LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Quinta sezione penale Composta da: Dott. MARIA VESSICHELLI - Presidente - Ordinanza n. 3333 Dott. GERARDO SABEONE - Consigliere - UP - 16/10 - 10/11/2014 Dott. ROSA PEZZULLO - Consigliere - R.G.N. 49905/2013 Dott. ANGELO CAPUTO - Consigliere Relatore Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO - Consigliere ha pronunciato la seguente: Ordinanza sul ricorso presentato da: CHIARION CASONI ROBERTO, n. il 09/06/1964 avverso la sentenza n. 4496/2012 della Corte di appello di Milano del 16/01/2013; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita nella pubblica udienza del 16/10/2014 la relazione svolta dal Consigliere Dott. Angelo Caputo; uditi altresi' nella medesima udienza: il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione dott. G. Mazzotta, che ha concluso per il rigetto del ricorso; per la parte civile Consob, l'avv. E. Di Lazzaro, che ha concluso per il rigetto del ricorso e per l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale; per il ricorrente, l'avv. R. Olivo, che ha insistito per la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. in riferimento all'art. 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 4 prot. 7 della Cedu e per l'accoglimento dei motivi di ricorso con l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata; rilevato che, all'udienza del 16/10/2014, la deliberazione e' stata differita ex art. 615 cod. proc. pen. all'udienza del 10/11/2014. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza deliberata in data 20/12/2011, il Tribunale di Milano aveva dichiarato Roberto Chiarion Casoni colpevole del reato - commesso in data antecedente e prossima al 23/01/2006 - di cui all'art. 184, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52: d'ora in poi, TUF), perche', essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione dell'esercizio dell'attivita' lavorativa o professionale di analista finanziario presso la sede londinese di Citigroup Global Markets Ltd., comunicava tali informazioni ad altri al di fuori del normale esercizio del lavoro o professione; segnatamente, a conoscenza dell'imminente pubblicazione da parte di Citigroup di una ricerca dello stesso Casoni redatta su Banca Italease, contenente una raccomandazione "buy" e un "target price" delle azioni Italease, quotate sul MTA di Milano, pari ad euro 39 (ovvero sensibilmente superiore al prezzo di mercato, pari ad euro 26,73 nella seduta MTA del 23/01/2006), comunicava tali Informazioni, al di fuori del normale esercizio del lavoro e violando le regole dl riservatezza della stessa Citigroup in materia di ricerche finanziarie, a sette operatori di mercato. L'imputato era stato condannato, con la sospensione condizionale della pena, a un anno di reclusione e a 50.000 euro di multa e alle pene accessorie, nonche' al risarcimento dei danni, liquidati in euro 100.000, in favore della parte civile Commissione Nazionale per le Societa' e la Borsa (d'ora in poi, Consob). 2. Con sentenza deliberata in data 16/01/2013, la Corte di appello di Milano ha concesso all'imputato il beneficio della non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza di primo grado. 3. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione, nell'interesse di Roberto Chiarion Casoni, il difensore avv. R. Olivo, articolando quattro motivi. Il primo motivo denuncia inosservanza delle norme processuali e vizio di motivazione in riferimento al rigetto delle eccezioni di cui alle ordinanze del Tribunale di Milano del 15/03/2011 (relativa alla dedotta inutilizzabilita' delle dichiarazioni rilasciate in sede di audizione dinanzi alla Consob da varie persone e delle registrazioni effettuate da Citigroup delle conversazioni intercorse tra i soggetti coinvolti) e del 20/09/2011 (relativa alla revoca dell'ammissione di alcuni testimoni della difesa). Il secondo motivo denuncia inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 184 TUF. Il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in relazione all'asserita comunicazione dell'imminente pubblicazione della ricerca su Banca Italease e alla sussistenza, con riguardo alla stessa, dei presupposti di cui all'art. 181 TUF. Il quarto motivo denuncia vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. 4. Ribadendo le conclusioni di una precedente memoria, la difesa della parte civile Consob ha depositato, in data 08/10/2014, una memoria con la quale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o sia comunque rigettato. La parte civile, oltre ad evidenziare il mancato decorso del termine di prescrizione del reato, ha esaminato il tema della compatibilita' della disciplina italiana rispetto all'art. 4 del Protocollo n. 7 della Cedu alla luce della sentenza della Corte EDU, sez. II, 04/03/2014, Grande Stevens ed altri: richiamata, anche sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, la disciplina di cui all'art. 14, par. 1, della Direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 e quella piu' recente dettata dal Regolamento UE n. 596/2014, la memoria esclude l'operativita', nel caso in esame, del parametro di costituzionalita' di cui all'art. 117, primo comma, Cost., in considerazione del principio di stretta legalita' formale sancito in materia penale dall'art. 25, secondo comma, Cost. (che implica una nozione formate di reato, dovendosi considerare reato solo cio' che e' previsto dalla legge come tale) e del principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., posto che il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio sulle sanzioni amministrative verrebbe a paralizzare la prosecuzione obbligatoria dell'azione penale da parte del P.M. nel presente processo. 5. Con note di udienza depositate il 15/10/2014, la difesa dell'imputato ha prodotto la sentenza della Corte di appello di Roma deliberata il 07/11/2011 che ha rigettato l'opposizione proposta da Roberto Chiarion Casoni avverso la delibera della Consob che aveva applicato la sanzione pecuniaria per la violazione dell'art. 187-bis TUF; la sentenza prodotta reca l'attestazione in data 28/03/2014 con la quale il cancelliere certifica che avverso la sentenza stessa non risulta proposto ricorso per cassazione. Conclude la difesa chiedendo in via preliminare l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e, in subordine, eccependo, anche sulla base di una nota scritta depositata in pari data, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 4 prot. 7 della Cedu. Considerato in diritto 1. Sono rilevanti e non manifestamente infondate: a) in via principale: la questione di legittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali, dell'art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziche' «Salvo che il fatto costituisca reato»; b) in via subordinata: la questione di legittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali, dell'art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'applicabilita' della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali e dei relativi Protocolli. 2. Entrambe le questioni sono rilevanti nel presente giudizio. 2.1. All'esito della delibazione dei motivi di ricorso e delle richieste avanzate dalla difesa del ricorrente, rileva il Collegio che risulta pregiudiziale l'esame della eccepita violazione del ne bis in idem. Al riguardo, non e' di ostacolo alla rilevanza delle questioni la circostanza che detta violazione sia stata dedotta per la prima volta dinanzi a questa Corte. Pur consapevole dell'esistenza di un difforme indirizzo (Sez. 4, n. 35831 del 27/06/2013 - dep. 30/08/2013, Maini, Rv. 256883; Sez. 5, n. 5099 del 11/12/2012 - dep. 31/01/2013, Bisconti, Rv. 254654; Sez. 2, n, 2662 del 15/10/2013 - dep. 21/01/2014, Galiano, Rv. 258593), il Collegio ritiene di dover aderire all'orientamento, che, come si vedra', ha gia' incontrato l'avallo delle Sezioni unite, secondo cui e' deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando l'onere del ricorrente di allegare la sentenza irrevocabile che la determina, atteso che la violazione del divieto del bis in idem si risolve in un error in procedendo, che, In quanto tale, consente al giudice dl legittimita' l'accertamento dl fatto dei relativi presupposti (Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012 dep. 12/12/2012, D'Alessandro, Rv. 254279; conformi: Sez. 6, n. 44632 del 31/10/2013 - dep. 05/11/2013, Pironti, Rv. 257809; Sez. 6, n. 14991 del 30/01/2013 - dep. 02/04/2013, Barbato e altri, Rv. 256221; Sez. 1, n. 26827 del 05/05/2011 - dep. 08/07/2011, P.C. e Santoro, Rv. 250796; Sez. 6, n. 44484 del 30/09/2009 - dep. 19/11/2009, P., Rv. 244856). Ne', alla luce di quanto si dira', la decisione della questione comporta la necessita' di accertamenti di fatto, ipotesi, questa, nella quale la stessa questione dovrebbe essere proposta ai giudice dell'esecuzione (Sez. 5, n. 1131 del 29/11/2012 dep. 09/01/2013, Siano, Rv. 254837): qualora, infatti, come nel caso di specie, «la fattispecie non proponga alcun (ulteriore) accertamento di merito e sia, invece, definitivamente definibile alla stregua della sola documentazione prodotta ed acquisita agli atti, non v'e' ragione alcuna perche' il giudice di legittimita' non sia investito, con poteri definitori, di una questione - sostanzialmente rinviandola al giudice della esecuzione - che ha, invece, il dovere di proporsi e rilevare, ponendosi la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. come impeditiva della possibilita' di (ulteriormente) rendere statuizioni decisorie» (Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006 - dep. 10/05/2006, Sepe ed altro). Ricorre questa ipotesi, come si e' anticipato, nel caso di specie, posto che l'identita' del fatto imputato al ricorrente nel presente procedimento rispetto a quello ascrittogli in sede amministrativa risulta univocamente - e senza necessita' di ulteriori accertamenti preclusi a questa Corte di legittimita' - dalla sentenza della Corte di appello di Roma acquisita (recante l'attestazione in data 28/03/2014 gia' richiamata): la sentenza da' atto dell'applicazione a Roberto Chiarion Casoni della sanzione pecuniaria di euro 350.000,00, oltre che della sanzione accessoria ex art. 187-quater, comma 1, TUF per la durata di dodici mesi, avendolo ritenuto responsabile della violazione dell'art. 187-bis, comma 1, TUF, perche', quale analista di ricerca operante presso la sede di Londra di Citigroup, comunicava tra il 13/01/2006 e il 23/01/2006, al di fuori del normale esercizio del lavoro, a sette operatori di mercato l'informazione privilegiata relativa all'imminente pubblicazione, da parte di Citigroup, di una ricerca di mercato dello stesso Chiarion Casoni predisposta su Banca Release s,p.a., contenente una raccomandazione di acquisto per un target price significativamente superiore al prezzo di mercato del titolo azionario della stessa societa'. Alla luce di quanto rilevato al punto 1 del Ritenuto in fatto, risulta univocamente l'identita' del fatto contestato in sede penale e di quello definitivamente accertato in sede amministrativa. 2.2. Deve altresi' rilevarsi che il fatto oggetto di imputazione risulta commesso nella vigenza della disciplina di cui all'art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, sicche' non e' decorso il termine di legge per la prescrizione del reato. 2.3. La questione sollevata in via principale e' rilevante nel presente giudizio, in quanto, qualora fosse accolta, l'applicabilita' della norma "manipolata" dal Giudice delle leggi farebbe venir meno il presupposto del ne bis in idem. Non e' di ostacolo al riconoscimento della rilevanza della questione l'irrevocabilita' della pronuncia che ha rigettato l'opposizione dell'imputato avverso l'applicazione della sanzione amministrativa da parte della Consob. Per un verso, infatti, la declaratoria di illegittimita' costituzionale della base legale della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata all'imputato ex art. 187-bis TUF determinerebbe l'applicazione dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, con la conseguente adozione, da parte della Consob, delle necessarie determinazioni; l'applicazione dell'art. 30, quarto comma, cit. In caso di accoglimento della questione, sarebbe imposta, ad avviso del Collegio, dal riconoscimento della natura "sostanzialmente" penale della sanzione irrogata dalla Consob, sicche' l'interpretazione dell'art. 30 cit. orientata alla disciplina convenzionale alla luce della giurisprudenza della Corte Edu - interpretazione non preclusa dal tenore letterale della disposizione, ne' dalla ratio di ampia tutela dell'individuo rispetto a norme punitive dichiarate incostituzionali - conduce a ricostruirne la sfera applicativa in termini tali da includere in essa la norma in forza della quale e' stata inflitta all'imputato la sanzione solo "formalmente" amministrativa, secondo i dettami della Cedu cosi' come interpretati dalla Corte di Strasburgo. Per altro verso, viene in rilievo il peculiare atteggiarsi, nella materia degli abusi di mercato, del rapporto tra procedimento penale e procedimento relativo all'applicazione della sanzione amministrativa e, in particolare, il "collegamento" tra gli esiti dei due procedimenti stabilito dall'art. 187-terdecies TUF. Al riguardo, mette conto osservare che pur facendo espresso riferimento la disposizione appena richiamata all'ipotesi (senz'altro statisticamente piu' frequente) in cui la sanzione amministrativa pecuniaria sia gia' stata applicata e, dunque, la pena pecuniaria (cosi' come la sanzione pecuniaria dipendente da reato) debba essere limitata, in sede di esazione, alla parte eccedente quella riscossa dall'autorita' amministrativa, deve ritenersi, in accordo con molteplici voci dottrinali, che il meccanismo "compensativo" ivi stabilito debba trovare applicazione anche quando la sequenza risulti invertita. Il carattere, dunque, "blunivoco" della disciplina limitativa degli effetti del cumulo fa si' che, nella specifica materia in esame, l'effetto proprio dell'irrogazione della pena pecuniaria o della sanzione amministrativa continui a dispiegarsi, pur dopo il passaggio in giudicato della relativa pronuncia applicativa, in relazione alla "seconda" sanzione, determinando, di quest'ultima, il concreto ammontare. Con riguardo a casi analoghi a quello di specie, dunque, l'irrevocabilita' dell'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria non circoscrive la sfera di incidenza dei relativi effetti tipici alla sua esecuzione, in quanto tali effetti sono destinati a proiettarsi sulla concreta determinazione del quantum della pena pecuniaria definitivamente accertata all'esito del procedimento penale: di conseguenza, in casi del genere, la declaratoria di illegittimita' costituzionale della base legale della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata all'imputato ex art. 187-bis TUF determinerebbe - in forza dell'applicazione dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, come sopra evidenziata - la possibile esazione in toto della multa, il che conferma l'inerenza della questione di legittimita' costituzionale e, quindi, della norma impugnata rispetto alla regiudicanda all'esame di questa Corte. 2.4. Anche la questione sollevata in via subordinata e' rilevante nel presente giudizio, posto che, in caso di accoglimento di essa, questa Corte potrebbe definire il giudizio sulla base dell'art. 649 cod. proc. pen. cosi' come manipolato dalla pronuncia additiva richiesta. 2.5. In relazione alle due norme oggetto delle questioni proposte non sono praticabili interpretazioni costituzionalmente orientate. L'inciso di apertura dell'art. 187-bis, comma 1, TUF non puo' essere interpretato in senso diverso dalla previsione del cumulo della sanzione penale e di quella amministrativa: oltre al tenore letterale dell'incipit, depone nel senso indicato la complessiva disciplina delineata dal Titolo I-bis del TUF e, in particolare, il meccanismo "compensativo" gia' richiamato (art. 187-terdecies) e la previsione dell'autonomia del procedimento amministrativo in pendenza di quello penale (art. 187-duodecies), l'uno e l'altra compatibili solo con il concorso delle due sanzioni. Anche l'art. 649 cod. proc. pen. non si presta ad un'interpretazione conforme nella prospettiva della questione proposta in via subordinata. Il divieto di un secondo giudizio e la disciplina dettata dal secondo comma dell'art. 649 cod. proc. pen. si pongono all'interno di un sistema - quello delineato dal codice di rito - che appresta una serie di strumenti volti a prevenire lo svolgimento di piu' procedimenti per il medesimo fatto (la disciplina dei conflitti positivi di competenza ex artt. 28 ss. cod. proc. pen. , nonche' quella dei contrasti positivi tra uffici del pubblico ministero ex art. 54-bis cod. proc. pen.) o a porvi rimedio in sede esecutiva quando i piu' procedimenti hanno dato luogo a sentenze irrevocabili di condanna (la disciplina di cui all'art. 669 cod. proc. pen.): come ha rilevato questa Corte, l'art. 649 cod. proc. pen., al pari delle norme sui conflitti positivi di competenza e dell'art. 669 cod. proc. pen., costituisce espressione del generale principio di ne bis in idem, che tende ad evitare che per lo stesso fatto-reato si svolgano piu' procedimenti e si emettano piu' provvedimenti anche non irrevocabili, l'uno indipendente dall'altro, e a porre rimedio alle violazioni del principio stesso (Sez. 5, n. 1919 del 10/07/1995 - dep. 02/10/1995, Pandolfo, Rv. 202653). Gli strumenti preventivi e riparatori che compongono il quadro sistematico all'interno del quale si colloca la disciplina di cui all'art. 649 cod. proc. pen. presuppongono tutti la comune riferibilita' dei piu' procedimenti per il medesimo fatto all'autorita' giudiziaria penale: e' dunque tale quadro sistematico, in uno con la considerazione del tenore letterale della disposizione codicistica, che preclude un'interpretazione di quest'ultima che ne estenda l'ambito applicativo a sanzioni irrogate l'una dal giudice penale, l'altra da un'autorita' amministrativa. 3. Le questioni proposte non sono manifestamente infondate. 3.1. La violazione del parametro convenzionale interposto di cui all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu e, per il suo tramite, dell'art. 117, primo comma, Cost. si ricollega alla sentenza della Corte EDU, sez. II, 04/03/2014, Grande Stevens ed altri (divenuta irrevocabile il 07/07/2014). Richiamati gli scopi della Consob («assicurare la tutela degli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici»), la Corte di Strasburgo ritiene che le sanzioni pecuniarie da essa inflitte «mirassero essenzialmente a punire per impedire la recidiva», sicche' erano basate «su norme che perseguivano uno scopo preventivo, ovvero dissuadere gli interessati dal ricominciare, e repressivo, in quanto sanzionavano una irregolarita'» e, diversamente da quanto sostenuto dal Governo italiano, non si prefiggevano unicamente di riparare un danno di natura finanziaria; inoltre, «le sanzioni erano inflitte dalla Consob in funzione della gravita' della condotta ascritta e non del danno provocato agli investitori» (par. 96). Ricostruita la disciplina sanzionatoria amministrativa prevista dal TUF e dato atto che, nel caso di specie, le sanzioni non erano state applicate nel loro ammontare massimo, la sentenza Grande Stevens sottolinea, richiamando la propria giurisprudenza, che «il carattere penale di un procedimento e' subordinato al grado di gravita' della sanzione di cui e' a priori passibile la persona interessata (...), e non alla gravita' della sanzione alla fine inflitta» (par. 98), giungendo cosi' alla conclusione che «le sanzioni in causa rientrino, per la loro severita', nell'ambito della materia penale» (par. 99). Muovendo dal riconoscimento della riconducibilita' nella materia penale della sanzione inflitta dalla Consob in relazione all'illecito di cui all'art. 187-ter TUF, la Corte EDU mette in luce la portata del principio convenzionale del ne bis in idem sotto un duplice profilo: la Corte precisa, infatti, che, per un verso, «(l)a garanzia sancita all'art. 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna e' gia' passata in giudicato» (par. 220) e che, per altro verso, «la questione da definire non e' quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dagli articoli 187-ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 siano o meno identici, ma se i fatti ascritti al ricorrenti dinanzi alla Consob e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta» (par. 224). Risolte in termini positivi le verifiche relative alla sussistenza dei presupposti di operativita' del principio convenzionale, la Corte EDU conclude, all'unanimita', nel senso della violazione dell'art. 4 del Prot. n. 7. 3.2. La Corte Edu ha dunque rilevato l'incompatibilita' con il divieto convenzionale di bis in idem del regime del "doppio binario" sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli abusi di mercato. La conclusione non puo' essere ridimensionata, nella sua portata, sulla base della circostanza che la pronuncia in esame risulta adottata da una sezione semplice della Corte europea. Al riguardo, infatti, ritiene questa Corte decisivo il rilievo che la pronuncia fa leva su due solidi orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo: quanto al riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa comminata dal TUF per gli abusi di mercato, la sentenza Grande Stevens valorizza criteri interpretativi (i cc.dd. "criteri di Engel") largamente consolidati nella giurisprudenza convenzionale; anche l'approccio che, nello scrutinio dell'identita' del fatto, fa leva su un accertamento "in concreto" e non sulla disamina degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte puo' dirsi (almeno a far tempo dall'ultimo quinquennio) ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. A quest'ultimo proposito, peraltro, puo' aggiungersi che mentre la sentenza Grande Stevens riguardava una fattispecie concreta di manipolazione del mercato (e, dunque, il rapporto tra le sanzioni - penali e "amministrative" - comminate dall'art. 185 e dall'art. 187-ter TUF), la vicenda in esame riguarda un fatto di abuso di informazioni privilegiate, le cui fattispecie legali - gli artt. 184 e 187-bis TUF - risultano anche sul piano astratto largamente sovrapponibili. Non contraddice il giudizio di non manifesta infondatezza delle questioni proposte il rilievo che la sentenza Grande Stevens non ha indicato misure di carattere generale che lo Stato italiano dovrebbe adottare ex art. 46 Cedu (par. 235): la pronuncia, infatti, ha comunque accertato una violazione del principio del ne bis in idem, ossia un'incompatibilita' - tra sanzione penale e sanzione amministrativa comminate dal TUF - di tipo sistemico, rilevando una situazione interna di contrarieta' alla Convenzione derivante dalla normativa in questione, ossia dal cumulo, per il medesimo fatto, delle due sanzioni: eloquente, in tal senso, e' l'affermazione che sottolinea come «le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti abbiano carattere penale, di modo che il profilo penale dell'art. 6 § 1 sia applicabile nei caso di specie» (par. 101). Sotto questo profilo, la sentenza Grande Stevens si presenta affine alla sentenza della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, sicche', per riprendere i rilievi formulati dalla sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale (che alla sentenza Scoppola faceva riferimento), il «contenuto rilevante» della pronuncia della Corte Edu «ha una portata piu' ampia di quella che, per quanto concerne specificamente la violazione riscontrata, emerge dal dispositivo»: in questa prospettiva, posto che «le modalita' attraverso le quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali alle sentenze della Corte di Strasburgo non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce, ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento», non e' necessario, sottolinea ancora la sentenza n. 210 del 2013, che «le sentenze della Corte EDU specifichino le "misure generali" da adottare per ritenere che esse, pur discrezionalmente configurabili, costituiscono comunque una necessaria conseguenza della violazione strutturale della CEDU da parte della legge nazionale». Individuato, dunque, il «contenuto rilevante» della sentenza Grande Stevens nel riconoscimento della natura sostanzialmente penale delle sanzioni applicate dalla Consob in materia di abusi di mercato e nella conseguente incompatibilita' con il principio del ne bis in idem di cui all'art. 4 del Protocollo n. 7 del regime del "doppio binario" sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per detti illeciti, e' necessario mettere in luce una differenza tra le violazioni strutturali riscontrate dalle due pronunce della Corte di Strasburgo: nella vicenda Scoppola, infatti, veniva in rilievo una singola norma contraria alla CEDU, laddove, nel caso in esame, e' l'applicabilita' cumulativa in relazione al medesimo fatto delle sanzioni previste dalle due norme (art. 184 e 187-bis TUF, per riferirsi al caso oggi in esame) a violare, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, il divieto di bis in idem, sicche' e' tale "risultato" che, determinando la lesione del parametro interposto e, quindi, della norma costituzionale, deve essere normativamente escluso. Il problema di costituzionalita' posto dalla violazione strutturale accertata dalla Corte Edu trova soluzione, secondo questa Corte, nelle questioni di legittimita' costituzionale prospettate, il cui rapporto di subordinazione sara' di seguito esaminato. 3.3. Ne' la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 Cedu, puo' essere esclusa sulla base del principio di stretta legalita' formale sancito in materia penale dall'art. 25 Cost. e del principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. cui ha fatto riferimento la difesa della parte civile Consob. Detti principi sarebbero destinati ad operare come una sorta di generalizzata preclusione al "recepimento", nell'ordinamento interno, della riconducibilita' nel genus della sanzione penale, cosi' come delineato dalla Cedu, di sanzioni formalmente non qualificate come tali; una preclusione del genere, tuttavia, non e' in linea, ad avviso del Collegio, con la giurisprudenza costituzionale che, sulla base della giurisprudenza della Corte Edu, formatasi in particolare sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 Cedu, ha richiamato il principio desumibile anche dall'art. 25, secondo comma, Cost. - secondo cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto» (sentenza n. 196 del 2010). Vero e', come si' avra' modo di mettere in luce piu' oltre, che la titolarita', sul terreno degli abusi di mercato, dell'iniziativa dei procedimenti destinati all'applicazione della sanzione penale e di quella amministrativa pertiene, rispettivamente, al pubblico ministero e all'autorita' amministrativa e che da questo peculiare atteggiarsi della duplicazione dei procedimenti per il medesimo fatto discendono rilevanti conseguenze sistematiche: tali conseguenze, tuttavia, se possono contribuire ad orientare l'individuazione della soluzione del problema di costituzionalita' in esame, non consentono di escludere il vulnus individuato dalla Corte Edu, dovendo l'ordinamento interno (fermo il "margine di apprezzamento" nazionale, sul quale pure si tornera' infra) apprestare soluzioni idonee a rimuovere la violazione strutturale conseguente alla riconosciuta natura "penale" delle sanzioni amministrative in tema di abusi di mercato. Un vulnus, quello messo in luce dalla sentenza Grande Stevens, che, peraltro, era stato segnalato in dottrina a seguito dell'introduzione del "doppio binario" sanzionatorio. Resta dunque confermata la non manifesta infondatezza delle questioni proposte. 4. Per una compiuta ricostruzione del quadro normativo (nonche' per dar conto del rapporto di subordinazione prospettato con riguardo alla seconda questione rispetto alla prima) e' necessario richiamare, in estrema sintesi, la disciplina in materia di abusi di mercato stabilita dal diritto dell'Unione europea. Sotto un primo profilo, deve rilevarsi che l'assetto sanzionatorio delineato dal legislatore italiano sulla base del "doppio binario" non deriva da vincolanti disposizioni in tal senso della normativa europea. Dirimente, al riguardo e' la considerazione dell'art. 14, comma 1, della Direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003, ai sensi del quale «(f)atto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive». La direttiva, dunque, individua la sanzione amministrativa quale risposta indicata in via generale per gli abusi di mercato, fermi restando, per un verso, il vincolo di risultato, che deve assicurare la previsione di misure efficaci, proporzionate e dissuasive, e, per altro verso, la possibilita' - non l'obbligo - per il singolo Stato membro di comminare sanzioni penali per gli illeciti in questione, come evidenziato anche dalla Corte di giustizia, con la sentenza della Terza sezione 23/12/2009 Spector Photo Group NV, Chris Van Raemdonk vs. Commissie voor het Bank -, Finanzie en Assurantiewezen (CBFA) - C-45/08, ove si e' chiarito che «l'art. 14, n. 1, della direttiva 2003/6 non impone agli Stati membri di prevedere sanzioni penali nei confronti degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad affermare che tali Stati sono tenuti a garantire che "possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione di [tale] direttiva", essendo gli Stati membri, inoltre, tenuti a garantire che queste misure siano "efficaci, proporzionate e dissuasive"» (par. 42). Il "cumulo" di sanzioni amministrative e penali, pur non imposto dal diritto dell'Unione europea, e' senz'altro consentito dalla direttiva 2003/6/CE, sicche' la possibile interferenza della normativa sanzionatoria degli abusi di mercato con il principio del ne bis in idem si ricollega alla stessa disciplina stabilita dal diritto dell'Unione europea: Il che, se certo non comporta la "neutralizzazione" del principio, impone, tuttavia, all'interprete una valutazione dei rimedi necessari a far fronte a violazioni di tale principio che tengano conto anche delle istanze di efficacia, proporzionalita' e dissuasivita' della risposta sanzionatoria prescritte dal diritto dell'Unione europea. E' questa l'indicazione che si ricava dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. La sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea 26/02/2013 Aklagarem vs. Akeberg Fransson - C-617/10 (richiamata anche dalla Corte Edu nella sentenza Grande Stevens) ha infatti chiarito che «quando un giudice di uno Stato membro sia chiamato a verificare la conformita' ai diritti fondamentali di una disposizione o di un provvedimento nazionale che, in una situazione in cui l'operato degli Stati membri non e' del tutto determinato dal diritto dell'Unione, attua tale diritto ai sensi dell'art. 51, paragrafo 1, della Carta, resta consentito alle autorita' e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, ne' il primato, l'unita' e l'effettivita' del diritto dell'Unione» (par. 29); richiamati i tre criteri in base ai quali occorre valutare, con riferimento al «principio del ne bis in idem», la natura penale di una sanzione, nel caso di specie, tributaria (i criteri della qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale, della natura dell'illecito e della natura nonche' del grado di severita' della sanzione in cui l'interessato rischia di incorrere), la Grande Sezione ha sottolineato che «(s)petta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi del punto 29 della presente sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive» (par. 36). Nella definizione, secondo il diritto dell'Unione europea, della portata del principio del ne bis in idem, la Corte di giustizia - in cio' distinguendosi dalla Corte Edu - fa dunque riferimento alla necessaria valutazione dell'adeguatezza delle "rimanenti" sanzioni rispetto ai gia' richiamati canoni di effettivita', proporzionalita' e dissuasivita': tale valutazione, come si vedra' nel successivo paragrafo, contribuisce, nel giudizio di questa Corte, ad individuare come principale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, TUF nel senso indicato. Il rilievo giova ad evidenziare l'impraticabilita' di un'applicazione diretta, nel caso di specie, dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea: il differente approccio delle due Corti europee nella definizione della portata del principio del ne bis in idem impedisce che il principio delineato dal diritto dell'Unione europea (secondo l'interpretazione della Corte di giustizia) possa condurre alla "inappilcazione" di norme interne sulla base di una valutazione della sussistenza dei presupposti del bis in idem svolta esclusivamente nella prospettiva indicata dalla Corte EDU, laddove la valutazione dell'esistenza di tali presupposti - anche - alla luce del diritto dell'Unione europea e delle indicazioni offerte dalla Corte di Lussemburgo e, quindi, sulla base della necessaria valorizzazione dei canoni di effettivita', proporzionalita' e dissuasivita' della risposta sanzionatoria conduce alla proposizione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, TUF, norma rispetto alla quale questa Corte non potrebbe procedere alla "non applicazione", restando affidata - in caso di accoglimento della questione - all'autorita' amministrativa l'adozione dei necessari provvedimenti, secondo quanto si e' segnalato sopra al par. 2.3. Il quadro del diritto dell'Unione europea in materia di abusi di mercato, peraltro, ha conosciuto di recente profonde innovazioni. Il regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, oltre a stabilire l'abrogazione della direttiva 2003/6/CE con effetto dal 03/07/2016, ha previsto la comminatoria di sanzioni amministrative per una serie di fattispecie di abusi di mercato (art. 30, comma 1), precisando che «gli Stati membri possono decidere di non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative di cui al primo comma se le violazioni dl cui alle lettere a) o b) di tale comma sono gia' soggette a sanzioni penali, nel rispettivo diritto nazionale entro il 3 luglio 2016». La disciplina del regolamento si salda con quella dettata dalla direttiva 2014/57/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 (che dovra' essere recepita entro il 03/07/2016), la cui impostazione di fondo e' volta, in sintesi, a "capovolgere" il rapporto tra sanzione penale e sanzione amministrativa delineato dalla direttiva del 2003: le principali fattispecie di abuso di mercato, almeno nei casi gravi e qualora siano commesse con dolo, devono essere sanzionate a titolo di reato (artt. 3 ss.) e le relative sanzioni penali devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (art. 7), mentre «gli obblighi previsti nella presente direttiva di prevedere negli ordinamenti nazionali pene per le persone fisiche e sanzioni per le persone giuridiche non esonerano gli Stati membri dall'obbligo di contemplare in tali ordinamenti nazionali sanzioni amministrative e altre misure per le violazioni previste nel regolamento (UE) n. 596/2014, salvo che gli Stati membri non abbiano deciso, conformemente al regolamento (UE) n. 596/2014, di prevedere per tali violazioni unicamente sanzioni penali nel loro ordinamento nazionale» (Considerando 22). L'opzione di fondo della direttiva 2014/57/UE, tesa a privilegiare la risposta sanzionatoria penale, muove da una valutazione di sicuro rilievo anche ai fini dello scrutinio del problema di legittimita' costituzionale in esame: «l'adozione di sanzioni amministrative da parte degli Stati membri si e' finora rivelata insufficiente a garantire il rispetto delle norme intese a prevenire e combattere gli abusi di mercato» (Considerando 5). 5. Plurime ragioni convergono nell'individuare come principale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, TUF nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziche' «Salvo che il fatto costituisca reato». 5.1. Sostituendo la clausola che prevede il cumulo sanzionatorio con quella che attribuirebbe carattere sussidiario alla fattispecie amministrativa, la pronuncia manipolativa invocata assicurerebbe (con riguardo all'abuso di informazioni privilegiate, oggetto della questione in esame) l'immediato adeguamento della disciplina interna alla direttiva 2014/57/UE, che il legislatore europeo, come si e' visto, ha espressamente orientato ai canoni di effettivita', proporzionalita' e dissuasivita' della risposta sanzionatoria. Di conseguenza, al recepimento della nuova disciplina di diritto dell'Unione europea si accompagnerebbe la migliore rispondenza ai predetti canoni (individuati dalla Grande Sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea con la citata sentenza 26/02/2013 Aklagarem vs. Akeberg Fransson) dell'assetto normativa che scaturirebbe dall'accoglimento della questione sollevata in via principale e, dunque, della previsione in via esclusiva, per le principali figure di abuso di mercato (recte, di abuso di informazioni privilegiate), della sanzione penale, con conseguente esclusione in radice di possibili interferenze con il principio del ne bis in idem. Nella stessa prospettiva, puo' osservarsi che i canoni della dissuasivita' e della proporzionalita' troverebbero riscontro anche nelle opzioni sanzionatorie del legislatore italiano rispetto alle diverse manifestazioni del fenomeno della manipolazione dei mercati; la disciplina penalistica di cui all'art. 185 TUF (figura affine, sul piano del bene protetto e della previsione delle risposte sanzionatorie rispetto all'abuso di informazioni privilegiate, che viene in rilievo nel caso di specie, sicche' la considerazione della complessiva configurazione della tipologia di illecito di cui e' espressione la prima offre valide indicazioni anche in ordine al secondo) si associa, infatti, a quelle, pure di impianto penalistico (anche se con diversi livelli della comminatoria edittale), previste per l'aggiotaggio comune (art. 501 cod. pen.) e per l'aggiotaggio societario e bancario (art. 2637 cod. civ.): l'omogeneita' della previsione della sanzione penale per le diverse figure di aggiotaggio e' indicativa della valutazione del legislatore interno circa l'adeguatezza, sul piano della prevenzione generale e con riguardo alla proporzionalita', di siffatta risposta sanzionatoria rispetto ad illeciti sotto molteplici profili assimilabili. Anche il canone dell'effettivita' risulterebbe meglio salvaguardato dall'assetto normativa conseguente all'accoglimento della questione sollevata in via principale. A questo proposito, vengono in rilievo, sotto un primo profilo, i rilevanti poteri di acquisizione della prova e di tutela, anche attraverso misure cautelaci, della sua genuinita' di cui e' titolare l'autorita' giudiziaria penale (si pensi all'inclusione dell'abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato nel catalogo del reati per i quali e' espressamente prevista la possibilita' di effettuare intercettazioni di conversazioni o comunicazioni: art. 266, comma 1, lett. f), cod. proc. pen., come modificato dall'art. 9 della legge n. 62 del 2005), in linea, ancora una volta, con la direttiva 2014/57/UE, che ha espressamente fatto riferimento a metodi piu' efficaci di indagine e ad una piu' efficace cooperazione a livello nazionale e di Stati membri (Considerando 7). Piu' in generale, e' la certezza del tipo di risposta sanzionatoria prevista dall'ordinamento per l'abuso di informazioni privilegiate che rafforzerebbe l'effettivita' della risposta stessa: sotto questo profilo, dunque, viene in rilievo l'incongruenza sistematica sottesa, ad avviso del Collegio, alla soluzione che fa leva sulla pronuncia manipolatoria avente ad oggetto l'art. 649 cod. proc. pen., ossia un ordine di considerazioni che contribuisce ulteriormente a individuare come principale la prima delle questioni proposte. 5.2. Interrogandosi sulla portata dalla disciplina di cui all'art. 649 cod. proc. pen., la giurisprudenza di questa Corte ha messo in luce la ratio composita del ne bis in idem, per un verso, «presidio al principio di ordine pubblico processuale funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate da una decisione irrevocabile» e, per altro verso, espressione di «un diritto civile e politico dell'individuo, sicche' il divieto deve ritenersi sancito anche a tutela dell'interesse della persona, gia' prosciolta o condannata, a non essere nuovamente perseguita» (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 - dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro). Per assecondare questa ratio composita, il codice di rito, come si e' anticipato, appresta una serie di strumenti preventivi (ossia, finalizzati a prevenire la duplicazione dei procedimenti relativi al medesimo fatto: la disciplina dei conflitti positivi di competenza ex artt. 28 ss. cod. proc. pen., nonche' quella dei contrasti positivi tra uffici del pubblico ministero ex art. 54-bis cod. proc. pen.) e riparatori (la disciplina di cui all'art. 669 cod. proc. pen. e la stessa disciplina ex art. 649 cod. proc. pen.), tutti affidati all'autorita' giudiziaria penale e collocati nel quadro della disciplina codicistica: in questo quadro, la duplicazione dei procedimenti per il medesimo fatto rappresenta, per riprendere ancora le indicazioni delle Sezioni unite Donati, oltre che una «lesione della sfera giuridica dell'interessato», «un'evidente distorsione dell'attivita' giurisdizionale». Ora, svincolata dalla collocazione all'interno del quadro normativo delineato dal codice di rito (e, segnatamente, dalla previsione di strumenti preventivi finalizzati a contrastare, sul nascere, la duplicazione dei procedimenti) e riferita a procedimenti instaurati obbligatoriamente l'uno dal pubblico ministero, l'altro dalla Consob, l'applicazione della disciplina di cui all'art. 649 cod. proc. pen. nella formulazione di cui alla questione sollevata in via subordinata rivelerebbe, ad avviso del Collegio, un'incongruenza sistematica: essa, infatti, rappresenterebbe non piu' il rimedio ad una «distorsione dell'attivita' giurisdizionale», ossia ad un evento "patologico" nel quadro della disciplina del codice di rito, ma lo sbocco necessario della ineludibile instaurazione, per il medesimo fatto di abuso di informazioni privilegiate, del procedimento penale da parte del pubblico ministero e del procedimento amministrativo da parte della Consob. D'altra parte, la segnalata incongruenza sistematica avrebbe, ad avviso di questa Corte, ricadute anche sul piano dell'effettivita' della risposta sanzionatoria: al dl la' di qualsiasi considerazione circa l'evidente irragionevolezza, sul piano della gestione delle risorse e su quello delle possibili disparita' di trattamento tra singoli destinatari delle sanzioni, di una duplicazione di procedimenti destinata ab initio a concludersi con l'accertamento di una violazione del divieto di bis in idem, deve rilevarsi che la stessa incertezza sulla sorte dei due procedimenti avviati (uno dei quali destinato, appunto, a generare la violazione del ne bis in idem) sarebbe inevitabilmente destinata a riflettersi sull'effettivita' della risposta sanzionatoria, compromessa - o comunque sensibilmente ridimensionata - dalla prospettiva di "azzeramento" del procedimento (quello penale, nel casi che dovrebbero risultare statisticamente piu' frequenti) ancora in corso al momento dell'irrevocabilita' della sanzione irrogata all'esito del diverso procedimento. 5.3. La giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di sottolineare che «il richiamo al "margine di apprezzamento" nazionale - elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, e rilevante come temperamento alla rigidita' del principi formulati in sede europea - deve essere sempre presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela del diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. n. 264 del 2012). In questa prospettiva, la soluzione al problema di costituzionalita' delineata dalla questione proposta in via principale assicura, nella valutazione del Collegio, un assetto normativo idoneo, in chiave sistemica, ad assicurare, da un lato, la piena tutela dell'istanza di garanzia individuale rispetto alla violazione del divieto di bis in idem cosi' come configurata dalla Corte Edu con la sentenza Grande Stevens e, dall'altro, un apparato sanzionatorio rispondente ai canoni di effettivita', proporzionalita' e dissuasivita' individuati dal diritto dell'Unione europea e dalla Corte di giustizia, canoni, questi, funzionali alla salvaguardia dei beni protetti dalle norme repressive dell'abuso di informazioni privilegiate poste a tutela del mercato (in particolare, della sua integrita' ed efficienza) e dell'investitore, ossia, in ultima analisi, dei principio costituzionale di tutela del risparmio (art. 47 Cost.). 6. Per l'ipotesi di non accoglimento della questione proposta in via principale, ritiene questa Corte non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l'applicabilita' della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Cedu e dei relativi Protocolli. Nell'ipotesi in esame, infatti, la pronuncia manipolativa invocata rappresenterebbe la soluzione necessaria ad apprestare lo strumento normativa in grado di rimuovere, nei singoli casi concreti (e non in via generale, come nella prospettiva tracciata dalla questione principale), l'incompatibilita' con il divieto convenzionale di bis in idem del regime del "doppio binario" sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli abusi di mercato (e, segnatamente, per la fattispecie di abuso di informazioni privilegiate oggetto del presente giudizio). In detta ipotesi, l'incongruenza sistematica sopra segnalata non sarebbe di ostacolo, ad avviso del Collegio, all'accoglimento della questione. Viene in rilievo, in tal senso, la vicenda che ha condotto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011, a dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Cedu, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo. Occupandosi, in precedenza, della medesima vicenda, sia pure con riferimento ad una questione sollevata in termini non sovrapponibili a quelli della questione decisa nel 2011, il giudice delle leggi aveva messo in luce la problematicita', sui piano sistematico, dell'introduzione", nel corpo della disciplina codicistica della revisione, della fattispecie all'esame del giudice a quo: osservo', infatti, la Corte che «il contrasto, che legittima - e giustifica razionalmente - l'istituto della revisione (per come esso e' attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale», ma «ha la sua ragione d'essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato "accadimento della vita" - essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilita' di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda - puo' aver ricevuto all'esito di due giudizi penali irrevocabili» (sent. n. 129 del 2008). Considerazioni di segno analogo sono ribadite dalla sentenza n. 113 del 2011, laddove essa rimarca come «l'ipotesi della riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla CEDU risulti eterogenea rispetto agii altri casi di revisione attualmente contemplati dalla norma censurata». Nonostante tali rilievi, tuttavia, la pronuncia di accoglimento si impone in quanto, cosi' sottolinea ancora la sentenza n. 113 del 2011, «(p)osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto piu' se attinente a diritti fondamentali - la Corte e' tenuta comunque a porvi rimedio». Sussiste, nell'ipotesi in esame, la medesima esigenza che ha orientato la sentenza n. 113 del 2011: la violazione strutturale messa in luce dalla Corte Edu con la sentenza Grande Stevens - il cui «contenuto rilevante», come si e' visto, e' ravvisabile nei riconoscimento della natura sostanzialmente penale delle sanzioni applicate dalla Consob in materia di abusi di mercato e nella conseguente incompatibilita' con il principio del ne bis in idem di cui all'art. 4 del Protocollo n. 7 della disciplina sanzionatoria prevista dalla legislazione italiana per tali illeciti determina un vulnus costituzionale attinente a un diritto fondamentale e sanabile attraverso la pronuncia additiva richiesta, che - fermo restando l'obbligo del legislatore interno di adeguarsi alla direttiva 2014/57/UE nel termine dalla stessa previsto - consentirebbe di rimuovere, nei singoli casi, gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla violazione del divieto di bis in idem qualora l'imputato sia stato giudicato, in via definitiva, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della normativa convenzionale. 7. Pertanto, devono dichiararsi rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., In relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, TUF nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziche' «Salvo che il fatto costituisca reato» (in via principale) e dell'art. 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l'applicabilita' della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Cedu e dei relativi Protocolli (in via subordinata), con le ulteriori statuizioni indicate in dispositivo.