conto della lesivita' oggettiva  del
fatto, escludendo rilievo ad una condizione soggettiva  dell'imputato
che non e' affatto espressione di una medesima devianza». 
    L'eccezione e' infondata. 
    La Corte rimettente ha  adeguatamente  descritto  la  fattispecie
sottoposta al suo esame nel  giudizio  a  quo,  spiegando  per  quali
ragioni il giudice di appello  ha  ritenuto  di  dover  applicare  la
contestata recidiva, peraltro gia'  riconosciuta  dalla  sentenza  di
primo grado, e di dovere conseguentemente procedere  al  giudizio  di
bilanciamento tra la recidiva e  la  circostanza  attenuante  di  cui
all'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. 
    Inoltre, tra i motivi del ricorso  per  cassazione  indicati  dal
giudice a quo, manca quello relativo all'erronea  applicazione  della
recidiva, sicche' puo' ben ritenersi che al  riguardo,  nel  caso  di
specie, si sia verificata una preclusione. 
    Non  spettava  pertanto  alla  Corte  rimettente   valutare   «la
possibilita' di tenere conto della  lesivita'  oggettiva  del  fatto,
escludendo rilievo ad una condizione soggettiva dell'imputato che non
e' affatto espressione di una medesima devianza». 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    4.- L'art. 3 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito il  quarto
comma dell'art. 69 cod. pen., sul  giudizio  di  bilanciamento  delle
circostanze, stabilendo, tra l'altro, il divieto di prevalenza  delle
attenuanti sulla circostanza prevista  dall'art.  99,  quarto  comma,
cod.  pen.,  e  il   giudice   a   quo   prospetta   l'illegittimita'
costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede  il  divieto
di prevalenza della circostanza attenuante di cui  all'art.  609-bis,
terzo comma, cod. pen., sulla recidiva reiterata. 
    L'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede  una  circostanza
attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena
base (reclusione da cinque a dieci anni) «in misura non  eccedente  i
due terzi», sicche', come ha rilevato il giudice a quo, ove  ritenuta
sussistente,  «la  pena  (applicandosi  l'attenuante  nella   massima
estensione) puo' variare  da  un  minimo  di  1  anno  e  8  mesi  di
reclusione a un massimo di 3 anni e 4 mesi»; se pero' si  applica  la
recidiva reiterata, i casi di violenza sessuale di  minore  gravita',
per i quali l'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede  la  pena
della reclusione da un anno e otto mesi a tre anni  e  quattro  mesi,
devono essere puniti con la reclusione da cinque a dieci anni. 
    Come questa Corte ha gia' rilevato (sentenza n.  251  del  2012),
l'attuale  formulazione  dell'art.  69,  quarto  comma,  cod.   pen.,
costituisce il punto  di  arrivo  di  un'evoluzione  legislativa  dei
criteri di bilanciamento, iniziata con l'art. 6 del decreto-legge  11
aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti  sulla  giustizia  penale),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  7
giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di  comparazione  alle
circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla  persona
del  colpevole.  «L'effetto  e'  stato  quello   di   consentire   il
riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello  di
rendere modificabili, attraverso  il  giudizio  di  comparazione,  le
cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento  o
di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi  che
solitamente  vengono  individuate  dal  legislatore   attraverso   la
previsione di pene di specie diversa o di pene della  stessa  specie,
ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il  reato
base», come nel caso regolato dall'art. 609-bis,  terzo  comma,  cod.
pen. 
    E'  rispetto  a  questo  tipo  di  circostanze  che  il  criterio
generalizzato, introdotto con la modificazione dell'art.  69,  quarto
comma, cod.  pen.,  ha  mostrato  delle  incongruenze,  inducendo  il
legislatore a intervenire con regole derogatorie,  come  e'  avvenuto
con l'aggravante  della  «finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione
dell'ordine democratico», prevista dall'art. 1 del  decreto-legge  15
dicembre 1979, n. 625  (Misure  urgenti  per  la  tutela  dell'ordine
democratico   e   della   sicurezza   pubblica),   convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 6 febbraio 1980,  n.
15, e,  «in  seguito,  con  varie  altre  disposizioni,  generalmente
adottate  per  impedire  il  bilanciamento  della  circostanza   c.d.
privilegiata, di regola un'aggravante, o per limitarlo,  in  modo  da
escludere la soccombenza di tale circostanza nella  comparazione  con
le attenuanti; ed e' appunto questo il risultato  che  si  e'  voluto
perseguire con la norma impugnata» (sentenza n. 251 del 2012). 
    Il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee  consente
al  giudice  di  «valutare  il  fatto  in  tutta  la   sua   ampiezza
circostanziale, sia eliminando dagli effetti  sanzionatori  tutte  le
circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che  aggravano
la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la  diminuiscono»
(sentenza n. 38  del  1985).  Deroghe  al  bilanciamento  pero'  sono
possibili e rientrano nell'ambito delle scelte del  legislatore,  che
sono sindacabili da  questa  Corte  «soltanto  ove  trasmodino  nella
manifesta irragionevolezza  o  nell'arbitrio»  (sentenza  n.  68  del
2012),  ma  in  ogni  caso  «non  possono  giungere   a   determinare
un'alterazione  degli  equilibri  costituzionalmente  imposti   nella
strutturazione della responsabilita' penale»  (sentenza  n.  251  del
2012); alterazione che, come si vedra', emerge per piu' aspetti nella
situazione normativa in questione. 
    5.- Come questa Corte ha gia' rilevato, la legge n. 66 del  1996,
che ha  riformato  la  disciplina  dei  delitti  contro  la  liberta'
sessuale, ha realizzato una  «concentrazione  nell'unico  delitto  di
violenza sessuale (art.  609-bis  cod.  pen.)  delle  fattispecie  di
violenza carnale e di  atti  di  libidine  violenti,  rispettivamente
previste negli artt. 519  e  521  del  testo  originario  del  codice
penale» (sentenza n. 325 del 2005) e, nel descrivere la condotta  del
nuovo delitto di violenza sessuale, l'attuale art. 609-bis cod.  pen.
impiega, quale termine  di  riferimento  dell'attivita'  costrittiva,
l'espressione «atti sessuali», che costituisce il fulcro della  nuova
fattispecie  incriminatrice,  volta  a  sintetizzare,  mediante   una
formula particolarmente ampia, le nozioni di congiunzione  carnale  e
di atti di libidine presenti nella precedente normativa. 
    Proprio l'introduzione dell'unitaria nozione di atto  sessuale  -
la quale, pur continuando «ad avere come punti di riferimento  da  un
lato la congiunzione carnale e dall'altro gli atti di libidine, [...]
intende distaccarsi dalla fisicita' e materialita' della  distinzione
per apprestare una piu' comprensiva ed estesa tutela contro qualsiasi
comportamento   che   costituisca   una   ingerenza    nella    piena
autodeterminazione  della  sfera  sessuale»  -   ha   fatto   sorgere
«l'esigenza di introdurre una circostanza attenuante per  i  casi  di
minore gravita' (art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.). Mediante  una
consistente diminuzione (in misura non eccedente i due  terzi)  della
pena prevista per il  delitto  di  violenza  sessuale  (fissata,  nel
minimo, in  cinque  anni  di  reclusione),  risulta  cosi'  possibile
rendere la sanzione proporzionata nei casi  in  cui  la  sfera  della
liberta' sessuale subisca una lesione di minima entita'» (sentenza n.
325 del 2005). 
    La circostanza attenuante  prevista  dal  terzo  comma  dell'art.
609-bis cod. pen. per i «casi di minore gravita'» si pone,  pertanto,
«quale temperamento degli effetti della concentrazione  in  un  unico
reato di comportamenti, tra loro assai  differenziati,  che  comunque
incidono sulla  liberta'  sessuale  della  persona  offesa,  e  della
conseguente  diversa  intensita'  della   lesione   dell'oggettivita'
giuridica del  reato»  (sentenza  n.  325  del  2005).  Peraltro,  la
concorde  giurisprudenza  della   Corte   di   cassazione   considera
l'attenuante in esame applicabile «in tutte quelle fattispecie in cui
avuto riguardo ai mezzi, alle modalita' esecutive ed alle circostanze
dell'azione,  sia  possibile  ritenere  che  la  liberta'   sessuale,
personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave,  ed
implica la necessita' di  una  valutazione  globale  del  fatto,  non
limitata alle sole componenti  oggettive  del  reato,  bensi'  estesa
anche  a  quelle  soggettive  ed  a  tutti  gli  elementi  menzionati
nell'art. 133 cod.  pen.»  (Cassazione,  sezione  quarta  penale,  12
aprile 2013, n. 18662, nonche'  sezione  terza  penale,  13  novembre
2007, n. 45604 e 7 novembre 2006, n. 5002). 
    6.-  Cio'  posto,   la   censura   relativa   al   principio   di
proporzionalita' della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) e' fondata. 
    L'art. 69, quarto comma, cod. pen., nel precludere la  prevalenza
delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza  «una
deroga rispetto a un principio  generale  che  governa  la  complessa
attivita' commisurativa della pena da parte del giudice,  saldando  i
criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali
essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art.  27,
terzo comma, Cost., diviene adeguata al  caso  di  specie  anche  per
mezzo dell'applicazione delle circostanze» (sentenze n. 251 del  2012
e n. 183 del 2011);  nel  caso  in  esame,  infatti,  il  divieto  di
soccombenza  della   recidiva   reiterata   rispetto   all'attenuante
dell'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.,  impedisce  il  necessario
adeguamento, che dovrebbe avvenire appunto attraverso  l'applicazione
della  pena  stabilita  dal  legislatore  per  il  caso  di   «minore
gravita'». 
    L'incidenza della regola preclusiva sancita dall'art. 69,  quarto
comma, cod. pen., sulla diversita' delle cornici edittali prefigurate
dal primo e dal terzo comma dell'art. 609-bis cod.  pen.,  che  viene
annullata, attribuisce cosi' alla risposta punitiva  i  connotati  di
«una pena palesemente  sproporzionata»  e,  dunque,  «inevitabilmente
avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012). 
    E' stato gia' affermato da questa  Corte  (sentenza  n.  251  del
2012)  che  «la  legittimita',  in  via  generale,   di   trattamenti
differenziati per il recidivo, ossia per "un  soggetto  che  delinque
volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna  per
un  delitto   doloso,   manifestando   l'insufficienza,   in   chiave
dissuasiva,  dell'esperienza   diretta   e   concreta   del   sistema
sanzionatorio penale" (sentenza n. 249 del 2010),  non  sottrae  allo
scrutinio di legittimita' costituzionale le  singole  previsioni»,  e
questo scrutinio nel caso in esame rivela  il  carattere  palesemente
sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall'innesto
della deroga al  giudizio  di  bilanciamento  sull'assetto  delineato
dall'art. 609-bis cod. pen. 
    La recidiva reiterata, infatti, «riflette  i  due  aspetti  della
colpevolezza e della pericolosita', ed e' da ritenere che questi, pur
essendo pertinenti al reato, non possano assumere,  nel  processo  di
individualizzazione  della  pena,  una  rilevanza  tale  da  renderli
comparativamente  prevalenti  rispetto  al  fatto   oggettivo».   Sia
nell'individuazione dell'attenuante dei casi di minore gravita',  sia
nella determinazione complessiva e finale  della  pena,  insomma,  la
rilevanza dell'offensivita' della fattispecie base  non  puo'  essere
«"neutralizzata"    da    un    processo    di    individualizzazione
prevalentemente orientato sulla colpevolezza e  sulla  pericolosita'»
(sentenza n. 251 del 2012). 
    Percio' deve concludersi che la norma censurata e'  in  contrasto
con la finalita' rieducativa della pena,  che  implica  «un  costante
"principio di proporzione" tra qualita' e quantita'  della  sanzione,
da una parte, e  offesa,  dall'altra  (sentenza  n.  341  del  1994)»
(sentenza n. 251 del 2012). 
    7.- Questa conclusione, peraltro, e'  resa  ancor  piu'  evidente
dalla notevole divaricazione delle  cornici  edittali  stabilite  dal
legislatore  per  la  fattispecie  base,  prevista  dal  primo  comma
dell'art. 609-bis cod. pen., e per  quella  circostanziata,  prevista
dal terzo comma del medesimo articolo: nei casi  di  minore  gravita'
infatti la pena e' diminuita «in misura non eccedente i  due  terzi»,
con la conseguenza che, in seguito al riconoscimento  dell'attenuante
speciale in questione,  il  massimo  della  pena  edittale,  come  ha
rilevato il giudice rimettente, e', «in modo considerevole, inferiore
al minimo della pena prevista per l'ipotesi di cui al comma  1  (anni
5)». 
    Anche nel caso in esame quindi,  come  in  quello  oggetto  della
sentenza n. 251 del 2012, dal divieto  di  prevalenza  sancito  dalla
norma   censurata   derivano   delle    conseguenze    manifestamente
irragionevoli sul piano sanzionatorio, assumendo particolare  rilievo
la divaricazione tra i  livelli  minimi,  rispettivamente  di  cinque
anni, per il primo comma dell'art. 609-bis cod. pen., e di un anno  e
otto mesi, per il terzo  comma  dello  stesso  articolo.  Cosi',  per
effetto dell'equivalenza tra la  recidiva  reiterata  e  l'attenuante
della minore gravita', l'imputato viene di fatto a subire un  aumento
assai superiore a quello specificamente previsto dall'art. 99, quarto
comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, e' della meta'  o  di  due
terzi. 
    L'incongruita'  di  questo  risultato  appare  evidente   se   si
considerano i criteri stabiliti  dall'art.  69,  quarto  comma,  cod.
pen.,  prima  della  modificazione  (in  genere  diretta  a  favorire
l'imputato) operata dall'art. 6 del  d.l.  n.  99  del  1974,  quando
l'aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la
fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame,  infatti,  la
pena minima sarebbe stata, a seconda del tipo  di  recidiva,  di  due
anni e sei mesi o di due anni, nove mesi e dieci giorni, vale a  dire
di un anno e otto mesi per  il  reato  attenuato  previsto  dall'art.
609-bis, terzo comma, cod. pen., aumentata, a seconda dei casi, della
meta' o di due terzi per  la  recidiva,  cioe',  rispettivamente,  di
dieci mesi o di tredici mesi e dieci giorni. Per contro  il  giudizio
di   equivalenza,   imposto   dalla   norma    impugnata,    comporta
l'applicazione della pena di cinque anni di reclusione,  determinando
un aumento di tre anni e due mesi. 
    8.- Anche la censura relativa  al  principio  di  uguaglianza  e'
fondata, perche', come ha rilevato la Corte rimettente,  fatti  anche
di minima entita' vengono, per effetto del divieto in  questione,  ad
essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista  dal
primo comma dell'art. 609-bis cod. pen., per le ipotesi  di  violenza
piu' gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il  medesimo
bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia
per il danno arrecato alla vittima. 
    Del resto, che si tratti  di  fatti  sostanzialmente  diversi,  e
quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge
anche dalla giurisprudenza costituzionale  che,  come  si  e'  visto,
giustifica l'introduzione dell'attenuante dei casi di minore gravita'
«quale temperamento degli effetti della concentrazione  in  un  unico
reato di comportamenti, tra loro assai  differenziati,  che  comunque
incidono sulla  liberta'  sessuale  della  persona  offesa,  e  della
conseguente  diversa  intensita'  della   lesione   dell'oggettivita'
giuridica del reato» (sentenza n. 325 del 2005). 
    9.- Deve  pertanto  dichiararsi  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come  sostituito  dall'art.  3
della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di
prevalenza della circostanza  attenuante  di  cui  all'art.  609-bis,
terzo comma, cod. pen., sulla recidiva di  cui  all'art.  99,  quarto
comma, cod. pen.