ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  517  del
codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Roma,
ottava sezione penale, nel procedimento penale a carico di V.L.,  con
ordinanza del 21  febbraio  2013,  iscritta  al  n.  4  del  registro
ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Udito nella camera di consiglio del  7  maggio  2014  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con ordinanza del 21 febbraio 2013  (r.o.  n.  4  del  2014),  il
Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato,  in
riferimento agli artt. 3 e 24,  secondo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice  di
procedura penale,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  la  facolta'
dell'imputato   di   richiedere   al   giudice    del    dibattimento
l'applicazione della  pena  a  norma  dell'art.  444  del  codice  di
procedura penale a seguito della  contestazione  in  dibattimento  da
parte del  pubblico  ministero  di  una  circostanza  aggravante  non
risultante dall'imputazione quando la nuova contestazione concerne un
fatto  che  gia'  risultava  dagli   atti   d'indagine   al   momento
dell'esercizio dell'azione penale». 
    Il giudice a quo premette di essere  investito  del  procedimento
penale nei confronti di  una  persona  imputata  del  reato  previsto
dall'art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile
1992, n. 285 (Nuovo codice della  strada),  nel  corso  del  quale  -
aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti - il
pubblico ministero, dopo l'esame dei suoi testimoni, aveva contestato
le circostanze aggravanti previste dai commi  2-bis  e  2-sexies  del
citato art. 186. 
    Alla  scadenza  del  termine  richiesto  dall'imputato  ai  sensi
dell'art. 519 cod. proc. pen. - prosegue il Tribunale rimettente - le
parti avevano presentato  una  richiesta  congiunta  di  applicazione
della pena  per  la  fattispecie  aggravata  risultante  dalla  nuova
contestazione. 
    La richiesta sarebbe inammissibile, perche' e'  stata  presentata
dopo la scadenza del termine previsto dagli artt.  556,  comma  2,  e
555, comma 2, cod. proc. pen.; essa pero' - osserva il giudice a  quo
- e' stata «originata  dalla  contestazione  da  parte  del  pubblico
ministero ai sensi dell'art. 517 c.p.p. delle circostanze  aggravanti
previste dai commi 2-bis e 2-sexies  dell'art.  186  Cod.  d.  Strada
[...] suscettibili di un  significativo  mutamento  sanzionatorio  in
danno dell'imputato». L'una comporta,  infatti,  il  raddoppio  della
pena e rende inapplicabile la  sanzione  sostitutiva  del  lavoro  di
pubblica utilita'; l'altra  determina  «lo  speciale  e  piu'  severo
giudizio di bilanciamento  delle  circostanze,  derogatorio  rispetto
alla regola generale dell'art. 69 c.p.». La  possibile  richiesta  di
applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica  utilita',
peraltro,  era  stata  rappresentata  dall'imputato  fin  dagli  atti
introduttivi  del  dibattimento,  «attraverso  la  produzione   della
dichiarazione di disponibilita'» del presidente di una  onlus  a  far
lavorare l'imputato nel caso di sostituzione della pena. 
    Ad  avviso  del  Tribunale  rimettente,  sarebbe   avvenuta   una
«contestazione  dibattimentale  "tardiva",  frutto  di  errore  sulla
compiuta individuazione del fatto e del titolo del reato  in  cui  e'
incorso il Pubblico Ministero,  che  ha  determinato  una  patologica
carenza dell'accusa, tale  da  convincere  l'imputato  ad  affrontare
all'origine il dibattimento e, solo all'esito  del  postumo  recupero
dell'errore originario, a chiedere l'ammissione al  rito  alternativo
dell'applicazione della pena». La contestazione delle due circostanze
aggravanti, infatti, non sarebbe stata determinata da nuovi  elementi
emersi in fase dibattimentale, «bensi' da una miglior rilettura degli
atti della parte pubblica, atteso che la notizia di reato  certamente
recava sin dall'origine tanto  l'orario  di  consumazione  del  reato
quanto le sue modalita', ovvero la connessione causale tra  lo  stato
d'ebbrezza e la determinazione di  un  sinistro  stradale,  nulla  di
nuovo avendo sul punto aggiunto il verbalizzante» in  sede  di  esame
testimoniale. Questi elementi sarebbero emersi gia'  dalla  relazione
di  incidente  stradale  dell'Ufficio  infortunistica  della  Polizia
municipale  presente  nel  fascicolo   del   pubblico   ministero   e
dall'espressa indicazione  dell'orario  dell'incidente  nel  capo  di
imputazione. 
    Cio' premesso, il giudice a  quo  richiama  l'orientamento  della
giurisprudenza costituzionale secondo cui «risulta lesiva del diritto
di  difesa  oltre  che  del  principio   di   uguaglianza   qualsiasi
preclusione processuale che impedisce all'imputato l'accesso ai  riti
speciali a seguito di nuove contestazioni per  fatto  diverso  o  per
reato concorrente laddove la contestazione  concerna  un  fatto  gia'
risultante  dagli   atti   di   indagine   preliminare   al   momento
dell'esercizio  dell'azione  penale».  La  valutazione  dell'imputato
sulla convenienza  di  un  rito  speciale  dipende,  infatti,  «dalla
concreta impostazione data all'accusa, si' che ove questa sia affetta
da errore sull'individuazione del fatto o del titolo del reato in cui
e' incorso il pubblico ministero, la sua variazione sostanziale  deve
consentire all'imputato il recupero  di  quelle  facolta'  di  scelta
definitoria del processo di cui e' stato espropriato causa il decorso
dei termini di proposizione della domanda». 
    Il caso di  specie  -  prosegue  il  Tribunale  rimettente  -  e'
connotato, rispetto alla nuova imputazione o  al  reato  concorrente,
cui si riferiscono le precedenti pronunce della Corte  costituzionale
(sentenze n. 333 del 2009, n. 530  del  1995  e  n.  265  del  1994),
«dall'inscindibilita' ed  unitarieta'  del  fatto»,  quale  risultato
dell'originaria  accusa  e  della  nuova  contestazione,  che   rende
obbligata la contestazione tardiva da parte del  pubblico  ministero,
«non essendo concepibile un  separato  ed  autonomo  giudizio  futuro
sulle sole circostanze aggravanti». 
    In tal  modo,  pero',  l'imputato  e'  «privato  del  diritto  di
scegliere secondo  convenienza  il  rito  speciale  dell'applicazione
della pena che, secondo  costante  interpretazione,  rappresenta  una
modalita' di esercizio del suo diritto di difesa». 
    La questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  517  cod.
proc.  pen.,  pertanto,  sarebbe  non  manifestamente  infondata  con
riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost., perche' contrasterebbe
con il diritto di difesa «un sistema che osta  alla  restituzione  in
termini dell'imputato per la richiesta di applicazione della  pena  a
fronte della contestazione tardiva, in qualche modo  necessitata  per
il pubblico ministero, di circostanze aggravanti». 
    La norma censurata  violerebbe,  altresi',  l'art.  3  Cost.,  in
quanto determinerebbe una discriminazione dell'imputato «nell'accesso
al rito speciale in ragione della maggiore o  minore  completezza  ed
esaustivita' dell'imputazione a fronte della diversa valutazione  dei
risultati  delle  indagini  preliminari  effettuata  nel  momento  di
esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero». 
    La questione, infine,  sarebbe  rilevante  nel  giudizio  a  quo,
perche', se si rimuovesse il limite temporale attualmente posto dagli
artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen., non vi sarebbero
altri ostacoli all'accoglimento della richiesta di applicazione della
pena formulata dall'imputato, con il consenso del pubblico ministero,
«immediatamente dopo la scadenza del termine per adeguare la  propria
difesa alle nuove contestazioni elevate  dal  pubblico  ministero  in
corso di dibattimento». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del  2014),  il
Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato,  in
riferimento agli artt. 3 e 24,  secondo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 517 del codice  di
procedura penale,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  la  facolta'
dell'imputato   di   richiedere   al   giudice    del    dibattimento
l'applicazione della  pena  a  norma  dell'art.  444  del  codice  di
procedura penale a seguito della  contestazione  in  dibattimento  da
parte del  pubblico  ministero  di  una  circostanza  aggravante  non
risultante dall'imputazione quando la nuova contestazione concerne un
fatto  che  gia'  risultava  dagli   atti   d'indagine   al   momento
dell'esercizio dell'azione penale». 
    Secondo il giudice rimettente, la norma in  questione  violerebbe
l'art. 24, secondo comma, Cost.,  in  quanto  contrasterebbe  con  il
diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione  in  termini
dell'imputato per la richiesta di applicazione della  pena  a  fronte
della contestazione tardiva», da parte  del  pubblico  ministero,  di
circostanze aggravanti note gia' dalle indagini preliminari,  la  cui
compiuta   e   doverosa   enunciazione   sin    dalla    formulazione
dell'imputazione  «avrebbe  convinto  l'imputato  a   rinunciare   al
dibattimento, cui e' in seguito costretto,  essendogli  a  tal  punto
impedita quella scelta del rito che e' regola  fondante  del  sistema
processuale». 
    La norma censurata violerebbe, altresi', l'art. 3 Cost.,  perche'
nell'accesso al rito speciale  l'imputato  sarebbe  discriminato  «in
ragione  della  maggiore  o  minore   completezza   ed   esaustivita'
dell'imputazione a fronte della  diversa  valutazione  dei  risultati
delle  indagini  preliminari  effettuata  nel  momento  di  esercizio
dell'azione penale da parte del pubblico ministero». 
    2.- La questione e' fondata. 
    2.1.-  Il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale  concerne  la
cosiddetta contestazione  suppletiva  «tardiva»  di  una  circostanza
aggravante. 
    Come questa Corte ha gia' rilevato (sentenze n. 237 del 2012 e n.
333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali
- tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che  del  reato
connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o
delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.:  non  rileva,
ai  presenti  fini,  la  contestazione  del  fatto  nuovo,   prevista
dall'art.  518  cod.  proc.  pen.,   che   presuppone   il   consenso
dell'imputato) - si presenta coerente, in  linea  di  principio,  con
l'impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un  sistema
nel quale la  prova  si  forma  ordinariamente  in  dibattimento,  la
disciplina delle nuove contestazioni mira, infatti,  a  conferire  un
ragionevole grado  di  flessibilita'  all'imputazione,  consentendone
l'adattamento  agli  esiti  dell'istruzione  dibattimentale,   quando
alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto  a  quelli
emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini  e  valutati
dal pubblico ministero ai fini dell'esercizio dell'azione penale. 
    Secondo la formulazione degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., la
diversita'  del  fatto,  il  reato  concorrente  e   le   circostanze
aggravanti    debbono    emergere    «nel    corso    dell'istruzione
dibattimentale»,  in   connessione   con   la   ricordata   finalita'
dell'istituto.   Risultano   cosi'   evocati   i    soli    mutamenti
dell'imputazione  imposti  dall'evoluzione   istruttoria,   si'   che
l'istituto si caratterizza come speciale e derogatorio rispetto  alle
ordinarie  cadenze  processuali  relative  all'esercizio  dell'azione
penale e al suo controllo giudiziale. 
    Nonostante il dato letterale, la giurisprudenza di  legittimita',
con l'avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione  (sentenza
n. 4 del  28  ottobre  1998),  ritiene  che  le  nuove  contestazioni
previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possano essere  basate
anche sui soli elementi gia' acquisiti  dal  pubblico  ministero  nel
corso delle indagini preliminari. 
    Per effetto di questa lettura estensiva, l'istituto  delle  nuove
contestazioni si connota «non piu' soltanto come uno strumento - come
detto, speciale e derogatorio - di  risposta  ad  una  evenienza  pur
"fisiologica" al processo accusatorio  (quale  l'emersione  di  nuovi
elementi nel corso dell'istruzione  dibattimentale),  ma  anche  come
possibile correttivo rispetto ad una evenienza "patologica":  potendo
essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite  una  rivisitazione
degli elementi acquisiti nelle  indagini  preliminari,  ad  eventuali
incompletezze  od  errori  commessi  dall'organo  dell'accusa   nella
formulazione dell'imputazione» (sentenza n. 333 del 2009). 
    A fronte di tale ragione giustificatrice, occorre, pero',  tenere
conto delle contrapposte esigenze  di  salvaguardia  del  diritto  di
difesa. 
    In proposito, come  questa  Corte  ha  gia'  avuto  occasione  di
rilevare, il codice di rito aveva specificamente  previsto  che,  «di
fronte alla nuova contestazione dibattimentale, l'imputato - salvo si
trattasse della contestazione  suppletiva  della  recidiva  -  avesse
diritto ad un termine a difesa non inferiore al termine  a  comparire
indicato dall'art. 429 cod. proc.  pen.  e  potesse,  in  ogni  caso,
chiedere l'ammissione di nuove prove (art. 519 cod. proc. pen.). Tale
ultima facolta' risultava, peraltro, soggetta  ad  una  condizione  -
quella dell'"assoluta necessita'",  insita  nell'originario  richiamo
all'art. 507 cod. proc. pen. - che venne  ritenuta  da  questa  Corte
irragionevole e lesiva del diritto di difesa, nella  misura  in  cui,
ponendo "limiti diversi e piu' penetranti di quelli  vigenti  in  via
generale  per  i  nova",  non  consentiva   un   recupero   integrale
dell'ordinario "diritto alla  prova"  (sentenza  n.  241  del  1992)»
(sentenza n. 237 del 2012). 
    Nella prospettiva del  codice  di  procedura  penale  rimanevano,
pero', preclusi i riti alternativi  a  contenuto  premiale  (giudizio
abbreviato   e   patteggiamento),   riti   che,    per    consolidata
giurisprudenza di questa Corte, costituiscono  anch'essi  «modalita',
tra le piu' qualificanti (sentenza 148 del 2004),  di  esercizio  del
diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n.  70  del
1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del  2012),
tali da  incidere,  in  senso  limitativo,  sull'entita'  della  pena
inflitta. 
    L'imputato,  infatti,  in  seguito   alle   nuove   contestazioni
effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento,  poteva
trovarsi a fronteggiare un'accusa rispetto alla quale  sarebbe  stato
suo interesse chiedere i riti alternativi, ma tale  opportunita'  gli
era  preclusa  essendo  ormai  decorsi  i  termini  per  le  relative
richieste. 
    2.2.- Rispetto alle nuove contestazioni "fisiologiche", a  quelle
cioe' effettivamente determinate dalle  acquisizioni  dibattimentali,
questa  Corte,  con  una  serie  di  pronunce   emesse   negli   anni
immediatamente successivi all'entrata in  vigore  del  codice,  aveva
escluso che la preclusione in discorso violasse  gli  artt.  3  e  24
Cost.: era stato, infatti, dato rilievo prevalente  al  principio  di
indissolubilita' del binomio premialita-deflazione. 
    Esaminando  la  questione  con  riferimento   ora   al   giudizio
abbreviato, ora al patteggiamento, si era  ritenuto  che  l'interesse
dell'imputato a beneficiare dei  vantaggi  che  discendono  dai  riti
speciali ricevesse tutela «solo in quanto la  sua  condotta  consenta
l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il
dibattimento», permetta di  raggiungere  «quell'obiettivo  di  rapida
definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire  con
l'introduzione del giudizio abbreviato e piu' in  generale  dei  riti
speciali» (sentenze n. 593 del 1990; n. 129 del 1993  e  n.  316  del
1992; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992). 
    Inoltre  la  Corte   aveva   osservato   che   la   modificazione
dell'imputazione  e   la   contestazione   suppletiva   costituiscono
eventualita'  non  infrequenti,  in  un  sistema   imperniato   sulla
formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibili,  sicche'
se ne  doveva  dedurre  che  il  rischio  della  nuova  contestazione
dibattimentale rientrasse naturalmente nel calcolo in base  al  quale
l'imputato si determina a chiedere o meno tali riti, «onde  egli  non
ha che da addebitare a se'  medesimo  le  conseguenze  della  propria
scelta» (sentenze n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992;  in  prospettiva
analoga, sentenza n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213
del 1992). 
    3.- Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte,  pero',
nel caso di contestazioni  dibattimentali  "tardive",  e'  pervenuta,
proprio  rispetto  al  patteggiamento,  a  una  diversa  conclusione,
perche' in questo caso non puo' parlarsi «di  una  libera  assunzione
del  rischio  del  dibattimento  da  parte  dell'imputato»,  le   cui
determinazioni in ordine ai  riti  speciali  sono  state  sviate  «da
aspetti di "anomalia" caratterizzanti  la  condotta  processuale  del
pubblico  ministero».   Le   valutazioni   dell'imputato   circa   la
convenienza  del  rito  alternativo  vengono  infatti  a   dipendere,
anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal  pubblico
ministero: sicche', «quando, in presenza di una evenienza  patologica
del  procedimento,  quale  e'  quella  derivante  dall'errore   sulla
individuazione del fatto e del titolo del reato in cui e' incorso  il
pubblico ministero, l'imputazione subisce una variazione sostanziale,
risulta  lesivo  del  diritto  di  difesa   precludere   all'imputato
l'accesso ai riti speciali». Anche il principio di eguaglianza  viene
violato perche' l'imputato e' irragionevolmente discriminato rispetto
alla possibilita' di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della
maggiore o minore esattezza o  completezza  della  valutazione  delle
risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero
e delle correlative contestazioni. 
    Sulla base di queste  considerazioni,  la  Corte  ha  dichiarato,
quindi, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3
e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte  in  cui
non  consentivano  all'imputato  di  richiedere  il  "patteggiamento"
relativamente al fatto diverso o al reato concorrente  contestato  in
dibattimento, quando la nuova contestazione  concerne  un  fatto  che
gia' risultava dagli  atti  di  indagine  al  momento  dell'esercizio
dell'azione penale. 
    La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato, invece,  inammissibile
l'analoga  questione  di  legittimita'  costituzionale  relativa   al
giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito,  la  scelta
tra le varie alternative ipotizzabili per  porre  rimedio  al  vulnus
costituzionale - pure riscontrabile - spettasse in via  esclusiva  al
legislatore. 
    Successivamente  la  struttura   del   giudizio   abbreviato   e'
radicalmente cambiata per effetto della legge 16  dicembre  1999,  n.
479  (Modifiche  alle  disposizioni  sul  procedimento   davanti   al
tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice  di
procedura  penale.  Modifiche  al  codice  penale  e  all'ordinamento
giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile  pendente,
di indennita' spettanti al giudice  di  pace  e  di  esercizio  della
professione forense), e la Corte, con la sentenza n.  333  del  2009,
venuti meno i precedenti  ostacoli,  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 516 e 517  cod.  proc.  pen.  anche  nella
parte in cui non prevedevano la facolta' dell'imputato di  richiedere
al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato  relativamente  al
fatto diverso o al reato  concorrente  «contestato  in  dibattimento,
quando la nuova contestazione concerne un fatto  che  gia'  risultava
dagli atti di indagine al momento di esercizio dell'azione penale». 
    Questa ulteriore pronuncia  additiva  era  risultata  necessaria,
oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e  24,
secondo comma, Cost., gia' rilevati dalla sentenza n. 265  del  1994,
«anche per eliminare la differenza di regime, in  punto  di  recupero
della facolta' di accesso  ai  riti  alternativi  di  fronte  ad  una
contestazione suppletiva "tardiva",  a  seconda  che  si  discuta  di
"patteggiamento" o di  giudizio  abbreviato»  (sentenza  n.  333  del
2009), differenza che, nel mutato panorama normativo, «si  rivela[va]
essa stessa fonte d'una discrasia rilevante sul  piano  del  rispetto
dell'art. 3 Cost.» (sentenza n. 237 del 2012). 
    4.- Prendendo spunto dalle affermazioni delle sentenze da  ultimo
citate, il Tribunale ordinario di Roma,  come  si  e'  ricordato,  ha
sollevato la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  517
cod. proc. pen. nella parte in cui non consente il patteggiamento nel
caso in cui il pubblico ministero abbia proceduto alla  contestazione
suppletiva "patologica" di una circostanza aggravante. 
    La questione puo' idealmente ricollegarsi alla  sentenza  n.  265
del 1994, ove pero' si avvertiva che  la  relativa  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale  rimaneva  «rigorosamente  circoscritta
alle  specifiche  situazioni  dedotte  dai  giudici  a  quibus,   che
riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del fatto
diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12, primo
comma, lettera b, cod. proc. pen.)» e che, in  particolare,  era  «ad
essa  estranea  la  diversa  evenienza  della   contestazione   delle
circostanze aggravanti, non devoluta all'esame di questa Corte». 
    In realta', pero', la motivazione della sentenza puo'  ugualmente
riferirsi  al  caso  di  contestazione  "tardiva"  di  una   o   piu'
circostanze   aggravanti,   in   quanto   anche   la   trasformazione
dell'originaria   imputazione   in   un'ipotesi   circostanziata   (o
pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del  quadro
processuale.   Le   circostanze   in   questione   possono   incidere
sull'entita' della sanzione, anche  in  modo  rilevante,  laddove  il
legislatore contempla la previsione di pene di specie  diversa  o  di
pene della stessa specie, ma  con  limiti  edittali  indipendenti  da
quelli stabiliti per il reato base, o, talvolta, sullo stesso  regime
di procedibilita' del reato o, ancora, sull'applicabilita' di  alcune
sanzioni sostitutive (come nel caso oggetto del giudizio a quo). 
    Ne' varrebbe osservare, in senso  contrario,  che  l'aggravamento
dell'originaria  situazione  sarebbe  soltanto  potenziale,  giacche'
l'aumento della pena potrebbe essere annullato dallo  stesso  giudice
facendo uso del potere di bilanciamento  delle  opposte  circostanze,
attribuitogli dall'art. 69 cod.  pen.  Questa  obiezione  presuppone,
infatti, il verificarsi di due condizioni del tutto eventuali, vale a
dire  che  il  giudice  ritenga   sussistenti   le   condizioni   per
l'applicazione di almeno una circostanza attenuante e che la giudichi
prevalente  (la  sola  equivalenza   sarebbe   di   pregiudizio   per
l'imputato,    perche'    in    conseguenza    della    contestazione
dell'aggravante  si  vedrebbe  privato  degli   effetti   vantaggiosi
dell'attenuante). E' da aggiungere che il legislatore ha ampliato  il
catalogo delle circostanze aggravanti "privilegiate", per le quali il
giudizio di bilanciamento puo' essere impedito o limitato, in modo da
escluderne  la  soccombenza  nella  comparazione  con  le  attenuanti
(sentenza n. 251 del 2012), e che alcune aggravanti possono  incidere
sulla procedibilita', anche a prescindere dal giudizio in questione. 
    Va poi sottolineato che l'imputato cui sia stata contestata,  nel
corso del dibattimento, una  circostanza  aggravante  sulla  base  di
elementi gia' acquisiti al momento dell'esercizio dell'azione penale,
non si trova in una situazione diversa  da  chi  analogamente  si  e'
sentito modificare l'imputazione con la  contestazione  di  un  fatto
diverso, evenienza che in realta' potrebbe costituire per  l'imputato
anche un pregiudizio minore. Sotto questo  aspetto,  quindi,  essendo
divenuta ammissibile la  richiesta  di  patteggiamento  nel  caso  di
modificazione dell'imputazione, a  norma  dell'art.  516  cod.  proc.
pen., potrebbe dar luogo a  una  disparita'  di  trattamento  la  sua
esclusione nel caso della  contestazione  di  una  nuova  circostanza
aggravante, a norma dell'art. 517 cod. proc. pen. 
    In conclusione, poiche' «le valutazioni  dell'imputato  circa  la
convenienza del rito speciale vengono  a  dipendere  anzitutto  dalla
concreta impostazione data al processo dal pubblico  ministero»,  non
vi e' dubbio che, in seguito al suo errore e al  conseguente  ritardo
nella  contestazione  dell'aggravante,  l'imputazione   subisce   una
variazione sostanziale, si' che «risulta lesivo del diritto di difesa
precludere all'imputato l'accesso ai riti speciali» (sentenza n.  265
del 1994). 
    Del resto va considerato che «il patteggiamento e' una  forma  di
definizione pattizia del contenuto della sentenza  che  non  richiede
particolari  procedure  e  che  pertanto,  proprio   per   tali   sue
caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi  fase  del
procedimento, compreso il dibattimento» (sentenza n.  265  del  1994;
ordinanza n. 486 del 2002).  L'adozione  del  rito  speciale  risulta
comunque idonea  a  produrre  un  effetto,  sia  pure  attenuato,  di
economia processuale. 
    Ugualmente  deve  ritenersi  violato  l'art.  3  Cost.,   venendo
l'imputato irragionevolmente discriminato, ai  fini  dell'accesso  ai
procedimenti  speciali,  in  dipendenza  della  maggiore   o   minore
esattezza o completezza  della  valutazione  delle  risultanze  delle
indagini preliminari da parte del pubblico  ministero  alla  chiusura
delle indagini stesse (sentenza n. 265 del 1994). 
    Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la
facolta' dell'imputato di  richiedere  al  giudice  del  dibattimento
l'applicazione di pena, a norma dell'art. 444 del codice di procedura
penale,  in  seguito  alla  contestazione  nel  dibattimento  di  una
circostanza aggravante che gia' risultava dagli atti di  indagine  al
momento dell'esercizio dell'azione penale.