Ricorso proposto dalla Regione Veneto (codice fiscale n. 80007580279, Partita I.V.A. n. 02392630279), in persona del Presidente della Giunta Regionale dott. Luca Zaia (codice fiscale ZAILCU68C27C957O), autorizzato con delibera della Giunta regionale n. 152 del 10 febbraio 2015 (all. 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti Ezio Zanon (codice fiscale ZNNZEI57L07B563K) coordinatore dell'Avvocatura regionale, prof. Luca Antonini (codice fiscale NTNLCU63E27D869I) del Foro di Milano e Luigi Manzi (codice fiscale MNZLGU34E15H501V) del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5 (per eventuali comunicazioni: fax 06/3211370, posta elettronica certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org Contro Il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12 per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni della legge n. 190 del 23 dicembre 2014 recante: «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita' 2015)», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 300 del 29 dicembre 2014 - Suppl. Ordinario n. 99: articolo 1, comma 359; articolo 1, comma 398, lett. a) e b); articolo 1, comma 398, lett. c), comma 414 e comma 556; articolo 1, commi 431, 432, 433 e 434; articolo 1, comma 609; articolo 1, commi 611 e 612; articolo 1, comma 629, lettera b), comma 632, comma 633; Con istanza di sospensione dell'art. 1, commi 398, lett. a), b) e c), 414 e 556, nonche' dell'art. 1 comma 629, lettera b), comma 632, comma 633, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003, che tanto consente in presenza di un rischio di pregiudizio grave e irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini. Motivi 1) Illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, comma 359, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, per violazione degli art 3, 97, 117, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. L'art. 1, comma 359, riduce di 8,9 milioni di euro per l'anno 2015 e di 10 milioni di euro a decorrere dal 2016 l'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 13, comma 12, della legge n. 67 del 1988, finalizzata al finanziamento, per capitale e interessi, dei mutui che sono autorizzati a contrarre le ferrovie in regime di concessione e in gestione commissariale governativa (oggetto di delega, in quanto servizi ferroviari di interesse regionale, alle Regioni, per quanto concerne i compiti di programmazione e di amministrazione, in base all'art.8, comma 1, del decreto legislativo n. 422/1997). In questi termini la disposizione riduce il contributo statale per gli ammortamenti dei mutui per investimenti in infrastrutture ferroviarie, risultando applicabile anche a investimenti gia' effettuati dalla Regione. Infatti, ai sensi dell'art. 2, comma 3, della legge 22 dicembre 1986, n. 910, era stata prevista la concessione di contributi a carico dello Stato in misura pari agli oneri per capitali e interessi derivanti dall'ammortamento dei mutui garantiti dallo Stato che le ferrovie in regime di concessione ed in gestione commissariale governativa potevano contrarre nel limite complessivo di L. 5.000.000.000.000 per la realizzazione di investimenti ferroviari. Con decreto del Ministero dei Trasporti e della Navigazione n. 1334 del 9 luglio 1987 erano state fissate le modalita' per l'attivazione dei mutui in funzione di un piano di riparto preventivo relativo alle entita' degli interventi previsti per le varie ferrovie. Ai sensi dell'art. 1, comma 3 del decreto legge 4 ottobre 1996, n. 517 recante «Interventi nel settore dei trasporti», convertito con modificazioni nella legge 4 dicembre 1996, n. 611, al fine di consentire il completamento dei programmi di potenziamento ed ammodernamento delle ferrovie in concessione ed in gestione commissariale governativa di cui al predetto articolo 2, comma 3, della predetta legge n. 910 del 1986, era stata autorizzata l'accensione di ulteriori mutui. Ai sensi degli articoli 8 e 15 del decreto legislativo n. 422/1997 era stata quindi prevista la facolta' di stipulare accordi di programma tra le Regioni ed i Ministeri competenti per la delega di funzioni in materia di servizi ferroviari di interesse locale. In particolare l'art. 15, comma 2-ter del decreto legislativo n. 422/1997 aveva disposto che le risorse necessarie all'attuazione degli accordi di programma erano state depositate presso conti di tesoreria infruttiferi intestati al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con vincolo di destinazione alla Regione. Ai sensi dell'articolo 54 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 erano stati autorizzati ulteriori limiti di impegno per la prosecuzione degli interventi previsti dalla legge 4 dicembre 1996, n. 611. Con deliberazioni della Giunta regionale 22 novembre 2002, n. 3334 e 13 dicembre 2002, n. 3613 era stato approvato lo schema di Accordo di Programma Stato - Regione Veneto per disciplinare realizzazione degli interventi di ammodernamento e di potenziamento della linea ferroviaria Adria-Mestre. Tale Accordo di Programma ex art. 15 del decreto legislativo n. 422/1997 e' stato poi sottoscritto in data 17 dicembre 2002 tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e la Regione del Veneto. Il valore complessivo degli interventi inclusi nel richiamato Accordo di Programma e' ammontato ad € 49.162.101,68, da quanto risulta dall'ultima rimodulazione apportata al relativo piano con decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti del 6 ottobre 2005, n. 4090. Per finanziare una parte degli investimenti la regione Veneto e' ricorsa al mercato finanziario, contraendo in data 24 dicembre 2003 tre contratti di mutuo per l'ammontare complessivo di € 34.033.213,30, con atti ai rogiti dell'Ufficiale Rogante della Regione Veneto Giunta Regionale Rep. n. 5504, Rep. n. 5503 e Rep. n. 5502 (registrati a Venezia il 30 dicembre 2003, rispettivamente ai numeri 4236, 4238 e 4237 Atti Pubblici) a fronte dei seguenti tre limiti di impegno pluriennali. Piu' precisamente: il contratto rep. n. 5504 e' stato sottoscritto per l'importo di € 11.343.190,09 a fronte del primo limite d'impegno di € 1.285.276,54; il contratto rep. n. 5503 e' stato sottoscritto per l'importo di € 14.529.952,71 a fronte del secondo limite di impegno di € 1.224.002,85; il contratto rep. n. 5502 e' stato sottoscritto per l'importo di € 8.160.070,50 a fronte del terzo limite di impegno di € 687.404,13. Sulla scorta del finanziamento ottenuto, in data 8 aprile 2004 la Regione del Veneto ha potuto sottoscrivere con la Sistemi Territoriali S.p.a., soggetto gestore della linea Adria-Mestre, nonche' attuatore degli interventi, giusta D.G.R. n. 899 del 6 aprile 2004, una convenzione per disciplinare le modalita' di realizzazione degli interventi previsti dal citato Accordo di Programma. Tale convenzione e' stata successivamente modificata ed integrata con atti del 16 novembre 2004 del 13 luglio 2005 e del 17 novembre 2009. Gli interventi programmati sono stati completamente realizzati dal soggetto attuatore e rimangono a carico della regione Veneto. Attualmente sono ancora in essere i contratti di mutui rep. n. 5503 del 24 dicembre 2003 e rep. 5502 del 24 dicembre 2003, entrambi scadenti il 31 dicembre 2016, per i quali devono essere ancora corrisposte le annualita' 2015 e 2016. La riduzione dell'autorizzazione di spesa operata dall'art. 1, comma 359, incide quindi retroattivamente su impegni gia' assunti dalla regione Veneto e determina una irragionevole alterazione della programmazione gia' compiuta dalla Regione. Rende in tal modo carenti di provvista le obbligazioni da questa assunte e, violando il legittimo affidamento, incide sull'equilibrio finanziario della Regione, senza peraltro che sia stata prevista alcuna partecipazione della Conferenza Stato-Regioni, con lesione, anche sotto questo particolare profilo, del principio di leale collaborazione. E' utile ricordare che questa ecc.ma Corte nella sentenza n. 326 del 2010, nel tutelare i principi di certezza delle entrate e di affidamento delle Regioni ha dichiarato la parziale illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 187, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2010) perche' la norma «palesa una irragionevolezza che si riverbera sulla autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali come ridisegnata dall'art. 119 Cost. ... lasciando privo di copertura finanziaria e, comunque, di una regolamentazione sia pure transitoria, un settore di rilievo, qual e' quello degli investimenti strutturali a medio e lungo termine effettuati mediante la stipulazione di mutui originariamente "garantiti" dal finanziamento statale». Non rileva, invece, nel caso in esame, quanto precisato da questa ecc.ma Corte nella sentenza n. 207 del 2011 dal momento che in quella situazione «oggetto dell'intervento sono (erano) risorse del bilancio dello Stato non ancora impegnate», motivo per cui «non e' sostenibile che esse abbiano dato vita a rapporti gia' consolidati, mentre proprio la mancanza di concreti atti di impegno, in presenza di risorse assegnate ma non utilizzate in un arco di tempo circoscritto, non breve, giustifica che l'intervento sia stato effettuato proprio su quelle risorse». Anzi, al contrario, dato che nel caso di specie si tratta proprio di somme gia' impegnate e programmate dalla Regione, anche quest'ultima pronuncia conferma la violazione, da parte dell'art. 1 comma 359 qui impugnato, degli art. 3 e 97 per lesione del principio di affidamento della Regione e del principio di proporzionalita', con una lesione che ridonda sulle competenze regionali, peraltro anche direttamente violate, di cui agli artt. 117, III e IV comma, 118, in tema di servizi ferroviari di interesse regionale e dell'art. 119 Cost in relazione all'autonomia finanziaria, nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art.120 Cost. 2) Illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, comma 398, lett. a) e b) della legge 23 dicembre 2014, n. 190 per violazione degli articoli 3,117, II, III e IV comma, 118 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione di cui all'art.120 Cost. L'art. 1, comma 398, lettere a) e b) della legge 23 dicembre 2014, n. 190, ha disposto la modifica dell'art. 46, comma 6, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, che stabilisce le modalita' e il periodo di riferimento della riduzione della spesa per beni e servizi delle Regioni disposta dall'art. 8, comma 4, dello stesso decreto-legge n. 66/2014. In particolare la lettera a), oltre a espungere il riferimento alle Regioni speciali e alla Province autonome di Trento e Bolzano, modifica in questi termini l'art.46, comma 6, del decreto legge 66/2014: "la parola: «2017» e' sostituita dalla seguente: «2018»; le parole: «tenendo anche conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE, nonche' dell'incidenza degli acquisti centralizzati,» sono soppresse". Con la lettera b) si dispone che, in merito allo stesso comma 6 dell'art. 46 del decreto legge 66/2014: "al secondo periodo, la parola: «eventualmente» e' soppressa" rendendo quindi certo che, a seguito della distribuzione statale del taglio, sono rideterminati i livelli di finanziamento regionali e le modalita' di acquisizione delle risorse da parte dello Stato. In questi termini, quindi, oltre al contributo alla finanza pubblica pari a 500 milioni di euro per l'anno 2014, viene imposto alle Regioni a statuto ordinario un contributo, a valere sulla spesa per beni e servizi, di 750 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018. In sintesi: l'art. 1, comma 398, lettera a), allunga quindi di un anno, estendo anche al 2018, il periodo originariamente stabilito dalle disposizioni dell'articolo 46 del decreto legge n. 66 del 2014 per il taglio alla spesa per beni e servizi previsto dall'art. 8 di quest'ultimo decreto legge; la lett. b) dispone la conseguente rideterminazione del finanziamento degli ambiti individuati e le modalita' di acquisizione delle risorse da parte dello Stato. Le violazioni costituzionali sono evidenti sotto diversi profili. i) Va in primo luogo precisato che tale inserimento di un'annualita' aggiuntiva e' disposto all'interno di un contesto normativo gia' caratterizzato dall'evidente lesione del principio di leale collaborazione. L'articolo 42, comma 1, del decreto legge n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, aveva infatti anticipato in modo del tutto arbitrario e irragionevole (e questa Regione ha provveduto a impugnare tale disposizione con la DGR n. 2470 del 23 dicembre 2014), senza peraltro che esistesse alcun reale presupposto di necessita' e urgenza, dal 31 ottobre al 31 settembre 2014, il termine originariamente previsto dall'art. 46, comma 6, del decreto legge n. 66 del 2014, per l'intesa sul riparto dei tagli in Conferenza Stato-Regioni. Tale disposizione, quindi, entrata in vigore il 13 settembre 2014, ha improvvisamente anticipato di un mese - rendendola quindi abnormemente breve: 17 giorni e quindi impossibile concretamente da rispettare - la scadenza originariamente prevista per una delicatissima e rilevante intesa. Questa doveva evitare, attraverso l'autocoordinamento regionale, l'applicazione del criterio di riparto di riduzione della spesa pubblica stabilito dal comma 6 dell'art.46 del decreto legge 66/2014, che individua come criteri il Pil e la popolazione residente, particolarmente penalizzanti per la regione Veneto. Ma non solo. L'originaria previsione del comma 6 dell'art. 46 del decreto legge 66/2014 (peraltro anch'essa gia' impugnata da questa Regione deducendo molteplici violazioni costituzionali con la DGR n. 1322 del 28 luglio 2014) e' diventata ora il contenitore di una nuova manovra (realizzata includendo un'altra annualita' di taglio al periodo originariamente previsto), rispetto alla quale e' pero' preclusa completamente la possibilita' dell'intesa, perche' il termine previsto dal comma 6 dell'art. 46 (peraltro appunto arbitrariamente anticipato) e' appunto da tempo decorso (31 settembre 2014). In altre parole, l'intervento legislativo qui impugnato inserisce nuove misure di taglio in un testo normativo che reca ancora la previsione di un'intesa, i termini per la cui conclusione sono tuttavia da tempo spirati: in questo modo il legislatore usa il riferimento all'intesa (ormai impossibile) per imporre nuovi tagli solo prima facie oggetto di leale cooperazione. Risulta quindi violato, sotto questo profilo, il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. ii) Il secondo aspetto che deve essere considerato e' poi il carattere elusivo dell'intervento rispetto ai principi enucleati dalla giurisprudenza di questa ecc.ma Corte in relazione alla funzione di coordinamento della finanza pubblica. Infatti, nella sentenza n. 193 del 2012 (e nella successiva sentenza n. 79 del 2014) e' affermata con cristallina chiarezza l'incostituzionalita', per violazione dell'articolo 119 Cost., di «misure restrittive in riferimento alle Regioni ordinarie, alle Province ed ai Comuni senza indicare un termine finale di operativita' delle misure stesse», in quanto possono essere ritenute principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost., le norme che "si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenza n. 148 del 2012; conformi, ex plurimis, sentenze n. 232 del 2011 e n. 326 del 2010)». La sentenza aveva quindi fissato in un triennio il limite temporale massimo delle manovre di contenimento della spesa pubblica a carico delle Regioni. Ora e' evidente che risulta del tutto elusiva di questa giurisprudenza la tecnica normativa di fissare un termine triennale ai tagli (1) , ma poi estenderlo - peraltro, come detto, a intesa «chiusa»: si rimanda al riguardo a quanto argomentato sub a) - con successivi interventi normativi, ad annualita' ulteriori: tale tecnica, infatti, rende tamquan non esset quel limite temporale che costituisce la condizione di legittimita' costituzionale dell'intervento statale di coordinamento della finanza pubblica. Il carattere potenzialmente permanente del taglio (e in ogni caso l'arbitraria estensione di un'annualita') che deriva da tale disposizione risulta quindi violare sia la previsione dell'art. 117, III comma, sul coordinamento della finanza pubblica, sia menomare l'autonomia di spesa della Regione violando l'art.119 della Costituzione. iii) Il terzo aspetto che deve essere considerato e' poi il carattere meramente lineare del taglio, imposto, come detto, aggiungendo un'ulteriore annualita' a quanto originariamente previsto dagli artt. 8 e 46 del decreto legge n. 66 del 2014. Come gia' questa difesa ha evidenziato nell'impugnativa relativa al decreto legge n. 66 del 2014, nessuna distinzione qualitativa viene, infatti, effettuata in merito all'obbligo di contenimento, in ogni settore, della spesa pubblica regionale per acquisti di beni e servizi. Questa viene, infatti, incisa da una misura dal carattere assolutamente generico, idoneo a ricomprendere non solo la cosiddetta «spesa cattiva» (quella spesa cioe' la cui riduzione, nell'ambito delle manovre e' senz'altro opportuna), ma anche la cosiddetta «spesa buona»; ad esempio, la misura di contenimento ricomprende sia la spesa corrente che quella in conto capitale (che dal 2010 al 2013 in Italia, per l'effetto di manovre di taglio lineare analoghe a quella in oggetto, si e' ridotta di circa 20 miliardi (allegato n. 2) , che erano gestiti, per oltre il 70% a livello sub statale: si' tratta di un dato sintomatico, che evidenzia il perverso effetto prodotto dalle manovre che hanno scacciato la «spesa buona» e sono risultate poco efficaci sulla «spesa cattiva»). Inoltre, il taglio che viene realizzato e' potenzialmente idoneo a interferire in ambiti inerenti a fondamentali diritti civili e soprattutto sociali (date le competenze, ad esempio in materia di assistenza sociale, costituzionalmente assegnate alle Regioni), dove lo Stato dovrebbe, invece, esplicare la propria fondamentale funzione di coordinamento attraverso la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, proprio al fine di evitare la messa a repentaglio quel livello di erogazione dei servizi che deve essere uniformemente garantito su tutto il territorio nazionale. Sulla necessita' che il coordinamento della finanza pubblica si strutturi attraverso la predeterminazione normativa da parte dello Stato dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali codesta ecc.ma Corte e' peraltro piu' volte intervenuta, gia' dalla sentenza n. 320 del 2004 e fino alla recente sentenza n. 273 del 2013 dove si evidenzia la gravita' della inattuazione, da parte dello Stato, della individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative all'assistenza, all'istruzione e al trasporto pubblico locale che «costituiscono pertanto condizione necessaria ai fini della compiuta attuazione del sistema di finanziamento delle funzioni degli enti territoriali previsto dall'art. 119 Cost.». Mancando la determinazione dei livelli essenziali nelle materie (come appunto l'assistenza sociale) interessate dal nuovo taglio, risulta quindi evidente che lo Stato non ha effettuato alcuna verifica sulla sostenibilita' del taglio stesso rispetto alla erogazione dei servizi, anche se connessi a fondamentali diritti civili e sociali. Ne deriva quindi che la misura di contenimento viene scaricata sulle Regioni senza l'esercizio di alcuna reale ed effettiva funzione di coordinamento della finanza pubblica da parte dello Stato. Inoltre, da un altro punto di vista, il mancato corretto esercizio della funzione statale di coordinamento e' confermato dalla circostanza che la previsione di ulteriore contenimento della spesa regionale non contiene alcun riferimento a livelli standard di spesa efficiente, applicandosi invece in modo generalizzato senza alcuna considerazione dei livelli di spesa storica sostenuti dalle singole Regioni e senza alcuna valutazione sulla relativa appropriatezza (eppure i bilanci delle Regioni riclassificati in modo omogeneo - permettendo quindi l'analisi delle singole voci di spesa - sono ormai disponibili (2) dal 2009 in base alla previsione di cui all'art. 19-bis del decreto legge n. 135 del 2009). In questo modo il nuovo taglio lineare e' potenzialmente idoneo, dal momento che nessuna verifica di sostenibilita' e' stata effettuata a livello centrale, a compromettere l'erogazione dei servizi, soprattutto in quelle realta' regionali che hanno adottato da tempo misure di contenimento della spesa riducendola a livelli difficilmente ulteriormente comprimibili senza un vulnus al sistema dei servizi sociali. In questi termini le disposizioni impugnate travalicano la funzione del «coordinamento» della finanza pubblica e si concretizzano in misure di indiscriminato «contenimento», cosi' risultando pero' prive degli indispensabili elementi di razionalita', di efficacia e di sostenibilita' che dovrebbero quantomeno informare la funzione di coordinamento della finanza pubblica. E' quindi singolare dover constatare che la mancata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (la cui determinazione era stata prevista in Costituzione per garantirne una tutela a livello centrale), e' quindi paradossalmente divenuta un'occasione per introdurre misure di contenimento finanziario in grado di compromettere quegli stessi livelli. Da questo punto di vista risultano violati: il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. con una diretta ricaduta sull'autonomia regionale che risulta limitata nella propria capacita' organizzativa e finanziaria; l'art. 117, II e III comma, Cost. in quanto sono indebitamente travalicate la funzione di coordinamento della finanza pubblica e le regole che presiedono alla garanzia dei livelli essenziali; gli articoli 117, III e IV comma, 118 e 119 Cost. in quanto e' indebitamente incisa l'autonomia di spesa della Regione e conseguentemente anche la funzione legislativa della stessa che si deve svolgere nel rispetto degli equilibri di un quadro finanziario che viene illegittimamente alterato. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 398, lett. c), comma 414 e comma 556 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, per violazione degli articoli 3, 32, 97, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione e del principio di leale collaborazione di cui all'art.120 Cost. La lettera c) dello stesso comma 398 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, ha poi ulteriormente modificato il comma 6 dell'art.46 del decreto legge 66/2014, aggiungendo in fine i seguenti periodi: «Per gli anni 2015-2018 il contributo delle regioni a statuto ordinario, di cui al primo periodo, e' incrementato di 3.452 milioni di euro annui in ambiti di spesa e per importi complessivamente proposti, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza, in sede di autocoordinamento dalle regioni da recepire con intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro il 31 gennaio 2015. A seguito della predetta intesa sono rideterminati i livelli di finanziamento degli ambiti individuati e le modalita' di acquisizione delle risorse da parte dello Stato. In assenza di tale intesa entro il predetto termine del 31 gennaio 2015, si applica quanto previsto al secondo periodo, considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale». In questi termini, per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018 e' incrementato, a carico delle Regioni a statuto ordinario, di 3.452 milioni di euro annui il taglio, sulla spesa per beni e servizi, di 750 milioni di euro gia' stabilito dalle precedenti disposizioni, disponendo che il relativo riparto tra le Regioni avvenga per importi complessivamente proposti, nel rispetto pero' dei livelli essenziali di assistenza, da una intesa da raggiungere entro il 31 gennaio 2015 in sede di Conferenza Stato Regioni. Qualora invece tale intesa non venga raggiunta - e al momento non e' stata raggiunta - la norma dispone che tale ulteriore contributo e' ripartito dallo Stato tra le Regioni (e' tale l'effetto del rimando, operato dalla norma, al secondo periodo del comma 6 dell'art. 46 del decreto legge n. 66/2014), tenendo anche conto del Pil e della popolazione residente. In questo caso, la disposizione prevede, da un lato, che siano considerate anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale e, dall'altro, che rimanga pero' in ogni caso fermo il vincolo, a carico delle Regioni, del rispetto dei Lea, dal momento che la disposizione non ne prevede alcuna rideterminazione. Il comma 414 prevede, infatti, che comunque le Regioni assicurino il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza, sebbene eventualmente rideterminato ai sensi del comma 398, e il comma 556 prevede l'eventuale rimodulazione del livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo Stato. Tali disposizioni realizzano anch'esse un sistema di ulteriori tagli sulla spesa per acquisti di beni e servizi della Regione che risulta costituzionalmente illegittimo sotto diversi profili, analiticamente esposti qui di seguito. Quanto al primo periodo della lettera c) del comma 398, e' preliminare ribadire il carattere meramente lineare del taglio, rispetto al quale viene meno il criterio, per effetto dell'abrogazione disposta dalla lett. a) dello stesso comma, originariamente previsto nel comma 6 dell'art.46 del decreto legge n. 66/2014 che comportava, in sede di intesa con le Regioni, la considerazione «del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE, nonche' dell'incidenza degli acquisti centralizzati». Valgono quindi pienamente anche in relazione a questa disposizione le argomentazioni esposte, in relazione al carattere meramente lineare del taglio, al punto precedente (sub 1 c). Ma vi e' di piu'. La disposizione impugnata prevede, infatti, che solo qualora venga raggiunta l'intesa, il taglio non riguardi anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia, riguardo a questa ipotesi (esclusione quindi della spesa sanitaria), occorre considerare che la spesa extra sanitaria delle Regioni e' quella che ha maggiormente subito l'impatto delle manovre di finanza pubblica. Come risulta, infatti, dal Primo rapporto Copaff (Commissione tecnica per l'attuazione del federalismo fiscale), Condivisione tra i livelli di governo dei dati sull'entita' e la ripartizione delle misure di consolidamento della finanza pubblica, del 16 gennaio 2014, approvato (allegato n. 3) dalla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica (istituita dall'art. 5 della legge n. 42 del 2009) in data 14 febbraio 2014, il comparto della spesa extra sanitaria delle Regioni ha subito, per effetto cumulato delle manovre di finanza pubblica dal 2008 al 2013, una riduzione pari al 38,7% (contro il 13,4 dello Stato, il 14,3 dei Comuni, il 27,8 delle Province). La situazione e' tale che al momento l'importo stabilito della lettera c) del comma 398 non trova capienza all'interno dell'ammontare della spesa primaria (extra sanitaria) per beni e servizi delle Regioni. Come si evince dalla tabella (allegato n. 4: elaborazione Cinsedo su dati Copaff 2013) la spesa complessiva per beni e servizi delle Regioni nel 2013 ammonta a € 5.323.938.776,02. Dal momento che tale aggregato di spesa comprende, per un importo pari a 1.529 milioni di Euro, i corrispettivi riconosciuti dalle Regioni per garantire il contratto di servizio stipulato con Trenitalia, al netto di tale importo, pertanto, l'ammontare di spesa per beni e servizi sostenuta nel 2013 dalle RSO risulta pari a 3.795 milioni di Euro, da cui si devono detrarre gli ulteriori tagli strutturali 2014 e 2015 (art. 16 del decreto legge n. 95/2012 e dell'art. 8 del decreto legge 66/2014). Per assolvere al maggiore contributo richiesto dal comma 398 (maggiori tagli per 3.452 milioni di euro), le Regioni dovrebbero pertanto ridurre, considerando il dato al 2013 (esposto nell'allegato 4), del 91% la spesa sostenuta per l'acquisto di beni e servizi; mentre si supera nettamente la capienza stessa della spesa per beni e servizi se si considera anche il dato comprensivo dei tagli gia' disposti, sulla spesa per beni e servizi, per il 2014 e il 2015. Da cio' discende la palese irragionevolezza della disposizione impugnata, la cui attuazione comporterebbe di fatto la compromissione della stessa potesta' legislativa e amministrativa regionale nelle materie, extra sanita', di propria competenza, ridondando pertanto sull'autonomia regionale. Peraltro, qualora, invece, si intendesse - ma il testo della disposizione non legittima tale interpretazione - il taglio previsto dal suddetto primo periodo della lett. c) del comma 398, come inerente anche alla spesa relativa alla sanita', valgono in questo caso le argomentazioni esposte, in relazione ai profili di incostituzionalita' per irragionevolezza, violazione dei criteri di determinazione e finanziamento dei livelli essenziali e per la mancata considerazione dei costi standard, qui di seguito al successivo punto del ricorso in relazione a quanto disposto dal secondo periodo della lettera c) del comma 398. Ne deriva quindi la violazione degli articoli 3, 32, 97, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione e del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. Quanto al secondo periodo della lettera c) del comma 398, i profili di incostituzionalita' si evidenziano su diversi versanti. i) In primo luogo in questo caso (assenza di intesa e inclusione della spesa sanitaria) il criterio di riparto del taglio viene commisurato tenendo anche conto del Pil regionale e della popolazione residente (come detto e' tale l'effetto del rimando, operato dalla norma, al secondo periodo del comma 6 dell'art. 46 del decreto legge n. 66/2014). E' di tutta evidenza non solo come tali criteri non abbiano una attinenza costituzionalmente corretta con lo scopo della norma che e' quello del coordinamento (rectius: contenimento) della spesa regionale, ma soprattutto che addossare, in questi termini, un maggiore onere alle Regioni con un Pil piu' elevato travalica l'ambito dell'art. 119 della Costituzione. Codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare con chiarezza nella sentenza n. 79 del 2014, in relazione all'art. 16 del d.l. n. 95 del 2012, che un taglio alle risorse regionali applicato in misura proporzionale anche alle spese sostenute per i consumi intermedi, nel senso di imporre maggiori riduzioni a quelle Regioni che abbiano effettuato maggiori spese per i suddetti consumi intermedi, realizza «un effetto perequativo implicito, ma evidente, che discende dal collegare la riduzione dei trasferimenti statali all'ammontare delle spese per i consumi intermedi, intese quali manifestazioni, pur indirette, di ricchezza delle Regioni». In questi termini la sentenza n. 79 del 2014 ha ritenuto che «una simile misura perequativa, tuttavia, contrasta con l'art. 119 Cost. in quanto non soddisfa i requisiti ivi prescritti, in particolare al terzo ed al quinto comma». Nel richiamare la propria consolidata giurisprudenza, la suddetta sentenza ha precisato, infatti, che «gli interventi statali fondati sulla differenziazione tra Regioni, volti a rimuovere gli squilibri economici e sociali, devono seguire le modalita' fissate dall'art. 119, quinto comma, Cost., senza alterare i vincoli generali di contenimento della spesa pubblica, che non possono che essere uniformi (sentenze n. 46 del 2013 e n. 284 del 2009)». Ha quindi ribadito "che, ove le risorse acquisite siano destinate ad un apposito fondo perequativo, esse devono essere indirizzate ai soli «territori con minore capacita' fiscale per abitante» (art. 119, terzo comma, Cost.)". Nella previsione del secondo periodo della lett. c) del comma 398 qui impugnata, il legislatore statale ha sostituito il riferimento ai consumi intermedi con quello al Pil regionale (e alla popolazione). Tale riferimento, tuttavia, non vale in alcun modo a superare la sostanza della censura che era contenuta nella sentenza n. 79 del 2014, ma ricade anzi pienamente nella stessa medesima logica censurata. Nella sentenza n. 79 del 2014, infatti, codesta Corte ha precisato che «mentre il concorso agli obiettivi di finanza pubblica e' un obbligo indefettibile di tutti gli enti del settore pubblico allargato di cui anche le Regioni devono farsi carico attraverso un accollo proporzionato degli oneri complessivi conseguenti alle manovre di finanza pubblica (ex plurimis, sentenza n. 52 del 2010), la perequazione degli squilibri economici in ambito regionale deve rispettare le modalita' previste dalla Costituzione, di modo che il loro impatto sui conti consolidati delle amministrazioni pubbliche possa essere fronteggiato ed eventualmente redistribuito attraverso la fisiologica utilizzazione degli strumenti consentiti dal vigente ordinamento finanziario e contabile (sentenza n. 176 del 2012)». La previsione del secondo periodo del comma 398, addossando un maggiore onere a carico delle Regioni che abbiano un Pil piu' elevato, determina pertanto, dal punto di vista sostanziale, la stessa alterazione dei corretti criteri costituzionali della perequazione che codesta ecc.ma Corte ha censurato nella sentenza n. 79 del 2014 (e' di tutta evidenza, ad esempio, che il dato del Pil sia, in ogni caso, cosa diversa dalla capacita' fiscale - cui fa riferimento l'art.119 Cost - che implica invece il riferimento ai dati standardizzati di gettito delle imposte e che quindi non sussiste una correlazione necessaria tra Pil e capacita' fiscale, esistendo elementi che concorrono a determinare il Pil che non rientrano necessariamente, o nello stesso modo, nella dinamica impositiva). Anche in relazione alla disposizione del comma 398 qui impugnata non risultano quindi in alcun modo rispettate le condizioni richieste della sentenza n. 79 del 2014, le cui conclusioni ben possono essere specularmente riportate in relazione al caso di specie, posto che le disposizioni qui censurate, anch'esse "non contengono alcun indice da cui possa trarsi la conclusione che le risorse in tal modo acquisite siano destinate ad un fondo perequativo indirizzato ai soli «territori con minore capacita' fiscale per abitante» (art. 119, terzo comma, Cost), ne' che esse siano volte a fornire quelle «risorse aggiuntive», che lo Stato - dal quale, peraltro, dovrebbero provenire - destina esclusivamente a «determinate» Regioni per «scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (art. 119, quinto comma, Cost.: ex plurimis, sentenze n. 273 del 2013; n. 451 del 2006; n. 107 del 2005; n. 423, n. 320, n. 49 e n. 16 del 2004), con riferimento a specifici ambiti territoriali e/o a particolari categorie svantaggiate". La suddetta disposizione del comma 398 risulta quindi violare, sotto questo profilo, l'art.117, III comma e l'art. 119 e in particolare i commi III e V. ii) Ma non solo. Come detto in caso di mancata intesa la disposizione del comma 398 qui impugnata prevede che siano considerate anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia essa profila anche in questo caso un carattere meramente lineare del taglio, che assume in questa fattispecie un carattere tanto piu' grave quanto si consideri che per il riparto del fondo sanitario nazionale, il decreto legislativo n. 68 del 2011, articoli da 25 a 32, prevede il riferimento ai costi e i fabbisogni standard regionali. Tale criterio, nonostante le richieste avanzate dalle regioni nel corso dei lavori parlamentari sulle legge di stabilita', e' stato completamente trascurato. E' opportuno precisare, al riguardo, che tra gli emendamenti trasmessi al Parlamento con nota del 6 novembre 2014, le Regioni avevano chiesto di sostituire la disposizione impugnata con la seguente: «In assenza di tale Intesa entro il predetto termine del 31 gennaio 2015, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottarsi, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, entro 20 giorni dalla scadenza dei predetti termini, i richiamati importi sono assegnati ad ambiti di spesa ed attribuiti alle singole Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, tenendo conto dei costi standard:» (allegato n. 5 Nota Cinsedo 6 novembre 2014). Nessun adeguato criterio di razionalizzazione della distribuzione del taglio viene invece previsto dalla disposizione impugnata, che quindi si presta a incidere in modo indiscriminato tanto sulle realta' efficienti, dove minimo e' il livello di spreco e quindi la possibilita' di razionalizzazione della spesa, tanto su quelle inefficienti, dove invece elevato e' il livello di spreco e alta la possibilita' di razionalizzazione. Questo prevede la disposizione impugnata, nonostante la forte disomogeneita' che caratterizza, sotto questo profilo, il sistema della sanita' regionale italiana sia stata piu' volte messa in evidenza dai numerosi interventi della Corte dei Conti, dai piu' autorevoli studi (3) e da, anche recenti, indagini conoscitive concluse dal Parlamento (4) Ma vi e' di piu'. Il comma 414 prevede che comunque le Regioni assicurino il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza e il comma 556 prevede la rideterminazione, in conseguenza del taglio, del livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo Stato. Nel loro complesso, quindi, tali disposizioni mantengono a carico delle Regioni l'obbligo di garantire il finanziamento dei Lea, la cui determinazione risale pero' al lontano 2001 - DPCM 29 novembre 2001, poi modificato dal DPCM 5 marzo 2007 - senza che, ad oggi, l'art. 5 del decreto legge n. 158 del 2012 che ne aveva prevista la revisione entro il 31 dicembre 2012 sia stato ancora attuato. E' evidente quindi lo scollamento che si realizza tra un livello di finanziamento che viene pesantemente ridotto e una determinazione dei livelli essenziali che non e' stata rivista da parte dello Stato. In cio' si realizza una arbitraria violazione, per irragionevolezza e difetto di proporzionalita', anche del comma II dell'art.117 Cost. e dell'art. 32 essendo in questo modo compromessa la possibilita' di garantire i livelli essenziali in materia di diritto alla salute. E' significativo al riguardo citare le conclusioni del documento finale delle Commissioni riunite V e XII della Camera dei Deputati, approvato nell'ambito dell'Indagine conoscitiva sulla sfida della tutela della salute tra nuove esigenze del sistema sanitario e obiettivi di finanza pubblica, del 4 giugno 2014, dove si afferma: «Peraltro, negli ultimi anni alla riduzione delle risorse destinate al Fondo sanitario nazionale si e' sommata la riduzione di quelle per le politiche socio assistenziali e per le non autosufficienze. Tutto cio' ha fatto emergere la piena consapevolezza che il Servizio Sanitario Nazionale non puo' sopportare ulteriori definanziamenti, pena l'impossibilita' di garantire i libelli di assistenza e quindi l'equita' nell'accesso alle prestazioni socio sanitarie». (allegato n. 6). Ma anche la Corte dei Conti nella delibera del 29 dicembre 2014, Relazione sulla gestione finanziaria degli enti territoriali, (allegato n. 7) ha chiaramente precisato che al comparto degli enti territoriali e' stato richiesto, nelle manovre degli ultimi anni, «uno sforzo di risanamento non proporzionato all'entita' delle loro risorse», in base a scelte andate «a vantaggio degli altri comparti che compongono il conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche.» Ed ha quindi auspicato (ma evidentemente non e' avvenuto) che «futuri interventi di contenimento della spesa assicurino mezzi di copertura finanziaria in grado di salvaguardare il corretto adempimento dei livelli essenziali delle prestazioni nonche' delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali» (5) Nella dinamica di questo sviluppo normativo della legislazione statale e' evidente un fenomeno di abnorme deresponsabilizzazione dello Stato, che, chiamato ad assumersi la responsabilita' di una riduzione dei Lea a seguito del venir meno delle risorse disponibili, ha scelto invece la strada di lasciare, da un lato, invariati i Lea, e dall'altro di perpetrare un sistema di tagli lineari, in cio' venendo meno - come si e' argomentato anche sub 1.c (in questo caso anziche' l'omessa definizione, si deve riscontrare l'omesso aggiornamento per oltre dieci anni) - ad un corretto esercizio di quella funzione di coordinamento della finanza pubblica che e' invece richiesto dall'art. 117, III, comma. Le disposizioni impugnate, per i motivi esposti, contrastano quindi con gli art. 3, 32, 97 Cost., secondo una violazione che ridonda in una lesione delle competenze riconosciute alle Regioni, anche direttamente lese per violazione degli articoli 117, II e III comma, 118 e 119, Cost. e del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. A cio' va aggiunto, a ulteriore dimostrazione della violazione del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost., che, sia nella fattispecie di cui al punto 1 che in quella del punto 2, nessun coinvolgimento, nonostante le espresse richieste della regione Veneto (allegato n. 8), e' avvenuto della (pur istituita: la prima convocazione e' avvenuta il 10 ottobre 2013) Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, il cui coinvolgimento nella definizione della manovre di finanza pubblica e' imposto dall'art. 5, comma 1, della legge n. 42 del 2009: «a) la Conferenza concorre alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, anche in relazione ai livelli di pressione fiscale e di indebitamento;» e poi ribadito dall'art. 33 del decreto legislativo n. 68 del 2011 che la definisce quale «organismo stabile di coordinamento della finanza pubblica fra comuni, province, citta' metropolitane, regioni e Stato». 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 431, 432, 433, 434 della legge n. 190 del 23 dicembre 2014 per violazione degli articoli 117, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. I commi 431, 432, 433, 434 dell'art. 1 della Legge n. 190 del 23 dicembre 2014, disciplinano la predisposizione e il relativo meccanismo di finanziamento di un Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate. In particolare, il comma 431 prevede che: «i comuni elaborano progetti di riqualificazione costituiti da un insieme coordinato di interventi diretti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonche' al miglioramento della qualita' del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale. Entro il 30 giugno 2015, i comuni interessati trasmettono i progetti di cui al precedente periodo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, secondo le modalita' e la procedura stabilite con apposito bando, approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro dei beni e delle attivita' culturali e del turismo, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge». Il comma 432, invece, definisce il complesso contenuto che il suddetto d.P.C.M. viene ad assumere all'interno della realizzazione del Piano. Esso infatti dovra' istituire e disciplinare il funzionamento, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Comitato per la valutazione dei progetti di riqualificazione sociale e culturale (lett. a); tale comitato e' costituito da: due rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei ministri, di cui uno con funzioni di presidente, due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, due rappresentanti del Ministero dell'economia e delle finanze, due rappresentanti del Ministero dei beni e delle attivita' culturali e del turismo; nonche' da: un rappresentante dei Dipartimenti della Presidenza del Consiglio dei ministri per gli affari regionali, le autonomie e lo sport e per la programmazione e il coordinamento della politica economica, un rappresentante dell'Agenzia del demanio, un rappresentante dell'Associazione nazionale dei comuni italiani, un rappresentante della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Dovra' poi definire la documentazione che i comuni devono allegare ai progetti (lett. b) e la procedura per la presentazione dei progetti (lett. c). Soprattutto al d.P.C.M. viene affidato il compito di definire i criteri di valutazione dei progetti, tra i quali in ogni caso, il comma 432 individua direttamente i seguenti (lett. d): 1) la riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale; 2) il miglioramento della qualita' del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale, anche mediante interventi di ristrutturazione edilizia, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali ed educativi e alla promozione delle attivita' culturali, didattiche e sportive; 3) la tempestiva esecutivita' degli interventi; 4) la capacita' di coinvolgimento di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e di attivazione di un effetto moltiplicatore del finanziamento pubblico nei confronti degli investimenti privati. La procedura per la selezione dei progetti comunali da inserire nel Piano e' poi disciplinata dal successivo comma 433 che stabilisce: «con uno o piu' decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sono individuati i progetti da inserire nel Piano ai fini della stipulazione di convenzioni o accordi di programma con i comuni promotori dei progetti medesimi. Tali convenzioni o accordi di programma definiscono i soggetti partecipanti alla realizzazione dei progetti, le risorse finanziarie, ivi incluse quelle a valere sul Fondo di cui al comma 434, e i tempi di attuazione dei progetti medesimi, nonche' i criteri per la revoca dei finanziamenti in caso di inerzia realizzativa. Le Amministrazioni che sottoscrivono le convenzioni o gli accordi di programma si impegnano a fornire alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti i dati e le informazioni necessarie all'espletamento della attivita' di monitoraggio degli interventi». Il comma 434 istituisce, invece, il Fondo per l'attuazione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, a decorrere dall'esercizio finanziario 2015 e fino al 31 dicembre 2017, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, contenente le somme da trasferire alla Presidenza del Consiglio dei ministri. A tal fine e' autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l'anno 2015 e 75 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016 e 2017. Si tratta di disposizioni la cui illegittimita' si deduce in relazione ai seguenti motivi. Nei termini sopra descritti, infatti, i commi 431, 432, 433 e 434 dell'art. 1, senza alcun adeguato coinvolgimento delle Regioni, istituiscono un Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate e un correlativo fondo statale a destinazione vincolata nell'ambito di materie non riconducibili alle competenze statali di cui all'art. 117, II comma, Cost. Quanto alle materie infatti, sia il Piano che il Fondo, attengono, come si evince dai commi 431 e 432, al: «miglioramento della qualita' decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale, interventi di ristrutturazione edilizia, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali ed educativi e alla promozione delle attivita' culturali, didattiche e sportive». E' evidente, quindi che il Piano e il Fondo attengono a materie concorrenti (governo del territorio, promozione delle attivita' culturali, istruzione) e soprattutto residuali regionali come «assistenza sociale». In questo modo viene istituita, in materie di competenza concorrente e residuale regionale, una forma di intervento statale che prescinde completamente dall'adeguato coinvolgimento delle Regioni, in violazione degli artt. 117, III e IV, comma; 118; 119, V comma, Cost. Questa ecc.ma Corte, infatti, nella sent. n. 49 del 2004 particolare, ha precisato che "per quanto attiene alle funzioni amministrative, la legge statale puo' solo disciplinare le «funzioni fondamentali» degli enti locali territoriali e puo' dettare norme nelle sole materie di competenza esclusiva elencate nell'art. 117, secondo comma, e principi fondamentali in quelle di competenza concorrente elencate nell'art.117, terzo comma». E' utile precisare che materie come «promozione delle attivita' culturali e sportive», nel cui ambito anche verte il Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, non rientrano nelle funzioni fondamentali dei comuni, cosi' come definite dall'art. 19 del decreto legge n. 95 del 2012. Inoltre, piu' genericamente le materie cui inerisce il Piano rientrano, come detto, nella competenza concorrente e in quella regionale residuale. Diventa quindi dirimente considerare che la predisposizione del Piano avviene senza alcuna forma di intesa con le Regioni, la cui partecipazione al Comitato (che potrebbe assumere una funzione semmai aggiuntiva, ma non sostitutiva dell'intesa), anziche' rivestire natura paritetica, e' peraltro limitata ad un solo rappresentante a fronte dei dieci assegnati all'amministrazione statale. In piu' occasioni questa ecc.ma Corte ha affermato che il principio di leale collaborazione deve necessariamente intervenire in ipotesi tipiche, che spaziano dai casi di c.d. chiamata in sussidiarieta', a quelli in cui vi sia un intreccio inestricabile di materie non risolvibile con il criterio della prevalenza. L'intesa, quindi, costituisce la «condizione minima e imprescindibile per la legittimita' costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la "chiamata in sussidiarieta'" di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale» (sent. n. 383 del 2005; ma cfr. anche n. 179 del 2012, 39 del 2013). Ma vi e' di piu'. Il comma 434 istituisce un Fondo per l'attuazione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate. Si tratta quindi di un trasferimento a destinazione vincolata che viene istituito in violazione degli art.117, III e IV comma, e dell'art.119, V comma, Cost. E' utile ricordare che secondo la Costituzione lo Stato puo' solo destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi finanziari speciali «in favore di determinati Comuni, Province, Citta' metropolitane e Regioni» per gli scopi indicati nel comma 5 dell'art.119, o «diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». In cio' le norme impugnate disattendono palesemente le indicazioni di questa ecc.ma Corte costituzionale che, nella sentenza n. 16 del 2004, che aveva gia' dichiarato l'incostituzionalita' del Fondo statale per la riqualificazione urbana dei Comuni, che per oggetto e' del tutto simile al fondo in questione; cosi' come quelle della sentenza n. 49 del 2004, che aveva dichiarato l'incostituzionalita' del Fondo per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle Regioni e degli enti locali, che strutturava una forma di intervento statale del tutto analoga, per procedura, a quella prefigurata dalle norme impugnate (nello specifico si trattava dell'istituzione del Fondo nazionale per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle Regioni e degli enti locali, cui questi enti potevano accedere presentando apposita domanda venendo poi selezionati dal Ministero dell'economia e finanze gli interventi da finanziare). Nel caso di specie al Fondo in oggetto, cosi' come nella fattispecie oggetto della sentenza n. 49 del 2004, possono «astrattamente accedere tutti gli enti», quindi i) non e' pregiudicato il carattere della generalita' e ii) per quanto riguarda l'oggetto del finanziamento non si tratta di funzioni chiaramente inquadrabili al fuori dal normale esercizio cui fa riferimento il V comma dell'art. 119, Cost. Proprio in relazione al V comma dell'art. 119 Cost. questa ecc.ma Corte, infatti, nella sentenza n. 16 del 2004 ha precisato che «non possono trovare oggi spazio interventi finanziari diretti dello Stato a favore dei Comuni, vincolati nella destinazione, per normali attivita' e compiti di competenza di questi ultimi, fuori dall'ambito dell'attuazione di discipline dettate dalla legge statale nelle materie di propria competenza, o della disciplina degli speciali interventi finanziari in favore di determinati Comuni, ai sensi del nuovo articolo 119, quinto comma. Soprattutto non sono ammissibili siffatte forme di intervento nell'ambito di materie e funzioni la cui disciplina spetta invece alla legge regionale, pur eventualmente nel rispetto (quanto alle competenze concorrenti) dei principi fondamentali della legge dello Stato». Inoltre, la sentenza n. 49 del 2004 questa ecc.ma Corte ha ribadito: «gli interventi di cui alle norme impugnate si atteggiano - conformemente a quanto rilevato dalla sentenza di questa Corte in precedenza richiamata - come prosecuzione di una pratica di trasferimento diretto di risorse dal bilancio dello Stato agli enti locali in base a criteri stabiliti dall'amministrazione centrale, senza tenere presente che, per quanto riguarda la disciplina della spesa ed il trasferimento di risorse dal bilancio statale, lo Stato deve agire in conformita' al nuovo riparto di competenze e alle nuove regole, disponendo i trasferimenti senza vincoli di destinazione specifica, passando, se del caso, attraverso il filtro dei programmi regionali e coinvolgendo le regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei fondi, nel rispetto dell'autonomia di spesa degli enti locali». Cfr. anche n. 254 del 2013: «Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonche' di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (sentenza n. 168 del 2008, nonche', in termini sostanzialmente coincidenti, ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008, n. 201 del 2007 e n. 118 del 2006)». Ma anche a prescindere da questa considerazione, va rilevato che quand'anche si rientri - ma questo non avviene nel caso del fondo in oggetto - nell'ambito degli interventi speciali di cui al V comma dell'articolo 119, la stessa sentenza n. 16 del 2004 ha in ogni caso sottolineato «l'esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle competenze legislative fra Stato e Regioni» con la conseguenza che «quando tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni, queste siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi all'interno del proprio territorio». Orbene, non vi e' dubbio, come si e' visto, che la disposizione attiene a materie concorrenti e residuali regionali, poiche' il finanziamento in esame e' finalizzato, infatti, in parte alla promozione di progetti di riqualificazione diretti alla riduzione di fenomeni di degrado sociale e in parte al miglioramento della qualita' del tessuto sociale ed ambientale, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali, educativi, culturali, e sportivi. Quindi, come affermato dalla giurisprudenza di questa ecc.ma Corte, il rispetto dei compiti di programmazione delle regioni comporterebbe quantomeno la previsione dell'intesa, se non un procedimento di erogazione dei fondi articolato su un duplice passaggio: in primis, l'erogazione delle risorse dallo Stato in favore delle Regioni, e successivamente, il riparto, da parte delle Regioni medesime, di tali risorse fra gli Enti locali interessati. Detti profili, pertanto, per loro stessa natura, nell'attuale assetto costituzionale della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni non possono non comportare un diretto coinvolgimento delle Regioni, in quanto anche esse titolari di potesta' legislativa nelle specifiche materie. Di tale esigenza non tiene, evidentemente, conto l'impugnata norma di cui all'art. 1, commi 431, 432, 433, 434, della legge n. 190 del 2014. Non viene infatti prevista alcuna intesa ne' riguardo alla definizione del Piano, ne' alla emanazione del d.P.C.M. di cui al comma 431, ne' riguardo ai successivi d.P.C.M. di cui al comma 433. In cio' la disciplina contraddice anche quanto affermato nella sentenza n. 79 del 2011 dove questa ecc.ma Corte ha nuovamente sottolineato come solo la chiamata in sussidiarieta' possa legittimare l'istituzione di un fondo statale con vincolo di destinazione in materia di competenza regionale concorrente o residuale ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., solo ed esclusivamente se siano previsti meccanismi preventivi di intesa con le regioni sui relativi criteri di riparto (nello stesso senso, la sentenza n. 16 del 2010). E' evidente quindi nelle disposizioni impugnate il vulnus all'autonomia regionale, con violazione degli artt. 117, III e IV comma, e 119 Cost., data l'inerenza delle materie alle competenze legislative regionali in cui sia il piano che il fondo intervengono, espropriando la Regione della possibilita' di esercitare correttamente i compiti di normazione e programmazione all'interno del proprio territorio, sovrapponendo ad essi politiche e indirizzi governati centralmente. Da ultimo, e' opportuno precisare che non fa, invece, testo, nel caso oggetto della presente impugnativa, la sent. n. 307 del 2004 di questa ecc. ma Corte che riguardava una forma di intervento finanziario statale del tutto differente (a favore dei privati) e che si concretizzava «nella mera previsione di contributi finanziari, da parte dello Stato, erogati con carattere di automaticita' in favore di soggetti individuati in base all'eta' o al reddito e finalizzati all'acquisto di personal computer abilitati alla connessione ad "internet", in un'ottica evidentemente volta a favorire la diffusione, fra i giovani e nelle famiglie, della cultura informatica. Siffatto intervento, non accompagnato da alcuna disciplina sostanziale riconducibile a specifiche materie, non risulta invasivo di competenze legislative regionali». In quel caso questa ecc.ma Corte non ha rilevato alcuna interferenza con le competenze legislative regionali, in quanto si trattava di fondi statali messi a disposizione di privati; in questo caso, invece la disciplina impugnata si sovrappone chiaramente a quella regionale impedendone l'esercizio. 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 609, della legge n. 190 del 23 dicembre 2014 per violazione degli artt. 3, 117, III e IV comma, 118, 123 della Costituzione, nonche' dell'art. 3, comma 2, dello Statuto della regione Veneto. Il comma 609 contiene disposizioni in materia di servizi pubblici locali che apportano modifiche alla disciplina di cui all'art. 3-bis del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, al fine di «promuovere processi di aggregazione e di rafforzare la gestione industriale dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica». E' utile rilevare che la disposizione del comma 1 dell'art. 3-bis del decreto legge d.l. n. 138/2011 conteneva gia' l'obbligo per le Regioni di istituire o designare gli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei per l'organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica entro il 30 giugno 2012. L'aggiunta operata dal comma 609 dell'art. 1 della legge n. 190/2014 modifica in questi termini (indicati in neretto) il successivo comma 1-bis: «Le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei istituiti o designati ai sensi del comma 1 del presente articolo cui gli enti locali partecipano obbligatoriamente, fermo restando quanto previsto dall'articolo 1, comma 90, della legge 7 aprile 2019, n. 56» (nuovo comma 1-bis dell'art. 3-bis, d.l. n. 138/2011). La novella apportata dalla legge n. 190/2014 introduce quindi l'obbligatorieta' dell'adesione degli enti locali agli enti di governo degli ATO. Tale obbligatorieta' viene peraltro rafforzata da un procedimento sostitutivo posto in capo al Presidente della Regione. Il comma 1-bis dell'art. 3-bis dispone infatti: «Qualora gli enti locali non aderiscano ai predetti enti di governo entro il 1° marzo 2015 oppure entro sessanta giorni dall'istituzione o designazione dell'ente di governo dell'ambito territoriale ottimale ai sensi del comma 2 dell'articolo 13 del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2014, n. 15, il Presidente della regione esercita, previa diffida all'ente locale ad adempiere entro il termine di trenta giorni, i poteri sostitutivi.» I profili d'illegittimita' costituzionale della disposizione, cosi' come strutturata, sono molteplici. In primo luogo, occorre rilevare che la previsione dell'obbligatorieta', per gli enti locali, di aderire agli enti di governo degli ATO e' da ritenersi illegittima per violazione delle competenze costituzionalmente riconosciute alle Regioni ai sensi degli artt. 117, III e IV comma, Cost. E invero, se il decreto legge n. 138/2011 rimetteva alle Regioni la perimetrazione degli ambiti e l'istituzione o designazione dei relativi enti di governo, lasciando alle stesse piena discrezionalita' in ordine alla forma organizzativa degli stessi, il comma 609 impone, invece, un modello di governance che deve necessariamente includere tutti gli enti locali. Giova peraltro precisare che per enti locali, secondo il disposto di cui all'art. 2, decreto legislativo n. 267/2000 (c.d. Tuel) si intendono «i comuni, le province, le citta' metropolitane, le comunita' montane, le comunita' isolane e le unioni di Comuni». Pertanto, l'obbligatoria adesione agli enti di governo degli ATO viene a riguardare, a ben vedere, tutti gli enti locali ricadenti nel perimetro degli ambiti definiti a livello regionale, coinvolgendo non solo le Province e i Comuni, ma anche le loro unioni, le comunita' montane e isolane e le Citta' metropolitane. L'estensione dell'obbligo non solo a comuni e province, ma anche a tutti gli enti locali, incluse ad esempio le comunita' montane, esula dalla competenza statale inerente l'elencazione di cui all'art. 117, comma 2, lett. p), Cost. e risulta quindi violare la competenza residuale delle Regioni di cui all'art. 117, IV comma, Cost. come precisato da questa ecc.ma Corte nelle sentenze nn. 237 del 2009 e 91 del 2011. Quanto sopra, oltre a difettare di ogni ragionevolezza, contrasta inoltre, evidentemente, anche con i principi sussidiarieta', adeguatezza e di differenziazione di cui all'art. 118, comma 1, Cost. e con l'art. 3 dello Statuto della Regione Veneto secondo cui: «La Regione riconosce, promuove e garantisce l'autonomia degli enti locali nelle sue diverse manifestazioni» (art. 3, comma 2, legge regionale statutaria 17 aprile 2012, n. 1). In base alle norme sopra richiamate, dovrebbe riconoscersi infatti ai suddetti enti locali ampia discrezionalita' sul percorso da intraprendere, in ordine alle forme di organizzazione gli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali ed omogenei. E questa e' stata la scelta operata dalla Regione Veneto con riferimento alle discipline introdotte con la propria legislazione in merito ai servizi di trasporto pubblico locale, idrico integrato e gestione dei rifiuti. Infatti, in attuazione della Legge regionale 30 ottobre 1998, n. 25 recante Disciplina ed organizzazione del trasporto pubblico locale, la Delibera di Giunta regionale n. 2048 del 19 novembre 2013 (allegato n. 9), oltre a definire il perimetro dei bacini territoriali ottimali e omogenei dei servizi di trasporto pubblico locale, ha infatti individuato la convenzione di cui all'art. 30, decreto legislativo n. 267/2000 quale modalita' organizzativa per la costituzione volontaria di un ente di governo per ciascuno dei bacini, da designare quale soggetto di cui all'art. 3-bis, d.l. n. 138/2011. (6) E' dirimente a questo punto ricordare che la materia del trasporto pubblico locale e' assegnata, come ha riconosciuto in piu' occasioni questa ecc.ma Corte, alla competenza regionale residuale (cfr., per tutte, sentenza n. 222 del 2005 dove si afferma che la materia del trasporto pubblico locale rientra nell'ambito delle competenze residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost., "come reso evidente anche dal fatto che, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422 [...] aveva ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle Regioni ed agli enti locali funzioni e compiti relativi a tutti i «servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale con qualsiasi modalita' effettuati ed in qualsiasi forma affidati» ed escludendo solo i trasporti pubblici di interesse nazionale"). La legislazione regionale, pertanto, nell'ambito della propria autonomia ha optato per diverse formule organizzative, come la sottoscrizione di una convenzione tra gli enti, quale strumento prodromico per la successiva costituzione dell'ente di governo. La normativa statale qui impugnata, invece, stabilendo un immediato obbligo di partecipazione agli organi di governo indebitamente incide e interferisce sulle scelte attuate dalla legislazione regionale di settore. In secondo luogo, il censurato comma 609 contraddice quanto stabilito dall'art. 1, comma 90, della legge 7 aprile 2014 n. 56, la cui previsione viene esplicitamente salvaguardata dalla norma impugnata. Tale norma prevede che: «Nello specifico caso in cui disposizioni normative statali o regionali di settore riguardanti servizi di rilevanza economica prevedano l'attribuzione di funzioni di organizzazione dei predetti servizi, di competenza comunale o provinciale, ad enti o agenzie in ambito provinciale o sub-provinciale, si applicano le seguenti disposizioni, che costituiscono principi fondamentali della materia e principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione: a) il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 92 ovvero le leggi statali o regionali, secondo le rispettive competenze, prevedono la soppressione di tali enti o agenzie e l'attribuzione delle funzioni alle province nel nuovo assetto istituzionale, con tempi, modalita' e forme di coordinamento con regioni e comuni, da determinare nell'ambito del processo di riordino di cui ai commi da 85 a 97, secondo i principi di adeguatezza e sussidiarieta', anche valorizzando, ove possibile, le autonomie funzionali» (art. 1, comma 90, lett. a), legge n. 56/2014). In altri termini, tale disposizione della legge n. 56 del 2014 prevede l'avvio di un deciso processo di semplificazione istituzionale diretto a far si' che qualora con riferimento a specifici servizi di rilevanza economica di competenza comunale e provinciale siano stati delimitati ambiti o bacini provinciali o sub-provinciali e le funzioni di organizzazione siano state attribuite ad enti o agenzie, questi ultimi debbano essere oggetto di soppressione con contestuale attribuzione delle funzioni alle Province. Tanto viene sollecitato dalla suddetta norma questo processo di semplificazione che si stabilisce nella successiva lett. b) del comma 90 dell'art. 1 della legge n. 56/2014: «per le regioni che approvano le leggi che riorganizzano le funzioni di cui al presente comma, prevedendo la soppressione di uno o piu' enti o agenzie, sono individuate misure premiali con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». In questi termini si evidenzia un insanabile contrasto della norma impugnata con riferimento alla tale disposizione della legge n. 56/2014, che pure viene espressamente fatta salva. Difatti, mentre il comma 90 dell'art. 1 della legge n. 56/2014 avvia - al punto addirittura di prevedere misure premiali per le Regioni che dispongano in tal senso - un processo di soppressione di enti o agenzie con funzioni di organizzazione di servizi a rilevanza economica di competenza comunale o provinciale e l'attribuzione delle relative funzioni alle Province, il comma 609 rafforza invece l'adesione degli enti locali (tutti, ovvero Comuni, Province, Comunita' montane, comunita' isolane e Citta' metropolitane) agli enti di governo degli ATO prevedendone persino la partecipazione obbligatoria. Ma non solo: l'obbligatorieta' e' pure presidiata da una sanzione, costituita, come si ha gia' avuto modo di precisare, dall'esercizio del potere sostitutivo da parte del Presidente della Regione. In questi termini la disposizione impugnata configura un vizio di ragionevolezza (al punto da rendere anche impossibile stabilire la portata normativa derivante dalla coesistenza delle due discipline) che ridonda nella lesione della sfera costituzionalmente garantita alle Regione dagli articoli 117, III e IV comma e 118 Cost. 6) Illegittimita' costituzionale art. 1, commi 611 e 612, per violazione degli artt. 3, 97, 117, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. Il comma 611 dell'art. 1 della legge n. 190/2014 prevede che: «le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le universita' e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorita' portuali, a decorrere dal 1° gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle societa' e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 dicembre 2015». Tale processo, per espressa previsione normativa, deve tenere conto «anche» dei seguenti criteri: «a) eliminazione delle societa' e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalita' istituzionali, anche mediante messa in liquidazione o cessione; b) soppressione delle societa' che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti; c) eliminazione delle partecipazioni detenute in societa' che svolgono attivita' analoghe o similari a quelle svolte da altre societa' partecipate o da enti pubblici strumentali, anche mediante operazioni di fusione o di internalizzazione delle funzioni; d) aggregazione di societa' di servizi pubblici locali di rilevanza economica; e) contenimento dei costi di funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali, nonche' attraverso la riduzione delle relative remunerazioni.» Quanto sopra al fine espresso di «assicurare il coordinamento della finanza pubblica, il contenimento della spesa, il buon andamento dell'azione amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato». Per raggiungere l'obiettivo di razionalizzazione, il successivo comma 612 dispone che: «I presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, i presidenti delle province, i sindaci e gli altri organi di vertice delle amministrazioni di cui al comma 611, in relazione ai rispettivi ambiti di competenza, definiscono e approvano, entro il 31 marzo 2015, un piano operativo di razionalizzazione delle societa' e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, le modalita' e i tempi di attuazione, nonche' l'esposizione in dettaglio dei risparmi da conseguire.» La norma prevede, altresi', l'intervento di un organo terzo individuato nella competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti, stabilendo che il suindicato piano operativo di razionalizzazione delle societa' e delle partecipazioni societarie «corredato di un'apposita relazione tecnica, e' trasmesso alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e pubblicato nel sito internet istituzionale dell'amministrazione interessata. Entro il 31 marzo 2016, gli organi di cui al primo periodo predispongono una relazione sui risultati conseguiti, che e' trasmessa alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e pubblicata nel sito internet istituzionale dell'amministrazione interessata. Con la precisazione che: «La pubblicazione del piano e della relazione costituisce obbligo di pubblicita' ai sensi del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33». Le disposizioni impugnate, sebbene in astratto dirette all'obiettivo pienamente condivisibile di razionalizzare il preoccupante e ingiustificato fenomeno di abnorme proliferazione delle societa' partecipate, si palesano in concreto come viziate di incostituzionalita' sotto molteplici profili, al punto da inficiarne la stessa idoneita' rispetto al raggiungimento di tale obiettivo. E' preliminare, infatti, precisare che la regione Veneto, ha gia' da tempo avviato processi di razionalizzazione delle partecipazioni regionali, sia dirette che dirette. Quanto alle prime e' opportuno ricordare che gia' la DGR n. 138 del 2010, poi adottata con Deliberazione Consiglio regionale n. 44/2011 (allegato n. 10), ha concretizzato un processo che ha portato: i) alla ricognizione di tutte le partecipazioni detenute, ii) alla valutazione, per ciascuna societa' partecipata, della presenza dei requisiti della stretta necessarieta' per il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente o della produzione di servizi d'interesse generale; iii) alla cessione, secondo procedure ad evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute in quelle societa' che non presentavano i requisiti suddetti. Ad essa sono seguite azioni concrete che hanno condotto sia alla dismissione di societa' non necessarie, sia ad accorpamenti e razionalizzazioni di societa' necessarie che svolgevano finalita' analoghe o similari. Quanto alle seconde, la Giunta Regionale ha adottato le DGR n. 259 del 5 marzo 2013 (allegato n. 11) e n. 1931 del 28 ottobre 2013 (allegato n. 12), con le quali sono state emanate direttive rivolte alle societa' a partecipazione diretta per la dismissione delle loro partecipate, determinando la soppressione di trentotto di queste, con una riduzione quindi del numero delle partecipate indirette da settantuno a trentatre'. E' stata poi approvata recentemente la legge regionale n. 24 del 2014, recante Norme in materia di societa' partecipate da enti regionali, che ha ulteriormente implementato il processo di razionalizzazione disponendo, fra l'altro che: «Agli enti pubblici regionali ivi comprese le aziende, gli enti del Servizio sanitario nazionale e le amministrazioni controllate dalla Regione, non e' consentito costituire societa' e detenere partecipazioni in societa', salvo espressa autorizzazione della Giunta regionale, sentite le competenti commissioni consiliari, esclusivamente in ragione della accertata convenienza economica della detenzione stessa» (art. 1, comma 2, l.r. n. 24/2014). Vieppiu', il medesimo provvedimento normativo, oltre a stabilire una serie di misure volte al contenimento delle spese di funzionamento e alla dismissione delle partecipazioni precisa che: «Entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, gli enti regionali di cui all'articolo 1, comma 2, presentano al Consiglio regionale e alla Giunta regionale l'elenco di tutte le partecipazioni societarie detenute direttamente ed indirettamente, con una motivata proposta di mantenimento di quelle ritenute strategiche, indicando altresi' il valore nominale e il valore stimato di ciascuna di esse, nonche' la relazione tra l'attivita' della societa' partecipata e la specifica funzione istituzionale dell'ente regionale partecipante» e «a partire dal sessantunesimo giorno dalla ricezione della proposta, tutte le partecipazioni, fatta eccezione per quelle espressamente confermate, sono dismesse senza indugio» (art. 3, commi 1 e 3, l.r. n. 24/2014). Le disposizioni impugnate, pertanto, non considerano in alcun modo questo processo gia' avviato a livello regionale e impongono invece un ulteriore e generalizzato percorso, dove sono stabiliti criteri e modalita' che impongono alla Regione oneri aggiuntivi (come l'obbligo di trasmissione della relazione tecnica e della relazione sui risultati conseguiti alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti) e impongono termini perentori per l'adozione di piani da parte delle Regioni e per la dismissione delle partecipazioni detenute. Stabilendo, ad esempio, il criterio della «soppressione delle societa' che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti» - criterio in se' e in astratto del tutto ineccepibile -, in realta' le norme impugnate non permettono in alcun modo di considerare quelle situazioni in cui le societa' presentano si' tali caratteristiche, ma solo perche' dirette alla gestione, per conto della Regione, di consistenti patrimoni (e non necessitando quindi di numeroso personale dipendente), generando utili e non presentando, quindi, alcuno di quei profili di inefficienza che potrebbero giustificarne la soppressione. Ma non solo. Nel definire i tempi delle dismissioni, le disposizioni censurate non tengono minimamente conto della critica situazione economica generale che rende difficile attuare, per le condizioni del mercato e il rischio di speculazioni private, - in un contenuto lasso temporale e in termini vantaggiosi per le Pubbliche Amministrazioni coinvolte - ogni sforzo gia' intrapreso a seguito dei provvedimenti amministrativi sopra citati adottati dalla Regione del Veneto negli ultimi sette anni. Sotto questo profilo, e' opportuno peraltro segnalare che la Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con la Deliberazione n. 48/2008 (allegato n. 13) ha gia' avuto modo di intervenire sul problema: «Il cedere obbligatoriamente le partecipazioni vietate entro un termine legale, produrrebbe occasioni di speculazione privata tesa al ribasso del prezzo di acquisto, in una prospettiva del tutto contraria all'interesse pubblico alla sana e corretta gestione del patrimonio e delle risorse della collettivita'. Inoltre, a seguito dell'attivita' ricognitiva in materia di partecipazioni vietate, le grandi realta' territoriali o gli enti istituzionali di maggiori dimensioni, potrebbero trovarsi a dover contemporaneamente gestire un elevato numero di dismissioni, senza poter oggettivamente approdare in tempi brevi al perfezionamento delle procedure di cessione. In tali evenienze, in conformita' con la delibera autorizzativa, occorrera' stilare un accurato programma che scandisca i tempi e le modalita' delle previste dismissioni». Da questo punto di vista le disposizioni dell'art. 1, commi 611 e 612, qui impugnate si dimostrano irragionevoli e lesive del canone del buon andamento della pubblica amministrazione, la cui violazione si riflette nelle competenze costituzionalmente riconosciute alle Regioni, ledendone anche l'autonomia finanziaria di cui all'art.119 Cost. Inoltre, non prevedendo alcuna differenziata considerazione dei processi gia' avviati da alcune realta' regionali (come invece richiederebbero i principi di differenziazione e adeguatezza di cui all'art. 118 Cost.) e nessun coinvolgimento delle Regioni nella definizione del processo di razionalizzazione (in violazione quindi del principio di leale collaborazione di cui all'art.120 Cost.), le norme impugnate risultano lesive della materia di competenza residuale regionale «organizzazione e funzionamento della Regione», riconducibile al quarto comma dell'art. 117 della Costituzione (fatte salve le competenze che l'art. 123 Cost. assegna in tale ambito materiale alla fonte statutaria). Invero, come questa Ecc.ma Corte ha gia' avuto modo di rilevare: «Non si puo' evidentemente negare la competenza del legislatore statale in tema di organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 117, secondo comma, lettera g, della Costituzione) (...) Per cio' che concerne, invece, i profili organizzativi delle Regioni e delle Province autonome, sembra evidente che il legislatore statale non dispone in materia di una propria competenza, la quale appartiene, invece, alle stesse Regioni e Province autonome.» (sent. n. 159/2008). La compressione della competenza legislativa regionale, peraltro, non puo' nemmeno giustificarsi in quanto volta a garantire il rispetto di principi di coordinamento della finanza pubblica, posto che le norme impugnate (che peraltro nemmeno si autoqualificano come norme di principio) invece recano disposizioni dettagliate e puntuali non riconducibili ai predetti principi. Come precisato dalla citata sentenza, infatti, «quand'anche la norma impugnata venga collocata nell'area del coordinamento della finanza pubblica, e' palese che il legislatore statale, vincolando Regioni e Province autonome all'adozione di misure analitiche e di dettaglio, ne ha compresso illegittimamente l'autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia». I commi 611 e 612, quindi, stabilendo in modo puntuale e dettagliato (ma indifferenziato - senza quindi considerare i processi gia' eventualmente avviati a livello regionale -) criteri, modalita' e tempi del processo di razionalizzazione delle societa' e delle partecipazioni societarie, risultano costituzionalmente illegittimi per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonche' degli articoli 117, III e IV comma, 118, 119 della Costituzione, in quanto intersecano e interferiscono indebitamente con un processo di razionalizzazione gia' avviato dalla regione Veneto. 7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 629, lettera b), comma 632, comma 633, per violazione degli articoli 3, 97, 117, comma I, 118 e 119 della Costituzione. Il comma 629, lettera b) dell'art.1 della Legge n. 190/2014 modifica il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, inserendovi l'art. 17-ter «Operazioni effettuate nei confronti di enti pubblici» che dispone: «1. Per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello Stato, degli organi dello Stato ancorche' dotati di personalita' giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei consorzi tra essi costituiti ai sensi dell'articolo 31 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti cessionari o committenti non sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia d'imposta sul valore aggiunto, l'imposta e' in ogni caso versata dai medesimi secondo modalita' e termini fissati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze». Si introduce in tal modo il meccanismo del cd. split payment, per cui nelle cessioni di beni e le prestazioni di servizi eseguite nei confronti di enti pubblici l'imposta sul valore aggiunto e' in ogni caso versata dai medesimi soggetti pubblici allo Stato, secondo modalita' e termini fissati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze. Pertanto, i fornitori di beni e servizi alla pubblica amministrazione riceveranno l'importo del corrispettivo al netto dell'Iva che verra' cosi' versata, dai soggetti pubblici cessionari, direttamente all'erario. In questi termini l'art. 1, comma 629, lett. b) impone anche alla Regione e agli altri enti del sistema regionale (ad esempio le aziende sanitarie locali) di versare l'IVA non piu' al proprio fornitore ma direttamente allo Stato. Tale misura e' stata adottata disponendone l'entrata in vigore dal 1° gennaio 2015 senza il preventivo assenso del Consiglio dell'Unione Europea. Il comma 632, infatti, dispone: «L'efficacia delle disposizioni di cui al comma 629, lettera a), numero 3), capoverso d-quinquies), e' subordinata al rilascio, da parte del Consiglio dell'Unione europea, di una misura di deroga ai sensi dell'articolo 395 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, e successive modificazioni. Le disposizioni di cui al comma 629, lettera b), nelle more del rilascio, ai sensi dell'articolo 395 della direttiva 2006/112/CE, della misura di deroga da parte del Consiglio dell'Unione europea, trovano comunque applicazione per le operazioni per le quali l'imposta sul valore aggiunto e' esigibile a partire dal 1° gennaio 2015». Il successivo periodo del comma 632 poi dispone: «In caso di mancato rilascio delle suddette misure di deroga, con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, da adottare entro il 30 giugno 2015, l'aliquota dell'accisa sulla benzina e sulla benzina con piombo, nonche' l'aliquota dell'accisa sul gasolio usato come carburante, di cui all'allegato I al testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, di cui al decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, e successive modificazioni, sono aumentate in misura tale da determinare maggiori entrate nette non inferiori a 1.716 milioni di euro a decorrere dal 2015; il provvedimento e' efficace dalla data di pubblicazione nel sito internet dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli». Il comma 633 commina, infine, una sanzione amministrativa per omessi o tardivi versamenti. Dispone, infatti: «Nei confronti degli enti pubblici cessionari o committenti nei casi previsti dalle disposizioni di cui al comma 629, lettera b), che omettono o ritardano il versamento dell'imposta sul valore aggiunto, si applicano le sanzioni di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e successive modificazioni, e le somme dovute sono riscosse mediante l'atto di recupero di cui all'articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311». Da ultimo e' opportuno precisare che in attuazione dei citati commi e' stato, emanato dal Ministero dell'economia e delle finanze il decreto che disciplina le «Modalita' e termini per il versamento dell'imposta sul valore aggiunto da parte delle pubbliche amministrazioni» (Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 27 del 3 febbraio 2015). In tale decreto si precisa, all'art. 9, comma 1 e 2, che «1. Le disposizioni del presente decreto si applicano alle operazioni per le quali e' stata emessa fattura a partire dal 1° gennaio 2015. 2. Fino all'adeguamento dei processi e dei sistemi informativi relativi alla gestione amministrativo contabile e, comunque, non oltre il 31 marzo 2015, le pubbliche amministrazioni individuate nell'art. 1 del presente decreto sono tenute ad accantonare le somme occorrenti per il successivo versamento dell'imposta, da effettuarsi in ogni caso entro il 16 aprile 2015». Si tratta di disposizioni viziate d'incostituzionalita' per i profili che seguono. Innanzitutto, le disposizioni impugnate risultano lesive dell'art.117, I comma, della Costituzione la quale impone che «la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Nel caso di specie, infatti, a fronte della presentazione da parte del Dipartimento delle finanze alla Commissione europea della richiesta di una misura in deroga (il meccanismo dello split payment non e' infatti contemplato dalla normativa armonizzata contenuta nella direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 o direttiva IVA) ai sensi dell'art. 395 della direttiva 2006/112/CE, la normativa impugnata ha previsto l'immediata applicabilita' della stessa a partire dal 1° gennaio 2015, senza quindi, come detto, attendere la preventiva autorizzazione del Consiglio dell'Unione europea. L'art. 395 della direttiva 2006/112/CE, infatti dispone che il Consiglio «puo' autorizzare ogni Stato membro ad introdurre misure speciali di deroga alla presente direttiva allo scopo di semplificare la riscossione dell'imposta o di evitare talune evasioni o elusioni fiscali» senza prevedere in alcun modo la possibilita', per gli Stati membri, di introdurre le suddette misure prima del rilascio della suddetta autorizzazione (7) E' utile precisare che nello stesso dossier n. 71, dicembre 2014, del Servizio bilancio del Senato, Nota di Lettura. A.S. 1698: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita' 2015), e' stato precisato che lo split payment e' invero subordinato alla valutazione del Consiglio dell'Unione europea (allegato n. 14). E' quindi evidente la violazione delle regole procedimentali previste dalla direttiva 2006/112/CE. La violazione della suddetta direttiva e' stata, peraltro, rilevata anche nella Documentazione per l'esame di Progetti di legge - Profili finanziari del 20 dicembre 2014 predisposta dalla Camera dei deputati dove si afferma: «in merito ai profili di quantificazione appare opportuna una valutazione del Governo in merito alla prudenzialita' della previsione, tenuto conto che in caso di mancato rilascio dell'autorizzazione comunitaria, oltre al mancato realizzo degli effetti positivi ascritti alla disposizione sullo split payment a decorrere dal 2015, potrebbe essere attivata una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia» (allegato n. 15). La suddetta violazione dell'art. 117, I comma, Cost. si riverbera sulla sfera di competenze delle Regioni per due ordini di motivi. i) In primo luogo perche' le disposizioni impugnate impongono fin da subito alle Regione e agli enti del sistema regionale un irragionevole onere e costo di adeguamento immediato dei sistemi informativi relativi alla gestione amministrativo contabile, destinato a rivelarsi inutile qualora non avvenga il rilascio delle suddette misure di deroga da parte delle autorita' europee. Si tratta di costi non irrilevanti, dato l'obbligo di operare tramite fattura elettronica previsto dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze del 3 aprile 2013, n. 55, con il quale e' stato adottato il regolamento in materia di emissione, trasmissione e ricevimento della fattura elettronica da applicarsi alle amministrazioni pubbliche Occorre peraltro considerare che detti costi sono stati sopportati da tutto il sistema regionale, quindi non solo dalla Regione, ma anche da tutte le aziende sanitarie locali (oltre che da tutto il sistema degli enti locali), per cui l'impatto finanziario complessivo dell'onere e' notevole. Da questo punto di vista, oltre alla sopra evidenziata violazione dell'art. 117, I comma, si evidenzia una lesione costituzionale anche dei principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione. Si tratta di violazioni che, nel caso di specie, ridondano in una lesione dell'autonomia amministrativa e finanziaria regionale, di cui agli artt. 118 e 119, costretta a far fronte, senza alcun contributo statale, al nuovo costo di adeguamento dei sistemi informatici. Un costo che, come visto, potrebbe rivelarsi del tutto inutile qualora l'autorizzazione venisse negata. ii) In secondo luogo, perche' la Regione, cosi' come gli altri enti del sistema regionale, non potranno piu' compensare l'IVA sugli acquisti con quella sulle vendite e dovranno chiederne il rimborso allo Stato sostenendone l'onere (derivante dalla necessita' di accompagnare la richiesta di rimborso, in base a quanto prevede in via generale la normativa vigente, da fideiussione o da visto di conformita'). Si determina quindi un'ulteriore lesione dell'autonomia finanziaria regionale. Questa evenienza si verifica in tutte quelle ipotesi in cui la Regione si trova a dovere applicare l'IVA nei confronti di altri soggetti pubblici: a titolo solo esemplificativo si consideri che, nell'ambito della gestione del BUR regionale (legge regionale n. 29 del 27 dicembre 2011), la Regione vende gli spazi sul BUR a Comuni e ad altri locali (8) per cui in questi casi non riscuotera' piu', per effetto del meccanismo dello split payment, l'IVA sulla fatture di vendita, che i suddetti Comuni ed enti locali verseranno invece direttamente allo Stato. In tutti questi casi, quindi, la Regione e gli altri enti del sistema regionale non possono piu' effettuare la compensazione e dovranno richiedere rimborso alla Stato dell'Iva sugli acquisti, con i relativi costi di cui sopra. Da ultimo, riprendendo quando affermato in premessa sulla violazione del diritto comunitario, occorre precisare come nell'ipotesi appena descritta (trattandosi di operazioni tra enti pubblici) non sia, peraltro, in alcun modo configurabile l'applicabilita' del meccanismo del Quick Reation Mechanism - QRM di cui all'art. l della Direttiva 2013/42/UE, che modificando la direttiva 2006/112/CE ha introdotto l'art. 199-ter consentendo a uno Stato membro di introdurre un meccanismo di reazione rapida (ma sempre previo consenso della Commissione) per combattere le frodi in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA), notificando l'adozione di una misura speciale che deroga alla norma generale prevista dalla direttiva 2006/112/CE, relativa al soggetto debitore dell'IVA. La suddetta misura, infatti, consiste nell'applicazione del meccanismo d'inversione contabile dell'IVA per combattere le forme di frode improvvisa e massiccia, che potrebbero condurre a perdite finanziarie gravi e irreparabili. Al riguardo occorre precisare che, in primo luogo il Governo italiano non ha dichiarato di avvalersi, ne' a rigore nemmeno avrebbe potuto, del meccanismo QRM, ne' ha effettuato notifiche in tal senso alle autorita' europee. In secondo luogo e' del tutto evidente che in ipotesi di operazioni tra Enti pubblici la prospettazione della condizione delle frodi massicce e improvvise e' del tutto impossibile da configurare. In conclusione, quindi, e' evidente che la disciplina censurata interviene al di fuori dell'ambito di operativita' del QRM e dunque non puo' ritenersi in alcun modo legittimata in forza di quest'ultimo. Istanza di Sospensione La Regione del Veneto chiede che codesta ecc.ma Corte, nelle more del giudizio di legittimita' costituzionale delle disposizioni di legge statale qui censurate, sospenda l'esecuzione dell'art. 1, commi 398, lett. a), b) e c), 414 e 556, nonche' dell'art. 1 comma 629, lettera b), comma 632, comma 633, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87/53, come sostituito dall'art. 9 della lgge n. 131/2003, che tanto consente in presenza di un rischio di pregiudizio grave e irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini. Quanto all'art. 1, commi 398, lett. a), b) e c), 414 e 556, si tratta di un taglio alla spesa per beni e servizi adottato, sotto molteplici profili, in violazione dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza di questa ecc.ma Corte costituzionale, la cui attuazione, data l'abnorme entita' della misura (oltre 3 miliardi di euro) e sommandosi a quelle in precedenza attuate (rispetto alle quali la Corte dei Conti, delibera n. 29 del 29 dicembre 2014, ha gia' eppure evidenziato come alle Regioni sia stato richiesto «uno sforzo di risanamento non proporzionato all'entita' delle loro risorse»), determinerebbe, come piu' ampiamente motivato nel ricorso, o il sostanziale azzeramento della spesa extra sanitaria per beni e servizi delle Regioni, e/o la messa a repentaglio, come rilevato dalla Corte dei Conti sempre nella delibera n. 29 del 29 dicembre 2014, dell'adempimento dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritto alla salute. E' del tutto evidente (anche a prescindere dall'eventuale futuro raggiungimento di un'intesa con alcune Regioni - al momento in ogni caso non raggiunta nei termini previsti), l'irreparabilita' del danno che si verrebbe a verificare nelle more ordinarie del giudizio di legittimita' costituzionale posto che, qualora l'udienza si svolgesse non prima della chiusura dell'esercizio finanziario in corso, inevitabili ripercussioni si saranno verificate sui servizi erogati a favore dei cittadini. Quanto all'art. 1, comma 629, lettera b), comma 632, comma 633, si tratta dell'introduzione di un meccanismo, il cd. split payment adottato in violazione del diritto comunitario e la cui attuazione costringerebbe tutto il sistema regionale a sostenere ingenti spese per un inutile adeguamento di tutti i sistemi informativi e contabili, con rilevanti danni ed irreparabili danni al sistema regionale (regione e aziende sanitarie) anche in relazione al rispetto dei tempi di pagamento delle imprese. Risponde dunque all'interesse generale sospendere l'esecuzione delle suddette disposizioni, nelle more del giudizio di legittimita' costituzionale, dato il concreto rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, nonche' di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico. E' appena il caso di notare come codesta ecc.ma Corte abbia recentemente riconosciuto la cogenza di ragioni di tenuta economico-finanziaria, nel contesto della sentenza n. 10 del 2015, ove ha tenuto «in debita considerazione l'impatto che una tale pronuncia determina su altri principi costituzionali, al fine di valutare l'eventuale necessita' di una graduazione degli effetti temporali della propria decisione sui rapporti pendenti.» Se in quel caso codesta Corte ha rammentato la necessita' che «la Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare «una tutela sistemica e non frazionata» (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella decisione», al punto da graduare gli effetti delle proprie decisioni, in questo caso la mancata sospensiva, e dunque le dinamiche meramente processuali, potrebbero avere effetti ugualmente irreparabili sul sistema finanziario regionale. (1) In realta' nemmeno si poteva affermare con certezza che le disposizioni del decreto legge n. 66 del 2014 avessero stabilito un vero e proprio limite temporale ai tagli, tanto che il Dossier n. 178 del 9 giugno 2014 del Servizio Bilancio della Camera dei Deputati, a pag. 47 si afferma: «Si rileva, infine, che le norme recate dall'ultimo periodo del comma 4 stabiliscono che le riduzioni di spesa hanno natura permanente mentre l'articolo 47 (46), che include le riduzioni di spesa recate dall'articolo in esame, fissa obiettivi di risparmio per gli enti territoriali solo fino al 2017. Appare, pertanto, necessario che il Governo chiarisca se la riduzione delle spese prevista dall'articolo in esame abbia natura permanente» (2) Sono annualmente pubblicati sul sito http://www.mef.gov.it/ministero/commissioni/copaff/ (3) Cfr. per tutti, F. PAMMOLLI , G. PAPA, N. C. SALERNO, La spesa sanitaria pubblica in Italia: dentro la 'scatola nera' delle differenze regionali. Il modello SaniRegio, in http://www.astrid-online.it/Politiche-/Documenti/CERM Sanit-_26_10_09.pdf (4) CAMERA DEI DEPUTATI, Commissioni riunite V (Bilancio) e XII (Affari Sociali), Indagine conoscitiva sulla sfida della tutela della salute tra nuove esigenze del sistema sanitario e obiettivi di finanza pubblica, 4 giugno 2014. (5) CORTE DEI CONTI, Relazione sulla gestione finanziaria degli enti territoriali, Deliberazione n. 29 del 29 dicembre 2014, p. VII. (6) E ancora, la Legge regionale 27 aprile 2012, n. 17 recante Disposizioni in materia di risorse idriche nell'istituire, all'art. 3, i Consigli di bacino quali forme di cooperazione tra i Comuni per la programmazione e organizzazione del servizio idrico integrato ha stabilito che: 'Ai fini della costituzione dei Consigli di bacino, i comuni ricadenti negli ambiti territoriali ottimali di cui all'articolo 2 sottoscrivono la convenzione per la cooperazione previa presa d'atto della stessa da parte di ciascun comune, in conformita' al proprio statuto' (art. 3, comma 2, l.r. n. 17/2012). Analogamente, la Legge regionale 31 dicembre 2012, n. 52 recante Nuove disposizioni per l'organizzazione del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani ed attuative dell'articolo 2, comma 186 bis della legge 23 dicembre 2009, n. 191 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello stato (legge finanziaria 2010), nel costituire, all'art. 4, i consigli di bacino, ha disposto che: 'gli enti locali ricadenti in ciascun bacino territoriale approvano una apposita convenzione ai sensi e per gli effetti dell'articolo 30 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267'. La suindicata convenzione prevede inoltre la costituzione di un'assemblea di bacino, presieduta da un presidente espresso dalla maggioranza dei componenti l'assemblea e formata dai rappresentanti degli enti locali partecipanti al consiglio di bacino, o loro delegati (art. 4, commi 1 e 2, l.r. n. 52/2012). (7) Art. 395, direttiva 2006/112/CE: '1. Il Consiglio, deliberando all'unanimita' su proposta della Commissione, puo' autorizzare ogni Stato membro ad introdurre misure speciali di deroga alla presente direttiva, allo scopo di semplificare la riscossione dell'imposta o di evitare talune evasioni o elusioni fiscali. Le misure aventi lo scopo di semplificare la riscossione dell'imposta non devono influire, se non in misura trascurabile, sull'importo complessivo delle entrate fiscali dello Stato membro riscosso allo stadio del consumo finale. 2. Lo Stato membro che desidera introdurre le misure di cui al paragrafo 1 invia una domanda alla Commissione fornendole tutti i dati necessari. Se la Commissione ritiene di non essere in possesso di tutti i dati necessari, essa contatta lo Stato membro interessato entro due mesi dal ricevimento della domanda, specificando di quali dati supplementari necessiti. Non appena la Commissione dispone di tutti i dati che ritiene necessari per la valutazione, ne informa lo Stato membro richiedente entro un mese e trasmette la domanda, nella lingua originale, agli altri Stati membri. 3. Entro i tre mesi successivi all'invio dell'informazione di cui al paragrafo 2, secondo comma, la Commissione presenta al Consiglio una proposta appropriata o, qualora la domanda di deroga susciti obiezioni da parte sua, una comunicazione nella quale espone tali obiezioni. 4. La procedura di cui ai paragrafi 2 e 3 deve essere completata, in ogni caso, entro otto mesi dal ricevimento della domanda da parte della Commissione» (8) Cfr. artt. 5, 11, 17 della Legge regionale n. 29 del 27 dicembre 2011: Art. 5, Articolazione - parte terza: "1. Nella parte terza del BURVET sono pubblicati: a) le richieste di referendum regionali e la proclamazione dei relativi risultati; b) le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sulle questioni in cui la Regione e' parte; i ricorsi della Giunta e i ricorsi del Governo o di altre regioni su questioni di legittimita' costituzionale e per i conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale in cui la Regione e' parte; c) le ordinanze con cui gli organi giurisdizionali sollevino questioni di legittimita' costituzionale di leggi regionali; d) i bandi e gli avvisi di concorso della Regione e degli altri enti pubblici, la cui pubblicazione sia disposta da leggi statali o regionali; e) i bandi e gli avvisi relativi ad appalti della Regione e degli altri enti pubblici, la cui pubblicazione sia disposta da leggi statali o regionali; f) gli avvisi e i comunicati la cui pubblicazione sia disposta dalla Giunta regionale o dal suo Presidente; g) gli avvisi e i comunicati finalizzati alla informazione, alla conoscenza o alla partecipazione al processo di formazione della volonta' della Regione, la cui pubblicazione sia disposta dal Presidente del Consiglio regionale; h) gli avvisi e i comunicati di altri enti pubblici e soggetti privati la cui pubblicazione sia prevista da leggi statali o regionali.' Art. 11, Tariffe delle inserzioni: «1. La pubblicazione degli atti della Regione effettuata nel BURVET e' gratuita. 2. E', altresi', gratuita la pubblicazione effettuata nel BURVET degli atti di altri enti ed amministrazioni che siano stati adottati per conto della Regione o su incarico della stessa. 3. Salvo le ipotesi di cui ai commi 1 e 2, la pubblicazione degli atti nel BURVET e' subordinata al pagamento di una tariffa stabilita dalla Giunta regionale." Art. 17, Norma finanziaria: 1. Le entrate derivanti dall'applicazione dell'articolo 11 sono introitate nell'upb E0040 "Vendita di Beni" del bilancio di previsione 2011 e pluriennale 2011-2013