TRIBUNALE PENALE DI ROVERETO 
            Ufficio del Giudice dell'udienza preliminare 
 
    Ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale  -
art. 23, legge n. 87 del 1953. 
1. Premessa: il fatto oggetto di giudizio. 
    In data  27  settembre  2015,  S.I.,  cittadino  extracomunitario
originario del ..., privo di fissa dimora in Italia, veniva arrestato
in  flagranza  di  reato,  all'atto  del  suo  arrivo  alla  stazione
ferroviaria di Rovereto  (TN),  per  aver  illecitamente  detenuto  e
trasportato sostanza stupefacente di tipo  eroina  contenuta  in  tre
ovuli,  occultati  nella  propria  persona  a  mezzo  di  ingestione.
Condotto in ospedale veniva prima sottoposto, col suo consenso, a TAC
dell'addome, che evidenziava la presenza  di  corpi  estranei  e  poi
veniva indotta l'evacuazione. 
    A mezzo di relazione tecnica eseguita il 3 ottobre 2015 presso il
laboratorio analisi sostanze stupefacente dei Carabinieri  di  Laives
(BZ)  si  misurava  il  peso  lordo  di  gr.  58,291  della  sostanza
stupefacente in questione e si accertava  l'ottimo  principio  attivo
medio del 31,60%, pari a complessivi mg. 18.447,  che  consentono  di
ricavare n. 738 dosi medie singole efficaci (secondo  le  indicazioni
del decreto ministeriale 11 aprile 2006). 
    All'esito della convalida dell'arresto il giudice delle  indagini
preliminari presso il Tribunale di Rovereto,  con  ordinanza  del  29
settembre 2015  disponeva  la  misura  cautelare  della  custodia  in
carcere, ritenendo sussistente il pericolo di  commissione  di  reati
della stessa specie,  a  norma  dell'art.  274,  lettera  c)  c.p.p.,
desumendolo  dalla  quantita',  qualita'  e  tipologia  di   sostanza
detenuta, dalle modalita' di occultamento, dal denaro detenuto  senza
alcuna plausibile giustificazione in ordine ad un'origine lecita,  da
un recente arresto in flagranza per un  analogo  fatto  e  da  quanto
osservato dagli inquirenti in occasione di un  precedente  viaggio  a
Rovereto il 15 settembre 2015 (con incontro con altri extracomunitari
gia' denunziati per reati analoghi). Riteneva, infine, il giudice per
le indagini preliminari che, in ragione della gravita' oggettiva  del
reato e del limite edittale minimo previsto dalla legge per  la  pena
detentiva (anni 8 di reclusione), si dovesse, da un  lato,  escludere
in  radice  la  possibilita'  di  concessione   in   giudizio   della
sospensione condizionale della pena e, dall'altro,  ritenere  che  la
pena concreta irrogata in giudizio sarebbe stata senz'altro superiore
alla soglia dei 3 anni di reclusione. 
    Emesso decreto di giudizio  immediato,  a  norma  dell'art.  453,
comma 1 c.p.p., l'imputato formalizzava tempestiva richiesta di  rito
abbreviato, a norma dell'art. 458 c.p.p. All'udienza del  21  gennaio
2016, all'esito della discussione, questo giudice sollevava d'ufficio
la presente questione di legittimita' costituzionale. 
    Come emerge con chiarezza da quanto sopra esposto il processo non
presenta   alcuna   difficolta'   ordine    all'accertamento    della
responsabilita' penale dell'imputato, neppure contestata dalla difesa
che si  e'  limitata  a  richiedere  la  condanna  alla  pena  minima
possibile (per la pena detentiva anni  3,  mesi  6  e  giorni  20  di
reclusione, previa applicazione della riduzione massima di  un  terzo
per la concessione delle attenuanti  generiche  sulla  pena  edittale
minima, e successiva riduzione di un ulteriore terzo  per  il  rito).
Invero, alla luce degli elementi di  prova  raccolti  nelle  indagini
preliminari, non puo'  esservi  alcun  dubbio  che  l'imputato  abbia
svolto il classico ruolo di corriere tra il  fornitore  e  i  piccoli
spacciatori c.d. da strada., operanti sulla piazza di Rovereto, della
sostanza stupefacente di cui e' stato trovato in possesso. 
    Piu' problematica e', invece, la precisa qualificazione del reato
contestato, ai sensi del primo ovvero del quinto comma dell'art.  73,
decreto del Presidente della Repubblica  n.  309.  del  1990  che  ha
un'eccezionale incidenza sulla pena in concreto applicabile,  perche'
dalla pena da 8 a 20 anni  di  reclusione  e  da  €  25.822,00  ad  e
258.228,00 di multa, prevista nel primo comma, si passa alla pena, di
gran lunga inferiore, da 6 mesi  a  4  anni  di  reclusione  e  da  €
1.032,00 ad € 10.329,00 di multa, prevista nel quinto comma. 
    Prima  di  affrontare  il  merito  della  questione  e'  tuttavia
opportuno  ripercorrere,  coli  particolare  riferimento  alle   pene
previste,  il  recente  e  disordinato  avvicendarsi  di   interventi
legislativi e della Corte costituzionale sull'art.  73,  decreto  del
Presidente  della  Repubblica  n.  309  del  1990,  che  hanno   reso
particolarmente complessa persino la mera ricognizione del  testo  di
legge attualmente vigente. 
1.1 (segue): la ricostruzione del diritto vigente. 
    Il diritto vigente e'  il  risultato  della  seguente  evoluzione
normativa: 
    1.  Il  testo  unico  stupefacenti,  approvato  con  decreto  del
Presidente  della  Repubblica   n.   309   del   1990   (c.d.   legge
Jervolino-Vassalli, di seguito t.u.), come e'  noto,  distingueva  in
modo netto i reati aventi ad oggetto le droghe pesanti, di  cui  alle
tabelle I e III (tra le quali l'eroina) dalle droghe c.d. leggere, di
cui alle tabelle II  e  IV,  prevedendo  trattamenti  punitivi  molto
diversi per le condotte descritte  in  alternativa  al  comma  1:  la
reclusione da 8 a 20 anni e la multa da € 25.822,00 ad € 258.228, nel
primo caso; la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da € 5.164,00 ad €
77.468,00, nel secondo caso (comma 4). 
    Al  comma  quinto  era  poi  prevista  un'attenuante  ad  effetto
speciale per entrambi i reati per il caso in cui il  fatto  fosse  di
lieve entita', con previsione di pene ancora distinte: la  reclusione
da l a 6 anni e la multa da € 2.582,00 ad € 25.822,00, per le  droghe
c.d. pesanti e la reclusione da 6 mesi a 4  anni  e  la  multa  da  €
1.032,00 ad € 10.329,00, per le droghe c.d. leggere. 
    2. La legge  n.  49/2006  (c.d.  legge  Fini-Giovanardi,  che  ha
convertito il d.l. n. 272/2005) ha compiuto una  riforma  sistematica
della materia sia sotto il profilo  delle  incriminazioni  sia  sotto
quello sanzionatorio e, per cio' che qui piu' interessa, ha soppresso
la distinzione tra droghe  leggere  e  pesanti,  riunificando  i  due
distinti reati in unico, reato, punito con la pena  della  reclusione
da 6 anni a 20 anni e della multa da € 26.000,00 ad € 260.000,00. Nel
caso di ricorrenza dell'attenuante del fatto di lieve entita' la pena
prevista e' quella della reclusione da 1 a 6 anni e della multa da  €
3.000,00 ad € 26.000,00. 
    Pertanto, la riunificazione tra droghe leggere e  droghe  pesanti
ha in concreto comportato la sostanziale equiparazione  verso  l'alto
del trattamento punitivo, mediante l'estensione delle  pene  previste
originariamente per le  droghe  pesanti  anche  alle  droghe  leggere
(salvo la contenuta riduzione del limite edittale minimo  della  sola
pena detentiva, portato da 8 a 6 anni di reclusione). 
    Per controbilanciare l'estremo rigore di questa innovativa scelta
di politica criminale, e' stata introdotta la  possibilita',  per  il
caso di fatti di  lieve  entita'  commessi  da  tossicodipedenti,  di
sostituire la pena col lavoro di pubblica  utilita'  (cfr:  art.  73,
comma 5-bis, t.u., misura poi estesa, a  date  condizioni,  anche  ai
reati comuni commessi da tossicodipendenti,  mediante  l'introduzione
del comma 5-ter, ad opera del d.l. 78/2013). 
    3.  Col  decreto-legge  n:  146/2013  (convertito  con  legge  n.
10/2014) il legislatore ha poi trasformato la circostanza  attenuante
del fatto di lieve entita' in reato autonomo (secondo le  convincenti
e diffuse argomentazioni di Cass., 08,01.2014 n. 14288,  rv.  259057,
subito  condivise  da  numerosissime  sentenze  di  legittimita'   e,
percio', assurte al rango di diritto vivente), ritoccando al  ribasso
il limite edittale massimo della sola pena detentiva, portandolo da 6
a 5 anni di reclusione. 
    L'intervento e' stato espressamente  disposto  in  considerazione
della "straordinaria necessita' ed urgenza  di  adottare  misure  per
ridurre con effetti  immediati  il  sovraffollamento  carcerario,  in
particolare, sul versante della legislazione penale in materia  (...)
di reati concernenti le sostanze stupefacenti" (cfr.  primo  ritenuto
del preambolo). Come e' noto l'emergenza carceraria e'  divenuta  non
piu' procrastinabile a seguito della condanna del nostro paese per la
violazione dell'art. 3 della CEDU, che vieta le pene o i  trattamenti
inumani e degradanti, per la mancanza dello spazio minimo all'interno
della cella, con la sentenza pilota della Corte EDU, 8 gennaio  2013,
Torreggiani-c.  Italia,  la  quale  avendo  accertato  il  "carattere
strutturale e sistemico" del grave sovraffollamento carcerario, aveva
concesso un termine di un anno per adottare le misure necessarie  per
porre rimedio alla situazione. 
    Dalla relazione governativa emerge  chiaramente  come  principale
scopo  della  trasformazione  in  reato  autonomo  della  circostanza
attenuante del fatto di lieve entita', fosse quello di  sottrarla  al
bilanciamento con  circostanze  aggravanti  (in  particolare  con  la
recidiva, assai frequente in questa materia), col rischio, in caso di
giudizio   di   equivalenza   o    prevalenza    delle    aggravanti,
dell'applicazione delle piu'  rigorose  pene  previste  per  i  reati
maggiori. 
    4. E' su questo dato normativo che si innesta la  sentenza  della
Corte    costituzionale    n.    32/2014    che     ha     dichiarato
l'incostituzionalita'  degli  articoli  4-bis  e  4-vicies  ter   del
decreto-legge n. 272/2005 (inseriti dalla legge di  conversione)  che
avevano profondamente modificato il t.u.,  per  violazione  dell'art.
77, comma 2 Cost. e, in particolare, perche' adottati "in carenza dei
presupposti per il legittimo  esercizio  del  potere  legislativo  di
conversione", a causa del difetto di omogeneita' e, quindi  di  nesso
funzionale tra  decreto-legge  e  legge  di  conversione.  Un  vizio,
dunque, relativo alla fonte e non al contenuto, tanto radicale da far
ritenere le  disposizioni  di  legge  illegittime  adottate  "in  una
situazione di carenza di potere" e, come tali, inidonee "ad  innovare
l'ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa". 
    Su questa premessa la Corte  ha  ritenuto  che  a  seguito  della
dichiarazione di incostituzionalita' tornano "a ricevere applicazione
l'art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990
e le relative tabelle, in  quanto  mai  validamente  abrogati,  nella
formulazione precedente le modifiche apportate  con  le  disposizioni
impugnate",   ossia   nella   formulazione   di   cui   alla    legge
Jervolino-Vassalli (cfr. § 5 del considerando in diritto). L'indicato
effetto di riviviscenza viene, inoltre, argomentato sulla base  degli
obblighi  di  penalizzazione  imposti  dalla  normativa   dell'Unione
europea, con la decisione quadro n. 2004/757/GAI,  "che  l'Italia  e'
tenuta a rispettare in virtu' degli articoli 11 e 117 Cost.". 
    Altra precisazione della Corte che merita di essere sottolineata,
e' che gli effetti della sentenza "non riguardano in  alcun  modo  la
modifica disposta con il decreto-legge n.  146  del  2013  (...),  in
quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e
indipendente da quest'ultima" (cfr. § 3 del considerando in diritto).
Si deve pertanto ritenere che il comma quinto del cit.  art.  73  non
sia stato investito della declaratoria di incostituzionalita'. 
    5. Infine, col decreto-legge 36/2014  (convertito  con  legge  n.
79/2014) si e'  posto  rimedio  alla  grave  emergenza  creata  dalla
pronunzia della Corte  costituzionale  sopra  citata,  che  aveva  in
sostanza  azzerato  tutti  gli  aggiornamenti  delle   tabelle,   con
inserimento di numerosissime nuove  sostanze  stupefacenti,  avvenuti
sulla base della legge Fini-Giovanardi, dichiarata  incostituzionale,
determinando   corrispondenti   abolitiones   criminis    (i    dubbi
interpretativi al riguardo,  affacciatesi  soprattutto  in  dottrina,
sono stati definitivamente fugati da Cass.,  Sez.  Un.,  26  febbraio
2015, n. 29316, rv. 264264), ripristinando  tutti  gli  aggiornamenti
nel frattempo intervenuti  nonche'  l'originaria  classificazione  in
distinte tabelle per le droghe c.d. pesanti e leggere. 
    Nel contempo, la legge di conversione ha ulteriormente modificato
al ribasso le pene previste per l'autonomo reato di cui all'art.  73,
comma 5 tu., prevedendo la reclusione da 6 mesi a 4 anni e  la  multa
da € 1.032,00 ad € 10.329,00, senza distinguere tra droghe pesanti  e
leggere. In tal caso, quindi, la riduzione di pena ha  investito  non
solo il limite edittale massimo ma anche quello minimo e non solo  la
pena detentiva ma anche quella pecuniaria. 
    Solo apparentemente, tuttavia, si tratta di una  scelta  politico
criminale omogenea a quella  della  legge  Fini-Giovanardi,  per  tre
fondamentali ragioni. 
    In primo luogo, la distinzione tra droghe pesanti e  leggere  non
e' toccata per i reati maggiori, previsti dall'art. 73, commi 1 e  4,
testo unico e con cio' e' chiaramente confermata, anche attraverso il
ripristino della vecchia classificazione in  4  tabelle.  In  secondo
luogo, la legge n. 79 del 2014 ha modificato anche l'art.  75,  t.u.,
dedicato all'illecito amministrativo della detenzione di stupefacenti
per farne uso personale, prevedendo distinti limiti edittali  per  le
sanzioni amministrative a seconda che la condotta  abbia  ad  oggetto
droghe pesanti o leggere. In terzo luogo e soprattutto,  in  caso  di
ricorrenza del reato minore (fatto di lieve entita') se e'  vero  che
la  rilevanza  della  distinzione  e'  stata  espressamente   negata,
tuttavia il  trattamento  punitivo  e'  rivisto  al  ribasso  con  la
previsione,  anche  per  le  droghe  pesanti,   della   stessa   pena
originariamente (dalla legge c.d. Jervolinio-Vassalli)  prevista  per
le droghe leggere mentre, come si e' visto, la legge Fini-Giovanardi,
aveva piuttosto esteso le pene  previste  per  le  droghe  pesanti  a
quelle leggere. 
    All'esito  di  questa  tortuosa  evoluzione  normativa  il  testo
vigente dell'art. 73, testo unico e' ricostruibile nel  senso  che  i
commi 1, 2, 3 e 4 sono quelli di cui alla  legge  Jervolino-Vassalli,
mentre i commi 5 e 5-bis  sono  quelli  rispettivamente  emendati  ed
inseriti con legge n. 79/2014 (di conversione del d.l". 36/2014). 
1.2 (segue): l'incoerenza sistematica del diritto vigente. 
    Cio' posto, si puo' affermare, che oggi i fatti di lieve entita',
non importa se afferenti a droghe pesanti o leggere, sono in linea di
principio puniti e trattati al  di  fuori  del  circuito  carcerario,
considerando i limiti  edittali  di  pena  previsti,  che  consentono
l'ampio  ricorso  alla  sospensione  condizionale   e   alle   misure
alternative  previste  dall'ordinamento  penitenziario,  nonche'   la
possibilita' di sostituzione col lavoro di pubblica utilita', a norma
dell'art. 73, comma 5-bis tu. 
    Questa nuova  direttrice  di  politica  criminale,  condivisibile
perche' congruente col principio di  extrema  ratio,  trova  conferma
anche in sede cautelare, perche' la nuova pena massima di anni  4  di
reclusione preclude  alla  radice  la  possibilita'  di  disporre  la
custodia in carcere, per difetto del  presupposto  generale  previsto
dall'art. 280, comma  2,  codice  di  procedura  penale  (pena  della
reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni,  limite  cosi  fissato
dal decreto-legge n. 78 del 2013). Anzi, l'ultimo ritocco della  pena
massima (da 5 a 4 anni di reclusione)  appare  funzionale  proprio  a
questo obiettivo, di precludere in assoluto il ricorso alla  custodia
cautelare in carcere, al fine di  contenere  il  grave  problema  del
sovraffollamento carcerario e si puo'  senz'altro  ritenere  che  sia
stato una tra le misure piu' efficaci a ridurre in modo significativo
la popolazione carceraria. 
    La medesima direttrice di politica criminale e' poi ulteriormente
confermata da nuovi istituti nel frattempo entrati in  vigore,  quali
la messa alla prova per maggiorenni e la causa di non punibilita' per
particolare irrilevanza del fatto, previsti rispettivamente dai nuovi
articoli 168-bis e 131-bis c.p., entrambi applicabili al reato minore
di cui all'art. 73, comma 5, t.u., proprio grazie  al  minore  limite
edittale  massimo  della  pena  detentiva  oggi   prevista   (essendo
applicabili a reati puniti con la pena detentiva  non  superiore  nel
massimo, rispettivamente a 4 e 5 anni). 
    Opposta e', invece, la direttrice di politica  criminale  seguita
per il reato maggiore avente ad oggetto le droghe Pesanti, poiche' la
pena  edittale  minima  di  anni  8  di  reclusione  preclude,  nella
generalita' dei casi non solo la sospensione condizionale della  pena
ma anche le misure  alternative  per  la  pratica  impossibilita'  di
contenere in concreto la pena sotto la soglia di 3  anni  (cfr.  art.
47, ordinanza pen.), pur considerando la congiunta riduzione di  pena
per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e per  riti
speciali a contenuto premiale. 
    Anche nella materia delle misure cautelari proprio l'elevatissimo
limite edittale minimo spinge per forza di cose ad un  ampio  ricorso
alla custodia in carcere, perche', sul piano generale, attesta che il
reato in parola e', nella valutazione del  legislatore,  tra  i  piu'
gravi in assoluto e, sul piano tecnico, rende pressoche'  automatiche
le necessarie previsioni secondo  le  quali  in  giudizio  non  sara'
concessa la sospensione condizionale della pena e sara' irrogata  una
pena concreta superiore ai 3 anni di reclusione. 
    Ad ogni modo il rapporto tra i commi 1, 4 e 5 dell'art. 73, testo
unico evidenzia, come la dottrina non ha mancato subito col rilevare,
una grave incoerenza sistematica,  perche'  non  si  capisce  davvero
perche' per il fatto lieve non sia prevista  alcuna  distinzione  tra
droghe pesanti e droghe leggere che, invece, e' prevista non solo per
i fatti non  lievi  ma  anche  per  l'illecito  amministrativo  della
detenzione per uso personale di cui all'art. 75 t.u. Insomma, non  si
puo'  in  effetti  negare   che   sia   intimamente   contraddittorio
determinare in astratto le pene previste per i reati  maggiori  e  le
sanzioni amministrative per l'illecito amministrativo  alla  luce  di
questa distinzione e non, invece, per il reato minore. 
    La scelta  di  ripercorrere  in  via  analitica  le  varie  tappe
dell'evoluzione normativa risponde allo scopo di  far  emergere  come
questa contraddittorieta' e' in buona sostanza il frutto non  di  una
precisa  e  ponderata  scelta  di  politica  criminale  compiuta  dal
legislatore, ma  del  disordinato-succedersi  degli  eventi  e  della
necessita' di provvedere in via d'urgenza. Infatti, la  legge  n.  79
del 2014, di conversione del decreto-legge n. 36 del 2014, alla quale
e' imputabile come si e' visto questa contraddizione, non costituisce
una riforma di sistema ma e' dominata dalla necessita' ed urgenza  di
far fronte a due distinte  e  concorrenti  emergenze  particolarmente
impellenti:   quella   originata   dalla   pronunzia   della    Corte
costituzionale  n.  32  del  2014  e  quella   del   sovraffollamento
carcerario. Il problema e' che una volta risolta l'urgenza,  il  tema
di una riforma complessiva dei reati relativi agli  stupefacenti,  e'
subito scomparso dall'agenda politica. 
    L'indicata disarmonia sistematica, ad avviso di  questo  giudice,
non integra di per se' solo un vizio di legittimita'  costituzionale,
non potendosi ravvisare alcun obbligo costituzionale  di  distinzione
tra le varie tipologie di sostanze stupefacenti,  neppure  alla  luce
del diritto europeo, che si limita, in realta', a  fornire  una  mera
indicazione di massima favorevole alla distinzione, nel fissare norme
minime  di  incriminazione,  come  si  avra'  modo  di  vedere   piu'
diffusamente in seguito. 
    Va,  infatti,  affermata  con  forza  la  distinzione  tra  norme
inopportune,  imperfette  o  comunque  criticabili,  anche  sotto  il
profilo della  coerenza  sistematica  e  norme,  invece,  illegittime
perche' contrastanti con la  Costituzione.  Insomma,  il  trattamento
punitivo unitario tra droghe leggere e droghe pesanti di cui al comma
5 dell'art. 73 t.u., in rapporto al trattamento distinto  di  cui  ai
precedenti commi l e 4, non integra ancora un vero e proprio vizio di
legittimita' costituzionale. 
    Il discorso pero' cambia  se  questa  incoerenza  sistematica  si
traduce, in modo vincolante per il giudice,  in  gravi  sperequazioni
punitive, nel senso che  casi  assimilabili,  quanto  a  gravita'  di
offesa, sono in concreto puniti con pene molto diverse tra loro e che
casi molto diversi sono, invece, puniti tutti con la stessa pena. 
    Cio' dipende evidentemente dai limiti edittali di  pena  previsti
per le varie ipotesi. 
    Questo problema non si pone per le droghe leggere  perche',  come
si e' visto, i limiti edittali di  pena  previsti  ai  commi  4  e  5
dell'art. 73 t.u., rispettivamente per il reato maggiore e minore, in
larga misura  si  sovrappongono,  cosi'  rendendo  possibile  per  il
giudice modulare la pena sulla concreta offensivita'  della  condotta
tenuta, a prescindere  dalla  qualificazione  formale  del  fatto  in
termini di lieve entita'. A dir meglio il legislatore ha valutato che
l'integrazione del reato maggiore  non  implica  necessariamente  una
pena radicalmente diversa rispetto a quella  prevista  per  il  reato
minore,  sulla  base  della  realistica  presa   d'atto   che   nelle
inevitabili zone di confine i casi concreti tipicamente presentano un
contenuto offensivo sostanzialmente omogeneo. Questa  valutazione  e'
sorretta razionalmente dalla considerazione  che  i  due  reati  sono
identici riguardo alla condotta punita e l'unica differenza  e'  data
dal grado di offesa, sicche' e' del tutto ragionevole ipotizzare  una
forte omogeneita' offensiva tra le  condotte  piu'  gravi  del  fatto
lieve e le condotte meno gravi del fatto non lieve.  Infatti,  se  il
fatto  punito  e'  identico  quanto  a  condotta  e  colpevolezza   e
l'elemento distintivo risiede in un concetto,  quale  la  graduazione
dell'offesa,  che  esprime  una   progressiva   intensificazione   di
gravita', dal fatto meno a quello  piu'  grave,  senza  soluzione  di
continuita',  e'  gioco  forza  ritenere  che  le  classi  di   fatti
immediatamente prima ed immediatamente dopo il  confine  tra  le  due
ipotesi, presentino contenuti offensivi sostanzialmente omogenei. 
    Ma totalmente diversa e' la situazione normativa  per  le  droghe
c.d. pesanti,  perche'  il  limite  edittale  minimo  di  8  anni  di
reclusione, previsto per il reato maggiore, e'  addirittura  pari  al
doppio del massimo  previsto  per  il  reato  minore,  tanto  che  la
distinzione tra fatto lieve e non lieve assume una valenza drammatica
per la determinazione della  pena  in  concreto.  E'  proprio  questa
eccessiva ed irragionevole distanza tra le pene previste per  ipotesi
per  definizione  confinanti  a  creare  problemi   di   legittimita'
costituzionale, sotto diversi profili, perche' impone al  giudice  di
punire con pene molto diverse tra loro casi sostanzialmente  omogenei
quanto a contenuto offensivo e,  comunque,  con  pene  manifestamente
sproporzionate in eccesso in un numero rilevantissimo di condotte. 
    Per il momento basti osservare come quel limite  edittale  minimo
di    pena    fosse    originariamente    previsto    dalla     legge
Jervolino-Vassalli,  ora  rivissuta  in   parte   qua   per   effetto
dell'intervento della Corte costitizionale, in un contesto  normativo
affatto diverso, perche' il fatto di lieve entita' prevedeva solo una
circostanza attenuante e non un reato  autonomo  e  perche'  la  pena
massima per il fatto  di  lieve  entita'  avente  ad  oggetto  droghe
pesanti era di 6 e non di 4 anni di reclusione. 
    Sotto il primo punto di vista, la configurazione del fatto  lieve
come semplice circostanza attenuante, imponeva di considerare la pena
di cui al comma l dell'art. 73 testo  unico  prevista,  in  linea  di
principio, per tutti i fatti di reato, anche quelli qualificabili  in
termini di lieve entita', tanto e' vero che quella pena  ad  essi  si
applicava sulla sola  base  del  riconoscimento  di  una  circostanza
aggravante prevalente o equivalente all'attenuante. La doverosa presa
d'atto che quei limiti edittali erano eccessivi rispetto  a  numerosi
casi in grado di integrare il reato, aveva indotto il  legislatore  a
prevedere una circostanza attenuante ad effetto speciale, secondo una
tecnica seguita anche per numerosi delitti previsti nel codice (cfr.,
ad es., artt. 311, 323-bis, 609-bis u.c., 648 cpv. c.p.). 
    Viceversa, oggi, la configurazione come  reato  autonomo  esclude
che la pena prevista nel comma 1  del  cit.  art.  73,  possa  essere
considerata come prevista in astratto anche  per  i  fatti  di  lieve
entita', al quale invece puo' essere applicata la sola pena  prevista
dal comma 5, eventualmente aumentata per la ricorrenza di circostanze
aggravanti. Come si e visto, la ratio della trasformazione del  fatto
lieve  in  reato  autonomo  risiede  proprio   nella   volonta'   del
legislatore di escludere sempre per questi fatti le piu'  gravi  pene
previste per i reati maggiori. Insomma, la  distinzione  tra  le  due
ipotesi e ora certamente piu' netta, gia'  a  livello  di  previsione
astratta. 
    Sotto il secondo  punto  di  vista,  se  e'  vero  che  anche  la
disciplina  originaria  prevedeva  una  notevole  distanza  tra  pena
massima prevista per il fatto di lieve entita' (anni 6 di reclusione)
e pena minima per il reato base (anni 8 di reclusione), e'  pur  vero
che e' una distanza molto minore, pari alla meta' di quella  attuale,
che, contrariamente alla  distanza  oggi  prevista,  non  espropriava
totalmente il giudice dalla possibilita' di modulare  la  pena  sulla
base del concreto contenuto offensivo della condotta  illecita  posta
in essere. 
    Infatti, laddove  il  giudice  ritenga  che  il  fatto  alla  sua
attenzione, pur non potendo  essere  ricondotto  al  fatto  di  lieve
entita', esprima comunque una gravita' in concreto di poco  superiore
e, pertanto,  tale  da  non  giustificare  la  rigorosa  pena  minima
prevista  dal  comma  primo,  attraverso  il   riconoscimento   delle
circostanze  attenuanti  generiche  e  l'applicazione  dello   sconto
massimo previsto (un terzo), puo' pervenire  ad  una  pena  detentiva
minima di anni 5 e mesi 4 di  reclusione.  Ebbene,  questa  pena,  e'
inferiore alla pena massima prevista  per  l'attenuante  nel  sistema
originario (anni 6 di reclusione) e  cosa  era  garantita  la  minima
ragionevolezza e la proporzionalita' del trattamento punitivo nel suo
complesso, attraverso il prudente esercizio dei poteri  discrezionali
del giudice. Oggi, invece, quella pena e' ancora di  molto  superiore
alla pena massima prevista per i fatti di lieve entita'  (4  anni  di
reclusione) e, pertanto, il potere  discrezionale  del  giudice,  pur
esercitato nella sua massima estensione, non e' in grado  di  evitare
evidenti sperequazioni punitive tra  fatti  dal  contenuto  offensivo
omogeneo. 
2. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    La rilevanza del presente dubbio di  legittimita'  costituzionale
impone  l'espressa  motivazione  che  questo   giudice   debba   fare
applicazione dell'art. 73, comma 1 t.u.  e  non,  invece,  del  comma
quinto. 
    Come gia' si e' avuto modo di notare i due reati  sono  in  tutto
identici salvo l'elemento, descritto nel comma 5 della lieve  entita'
del fatto "per i mezzi, la modalita'  o  le  circostanze  dell'azione
ovvero per la qualita' e quantita' delle sostanze", che sono elementi
che non incidono sull'obiettivita' giuridica e sulla struttura  della
fattispecie previste come reato, ma attribuiscono ad esse una  minore
valenza offensiva. 
    In buona sostanza una distinzione tanto rilevante, non  solo  con
riferimento alla pena applicabile,  ma  anche  a  numerosi  ed  assai
significativi effetti indiretti di disciplina  (la  prescrizione,  le
misure cautelari, la messa alla prova per maggiorenni e la  causa  di
non punibilita' per particolare tenuita' del fatto, per citare solo i
piu' rilevanti), viene rimesso al prudente apprezzamento del  giudice
riguardo al caso concreto. 
    E'  ben  nota,  peraltro,  la  ricca  elaborazione  dottrinale  e
giurisprudenziale che ha consentito di superare o comunque  contenere
entro limiti accettabili il deficit di determinatezza  della  formula
legale,  negativamente  apprezzabile   rispetto   al   requisito   di
tassativita' desumibile dall'art. 25,  comma  2  Cost.  Alla  stregua
della giurisprudenza in questione si  puo'  affermare  che  la  lieve
entita' del fatto va accertata sulla base di un giudizio globale,  di
carattere oggettivo e soggettivo,  diretto  a  valutare  la  concreta
offensivita' del reato, in particolare mediante un'analisi  congiunta
e complessiva di tutti i parametri legislativi. 
    Nella prassi applicativa, peraltro, e' assai frequente un rilievo
preminente assegnato al criterio quantitativo che  puo'  trovare  una
sua giustificazione razionale nell'osservazione che si tratta  di  un
criterio che, da un lato, e' tipicamente oggetto non  solo  di  prova
certa ma anche misurabile in modo preciso, a mezzo  della  consulenza
tossicologica  sullo  stupefacente  sequestrato  e,  dall'altro,   ha
diretta correlazione con il grado di intensita' dell'offesa  al  bene
giuridico protetto, essendo evidente  che  a  quantita'  maggiori  di
sostanze stupefacenti corrisponde un'offesa maggiore dei  beni  della
salute e dell'ordine pubblico. Si tratta cioe' di un criterio che,  a
differenza degli altri, si mostra particolarmente adatto  a  misurare
in termini precisi e percio' razionalmente  controllabili,  il  grado
dell'offesa della condotta in concreto posta in essere, attraverso il
riferimento ai mg. di  principio  attivo  di  sostanza  stupefacente,
oggetto materiale della condotta, ed il corrispondente numero di dosi
ricavabili. 
    Si aggiunga che questo ruolo privilegiato ha potuto  storicamente
giovarsi su precisi agganci normativi, sia pure  mutevoli  nel  corso
del tempo. 
    Cosi' all'indomani dell'entrata in vigore del t.u. si sono subito
diffuse elaborazioni giurisprudenziali che  assumevano  il  parametro
della dose media giornaliera come mezzo per determinare la  quantita'
massima compatibile col fatto lieve, normalmente espressa  in  alcuni
multipli. L'abrogazione referendaria della dose media giornaliera  ha
determinato il venir meno di questi indirizzi che,  pero'),  si  sono
subito riproposti all'indomani dell'entrata  in  vigore  della  legge
c.d. Fini-Giovanardi che, come e' noto, ha inserito all'interno della
norma incriminatrice di illecita  detenzione  (cfr.  art.  73,  comma
1-bis t.u.) un  rinvio  ai  limiti  massimi,  suddivisi  per  singole
sostanze, stabiliti da apposito decreto ministeriale, della quantita'
di  stupefacente  la  cui  detenzione  poteva   presumersi   ad   uso
esclusivamente  personale,  in  concreto  poi  fissati  con   decreto
ministeriale 11.04.2006 (in Gazzetta Ufficiale 24.04.2006, n. 95). 
    Solo apparentemente questo riferimento normativo venuto meno  per
effetto della sentenza della Corte costituzionale  n.  32  del  2014,
perche' se vero che scomparso dalla norma  incriminatrice,  e'  stato
subito ripristinato dalla legge n. 79 del 2014,  con  la  sostanziale
medesima funzione di criterio di accertamento della  destinazione  ad
un uso non esclusivamente personale dello stupefacente  illecitamente
detenuto, sia pure collocandolo nell'art. 75 t.u. Infatti,  il  nuovo
comma 1-bis dell'art. cit., impone  ora  di  tenere  conto,  ai  fini
dell'accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale,
della circostanza che la quantita' di stupefacente non sia  superiore
ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute. 
    In dettaglio il decreto ministeriale 11 aprile 2006  ha  fissato,
per  l'eroina,  in  mg.  25  il  quantitativo  di  principio  attivo,
corrispondente alla c.d. dose, media singola e in mg. 250  il  limite
massimo che, in linea di  principio,  puo'  essere  considerato  come
detenuto ad uso personale. 
    Per cio' che puo' valere, a margine  di  un  locale  incontro  di
formazione immediatamente  successivo  all'entrata  in  vigore  della
legge Fini-Giovanardi ed in risposta alle pressanti  richieste  delle
forze   dell'ordine   circa   un'indicazione   precisa,   sul   piano
quantitativo, del confine tra fatto di lieve entita'  e  non  (allora
rilevante per la distinzione tra arresto obbligatorio  e  facoltativo
in flagranza di reato), si e' proposto di applicare, in via puramente
indicativa, un moltiplicatore di 10 per le droghe c.d. pesanti (e  di
30 per quelle c.d. leggere) al quantitativo massimo indicato nel d.m. 
    In sede di giudizio, poi, il Tribunale di Rovereto si  e'  sempre
attenuto a questa indicazione, salvo casi del tutto  eccezionali  nei
quali,  per  ulteriori  particolari  circostanze  proprie  del   caso
concreto  (stato  di  tossicodipedenza   dell'imputato,   particolari
modalita' di detenzione, ecc...), si fosse ritenuto che  parte  dello
stupefacente detenuto fosse destinato in  realta'  anche  ad  un  uso
personale. Anche in tali casi, tuttavia, non si e'  mai  ritenuto  un
fatto di lieve entita', per le droghe  pesanti,  in  presenza  di  un
quantitativo di 30 volte superiore a quello indicato  dal  d.m.  cit.
(dunque, per l'eroina sino ad un  limite  massimo  di  7.500  mg.  di
principio attivo). 
    Anche  il  c.d.  diritto  vivente  evincibile   dai   consolidati
orientamenti della Cassazione e' sostanzialmente omogeneo,  prendendo
per  ora  in  considerazione  solo  le  pronunzie  antecedenti   alla
trasformazione del fatto di lieve entita' in reato autonomo. 
    Due sono, infatti, le massime ricorrenti al riguardo, consolidate
sotto la vigenza della legge Fini-Giovanardi, ma che trovano  origine
in orientamenti ben piu' risalenti. 
    In base alla  prima  il  fatto  di  lieve  entita'  "puo'  essere
riconosciuto solo in ipotesi  di  minima  offensivita'  penale  della
condotta, deducibile sia dal dato  qualitativo  e  quantitativo,  sia
dagli  altri  parametri   richiamati   dalla   disposizione   (mezzi,
modalita', circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove  uno
degli indici previsti dalla legge risulti  negativamente  assorbente,
ogni altra considerazione resta  priva  di  incidenza  sul  giudizio"
(Cass. Sez. Un. 24.06.2010, n. 35737, rv. 247911 e, da ultimo, Cass.,
19.09.2013, n. 39977, rv. 256610). Dalla  lettura  delle  motivazioni
delle pronunzie, si evince che dietro questa formula linguistica,  in
se' generica, si cela la preminenza  in  realta'  assegnata  al  dato
quantitativo, ritenuto di per se' in  grado  di  escludere  il  fatto
lieve, nel  caso  superi  determinate  soglie,  pur  in  presenza  di
ulteriori circostanze favorevolmente valutabili per l'imputato (nella
sentenza da ultimo citata e' stato ritenuto preclusivo il possesso di
9 grammi lordi di eroina custoditi in 5 ovuli ingeriti;  per  analoga
decisione,  riferita  alla  vendita  in  distinte  occasioni  di  200
pasticche di ecstasy cfr. Cass., 22.12.2011, n. 6732, rv. 251942). 
    A conferma di quanto affermato  va  sottolineato  che  del  tutto
analogo era il rilievo attribuito al criterio  quantitativo  gia'  in
Cassazione Sez. Un.  21.06.2000,  n.  17,  rv.  216668,  non  a  caso
massimata in modo identico sul punto (nella specie 30 grammi lordi di
cocaina,  corrispondenti  a  300  dosi,  cfr.  pg.   65   ss.   della
motivazione). 
    In base alla seconda, l'ipotesi del fatto  di  lieve  entita'  e'
"configurabile  nelle  ipotesi  di  c.d.  piccolo  spaccio,  che   e'
caratterizzato per  una  complessiva  minore  portata  dell'attivita'
dello spacciatore e dei suoi  eventuali  complici,  con  una  ridotta
circolazione di merce e di denaro nonche' di guadagni limitati e  che
ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita  che,
comunque, non sia  superiore  -  tenuto  conto  del  valore  e  della
tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a  decine"
(cfr. da ultimo e tra le tante Cass.,  18.07,2013,  n.  5410990,  rv.
256609). 
    Alla luce dei criteri sopra esposti appare indiscutibile  che  il
caso in esame, relativo come gia' si e'  precisato,  al  trasporto  e
alla detenzione a fine di spaccio di mg. 18.447 di principio  attivo,
corrispondenti a ben n. 738 dosi medie singole  efficaci,  esula  dal
fatto di lieve entita', a maggior ragione se si considera  che  anche
le modalita' dell'azione non appaiono valutabili in senso  favorevole
all'imputato,  perche'  l'occultamento   in   ovuli   ingeriti,   con
l'accettazione di gravi rischi per la salute e persino per la vita in
caso di rottura degli ovuli, e' piuttosto indicativo di gravita'  del
reato e di capacita' a delinquere del reo. 
2.1 (segue): impraticabilita' di correttivi in via interpretativa. 
    La conclusione sopra raggiunta deve essere mantenuta ferma, anche
alla luce del diritto vigente che si caratterizza, come si e'  visto,
per tratti distintivi di forte novita', rispetto  al  dato  normativo
sul quale si sono formati indirizzi interpretativi sopra esposti. 
    In termini generali potrebbe apparire attraente la prospettiva di
modificare verso l'alto il confine tra reato minore e reato maggiore,
valorizzando l'innovativa  qualificazione  normativa  in  termini  di
reato autonomo, e non piu' di semplice circostanza attenuante,  ed  i
modificati limiti edittali di pena. 
    In effetti, l'assoluto  rilievo  dei  principi  di  offensivita',
ragionevolezza  e   proporzione   della   pena,   anche   sul   piano
interpretativo, piu' volte affermato con forza  dalla  giurisprudenza
costituzionale (cfr., quanto al primo, Corte cost., n. 333 del  1991,
n. 133 del 1992, n. 360 del 1995 e n. 296  del  1996,  per  citare  i
precedenti in tema di reati in materia  di  stupefacenti)  unitamente
all'assoluto rigore della pena minima prevista dal comma 1  dell'art.
73 t.u., potrebbe indurre l'interprete a fissare questo  confine  nel
senso di ravvisare il reato maggiore solo nei casi in cui quella pena
appaia proporzionata al concreto contenuto  offensivo  del  fatto  e,
ritenere, invece, sempre integrato il fatto di lieve entita' in  caso
contrario. Se si ritiene la pena  minima  di  anni  8  di  reclusione
sproporzionata in eccesso per una certa classe di fatti concreti,  in
presenza di un reato "minore" ancillare e di una  distinzione  legale
tra  le  due  fattispecie  che   assicura   un   ampio   margine   di
discrezionalita' al giudice, si puo' sostenere che il  giudice  abbia
l'obbligo di definire la tipicita' del reato maggiore in  conformita'
ai  principi   di   proporzione   della   pena,   ragionevolezza   ed
offensivita', facendo refluire nel reato minore tutti i casi concreti
per i quali quella pena sarebbe eccessiva. 
    Si tratterebbe di un mutamento di prospettiva  radicale,  perche'
si  finirebbe  col  ravvisare  il  fatto  di  lieve   entita'   nella
generalita' dei casi ed il reato maggiore in casi statisticamente del
tutto limitati, mentre secondo i principi interpretativi sino ad  ora
adottati e' esattamente il contrario. 
    Un'operazione simile e' stata proposta da autorevole  dottrina  a
margine ed in parziale critica ad una delle pronunzie piu' rilevanti,
nel  recente  passato,  della  Corte  costituzionale  in  materia  di
trattamento punitivo. Il riferimento e' alla sentenza n. 68 del  2012
che, come e' noto, ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art.  630
c,p. nella parte in cui, nel determinare la pena per il sequestro  di
persona a scopo di  estorsione,  non  consente  l'applicazione  della
circostanza attenuante del fatto di lieve entita', prevista dall'art.
311 del codice penale per l'analogo reato del sequestro di persona  a
scopo eversivo o di terrorismo di cui  all'art.  289-bis  del  codice
penale. Ebbene la dottrina in questione ha osservato come  la  giusta
valorizzazione  dell'obbligo  di  interpretazione  costituzionalmente
conforme, unitamente alla pena minima prevista di eccezionale  rigore
(anni    25    di    reclusione),    avrebbe    potuto    consigliare
un'interpretazione restrittiva del precetto e, in particolare,  dello
scopo di estorsione tale da escludere l'integrazione  del  reato  nel
caso concreto che  ha  originato  la  decisione  della  Consulta  (si
trattava di un sequestro realizzatosi  per  un  limitato  periodo  di
tempo e finalizzato ad ottenere l'adempimento di un pregresso accordo
illecito),  con  conseguente  inammissibilita'  della  questione   di
legittimita' costituzionale proposta. 
    A ben vedere, pero', e' una via di uscita impraticabile in questo
caso non solo perche' in evidente contraddizione col  dato  normativo
della riduzione della pena massima prevista per  il  fatto  di  lieve
entita' avente ad oggetto droghe pesanti, che sembra  confermare  con
forza la volonta' del legislatore di confinare  l'ipotesi  del  fatto
lieve a casi marginali,  ma  soprattutto  perche'  non  in  grado  in
realta' di risolvere il prospettato dubbio  di  costituzionalita'  ed
anzi foriero di ulteriori  e  piu'  gravi  problemi  di  legittimita'
costituzionale, per tre distinte ragioni. 
    Anzitutto si rischia di riproporre in modo drammatico il problema
della scarsa  determinatezza  della  descrizione  del  fatto  tipico,
incentrato sulla nozione di fatto di lieve entita', perche' una volta
ritenuti non piu' applicabili i consueti criteri interpretativi ormai
consolidati, la distinzione tra le due ipotesi  sarebbe  in  sostanza
riservata a soggettivi giudizi di  proporzionalita'  della  pena  dei
singoli   giudici,   necessariamente   mutevoli   a   seconda   delle
sensibilita'  e  delle  appartenenze  ideologiche  di  ciascuno,  con
sostanziale  violazione  delle  istanze  garantistiche   sottese   ai
principi di certezza del diritto e di legalita' di cui  all'art.  25,
comma 2 Cost. Insomma, il rischio di  forti  sperequazioni  punitive,
anziche'   diminuire,   finirebbe   inevitabilmente   col    crescere
esponenzialmente. 
    In secondo luogo, qualunque sia il confine stabilito  tra  i  due
reati resterebbe l'assoluta irragionevolezza, con concreta violazione
del principio di uguaglianza, di punire con una pena massima di  anni
4 di reclusione il fatto che  si  collochi  al  limite  superiore  di
gravita' del fatto  lieve  e  con  una  pena  minima  di  anni  8  di
reclusione il fatto che si colloca al limite  inferiore  di  gravita'
del fatto non lieve che, dal punto di vista  del  concreto  contenuto
offensivo, e' del tutto omologo  al  precedente.  Esemplificando,  se
anche si ritenesse, in ipotesi, che il fatto  di  lieve  entita'  sia
integrato per condotte  aventi  ad  oggetto  sino  ad  una  quantita'
massima di eroina pari a mille dosi medie efficaci, resterebbe ancora
del tutto ingiustificato il diversissimo trattamento punitivo per chi
detiene illecitamente 1.000 dosi di eroina e di chi,  nelle  medesime
condizioni, ne detiene  1.001.  Invero,  il  dubbio  di  legittimita'
costituzionale se investe direttamente l'art. 73, comma 1 testo unico
e' soprattutto un problema  di  rapporto  tra  norme  che  si  assume
regolino fatti concreti, nelle inevitabili zone di confine,  omogenei
quando a disvalore e non puo', pertanto, essere risolto semplicemente
spostando il  confine  in  via  interpretativa,  appunto  perche'  si
riproporrebbe tale e quale  in  corrispondenza  del  diverso  confine
individuato. 
    In terzo luogo, molti dei  fatti  refluiti  in  modo  artificioso
nell'ipotesi lieve rischierebbero  di  essere  puniti  con  una  pena
sproporzionata, questa volta in difetto, in riferimento agli obblighi
provenienti dal diritto europeo, perche' la pena massima di anni 4 di
reclusione non rispetta il minimo  fissato  in  5  anni,  quale  pena
massima, dalla decisione quadro n. 2004/757/GAI per le  sostanze  che
comportano maggiori danni alla salute, quale e' senz'altro  l'eroina,
come si avra' modo meglio di illustrare in seguito. 
    Infine  e  per  chiudere  sul  punto,  non  solo   l'obbligo   di
interpretazione costituzionalmente  conforme,  correttamente  inteso,
non puo' essere utilmente invocato in questo caso ma si deve ritenere
sussista gia' il suo  tradizionale  limite,  rappresentato  dal  c.d.
diritto vivente. L'ormai gia' copiosa giurisprudenza di  legittimita'
formatasi dopo le ultime convulse vicende normative ha con  sicurezza
confermato  la  tradizionale  interpretazione  sul  fatto  di   lieve
entita'. 
    Sin da subito, infatti, la Suprema Corte ha  affermato  come  "in
tema di stupefacenti,  l'avvenuta  trasformazione  della  fattispecie
prevista dall'art. 73, comma quinto,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 9 ottobre 1990,  n.  309,  da  circostanza  attenuante  ad
ipotesi autonoma di reato (...) non ha comportato alcun mutamento nei
caratteri costitutivi del fatto di lieve  entita',  che  continua  ad
essere configurabile nelle  ipotesi  di  minima  offensivita'  penale
della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo  e  quantitativo,
sia dagli  altri  parametri  richiamati  dalla  disposizione  (mezzi,
modalita', circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove  uno
degli indici previsti dalla legge risulti  negativamente  assorbente,
ogni altra Considerazione resta  priva  di  incidenza  sul  giudizio"
(cfr. Cass., 28.01.2014, n. 9892, rv. 2593552 e Cass., 29.01.2014, n.
15020, rv. 259353, relativa, quest'ultima,  a  100  grammi  lordi  di
cocaina con un principio attivo del 21%, corrispondente a 146 dosi  e
in  sentenza  si  afferma  che  questo  quantitativo  "ex  se  appare
all'evidenza" in grado di escludere  il  fatto  lieve).  La  medesima
rigorosa interpretazione e' stata seguita, senza eccezioni  note,  da
tutte  le  numerose   sentenze   successive   (a   titolo   puramente
esemplificativo  Cass.,  19.03.2014,  n.  27064  rv.  259664;  Cass.,
27.03.2015, n. 32695, rv. 264491; Cass., 27.03.2015,  n.  32695,  rv.
264490; Cass., 29.04.2015, n. 23945, rv. 263651;  inoltre  Cassazione
27.01.2015,  n.  15642  rv.  263068  ha  riproposto  il  tradizionale
criterio del numero di dosi "conteggiate a decine"). 
    In conclusione, al caso oggetto di  giudizio  questo  giudice  e'
obbligato ad applicare la pena prevista dal comma 1 dell'art. 73 t.u. 
3. La non manifesta  infondatezza:  il  contrasto  col  principio  di
ragionevolezza-uguaglianza (art. 3 Cost.). 
    Venendo al merito della questione, il tema centrale del possibile
contrasto col principio di ragionevolezza-uguaglianza,  e'  stato  in
gran misura gia'  impostato  nelle  pagine  precedenti.  Occorre  ora
meglio precisare due aspetti, tra  loro  strettamente  correlati:  il
termine di paragone in base al quale  impostare  il  giudizio  ed  il
petitum, ossia il tipo di pronunzia di accoglimento che ci si propone
di ottenere. 
    Al riguardo va, prima di  tutto,  ricordato  come  il  dubbio  di
costituzionalita' investa unicamente il  limite  edittale  minimo  di
pena previsto dal comma  1  dell'art.  73  t.u.,  precisando  che  le
argomentazioni che seguiranno saranno  riferite  essenzialmente  alla
pena detentiva, per  ragioni  di  semplicita'  espositiva  e  perche'
incide direttamente sul bene primario della  liberta'  personale,  ma
possono essere estese, mutatis mutandis, anche alla pena pecuniaria. 
    Si e' gia' diffusamente argomentato come il primo  ed  essenziale
tertium paragonis sia costituito dalla fattispecie di lieve  entita',
benche' sia  evidente  che,  sul  piano  della  previsioni  astratta,
costituisca un reato di minore gravita' per il quale il principio  di
uguaglianza,  prescrivendo  pari  trattamenti  per  casi   uguali   e
trattamenti differenziati per casi diversi, non  solo  giustifica  ma
addirittura impone  un  trattamento  punitivo  minore  rispetto  alla
fattispecie di cui al comma 1 dell'art. 7 t.u., caratterizzata da  un
piu' elevato grado di offesa. 
    Nonostante cio' la possibilita' di  assumere  l'indicato  tertium
paragonis si fonda su due fondamentali rilievi. 
    Il primo, che gia' si e' avuto modo di argomentare, e' che i  due
reati sono in tutto identici riguardo alla condotta punita e  l'unica
differenza  e'  relativa  al  grado  dell'offesa,  cui  si  riferisce
l'elemento del "fatto di lieve entita'". Poiche' grado di offesa  e',
per sua natura, un concetto quantitativo, che esprime la  progressiva
intensificazione della lesione o della messa  in  pericolo  del  bene
giuridico protetto, senza soluzioni di continuita', se la distinzione
tra le due fattispecie e' ancorata solo a questo  elemento,  si  deve
necessariamente assumere una forte  omogeneita',  quanto  a  concreto
contenuto offensivo, tra le condotte piu' gravi  del  fatto  lieve  e
quelle meno gravi del fatto non lieve, ossia delle  condotte  che  si
collocano nelle inevitabili zone di confine tra le due fattispecie. 
    Il secondo e' riconducibile alla particolare declinazione che  il
principio di legalita' delle pene assume con  riferimento  ai  poteri
del giudice. Come si  puo'  desumere  dalla  costante  giurisprudenza
costituzionale, infatti,  l'art.  25,  comma  2  Cost,  "  (...)  non
stabilisce soltanto l'irretroattivita' della norma  penale,  ma  da',
altresi', fondamento  legale  alla  potesta'  punitiva  del  giudice;
eppero' e' altrettanto vero che il principio di legalita' della  pena
non puo' prescindere dalla individuazione di questa,  ossia  dal  suo
adeguamento alle singole fattispecie. E'  perfettamente  conforme  al
disposto costituzionale che la  norma  penale  sia  prefissata  dalla
legge  in  modo  da  consentire  che  la  sanzione  corrisponda  alla
specifica violazione concreta (...); e che la legge rimetta, con  una
certa  ampiezza,  al  giudice  la   valutazione   di   situazioni   e
circostanze, lasciandogli un congruo ambito di  discrezionalita'  per
l'applicazione della pena (...)" (Corte Cost. n. 131 del 1970, par. 2
del considerando in diritto). Insomma,  come  pure  efficacemente  e'
stato precisato, il principio  di  legalita'  delle  pene  "esige  la
differenziazione piu' che l'uniformita'" (cfi.. Corte  costituzionale
n. 50 del 1980, par. 3  del  considerando  in  diritto,  in  tema  di
tendenziale contrasto alla Costituzione delle pene fisse) e cio'  per
adeguare  la  pena  concreta   ad   altri   principi   costituzionali
fondamentali,  quali  il  principio  di  uguaglianza,  di  necessaria
offensivita', della personalita' della responsabilita' penale nonche'
del finalismo rieducativo della pena. 
    Il sistema delineato dalla Costituzione riguardo  al  trattamento
punitivo per condotte penalmente rilevanti e', dunque,  impostato  su
un delicato bilanciamento tra esigenze  di  certezza  della  pena  ed
esigenze di individualizzazione, rispettivamente salvaguardate  dalla
previsione legale dei limiti massimi  e  minimi  della  pena  e,  nel
contempo, dal riconoscimento di appropriati spazi di discrezionalita'
per il giudice chiamato, nella determinazione della pena in concreto,
ad adeguarla al concreto contenuto offensivo del fatto  commesso,  in
modo   da   assicurarne   la   proporzionalita'   alla    "personale"
responsabilita' ed il finalismo rieducativo, non  realizzabile  senza
un'attenta considerazione della specificita' del caso concreto. 
    Il combinarsi dei due rilievi appena  evidenziati  -  particolare
rapporto tra le due fattispecie prese in considerazione  (distinzione
solo per il gado dell'offesa) e necessaria individualizzazione  della
pena al caso concreto ad opera del  giudice  -  rende  evidente  come
nella specie non possano essere presi a confronto i  limiti  edittali
omogenei delle due fattispecie e cio' per l'ovvia considerazione  che
si riferiscono a classi di casi concreti nettamente diversi, quando a
contenuto offensivo. I casi di minore gravita'  del  reato  minore  e
maggiore esprimono un contenuto offensivo nettamente differenziato ed
e', pertanto, ovvio che i due limiti edittali minimi  siano  diversi.
Lo stesso dicasi per casi di maggiore gravita'.  Non  avrebbe  quindi
senso porre a raffronto i limiti edittali minimi (o massimi) previsti
tra le due fattispecie. 
    Invece, come gia' si e' avuto modo di  argomentare  diffusamente,
le classi di casi che presentano una forte omogeneita'  di  contenuto
offensivo che, come tali, consentono  un  giudizio  comparativo  alla
stregua del principio di uguaglianza-ragionevolezza, sono  quelle  di
maggiore gravita' del reato minore, da un lato, e  quelle  di  minore
gravita' del reato maggiore, dall'altro, ai  quali  sono  dedicati  i
limiti edittali massimo e minimo rispettivamente del reato  minore  e
del reato maggiore. 
    Dunque il confronto deve essere tra  le  grandezze  espresse  dal
massimo edittale per il fatto di lieve entita' ed il minimo  edittale
per il reato maggiore ed e' proprio  l'abnorme  distanza  tra  queste
grandezze che impedisce in concreto al giudice di svolgere il proprio
ruolo,  di  adeguare  al  caso  concreto  la  pena,  imponendo  gravi
sperequazioni punitive. 
    Vale la pena solo di sottolineare come la sostanziale  violazione
del principio di uguaglianza sia predicabile non  solo  perche'  sono
imposti trattamenti diversi per fatti uguali ma  anche  perche'  sono
imposti trattamenti uguali per fatti diversi. 
    Si verifica il primo e' piu' grave profilo ponendo  in  confronto
le classi di casi concreti che si  pongono  immediatamente  prima  ed
immediatamente dopo il confine tra le due fattispecie in progressione
di tipicita' tra  loro,  punite  con  pene  concrete  necessariamente
diversissime tra loro, non solo a livello puramente  quantitativo  ma
anche, come pure gia' si e' ampiamente argomentato, per il fatto  che
la punizione avviene generalmente in un caso al di fuori dal circuito
carcerario e, nell'altro, necessariamente  all'interno  del  medesimo
circuito. 
    Si  verifica,   invece,   il   secondo   profilo   prendendo   in
considerazione fatti tutti riconducibili al  reato  maggiore,  ma  di
concreto contenuto offensivo fra loro molto diversificati, perche' e'
un dato di comune esperienza che limiti edittali minimi troppo severi
finiscano inevitabilmente con l'essere costantemente  applicati  alla
maggioranza dei casi riconducibili al  tipo.  La  prassi  applicativa
proprio in materia di stupefacenti dimostra, infatti,  come  la  pena
minima  di  anni  8  di  reclusione  viene  in   concreto   applicata
costantemente a condotte aventi  ad  oggetto  quantitativi  lordi  di
stupefacente corrispondenti non solo a poche decine di grammi,  ossia
a casi, come quello in esame, che legittimamente sono collocabili  ai
limiti inferiore di gravita' del tipo, ma anche a  svariati  etti  e,
persino, a chilogrammi, ossia a casi che in  presenza  di  un  limite
edittale minimo piu' ragionevole, non potrebbero aspirare  ad  essere
puniti col minimo edittale. In buona sostanza questo eccessivo limite
edittale minimo di pena finisce  di  fatto  col  costituire,  se  non
proprio una pena fissa, comunque un automatismo sanzionatorio. Ed  e'
noto  come   la   giurisprudenza   costituzionale   stigmatizza   gli
automatismi  sanzionatori  proprio  per  la  chiara  violazione   dei
principi di uguaglianza-ragionevolezza,  di  proporzionalita'  e  del
finalismo rieducativo della pena (cfr. Corte Cost., n. 183 del  2011,
in tema di limiti al riconoscimento  delle  attenuanti  generiche  al
recidivo reiterato; Corte Cost. n. 251 del 2012, n.  105  e  106  del
2014, in tema di divieto di prevalenza dell'attenuante del  fatto  di
lieve entita', prevista nei reati  in  materia  di  stupefaCenti,  di
ricettazione e di violenza sessuale sulla recidiva  reiterata  e,  da
ultimo,  Corte  Cost.  n.  185  del  2015,  in   tema   di   recidiva
obbligatoria). 
    L'ampio potere discrezionale in astratto riconosciuto al  giudice
(nella specie, per la pena detentiva, da 8 a 20 anni di  reclusione),
rischia di essere di pura facciata se  il  limite  minimo  appare  in
tutta evidenza sproporzionato in eccesso per un  notevole  numero  di
casi riconducibili al tipo perche', a questo punto, il giudice  sara'
inevitabilmente indotto ad applicarlo costantemente se non proprio  a
tutti comunque ad una amplissima classe di casi  concreti,  tra  loro
molto diversi quanto a concreto contenuto offensivo. 
    L'assoluta  irragionevolezza   di   questa   disciplina   si   e'
addirittura aggravata  con  la  trasformazione  del  fatto  di  lieve
entita' da circostanza attenuante a reato autonomo, perche' la natura
circostanziale consentiva di riferire, in astratto, la pena  prevista
nel primo comma anche ai fatti di lieve entita', mentre ora alle  due
autonome fattispecie corrispondono distinti limiti edittali di  pena,
tra loro indipendenti. 
    L'idea di porre a confronto il limite edittale massimo del  reato
minore col limite edittale minimo del  reato  maggiore  puo'  trovare
sostegno nel rilievo  che  e'  possibile  predicare  un  rapporto  di
omogeneita' tra due norme solo in funzione del trattamento di cui  si
discute,  non  invece  in  termini  assoluti  e  una  tantum.  E'  il
trattamento di cui si discute che consente  di  guidare  l'interprete
nella selezione degli elementi che necessitano di  essere  comparati.
Nella   specie,   se   il   problema    di    trattamento    consiste
nell'impossibilita'  per  il   giudice   di   individuare   la   pena
proporzionata in concreto nel passaggio tra i casi di  lieve  entita'
ed i casi non di lieve entita', ma comunque  collocabili  nei  limiti
inferiori del reato maggiore, sono proprio i limiti edittali di  pena
massimi e minimi  delle  due  fattispecie  a  dover  essere  messi  a
raffronto. 
    Gli  stessi  precedenti   della   giurisprudenza   costituzionale
confortano la possibilita' di porre a confronto norme e  fattispecie,
a fini specifici, pur presentando ad altri  fini  forti  elementi  di
eterogeneita'. 
    Cosi' riguardo al precedente che ha riconosciuto l'illegittimita'
della  pena  minima  prevista  originariamente  per  l'oltraggio,  il
confronto col delitto di ingiuria  e'  stato  ammesso  nonostante  la
premessa per la quale "la plurioffensivita' del  reato  di  oltraggio
rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu'  grave
di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di  un
interesse che  supera  quello  della  persona  fisica  e  investe  il
prestigio  e  quindi  il  buon  andamento  della  p.a."  (cfr.  Corte
costituzionale n. 341 del 1994, par. 3 del considerando in  diritto).
Da questa premessa  la  Corte  non  trae  senz'altro  la  conseguenza
dell'eterogeneita' dei termini posti a raffronto  ma,  al  contrario,
dal rilievo che "nei  casi  piu'  lievi,  il  prestigio  ed  il  buon
andamento della p.a., scalfiti da ben altri  comportamenti,  appaiono
colpiti in modo cosi' irrisorio  da  non  giustificare  che  la  pena
minima debba necessariamente  essere  12  volte  superiore  a  quella
prevista per il reato di ingiuria", giunge alla  conclusione  secondo
la quale il limite minimo di pena si pone in contrasto con gli  artt.
3 e 27, comma 3 Cost. e deve, percio', essere sostituito  col  limite
di giorni 15 fissato in via generale dall'art.  23  c.p.  "senza  con
cio' effettuare alcuna opzione invasiva  della  discrezionalita'  del
legislatore, il quale peraltro resta  libero  di  stabilire,  per  il
reato  medesimo,  un  diverso  trattamento   sanzionatorio,   purche'
ragionevole (...)". 
    Questa argomentazione e'  molto  interessante  ai  presenti  fini
perche', se non ci  si  inganna,  il  termine  di  paragone  e  stato
impostato non tanto tra fattispecie astratte,  che  anzi  sono  state
riconosciute come  eterogenee,  quanto  a  classi  di  casi  concreti
riconducibili al tipo, nel senso cioe' di affermare che  i  fatti  di
minore  gravita'  ricondotti   all'oltraggio   sono   sostanzialmente
equivalenti, quanto a  concreto  contenuto  offensivo,  ai  fatti  di
ingiuria, perche' non incidono in realta', a differenza degli  altri,
sul bene del prestigio della p.a. Cio' spiega anche  la  ragione  del
ricorso al limite minimo edittale previsto in via generale  dall'art.
23 del codice penale per eliminare la ravvisata  incostituzionalita',
certamente fruibile nella specie  perche'  il  termine  di  raffronto
rappresentato dall'art. 594 c.p,  non  prevede  un  espresso  diverso
limite edittale, ma va comunque sottolineato come la Corte non  abbia
proceduto ad una completa assimilazione tra le due  fattispecie,  non
avendo esteso ne' la pena alternativa prevista  per  l'ingiuria  ne',
tantomeno, il regime  di  procedibilita'  a  querela  di  parte.  Va,
inoltre,  osservato  come  il  rilievo  finale  sulla  liberta'   del
legislatore  di  prevedere  una  diversa  disciplina  abbia   trovato
positivo riscontro, perche' con legge n. 205 del 1999 si e  proceduto
all'abrogazione della fattispecie di oltraggio e con legge n. 94  del
2009 si e' introdotto nuovamente l'oltraggio,  ma  con  significative
differenze rispetto alla tradizione, in particolare prevedendo  quali
nuovi elementi costitutivi il luogo pubblico o aperto al  pubblico  e
la presenza di piu'  persone  ed  e'  stata  prevista  una  pena  (la
reclusione  sino  a  3  anni)   nettamente   differenziata   rispetto
all'ingiuria. Con cio' si vuole evidenziare come  l'intervento  della
Corte non fosse  affatto  obbligato,  sul  piano  costituzionale,  in
termini assoluti ma solo in termini relativi,  in  riferimento  cioe'
alla concreta disciplina e al contesto normativo allora vigente. 
    Utili indicazioni vengono  anche  dal  piu'  recente  precedente,
relativo al sequestro a scopo di estorsione (Corte Cost.  n.  68  del
2012). Infatti, anche in quella occasione il  confronto  tra  le  due
fattispecie - sequestro a scopo di estorsione e sequestro a scopo  di
terrorismo - viene ammesso nonostante la  netta  differenza  di  beni
giuridici protetti, riflessa nel contenuto del dolo specifico; da  un
lato il patrimonio e dall'altro l'ordine costituzionale. Non solo, ma
questa  differenza  non  solo  non  e'  ritenuta  preclusiva  per  la
comparazione "ma  rafforza,  anzi,  il  giudizio  di  violazione  dei
principi di uguaglianza e di  ragionevolezza",  dal  momento  che  la
sicura preminenza dell'ordine costituzionale rispetto al  patrimonio,
se giustifica "uno statuto in generale piu' severo  (...)  rende,  di
contro, manifestamente irrazionale -  e  dunque  lesiva  dell'art.  3
Cost. - la mancata previsione, in rapporto al sequestro  a  scopo  di
estorsione, di un'attenuante per i fatti di lieve entita', analoga  a
quella applicabile alla fattispecie gemella  che,  coeteris  paribus,
aggredisce l'interesse di  rango  piu'  elevato"  (cfr.  par.  5  del
considerando in diritto). 
    L'omogeneita'  dei  termini  posti  a  raffronto  viene   inoltre
meticolosamente argomentata in rapporto ad una serie di indici, quali
la matrice storica, la struttura delle  fattispecie,  il  trattamento
sanzionatorio, la previsione di identiche aggravanti  ed  attenuanti,
la medesima disciplina sul concorso eterogeneo delle circostanze. Non
solo, ma la Corte legittima il confronto anche  su  due  fondamentali
rilievi: da un lato che il trattamento sanzionatorio "di  eccezionale
asprezza" era stato previsto dalla legislazione emergenziale di  fine
anni '70,  al  fine  di  contenere  lo  straordinario  incremento  di
sequestri a scopo di estorsione, operati da pericolose organizzazioni
criminali  con  efferate  modalita'  esecutive;  dall'altro  che   la
descrizione del fatto incriminato dall'art. 630 del codice penale  si
presta a far ritenere compresi nel tipo "anche  episodi  marcatamente
dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto
a quelli avuti di  mira  dal  legislatore  dell'emergenza",  i  quali
"hanno finito, di fatto, per assumere un peso di  tutto  rilievo,  se
non pure preponderante, nella piu' recente  casistica  dei  sequestri
estorsivi", come  "i  sequestri  attuati  al  fine  di  ottenere  una
prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto
di natura illecita con la vittima" (cfr. par. 3 del  considerando  in
diritto).  Insomma,  anche  in  questo  caso,  l'irragionevolezza   e
sproporzione della pena (minima) viene argomentata non in astratto ma
con specifico riferimento a classi di casi concreti riconducibili  al
tipo, espressivi di un disvalore diverso e minore, rispetto  ai  casi
tenuti  presenti  in  astratto  dal  legislatore   nel   fissare   il
trattamento punitivo. 
    Infine,   vanno   citati   due   ulteriori   recenti   precedenti
particolarmente significativi per  dimostrare  come  l'omogeneita'  o
diversita' di trattamento  ben  possa  essere  impostata  in  termini
diversi rispetto  al  tradizionale  confronto  di  compassi  edittali
previsti per le due fattispecie poste a raffronto. 
    Nel primo, infatti,  il  confronto  attiene  non  al  trattamento
sanzionatorio ma all'area del penalmente rilevante in relazione  alla
previsione  di  diverse  soglie  di   punibilita'.   Nel   dichiarare
l'incostituzionalita' dell'art. 10-ter, decreto legislativo n. 74 del
2000, nella parte in cui, per i fatti commessi sino al  17  settembre
2011, punisce l'omesso versamento dell'imposta sul  valore  aggiunto,
dovuta in base  alla  relativa  dichiarazione  annuale,  per  importi
superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro  50.000,00,  Corte
costituzionale n. 80 del 2014 reputa irragionevole che per  il  reato
meno grave sia prevista una soglia  di  punibilita'  minore  rispetto
alle piu' gravi  fattispecie,  assunte  corne  termine  di  paragone,
rappresentate   dalla   dichiarazione   infedele   o   dalla   omessa
dichiarazione  (articoli  4  e  5,  decreto  legislativo  cit.,   che
prevedevano soglie di punibilita' rispettivamente di euro 77.468,53 e
di euro 103.291,38). Per  eliminare  il  vizio  di  costituzionalita'
procede ad allineare la soglia di punibilita' "alla piu' alta fra  le
soglie di punibilita' delle violazioni  in  rapporto  alle  quali  si
manifesta l'irragionevole disparita' di trattamento:  quella,  cioe',
della dichiarazione infedele (euro 103.291,38)". In tal caso,  a  ben
vedere, il confronto non e' tra norme penali ma  tra  la  fattispecie
sanzionata penalmente dell'omesso versamento dell'IVA  e  fattispecie
sanzionate  solo  amministrativamente   di   omessa   e   fraudolenta
dichiarazione (nel  caso  la  condotta  superi  la  prima  soglia  di
punibilita' ma non le altre due). 
    In Corte  costituzionale  n.  143  del  2014,  il  confronto  tra
incendio colposo (art. 449 c.p.) ed incendio doloso (art.  423  c.p.)
viene impostato per  censurare  il  maggiore  termine  prescrizionale
previsto per il primo  reato  (12  anni  per  effetto  del  raddoppio
previsto dall'art. 157, comma 6, c.p.) rispetto al secondo (7  anni).
Dopo aver ricordato come il legislatore  puo'  certamente  introdurre
deroghe alla regola generale di  computo  della  prescrizione  "sulla
base di valutazioni correlate alle specifiche  caratteristiche  degli
illeciti considerati", in specie per il particolare  allarme  sociale
generato da alcuni reati ovvero per la  speciale  complessita'  delle
indagini richieste per il loro accertamento, la Corte evidenzia pero'
come le due fattispecie poste  a  raffronto  non  si  distinguano  in
rapporto  al  bene  protetto  o  alle  modalita'  di  aggressione  ma
unicamente per la componente  psicologica.  Cio'  rende  illogico  il
differente trattamento previsto, con un termine  prescrizionale  piu'
lungo per la fattispecie meno  grave,  non  giustificato  ne'  da  un
maggiore allarme sociale connesso al reato ne' da  considerazioni  di
ordine probatorio, con conseguente violazione dell'art.  3  Cost.  Il
vizio viene emendato eliminando la norma che prevede il raddoppio del
termine di prescrizione (art. 157,  comma  6  c.p.)  con  conseguente
applicazione della disciplina generale (anni 6)  e,  pertanto,  senza
estendere il termine previsto per la fattispecie assunta come termine
di raffronto (anni 7). 
    Va, inoltre,  sottolineato  come,  a  ben  vedere,  la  manifesta
irragionevolezza del trattamento punitivo del reato di cui al comma 1
dell'art. 73 testo unico emerge, in tutta la sua evidenza, anche  dal
confronto con la disciplina prevista per i reati  aventi  ad  oggetto
droghe c.d. leggere, da assumere come autonomo tertium paragonis.  In
tal caso, cioe', il confronto corre tra due  coppie  affini,  se  non
sostanzialmente identiche, di fatti lievi e non lievi, quelli  aventi
ad oggetto droghe pesanti (dunque colmi 1 e 5 dell'art.  73  cit.)  e
quelli aventi ad oggetto droghe leggere (commi 4 e 5), in entrambi  i
casi  caratterizzate  da  una   progressione   senza   soluzioni   di
continuita' dell'offesa (dal fatto lieve al  fatto  non  lieve),  dal
momento che le note di tipicita' e strutturali dei reati  restano  le
stesse, a prescindere dal fatto che oggetto materiale della  condotta
sia una droga pesante o una droga leggera. 
    Ebbene non si capisce davvero per quale  ragione  il  legislatore
abbia tratto la dovuta conseguenza da questa comune premessa  per  le
droghe leggere, prevedendo limiti di pena addirittura in larga misura
sovrapposti per le due ipotesi, cosi assicurando il pieno potere  del
giudice di adeguare la pena al caso  concreto,  anche  a  prescindere
dalla formale qualificazione in termini  di  fatto  lieve  ed  abbia,
invece, previsto uno iato addirittura di 4 anni, tale  cioe'  da  non
poter essere colmato  neppure  con  l'esercizio  massimo  del  potere
discrezionale riconosciuto al  giudice  (mediante  il  riconoscimento
delle circostanze  attenuanti  generiche),  per  le  droghe  pesanti.
Inoltre,  va  pure  considerato  che  la  tipologia  della   sostanza
stupefacente nei reati di cui ai commi 1 e 4 dell'art.  73  t.u.,  e'
ritenuta idonea  a  giustificare,  evidentemente  sulla  base  di  un
giudizio da parte del  legislatore  di  una  notevole  differenza  di
disvalore della  condotta,  una  rilevantissima  modificazione  della
cornice edittale, tale per cui da un minimo di anni 2  di  reclusione
si passa ad un minimo di anni 8 di reclusione e da un massimo di anni
6 di reclusione si passa ad un massimo  di  anni  20  di  reclusione,
sicche' resta davvero difficile comprendere come il medesimo elemento
sia ritenuto del tutto irrilevante per i fatti di lieve entita'. 
    Una simile asimmetria di trattamento tra reati aventi ad  oggetto
droghe pesanti e droghe leggere, nei reciproci rapporti col fatto  di
lieve entita', sembra proprio tracimare nel puro arbitrio legislativo
ed  integrare  quella  manifesta  irragionevolezza  che  comporta  la
violazione  del  principio  di  uguaglianza,  secondo   la   costante
giurisprudenza costituzionale. 
    Il merito della questione proposta coinvolge, dunque, soprattutto
un rapporto tra norme: in prima battuta il rapporto  tra  comma  1  e
comma 5  dell'art.  73  t.u.;  in  seconda  battuta  anche  l'omologo
rapporto tra comma 4 e comma 5 ed in tal caso il  confronto  si  pone
tra le diverse discipline previste tra reato minore e reato  maggiore
a seconda che la condotta abbia  ad  oggetto  droghe  pesanti  ovvero
droghe leggere. 
    Cio' consente anche di individuare  la  possibile  via  d'uscita,
ossia il preciso petitum richiesto alla Corte costituzionale. 
    In astratto il problema potrebbe essere risolto anche  innalzando
il limite edittale massimo per il  reato  minore  avente  ad  oggetto
droghe pesanti, cosi' ripristinando la distinzione tra  tipologie  di
stupefacenti anche per i fatti di lieve entita'. 
    Ma,  a  parte   il   rilievo   che   l'eventuale   questione   di
costituzionalita' del comma 5 non sarebbe rilevante in  questa  sede,
dovendo questo giudice applicare il comma 1, un simile intervento  e'
certamente riservato  al  solo  legislatore,  dal  momento  che  sono
esclusi interventi additivi in malam partem  ad  opera  della  stessa
Corte costituzionale. 
    L'unica possibilita' per porre  rimedio  a  questa  intollerabile
asimmetria di trattamento  punitivo  e'  quella  di  "agganciare"  il
minimo edittale per i fatti di cui al comma 1 dell'art.  73  cit.  al
massimo edittale previsto per i fatti di lieve  entita',  ossia  alla
pena prevista dallo gesso legislatore per la classe di fatti concreti
omogenea, quanto a contenuto offensivo. 
    L'intervento  richiesto,  pertanto,  e'   la   dichiarazione   di
incostituzionalita' dell'art. 73, comrna 1 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 309 del 1990 nella parte in cui prevede  la  pena
edittale minima di anni 8 di reclusione  ed  €  25.822,00  di  multa,
anziche' quella di anni 4 di reclusione ed € 10.329,00 di multa. 
    Alternative plausibili non sembra sussistano. 
    Impraticabile, in particolare, appare nella specie il riferimento
ai limiti minimi previsti in via generale  dagli  articoli  23  e  24
Cost., ai  quali  pure  la  giurisprudenza  costituzionale  ha  fatto
talvolta riferimento e cio' per un concorrente ordine di ragioni.  Il
precedente dell'oltraggio (Corte Cost. n. 341 del 1994)  sarebbe  qui
mal invocato, perche' in quel caso, come  si  e'  visto,  il  ricorso
all'art.  23  del  codice   penale   per   superare   il   vizio   di
costituzionalita' era reso possibile dalla circostanza che il termine
di  paragone,  rappresentato  dall'ingiuria,  prevedesse   una   pena
detentiva senza espresso limite  edittale  minimo  e,  pertanto,  con
applicazione appunto del limite generale. Nel caso di specie, invece,
non solo manca un termine di  paragone  analogo,  ma  il  termine  di
paragone individuato, rappresentato dal  comma  5  dell'art.  73  del
testo unico prevede un limite edittale minimo (6 mesi  di  reclusione
per la pena detentiva) decisamente maggiore. Ne deriva che una simile
soluzione e' chiaramente  impraticabile  perche'  rischia  di  creare
maggiori problemi di costituzionalita'  di  quanti  non  ne  risolva.
Infatti, si avrebbe, da un lato, un reato di maggiore  gravita',  con
un limite minimo di soli giorni 15  di  reclusione  superiore  di  12
volte rispetto q quello previsto  per  il  reato  minore,  in  chiara
violazione dell'art. 3 Cost.  e,  dall'altro,  lo  stesso  amplissimo
compasso edittale da 15 giorni a 20 anni di reclusione si porrebbe in
insanabile  contrasto  col  principio  di   legalita'   delle   pene,
risolvendosi nella sostanza in una sorte di delega in bianco concessa
al  giudice,   degradando   il   suo   potere   discrezionale   nella
commisurazione della pena al caso concreto, in puro arbitrio. 
    La  stessa  giurisprudenza  costituzionale  ha  sottolineato  con
forza, da un lato, l'impossibilita' di adottare i limiti generali  di
pena come rimedio di sperequazioni punitive, in assenza di un  idoneo
termine di paragone (cfr. Corte costituzionale n. 22 del 2007 e n. 81
del 2014) e, dall'altro, l'incostituzionalita' di  compassi  edittali
troppo divaricati (cfr. Corte costituzionale n. 299 del 1992). 
3.1 (segue): il contrasto col principio  di  proporzione  delle  pene
(art. 27, comma 3 Cost.). 
    Ulteriore profilo di  contrasto  alla  Costituzione  che  occorre
evidenziare attiene al principio di proporzionalita'. 
    In termini generali l'indicato principio  esprime  un  canone  di
razionalita' minima, di coerenza  tra  norme  secondo  il  quale  "la
scelta dei mezzi o strumenti, da parte dello Stato, per raggiungere i
propri fini va  limitata  da  considerazione  razionali  rispetto  ai
valori" (cosi' Corte Cost. n. 409  del  1989)  e  vale  per  l'intero
diritto pubblico. In ambito penale il principio  di  proporzionalita'
esprime l'esigenza che sussista un rapporto forte  tra  gravita'  del
fatto tipico punito  e  pena  prevista,  negando  "legittimita'  alle
incriminazioni che, anche se  presumibilmente  idonee  a  raggiungere
finalita' statuali di prevenzione,  producono,  attraverso  la  pena,
danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed  alla  societa'
sproporzionalmente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere)  da
quest'ultima con la tutela dei beni e valori  offesi  dalle  predette
incriminazioni" (ancora Corte Cost., n.  409  del  1989).  Ancora  in
termini generali la  circostanza  che  la  pena  pregiudica  il  bene
primario  della  liberta'  del  singolo  (art.  13  Cost.)   dovrebbe
conferire al principio una forza  in  ambito  penale  particolarmente
stringente. 
    Sennonche' il mancato espresso riconoscimento in Costituzione, ha
reso  necessario  riferirsi  ad  altri  principi  costituzionali,  in
stretto rapporto tra loro, quali il  principio  di  offensivita',  il
principio uguaglianza-ragionevolezza e, da ultimo, il  principio  del
necessario finalismo rieducativo di cui all'art. 27, comma 3 Cost. 
    In  particolare,  la  necessaria  funzione  rieducativa   risulta
impossibile  se  la   pena   sproporzionata   in   eccesso,   essendo
necessariamente percepita dal destinatario come ingiusta e vessatoria
e pregiudicando quindi quel necessario processo di rielaborazione che
costituisce la premessa di ogni seria rieducazione,  stimolando  anzi
sentimenti di ribellione ed ostilita'. Da questo punto di  vista  una
pena  sproporzionata  in  eccesso  configura  un  mezzo   del   tutto
inadeguato    rispetto    al    fine    specialpreventivo,    imposto
costituzionalmente. D'altra parte, costituisce  opinione  comune  che
una minima proporzione tra gravita' oggettiva del reato ed intensita'
della colpevolezza, da un lato e pena, dall'altro,  appare  requisito
imprescindibile anche sui distinti piani funzionali della prevenzione
generale e della retribuzione. 
    Viceversa,   lo   stretto   collegamento   col    principio    di
ragionevolezza-uguaglianza ha comportato che la giustiziabilita'  del
principio  di  proporzione  sia   stata   in   concreto   subordinata
dall'individuazione  di  un  idoneo  termine  di  paragone,   essendo
altrimenti  precluso   l'intervento   della   Corte   costituzionale,
principalmente a causa del limite rappresentato dal  principio  della
riserva di legge. In questa prospettiva vanno qui  richiamate,  sotto
l'angolo visuale del rispetto del principio di proporzionalita' della
pena, tutte le argomentazioni gia' sopra spese in ordine al principio
di ragionevolezza-uguaglianza. 
    Va ora piuttosto evidenziato come la violazione del principio  di
proporzionalita' della pena si manifesti in termini  macroscopici  in
via assoluta, anche prescindendo dal confronto con la fattispecie del
fatto di lieve entita' ovvero con la disciplina degli omologhi  reati
aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, ossia con le  fattispecie  che
si e' ritenuto possano assurgere ad idonei termini di  confronto.  In
questa prospettiva la pena prevista dall'art. 73, comma l testo unico
e, in particolare,  il  limite  edittale  minimo,  si  appalesa  come
intimamente irrazionale, perche' fortemente contraddittoria  rispetto
al contesto normativo nella quale quella pena si inserisce. 
    Come e' noto la misura della gravita' di un reato  va  apprezzata
sulla base essenzialmente di tre criteri, rappresentati dal rango del
bene  giuridico  tutelato,   dalle   modalita'   di   aggressione   e
dall'intensita' della colpevolezza. 
    E' altresi' noto come i reati in materia  di  stupefacenti  siano
tradizionalmente ricondotti ad una  matrice  plurioffensiva,  fondata
sui  beni  della  salute  pubblica,  dell'ordine  pubblico  e   della
sicurezza collettiva (nella giurisprudenza costituzionale, cfr. Corte
costituzionale n. 333 del 1991, n. 360 del 1995 e n. 296  del  1996).
Non vi e' dubbio che il  bene  primario  della  salute  pubblica  sia
pregiudicato in modo particolare dalle droghe  c.d.  pesanti  e,  tra
esse,  dagli   oppiacei   che,   secondo   le   comuni   acquisizioni
scientifiche, sono in grado di instaurare gravi stati di  dipendenza,
implicano sempre danni clinici e possono persino rivelarsi letali  in
caso di overdose. Anche i  beni,  tra  loro  strettamente  collegati,
dell'ordine pubblico e della sicurezza collettiva sono  pregiudicati,
considerando gli effetti criminogeni indotti dalla  tossicodipendenza
ed il  coinvolgimento  di  pericolose  organizzazioni  criminali  nel
traffico di stupefacenti. 
    Sul  piano  delle  modalita'  di   aggressione   e'   altrettanto
tradizionale la configurazione dei reati in materia  di  stupefacenti
come reati di pericolo astratto e/o  presunto,  non  essendo  affatto
necessaria per l'integrazione del reato ne' l'effettiva  lesione  dei
beni giuridici protetti ne' la dimostrazione di un pericolo concreto. 
    Infine, sul piano della colpevolezza, si tratta di reati punibili
a titolo di dolo generico. 
    Ebbene  se  quelle  sopra  sinteticamente  analizzate   sono   le
coordinate essenziali per misurare  la  gravita'  del  reato  di  cui
all'art. 73, comma 1 cit., non puo' non balzare agli occhi l'evidente
sproporzione delle pene previste rispetto a vari reati  previsti  nel
codice penale. 
    Considerando il bene salute, la natura di reato di  pericolo  non
e' stata minimamente tenuta in  considerazione  dal  legislatore  nel
prevedere i rigorosissimi limiti edittali e in particolare il  limite
minimo di 8 anni, quasi tre volte superiore a quello previsto per  le
lesioni  gravi  (3  anni  di  reclusione,  cfr.  art.  583  c.p.)  e,
addirittura superiore al limite massimo (7 anni di  reclusione).  Non
solo, ma persino il tentato omicidio, punito con la pena da  7  a  14
anni di reclusione (cfr. articoli 56 e 575 c.p.) e' considerato  meno
grave. 
    Considerando  il  bene  dell'ordine  pubblico  il  confronto  coi
delitti di cui al Titolo V del codice, benche' siano in prevalenza di
pericolo concreto, secondo l'interpretazione  prevalente  sono  tutti
sensibilmente meno gravi. L'unica fattispecie che contempla lo stesso
minimo edittale e' quella di  devastazione  o  saccheggio  (art.  419
c.p.), punita tuttavia con una pena  massima,  pari  ad  anni  15  di
reclusione, sensibilmente inferiore. 
    Considerando che tutti i reati considerati sono dolosi neppure il
criterio della colpevolezza appare in grado  di  giustificare  simili
sperequazioni punitive. D'altra parte la notevolissima distanza delle
pene previste rispetto a reati certamente piu' gravi (come il tentato
omicidio) non sembra possa essere controbilanciata  unicamente  dalla
dimensione plurioffensiva del reato considerato. 
    Vale solo la pena di aggiungere che benche' la gravita' del reato
sia generalmente connessa  col  limite  massimo,  assume  in  realta'
rilievo preminente, ai presenti fini, il limite minimo. Da  un  lato,
infatti, la presente questione prende le mosse da fatti concreti  che
si pongono ai limiti inferiori di gravita' del tipo e, dall'altro,  a
ben guardare e' il limite minimo che costituisce l'autentico criterio
vincolante  per  il  giudice  nella  determinazione  della  pena   in
concreto. 
3.1.1. (segue): il contrasto col  principio  formale  di  proporzione
delle pene (articoli 11 e 117 Cost. in rapporto all'art.  49  par.  3
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). 
    La violazione del principio di proporzione delle pene puo' essere
invocato anche attraverso il diverso  parametro  rappresentato  dagli
artt. 11 e 117 Cost., essendo riconosciuto in modo espresso dall'art.
49, par. 3 della Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea
(di seguito CDFUE). La norma in questione, sotto la rubrica  Principi
di  legalita'  e   della   proporzionalita'   delle   pene",   recita
testualmente "le  pene  inflitte  non  devono  essere  sproporzionate
rispetto al reato". 
    Al riguardo merita di essere evidenziato il riferimento alle pene
"inflitte"  piuttosto  che  alle  pene  previste   dalla   legge,   a
dimostrazione che, il diritto europeo sembra prestare attenzione alle
concrete violazioni dei diritti fondamentali dei condannati piuttosto
che alla coerenza astratta delle norme di legge.  Questa  indicazione
impone, ancora una volta, di prestare attenzione, nel nostro  sistema
di determinazione della pena,  al  limite  edittale  minimo,  essendo
questo limite a condizionare, in via vincolata  per  il  giudice,  le
pene in concreto irrogate. 
    L'ammissibilita' della questione di  legittimita'  costituzionale
impone la  dimostrazione,  da  un  lato,  dell'operativita'  e  della
vincolativita' per lo Stato della norma europea al caso di specie  e,
dall'altro,  la  non   applicabilita'   diretta,   con   obbligo   di
disapplicazione della norma interna eventualmente contrastante. 
    Sotto il primo profilo, premesso che la CDFUE, a norma  dell'art.
51 non introduce competenze nuove  rispetto  a  quelle  previste  dai
Trattati,  deve  pero'  osservarsi  come  il  traffico  illecito   di
stupefacenti (insieme al terrorismo, alla tratta degli essere  umani,
allo sfruttamento sessuale delle donne  e  dei  minori,  al  traffico
illecito delle armi, al riciclaggio di denaro, alla corruzione,  alla
contraffazione di mezzi di pagamento, alla criminalita' informatica e
alla criminalita' organizzata) appartenga espressamente all'ambito di
applicazione del diritto dell'Unione, per  il  quale  "il  Parlamento
europeo ed il Consiglio, deliberando mediante  direttive  secondo  la
procedura  legislativa  ordinaria,  possono  stabilire  norme  minime
relative alla definizione dei reati e  delle  sanzioni  in  sfere  di
criminalita' particolarmente  gravi  che  presentano  una  dimensione
transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni  di  tali
reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni",
a norma dell'art. 83, par. 1 del Trattato UE. Si tratta  cioe'  delle
materie del c.d. ex Terzo  pilastro  secondo  la  disciplina  vigente
prima del Trattato di Lisbona, per le quali lo strumento normativo di
uniformazione era la decisione quadro. Ebbene l'Unione ha in concreto
legiferato sul punto  mediante  la  decisione  quadro,  gia'  citata,
2004/757/GA1 e cio' e' quanto basta per ritenere applicabile al  caso
di specie il diritto dell'Unione e, in particolare, l'art. 49, par. 3
della CDFUE. 
    Sotto il secondo profilo, e' noto che le norme della CDFUE  hanno
lo stesso valore giuridico delle  norme  dei  Trattati  e,  pertanto,
trattandosi di diritto primario  dell'Unione,  in  linea  teorica  si
potrebbe porre la questione della loro applicazione diretta da  parte
del giudice comune, con conseguente obbligo di disapplicazione  delle
norme  interne  ritenute  con  esse   incompatibili   e   conseguente
inammissibilita'  della  questione  di  legittimita'   costituzionale
proposta ai sensi degli articoli 11 e 117 Cost. 
    A  ben  vedere,  tuttavia,   si   tratta   di   una   prospettiva
impraticabile con riferimento all'art. 49, par. 3 CDFUE,  trattandosi
di norma strutturata a livello di norma di principio  costituzionale,
insuscettibile di applicazione diretta per la semplice considerazione
che non indica con precisione quale sia la pena proporzionata al caso
da decidere, in luogo di quella in  ipotesi  sproporzionata  prevista
dal diritto interno: Se il principio di riserva di legge  in  materia
penale vincola  la  Corte  costituzionale,  si  deve  necessariamente
ritenere che vincoli a  fortiori  anche  giudice  ordinario  che  non
potrebbe individuare in autonomia la pena ritenuta  proporzionale  al
caso da decidere, in assenza di parametri legali fissati in astratto.
Andando di contrario avviso si finirebbe  non  solo  col  violare  la
riserva  di  legge  in  materia  penale  ma,   paradossalmente,   con
l'aumentare il rischio di  sperequazioni  punitive  rispetto  a  casi
omogenei quanto a contenuto offensivo che  costituisce,  come  si  e'
visto,  la  ragione   sostanziale   della   presente   questione   di
legittirnita' costituzionale. Insomma, si  finirebbe  col  sostituire
l'arbitrio del legislatore con l'arbitrio del  giudice,  ancora  piu'
pericoloso perche' privo di criteri certi di riferimento. 
    Ad ulteriore conforto dell'impraticabilita' di una soluzione  che
consenta di disapplicare il diritto interno  per  violazione  di  una
norma di principio quale l'art.  49,  par.  3  CDFUE  potrebbe  forse
invocarsi anche la c.d. teoria dei controlimiti,  qualificando  quali
principi costituzionali fondamentali per il  nostro  sistema,  da  un
lato, la riserva  di  legge  in  materia  penale  e,  dall'altro,  il
controllo centralizzato di costituzionalita'  ad  opera  della  Corte
costituzionale (art. 134 ss. Cost.). A quest'ultimo riguardo  occorre
considerare che, poiche' la CDFUE costituisce, sotto il  profilo  dei
contenuti, una vera e propria Costituzione,  che  ribadisce  tutti  o
quasi i principali principi che  gia'  trovano  riconoscimento  nella
nostra  Costituzione,  ammettere  che  il  giudice  ordinario   possa
disapplicare il diritto interno con essa contrastante, sia pure nelle
materie  di  competenza   dell'Unione,   finirebbe   fatalmente   col
sostituire,   nel   medesimo   ambito,   l'attuale    controllo    di
costituzionalita' centralizzato ad opera della  Corte  costituzionale
con un controllo diffuso ad opera dei giudici comuni. Un simile esito
non sembra possa essere affermato in  via  puramente  interpretativa,
quale conseguenza indiretta dell'entrata in vigore della CDFUE, senza
un'espressa cessione di sovranita', in  tal  senso,  appunto  perche'
finisce col  trasformare  l'assetto  costituzionale  fondamentale  ed
irrinunciabile del nostro ordinamento. 
    Se le indicazioni sopra riportate sono corrette, si  deve  quindi
concludere che il principio c.d. formale  di  proporzionalita'  delle
pene,  affermato  dall'art.  49,  par.  3  CDFUE  non  possa  trovare
applicazione in via diretta da parte del  giudice  comune,  senza  la
mediazione da parte del legislatore nazionale trattandosi,  comunque,
di norma vincolante per lo Stato la sua  violazione  da  parte  della
legislazione ordinaria si traduce  in  una  violazione  della  nostra
Costituzione e, in particolare, dei parametri interposti di cui  agli
articoli 11 e 117 Cost. che ribadisdono sul  piano  Costituzionale  i
vincoli internazionali, anche sulla base di trattati  che  comportano
cessioni di sovranita', quali sono certamente i  trattati  istitutivi
dell'Unione europea. 
    Benche'   non   vi   sia   ancora   una   compiuta   elaborazione
giurisprudenziale da parte della Corte  di  giustizia  sul  principio
c.d. formale di proporzionalita' delle pene,  l'opportunita'  di  una
sua autonoma considerazione in questa sede deriva dalla possibilita',
derivante dal diverso contesto in cui e'  inserito,  che  esso  possa
avere  un  contenuto  maggiormente  stringente  rispetto  all'analogo
principio del diritto costituzionale  interno.  Va,  in  particolare,
considerato come il principio di riserva di legge in  materia  penale
non sia operante, almeno con la medesima portata, in ambito  europeo,
per la presenza anche degli ordinamenti di common law. A  livello  di
diritto  interno,  cio'  potrebbe  indurre  a  ritenere,   non   gia'
senz'altro superato il principio di  riserva  di  legge  che  risulta
fondamentale nel nostro sistema, ma piuttosto possibile una  maggiore
ampiezza di intervento della Corte costituzionale, almeno nei casi di
piu' evidente violazione di altri principi costituzionali,  quali  in
particolare i principi di proporzionalita' delle pene, della funzione
rieducativa e di ragionevolezza-uguaglianza. Cio' potrebbe  tradursi,
in particolare, in un minore rigore,  rispetto  alle  interpretazioni
tradizionali, nell'individuare idonei termini di  paragone  in  forza
dei quali  sostituire,  in  bonam  partem,  pene  ritenute  eccessive
rispetto alla gravita' dei reati presi in considerazione. 
    Per concludere l'analisi del diritto  europeo  va  analizzato  il
contenuto  della  citata  decisione  quadro   2004/757/GAI   che   e'
certamente  atto  normativo  vincolante  per   lo   Stato,   ma   non
direttamente applicabile dal giudice comune. 
    Al riguardo va subito affermato,  a  confutazione  di  ricorrenti
allegazioni difensive che la nostra  legislazione  non  contrasta  in
modo formale e diretto  con  la  predetta  decisione  quadro  e  cio'
perche' si tratta di  strumento  volto  a  fissare  norme  minime  di
contrasto penale al traffico degli stupefacenti, restando liberi  gli
Stati di prevedere norme piu'  rigorose.  Quando  in  ambito  europeo
afferma la necessita' di prevedere "sanzioni efficaci,  proporzionate
e dissuasive,  comprendenti  pene  privative  della  liberta'"  (cfr.
considerando n. 5 della cit. decisione quadro e art.  4)  si  intende
far riferimento a pene  sufficientemente  gravi  per  contrastare  il
fenomeno illecito considerato, per cui la proporzionalita' delle pene
viene invocata in senso inverso  rispetto  alla  tutela  dei  diritti
fondamentali dei condannati, nel senso cioe'  che  si  vuole  evitare
pene sproporzionate  in  difetto,  perche'  troppo  poco  severe  per
svolgere la loro funzione di contrasto alla criminalita'. 
    Con specifico riferimento ai limiti sanzionatori  previsti  nelle
decisioni quadro cio' si  traduce  nel  principio  secondo  la  quale
questi limiti individuano i minimi dei massimi edittali,  sicche'  la
violazione del diritto europeo si ha  solo  se  il  massimo  edittale
previsto sia inferiore alla soglia fissata  a  livello  europeo,  non
invece se e' superiore. 
    Quanto al concreto contenuto della decisione quadro in questione,
dopo aver  fissato  all'art.  2  le  condotte  che  obbligatoriamente
occorre punire, con la precisazione  che  sono  escluse  le  condotte
finalizzate al mero consumo personale, l'art. 4 prevede  che  ciascun
Stato membro provveda affinche' i reati in questione "siano  soggetti
a pene detentive della durata massima compresa tra almeno 1 e 3 anni"
(par 1), ovvero "tra almeno 5 e 10 anni" se il reato  implica  grandi
quantitativi, abbia ad oggetto gli stupefacenti piu' dannosi  per  la
salute, oppure ha determinato gravi danni alla salute di piu' persone
(par. 2) ovvero ancora "della durata massima di  almeno  dieci  anni,
qualora  il  reato  sia  commesso  nell'ambito  di  un'organizzazione
criminale ai sensi dell'azione  comune  98/733/GAI  del  21  dicembre
1998" (par. 3). 
    Come si e' sopra chiarito le soglie di 1, 3,  5  e  10  anni  non
individuano i minimi e i massimi edittali ma sempre  i  soli  livelli
minimi dei massimi edittali,  a  seconda  dei  casi,  come  anche  la
giurisprudenza di legittimita' non ha mancato  di  precisare  (Cass.,
02.03.2010, n. 12635, rv. 246815 e Cass:, 09.05.2012, n.  33512,  non
massimata). 
    L'unico profilo di possibile frizione  con  l'indicata  decisione
quadro attiene alla pena massima di 4 anni  di  reclusione,  prevista
dall'art. 73, comma 5 testo unico per i fatti di lieve entita' aventi
ad oggetto  droghe  c.d.  pesanti  che,  come  tali,  possono  essere
ritenute quali stupefacenti  piu'  dannosi  per  la  salute,  con  la
conseguente applicazione di un livello minimo di pena  massima  di  5
anni di reclusione. Va pero' avvertito che si potrebbe argomentare la
conformita'    con    la    decisione    quadro,     facendo     leva
sull'interpretazione che la  giurisprudenza  fornisce  del  fatto  di
lieve entita',  ricondotto  a  casi  di  davvero  minimale  gravita',
soprattutto con riferimento al dato quantitativo, spesso molto vicini
alle  condotte  finalizzate  al  mero   consumo   personale   e   sul
considerando n. 4 della decisione quadro secondo il quale "in  virtu'
del  principio  di  sussidiarieta',  l'azione   dell'Unione   europea
dovrebbe vertere sulle forme piu' 4 gravi  di  reati  in  materia  di
stupefacenti". Si potrebbe cioe' argomentare che  i  fatti  di  lieve
entita' di cui all'art. 73, comma 5 t.u., cosi come  interpretati  ed
individuati dalla giurisprudenza interna, fuoriescono  dal  campo  di
applicazione della decisione quadro, appunto in  ragione  della  loro
minimalita' ed anche in applicazione al c.d. principio di  necessita'
- indispensabilita' di pena posto proprio dalla norma  che  fonda  la
base giuridica della competenza penale indiretta dell'Unione europea.
L'art. 83, par  2  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea
stabilisce, infatti, che "allorche' ravvicinamento delle disposizioni
legislative e regolamentari degli Stati membri in materia  penale  si
riveli indispensabile per  garantire  l'attuazione  efficace  di  una
politica dell'Unione (...) norme minime relative alla definizione  di
reati e delle sanzioni,  nel  settore  in  questione  possono  essere
stabilite  tramite  direttive".  Ebbene  si   potrebbe   fondatamente
sostenere che quando i fatti illeciti sono  di  minima  gravita'  non
sussiste il requisito di indispensabilita' di garantire  l'attuazione
efficace di una politica dell'Unione. 
    E' pero' evidente che questo discorso e' posto in grave crisi nel
caso si decida, anche solo a  livello  interpretativo,  di  estendere
verso l'alto il confine del fatto di lieve entita', come gia'  si  e'
avuto modo di segnalare, perche' a questo punto il  fatto  tipico  di
lieve entita' ricomprenderebbe anche casi non di minima  offensivita'
e, pertanto, occorrerebbe  rispettare,  per  le  droghe  pesanti,  il
minimo di 5 anni di reclusione, come pena massima. 
    Neppure si puo' ritenere che la fattispecie di lieve entita',  in
quanto non distingue tra droghe pesanti e droghe  leggere,  contrasti
per cio' solo con la decisione quadro e cio' perche' essa non pone un
chiaro obbligo di distinzione, limitandosi a  fornire  un'indicazione
di massima favorevole alla distinzione, non vincolante per gli  Stati
quando afferma,  solo  nel  considerando  n.  5  che  "per  stabilire
l'entita' della pena, si dovrebbe tener conto degli elementi di fatto
quali i quantitativi  e  la  natura  degli  stupefacenti  oggetto  di
traffico  (...)".   Questa   interpretazione   e'   condivisa   dalla
giurisprudenza di legittimita', secondo la quale "in realta'  non  si
desume alcuna specifica previsione di necessaria differenziazione  di
pena fra tipi di droghe in quanto il  predetto)  art.  4  prevede  un
livello minimo di sanzioni per le droghe maggiormente dannose ma  non
impedisce che il medesimo trattamento  venga  riservato  a  qualsiasi
sostanza catalogata come stupefacente" (cfr.  Cass.,  29.04.2013,  n.
18804, rv. 254930). 
    Ad ogni modo, a parte gli evidenziati profili problematici, tutti
gli altri limiti  edittali  massimi  previsti  rispettano  i  livelli
minimi fissati in ambito europeo, essendo di molto superiori. 
    Se non appare invocabile un autonomo vizio  di  costituzionalita'
per una formale violazione della  decisione  quadro,  si  puo'  pero'
ritenere che la previsione di pene superiori a quelle soglie in  modo
abnorme,  siano  comunque  indice  di  violazione  del  principio  di
proporzione delle pene affermato dalla CDFUE. Al riguardo non si puo'
fare a meno di notare che non solo il massimo edittale  previsto  per
il reato non lieve avente ad oggetto droghe pesanti e' di 20 anni  di
reclusione, ossia pari a 4 volte e a 2 volte i limiti minimi previsti
in ambito europeo, ma addirittura il minimo edittale  di  8  anni  di
reclusione, che e' quello che piu' interessa perche'  sospettato"  di
incostituzionalita' nella presente sede, e' di molto  superiore  alla
soglia minima  previsto  per  il  massimo  per  questa  tipologia  di
sostanze (5 anni di reclusione),  per  i  fatti  non  particolarmente
gravi. 
    Una simile distanza, rispetto ai livelli  europei  non  puo'  che
essere apprezzata come un forte indice di manifesta  sproporzione  in
eccesso  e,  dunque,  di   manifesta   irragionevolezza,   anche   in
considerazione del principio di sussidiarieta' e di extrema ratio  in
diritto penale. Non si tratterebbe, cioe',  del  legittimo  esercizio
dello spazio di discrezionalita' concesso  ai  legislatori  nazionali
dal diritto europeo, ma di una tutela  abnorme  e  sovrabbondante  e,
come tale, controproducente. 
    Questo discorso  potrebbe  essere  ulteriormente  sviluppato  con
riferimento  alla  congruita'  rispetto  all'effetto  utile  che   la
normativa   europea   si   propone   di    ottenere,    rappresentato
dall'uniformazione delle legislazioni nazionali per la  comune  lotta
al fenomeno criminale considerato. Se e'  vero  che  la  legislazione
europea lascia liberi gli Stati nazionali nel  prevedere  norme  piu'
rigorose rispetto ai livelli  minimi  indicati  si  potrebbe,  forse,
sostenere che normative nazionali distanti in modo abnorme rispetto a
quei  livelli  finiscano  di  essere  controproducenti   e,   dunque,
sproporzionate,  rispetto  all'obiettivo   dell'uniformazione   delle
normative nazionali. In buona sostanza punire con una pena minima (di
anni 8 di reclusione)  di  molto  superiore  al  livello  minimo  del
massimo previsto a livello europeo  (di  anni  5  di  reclusione)  e,
addirittura con una pena massima pari a 4  volte  rispetto  a  quella
soglia, fatti che si collocano comunque ai livelli minimi di gravita'
del tipo, rischia seriamente  di  compromettere  l'obiettivo  di  una
concreta  ed  effettiva  uniformita',  a   livello   europeo,   delle
legislazioni nazionali. 
    Un simile modo di intendere la proporzionalita' e' stata, ad es.,
accolta nella giurisprudenza della  Corte  di  giustizia  europea  in
materia di immigrazione irregolare nella  sentenza  28  aprile  2011,
caso El Dridi, causa C-61/11. In  quel  caso,  infatti,  l'uso  della
sanzione  penale,  in  contrasto  con  la  direttiva  in  materia  di
rimpatri, finiva con l'ostacolare  una  piu'  veloce  esecuzione  del
provvedimento di espulsione dello straniero irregolare, pregiudicando
appunto l'uniformita' a livello europeo delle relative procedure. 
3.1.2 (segue): il contrasto col principio di proporzione e con l'art.
117 Cost. in rapporto al divieto di pene inumane e degradanti di  cui
all'art. 3  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali e all'art. 4 della CDFUE. 
    Un terzo ed  autonomo  profilo  di  contrasto  col  principio  di
proporzione puo' essere affermato in rapporto col divieto di  pene  e
di trattamenti inumani  o  degradanti,  come  e'  noto  espressamente
riconosciuto, in via generale, sia dalla  nostra  Costituzione  (art.
27, comma 3 prima parte), sia dalla Convenzione europea  dei  diritti
dell'uomo (di seguito CEDU: cfr. art. 3) sia dalla CDFUE (art. 4). 
    E' tuttavia soprattutto la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo che ha avuto  il  merito  di  indicare  in  termini
precisi il concreto contenuto che il divieto assume in  relazione  al
grave  problema  del  sovraffollamento  carcerario,  in   particolare
attraverso  l'indicazione  dello  spazio  minimo  che   deve   essere
garantito a ciascun detenuto all'interno  della  cella,  espresso  in
specifiche soglie  minime  di  metri  quadrati,  variabili  anche  in
funzione di altri parametri. 
    Come e' noto,  per  il  nostro  paese  queste  indicazioni  hanno
assunto un valore vincolante dopo la sentenza pilota della Corte EDU,
8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, la quale avendo  accertato  il
"carattere strutturale e sistemico" del  sovraffollamento  carcerario
in Italia ha concesso un termine perentorio per  porre  rimedio  alla
situazione, sia mediante misure strutturali tali  da  incidere  sulle
cause  del  sovraffollamento  carcerario,  sia  mediante  rimedi  che
consentano di "riparare le violazioni in atto". 
    Sotto il primo profilo, in attuazione di questi precisi obblighi,
il legislatore ha  adottato  una  serie  di  variegati  provvedimenti
legislativi  che  hanno  in  concreto   da   subito   garantito   una
significativa riduzione  della  popolazione  carceraria.  Tra  queste
misure devono essere senz'altro annoverate  proprio  le  novelle  del
2013 e del 2014 sul fatto di lieve entita', di cui all'art. 73, comma
5 t.u., con la  trasformazione  da  circostanza  aggravante  a  reato
autonomo e con la riduzione della pena massima, prima a 5 anni e  poi
a 4 anni di reclusione, con conseguente esclusione della custodia  in
carcere  per  questo  tipo  di  reato.  Insomma  va   rimarcato   che
l'intervento che ha ridotto  la  pena  massima  del  fatto  di  lieve
entita', se da un lato ha acuito l'irragionevolezza della  disciplina
complessiva, amplificando l'abnorme iato di pene tra  fatto  lieve  e
non lieve per i reati aventi ad oggetto  droghe  pesanti,  dall'altro
risponde ad una ratio del tutto apprezzabile e condivisibile,  quella
di contenere la popolazione carceraria,  in  adempimento  di  precisi
obblighi internazionali non piu'  procrastinabili  e  particolarmente
significativi sotto il profilo della tutela dei diritti  fondamentali
dei detenuti. 
    Se  ne  dovrebbe  dedurre  che  una  simile  scelta  di  politica
criminale possiede una particolare forza di  resistenza,  soprattutto
se  paragonata  all'opposta   scelta   di   politica   criminale   di
individuazione del limite edittale minimo di anni 8 di reclusione per
i fatti non lieve, risalente al lontano 1990, quando il problema  del
sovraffollamento carcerario si poneva in termini del  tutto  diversi.
Con  cio'  si   vuol   dire   che   se   si   vuole   porre   rimedio
all'irragionevolezza dello scarto di pena tra il massimo previsto per
i fatti di lieve entita' ed il minimo per i fatti non lievi, si  deve
necessariamente intervenire non sul primo ma sul  secondo  ordine  di
grandezza, riducendolo sensibilmente. 
    Quanto ai rimedi che consentano di  "riparare  le  violazioni  in
atto", e'  altresi'  noto  che  con  decreto-legge  n.  92  del  2014
(convertito con legge n. 117 del 2014) il legislatore  ha  introdotto
nuovi "rimedi risarcitori in favore dei detenuti  e  degli  internati
che hanno subito un  trattamento  in  violazione  dell'art.  2  della
CEDU",  introducendo  l'art.  35-ter  dell'ordinamento  penitenziario
(legge n. 354 del 1975) che, da un lato,  consente  ai  detenuti  che
stiano subendo un pregiudizio grave  ed  attuale  ai  propri  diritti
fondamentali, in conseguenza delle condizioni  detentive  in  cui  si
trovano, di rivolgersi al magistrato di sorveglianza per ottenere uno
sconto di pena ancora da espiare,  pari  ad  un  giorno  ogni  10  di
pregiudizio subito: Qualora il pregiudizio non sia  ancora  in  atto,
ovvero sia inferiore ai 15 giorni e' previsto,  poi,  un  rimedio  di
risarcimento in  forma  monetaria,  paria  ad  €  8  ogni  giorno  di
pregiudizio subito. 
    Tornando al principio di proporzionalita', inteso come canone  di
minima razionalita' e di congruenza tra mezzi e scopi perseguiti,  si
potrebbe  sostenere  che  il  rapporto  col  divieto  di  pene  e  di
trattamenti disurnani, con  specifico  riferimento  al  problema  del
sovraffollamento  carcerario,  cosi'  come  definito  dalla  sentenza
Torreggiani,  impone  al  legislatore,  nelle  scelte   di   politica
criminale, un preciso obbligo di parametrare la  legislazione  penale
al numero  di  posti  disponibili  nelle  carceri  italiane,  con  la
conseguenza  che  risultano  illegittimi  tutti  gli  interventi  che
determinano  significativi  aumenti  della  popolazione   carceraria,
creando una situazione di grave sovraffollamento, tale da determinare
la violazione dei diritti fondamentali dei detenuti. 
    Naturalmente  il  legislatore  resterebbe  pienamente  libero  di
approvare singole leggi che determinano anche  significativi  aumenti
della popolazione carceraria, ma col vincolo di  prevedere  anche  un
corrispondente aumento  dei  posti  disponibili  nelle  carceri,  coi
relativi impegni di spesa. Solo osservando questo banale criterio  di
minima razionalita' si osserva sino  in  fondo  il  divieto  di  pene
inumani e degradanti, con particolare  riferimento  al  problema  del
sovraffollamento carcerario e si  puo'  limitare  l'abusato  utilizzo
della legislazione penale a scopi puramente simbolici e di propaganda
politica del tutto evidente negli ultimi anni,  anche  nella  materia
del traffico degli stupefacenti. 
    Una pena minima di anni 8 di reclusione per i  fatti  aventi.  ad
oggetto droghe pensanti che, pur non potendosi considerare  di  lieve
entita', a norma del comma 5 dell'art. 73 t.u., sono comunque di  non
particolare offensivita', in particolare per la quantita' di sostanze
stupefacenti  illecitamente   trattate,   determina   certamente   un
significativo aumento della popolazione carceraria perche'  preclude,
nella assoluta generalita'  dei  casi,  una  determinazione  concreta
della pena inferiore ai limiti di 2 e  3  anni  che,  come  e'  noto,
costituiscono  rispettivamente  i  limiti  per  l'applicazione  della
sospensione condizionale della pena e delle misure  alternative  alla
detenzione (cfr. art. 47 ss. ordinanza pen.). In  buona  sostanza  il
limite edittale minimo della pena  detentiva  censurata  finisce  con
l'imporre un trattamento rieducativo  del  condannato  con  esclusivo
ricorso al carcere. Cio' si ripercuote anche sul distinto piano delle
misure cautelari, con un massiccio ricorso alla custodia  in  carcere
che si traduce, soprattutto nel caso di  giudizio  immediato,  in  un
passaggio costante dalla misura cautelare in  carcere  all'esecuzione
della pena sempre in carcere, per l'impossibilita' di procedere  alla
sospensione dell'ordine di carcerazione a norma dell'art. 656  codice
di  procedura  penale.  Tutto  cio'  senza  che  sia  in  alcun  modo
giustificato  dalla  gravita'  dei  fatti  considerati  che,  occorre
ricordare, si collocano ai limiti  inferiori  di  gravita'  del  tipo
considerato ed in un sistema in cui fatti concreti omogenei, quanto a
contenuto offensivo, ossia i fatti di maggiore gravita' riconducibili
al reato minore di  cui  al  comma  5  del  cit.  art.  73  sono,  al
contrario, trattati, in linea di principio totalmente al di fuori dal
circuito carcerario. 
    In conclusione la pena minima di anni 8 di  reclusione,  prevista
dall'art. 73, comma 1 t.u., in quanto  manifestamente  sproporzionata
alla gravita' oggettiva dei fatti considerati, potrebbe  considerarsi
incompatibile  con  l'art.  3  della  Convenzione  europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  e,
dunque, con l'art. 117 Cost., in quanto pena disumana  per  eccessiva
durata  perche'  impone,  pressoche'  costantemente,  il  ricorso  al
carcere nel trattamento punitivo, rischiando di provocare gravi forme
di sovraffollamento carcerario, con la paradossale conseguenza di far
girare a vuoto la gia' sovraccarica macchina della giustizia:  Si  e'
visto, infatti, the in caso di grave sovraffollamento carcerario  che
comporti la mancanza dello spazio minimo a  disposizione  all'interno
della cella, il carcerato ha  diritto  ad  ottenere  uno  sconto  sul
residuo della pena da espiare. E' 'evidente che un sistema che sappia
valorizzare minimi criteri di razionalita' e di  efficienza  dovrebbe
rendere un simile rimedio del tutto eccezionale e  residuale,  agendo
piuttosto sulle cause del sovraffollamento  carcerario,  mediante  la
previsione di pene strettamente necessarie e  proporzionate  rispetto
alla gravita' del reato. 
4. Conclusioni: i precedenti ed il limite della riserva di legge. 
    Per concludere, appare opportuno,  in  primo  luogo,  evidenziare
come  l'assoluta  irragionevolezza  della  disciplina  dei  reati  in
materia di stupefacenti sia gia' stata piu' volte  sollevata  davanti
alla giurisprudenza di merito e, in secondo  luogo,  approfondire  la
motivazione del principale limite tecnico di una  possibile  sentenza
di accoglimento, rappresentato dalla  riserva  di  legge  in  materia
penale. 
    Nonostante  la  brevita'  del  lasso  temporale  trascorso  dalla
pronunzia della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e dalla legge  n.
79 del 2104, sono gia' state ben tre le ordinanze che hanno sollevato
questioni di legittimita' costituzionale, ad opera del  tribunale  di
Nola (ord. 08.05.2014), del  Tribunale  per  i  minorenni  di  Reggio
Calabria  (ord.  05.02.2015)  e  del  Tribunale  di   Perugia   (ord.
31.07.2015). 
    Le prime due ordinanze, pronunziate in ordine a fatti ritenuti di
lieve entita' aventi ad oggetto droghe c.d. leggere,  hanno  dubitato
della legittimita' costituzionale dell'art. 73, comma  5  t.u.  nella
parte in cui non distingue  le  pene  tra  droghe  pesanti  e  droghe
leggere, per contrasto col  solo  principio  di  uguaglianza  di  cui
all'art. 3 Cost., nel primo caso, ed anche per contrasto  con  l'art.
27, comma 3 Cost. (principio di proporzionalita' delle pene  e  della
necessaria finalita' rieducativa) e, infine, con l'art. 117 Cost., in
relazione alla decisione quadro 2004/757/GAI e dell'art. 49,  par.  3
CDFUE, nel secondo caso. 
    In entrambi i casi, pero', non si precisa il tipo  di  intervento
richiesto alla Corte  costituzionale  ne'  si  indica  alcun  tertium
paragonis che consenta di individuare la diversa pena da applicare. 
    Benche' l'apparato  motivazionale  di  entrambi  i  provvedimenti
sembri orientato alla richiesta di un intervento in bonam partem,  va
ribadito che la mancata  distinzione  tra  droghe  pesanti  e  droghe
leggere  nel  reato  minore  potrebbe  essere  superata,  sul   piano
politico-criminale, anche innalzando le pene per le  droghe  pesanti,
lasciando inalterata quella prevista per le droghe leggere  che,  tra
l'altro  costituisce  la  pena  originariamente  (dalla  legge   c.d.
Jervolino-Vassalli) prevista per questa tipologia di reati ed il  cui
limite minimo, di mesi 6 di reclusione e'  gia'  molto  contenuto  ed
ulteriormente  riducibile  mediante   l'uso   dell'ordinario   potere
discrezionale da parte del giudice  (mediante  la  concessione  delle
circostanze   attenuanti   generiche).   Risulta,   pertanto,   assai
complicato  argomentarne  l'incostituzionalita',  in  assenza  di  un
termine di paragone idoneo, a maggior ragione ove  si  consideri  che
qualora  si  ritenga  quel  limite  comunque  irragionevole   perche'
sproporzionato in relazione al  concreto  contenuto  offensivo  della
condotta posta in  essere,  non  mancano  al  giudice  strumenti  per
garantire il pieno rispetto del principio di offensivita', a  livello
interpretativo, mediante gli istituti del reato impossibile (art.  49
c.p.), da un lato, e della causa di non punibilita'  per  particolare
tenuita' del fatto (art. 131-bis c.p), dall'altro. 
    Molto vicina alla presente  questione  di  costituzionalita'  e',
invece, quella posta dal tribunale di Perugia, relativa ad un caso di
detenzione a fine di spaccio di gr. 30 di cocaina, con  un  principio
attivo di gr. 13,5, pari a 90 dosi medie  singole,  ritenuto  di  non
lieve entita'. Anche in quella  occasione,  infatti,  si  censura  la
macroscopica differenza di pena prevista, per le droghe pesanti,  tra
comma 1 e comma 5 dell'art. 73 t.u., alla quale "non  corrisponde  se
non una differenza di disvalore  di  grado  minimo,  in  quanto,  per
necessita' logica, il passaggio dal  disvalore  del  fatto  di  lieve
entita' a  quello  del  fatto  non  di  lieve  entita'  non  presenta
soluzioni di continuita'". Con  questa  motivazione  viene  abbozzata
l'individuazione,  quale  tertium  paragonis,  proprio  del   massimo
edittale previsto per il fatto di  lieve  entita',  gia'  sopra  piu'
diffusamente argomentato. Peraltro i parametri sono solo gli art. 3 e
27 Cost., senza ulteriori specificazioni. Il riferimento all'art.  27
Cost., sembra limitato al  comma  1  in  quanto  si  afferma  che  la
disciplina  "non  consente   l'individuazione   di   un   trattamento
sanzionatorio   conforme   al   principio   di   personalita'   della
responsabilita' penale, secondo cui la pena deve  essere  determinata
proporzionalmente alla gravita' del fatto di reato". 
    La questione sollevata  dal  Tribunale  di  Perugia  non  risulta
ancora decisa e neppure  risulta  al  momento  fissata  l'udienza  di
decisione. 
    Invece, la questione sollevata dal tribunale di Nola ha originato
l'ordinanza della Corte costituzionale n. 53 del 2015 con la quale si
e' disposta la restituzione degli atti al  giudice  a  quo  affinche'
"valuti la questione alla luce del mutato  quadro  normativo"  e,  in
particolare,   l'ulteriore   riduzione   delle   pene   operata   dal
decreto-legge n. 36 del 2014, convertito con legge n. 79 del 2014. 
    Piu' interessante ai presenti fini e' la soluzione alla muestione
sollevata dal Tribunale per  i  minorenni  di  Reggio  Calabria.  Con
ordinanza n. 23 del 2016 la. Corte  ha  dichiarato  inammissibile  la
questione sollevata "in quanto si chiede  alla  Corte  un  intervento
additivo   in   materia   penale,    in    assenza    di    soluzioni
costituzionalmente   obbligate",   in   contrasto    alla    costante
giurisprudenza costituzionale che  ritiene  "inammissibili  questioni
formulate con un petitutm che (...) per l'ampiezza della sua  portata
additiva   (...)   non   si   Configura    come    unica    soluzione
costituzionalmente obbligata" (sentenze, n.  81,  n.  30  e  241  del
2014), in particolare quando "il petitum formulato si connota per  un
cospicuo tasso  di  manipolativita',  derivante  anche  dalla  natura
creativa e non costituzionalmente obbligata della  soluzione  evocata
(sentenza n. 241, 81 e n. 30 del 2014; ordinanza n.  190  del  2013),
tanto piu' in materie rispetto alle quali e' stata riconosciuta ampia
discrezionalita' del legislatore (sentenza n. 277 del  2014)",  quale
in particolare "la configurazione del  trattamento  sanzionatorio  di
condotte individuate come punibili "ex plurimis, sentenze n. 185  del
2015, n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007
e n. 394 del 2006)". 
    La diversa disciplina, sotto il  profilo  della  distinzione  tra
droghe pesanti e droghe leggere,  viene  inoltre  giustificata  dalla
configurazione autonoma del reato di lieve entita' rispetto ai  fatti
non lievi che porta ad escludere che sussista "piu'  alcuna  esigenza
di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entita' e
quelli  non  lievi",  ossia  "che  il  legislatore  sia  vincolato  a
configurare intervalli edittali differenziati a seconda della  natura
della sostanza, nel caso di reati di lieve entita'". 
    Quanto alla misura della pena l'invocato parametro dell'art.  49,
par. 3 della CDFUE che riconosce parametro di proporzionalita'  della
pena non consente comunque alla Corte di determinare in via  autonoma
la misura della pena "ma semmai di emendare le scelte del legislatore
in riferimento a grandezze gia' rinvenibili nell'ordinamento",  sulla
base quindi di idonei termini di paragone che consentano di rinvenire
la  soluzione  costituzionalmente  obbligata,   come   avvenuto   nel
precedente relativo al delitto di  oltraggio  (sentenza  n.  341  del
1994). 
    Infine, viene respinta anche la censura fondata  sulla  decisione
quadro  n.  2004/757/GAI  perche'  non  determina  affatto   "precisi
intervalli di pena" ma si limita ad esigere soglie minime, derogabili
solo in pejus, secondo il c.d. principio del minimo del massimo". 
    Il principale motivo di inammissibilita' e' quindi costituito dal
difetto di  un  petitum  preciso,  certamente  non  ricorrente  nella
presente ordinanza. Inoltre, il secondo motivo  di  inammissibilita',
rappresentato dall'assenza di un idoneo termine di paragone  tale  da
garantire una soluzione costituzionalmente  "a  rime  obbligate",  e'
argomentato  con  specifico  riferimento  alla  questione  sollevata,
relativa al comma 5 e non al comma 1 dell'art. 73 testo unico e  alle
motivazione dell'ordinanza di rimessione che non individuava in alcun
modo un termine di paragone. 
    In ragione delle profonde differenze della questione sollevata  e
della diffusa argomentazione con la quale si e' cercato  di  motivare
la presenza di un idoneo tertium paragonis  non  si  ritiene  che  la
citata ordinanza n. 23 del 2016 precluda  l'esame  nel  merito  della
presente questione di legittimita' costituzionale. 
    Con cio' non ci si vuole sottrarre al confronto col  fondamentale
problema  di  concreta  giustiziabilita'  dei  denunziati   vizi   di
costituzionalita', rappresentato, in termini generali, dall'art.  28,
legge n. 87 del 1953, in base al quale "il controllo di  legittimita'
della Corte costituzionale (...) esclude ogni valutazione  di  natura
politica e ogni  sindacato  sull'uso  del  potere  discrezionale  del
Parlamento". In ambito penale e ancor piu' in materia  di  previsione
della quantita' di pena questo limite generale  risulta  ancora  piu'
stringente per la presenza della riserva di legge prevista  dall'art.
25, comma 2 Cost. che esclude alla radice che una pena  possa  essere
liberamente determinata dalla Corte costituzionale, sulla base di una
sua autonoma scelta di  politica  criminale,  tanto  da  giustificare
pienamente il tradizionale atteggiamento della  Consulta  di  estrema
prudenza, piu' volte  affermato  nei  precedenti  gia'  sopra  citati
dall'ordinanza n. 23 del 2016. 
    Il problema e' stato lucidamente posto da una decisone di  merito
che  ha  ritenuto  "manifestamente  infondata"   una   questione   di
legittimita' identica a quella sollevata nella  presente  sede  (cfr.
Tribunale di Torino, 17.12.2014, in Questione  giustizia,  14  luglio
2015) con articolata ed apprezzabile motivazione, relativa ad un caso
di illecita detenzione di gr. 77 di cocaina, pari  a  mg.  53.137  di
principio  attivo.  In  buona  sostanza,  pur  ammettendo  le   gravi
sperequazioni punitive che  la  disciplina  denunziata  comporta,  il
giudice  torinese  ha  ritenuto  che  manchi  "la   possibilita'   di
prospettare alla Corte costituzionale un  quesito  che  implichi  una
risposta a rime  obbligate",  per  l'assenza  di  idonei  termini  di
paragone, sia nel codice penale che all'interno della disciplina  dei
reati  in  tema  di  stupefacenti,  che  consentano  alla  Corte   di
individuare una diversa pena congrua, senza esercitare una scelta  di
politica criminale  riservata  come  tale  al  legislatore.  Conclude
quindi il Tribunale che un'eventuale eccezione  di  costituzionalita'
sarebbe percio' inammissibile e potrebbe originare, al  massimo,  una
pronuncia c.d. "monito". 
    Ma in senso contrario vanno richiamate le diffuse  argomentazioni
sopra  rese  in  ordine  all'individuazione,  quale  idoneo   tertium
paragonis, del limite edittale massimo previsto dalla fattispecie  di
lieve entita' che consente di  ritenere,  allo  stato  attuale  della
disciplina vigente,  costituzionalmente  obbligata  la  soluzione  di
assumere come limite edittale minimo del reato  maggiore  di  cui  al
comma 1 dell'art. 73 testo unico la  medesima  pena.  A  ben  vedere,
quindi, in realta' esiste una grandezza di  pena  gia'  prevista  dal
legislatore per una classe di casi dal concreto  contenuto  offensivo
del tutto assimilabile rispetto alla classe di casi, che  si  colloca
al limite inferiore di gravita' del reato maggiore e che, invece,  e'
oggi punita con una pena doppia. 
    Certo  si  potrebbero  sempre  opporre  riserve  sulla   corretta
individuazione del tertium paragonis oppure che non si tratta di  una
soluzione costituzionalmente obbligata in senso assoluto, perche'  in
ipotesi il legislatore ben potrebbe aumentare la pena massima  per  i
fatti di lieve entita' oppure ridurre la pena minima per i fatti  non
lievi sino a 5 o 6 anni di reclusione, ossia sino a  limiti  di  pena
comunque in grado di garantire una minima coerenza  di  disciplina  e
proporzionalita' di pene, oppure ancora eliminare la distinzione  tra
droghe pesanti e droghe leggere anche nei reati maggiori,  prevedendo
congrue pene (ad es. da 3  a  10  ani  di  reclusione).  Ma  si  puo'
replicare che una pena costituzionalmente obbligata in senso assoluto
non esiste mai e, pertanto, il limite della necessita' di individuare
un intervento "a rime obbligate", precluderebbe in via  generalizzata
l'intervento della Corte costituzionale,  che  invece  si  e'  sempre
garantita un residuo spazio di intervento per rimediare  ai  casi  di
piu' macroscopica irragionevolezza. 
    Cosi', nel precedente dell'oltraggio la soluzione adottata  dalla
Consulta non era costituzionalmente obbligata in senso  assoluto,  ma
solo in  senso  relativo  ed  in  relazione  alla  disciplina  allora
vigente, come gia' si e' ricordato. Analogamente neppure l'estensione
della circostanza attenuante del fatto di lieve entita' prevista  per
il sequestro a scopo di terrorismo al sequestro a scopo di estorsione
(cfr. sentenza n. 68 del 2012) e' una soluzione a rime  obbligate  in
senso assoluto, ma ancora una volta in senso relativo ed  in  stretta
aderenza al diritto attualmente vigente, perche' nulla  impedisce  al
legislatore di differenziare i trattamenti punitivi riservati ai  due
reati, che tutelano  beni  giuridici  diversi,  magari  riducendo  il
limite edittale minimo del sequestro a  scopo  di  estorsione,  sulla
base di una rinnovata valutazione  politica  criminale  del  fenomeno
considerato, ma escludendo l'attenuante del fatto di lieve entita'. 
    Insomma non sembra affatto assurdo  ipotizzare  che  l'intervento
della Consulta sia possibile tutte le volte in cui sia  individuabile
un rimedio tale da scongiurare autonome scelte di politica criminale,
perche'  agganciato  ad  una  scelta  di  politica   criminale   gia'
effettuata dal legislatore, per regolare casi vicini o analoghi e  la
cui adozione anche nei casi prospettati e' sufficiente a  scongiurare
una violazione alla Costituzione che, altrimenti,  si  manifesterebbe
in maniera macroscopica. In questa prospettiva cioe' il  rimedio  non
necessariamente dovrebbe essere l'unica soluzione  costituzionalmente
imposta in astratto ed in senso assoluto. 
    Nella specie, la scelta di politica criminale gia'  compiuta  dal
legislatore per regolare casi vicini o  analoghi  e'  appunto  quella
compiuta nel 2014 che ha fissato il limite  edittale  massimo  per  i
fatti di  lieve  entita',  anche  quelli  aventi  ad  oggetto  droghe
pesanti, in soli 4 anni di reclusione, rispetto alla quale la  scelta
di politica criminale, risalente al 1990, di fissare il limite minimo
per i corrispondenti  fatti  di  non  lieve  entita'  in  8  anni  di
reclusione,  si   appalesa   come   gravemente   contraddittoria   ed
irragionevole.  E  confronto  tra  le  ratio  delle  due  opposte  ed
inconciliabili scelte di politica criminale, non potrebbe che  essere
risolto in favore della prima, la piu' attuale e la piu' aderente  ai
principi di offensivita' e di sussidiarieta'. Insomma, contrariamente
a quanto ritenuto da taluni giudici remittenti (il Tribunale di  Nola
ed il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria) la  legge  n.  79
del 2014 si dovrebbe ritenere impeccabile per la scelta  di  politica
criminale compiuta e censurabile solo per  cio'  che  non  ha  detto,
ossia perche' non  e'  intervenuta  per  realizzare  una  riforma  di
sistema, modificando anche la disciplina e, soprattutto, le pene  dei
reati previsti dall'art. 73, commi 1 e 4 t.u. 
    Alle considerazioni che precedono vanno  aggiunte  due  ulteriori
considerazioni,   finalizzata   la   prima   a   meglio   argomentare
l'opportunita' che il limite dell'intervento "a rime  obbligate"  sia
inteso con la necessaria elasticita' e relativa, la seconda, al ruolo
e ai limiti del giudice a quo nel sollevare questioni di legittimita'
costituzionale. 
    Sotto il primo profilo  un  eccessivo  irrigidimento  del  limite
indicato determinerebbe, inevitabilmente, pericolose zone franche dal
controllo   di    legittimta'    costituzionale,    in    paradossale
contraddizione col contenuto «garantista" della riserva penale. 
    Come e' noto, proprio la necessita' di  impedire  l'esistenza  di
zone  franche  dal  controllo  di  legittimita'   costituzionale   ha
consentito di superare il tradizionale  limite  ad  interventi  della
Corte costituzionale in malam partem, in origine  ricollegato  ad  un
preteso difetto di rilevanza della  questione  nel  giudizio  a  qua,
privo di possibili eccezioni  perche'  comunque,  anche  in  caso  di
accoglimento, il giudice dovrebbe comunque  risolvere  il  caso  alla
propria attenzione applicando la norma  piu'  favorevole,  dichiarata
incostituzionale,   in   omaggio   al    superiore    principio    di
irretroattivita', ad  una  posizione  decisamente  piu'  duttile  che
individui specifici casi di  ammissibilita'  simili  interventi,  con
specifico riferimento  alle  nozione  di  "norme  penali  di  favore"
(secondo  la  definizione  fornita   dalle   sentenze   della   Corte
costituzionale n. 148 del 1983 e n. 394 del 2006) ovvero a vizi nella
formazione delle leggi, in particolare per  l'abuso  degli  strumenti
del decreto-legge e del decreto legislativo (cfr., per il primo caso,
Corte Cost, n. 32 del 2014 e, per il secondo caso, Corte Cost.  n.  5
del 2014; in termini generali cfr. anche Corte costituzionale 46  del
2014). In ogni caso l'intervento additivo in malam partem e' ritenuto
ammissibile perche' consente di agganciare il piu' severo trattamento
penale,  costituzionalmente  imposto,  non   gia'   ad   una   scelta
discrezionale di politica criminale ad opera della  Consulta,  ma  ad
una scelta compiuta da parte dello stesso  legislatore,  mediante  la
riespansione della  disciplina  generale,  illegittimamente  derogata
dalla  norma  di  favore  ovvero  la  riviviscenza  della  precedente
disciplina,  illegittimamente  abrogata,  nel  caso  di  vizi   nella
formazione delle leggi. 
    Se perfino interventi in malam partem non sono  preclusi  in  via
assoluta dal limite rappresentato dalla riserva di legge,  a  maggior
ragione non possono ritenersi preclusi interventi in bonam partem sul
trattamento punitivo,  almeno  nelle  ipotesi  di  piu'  macroscopica
violazione dei fondamentali principi di ragionevolezza-uguaglianza  e
di proporzionalita' delle pene e di  sussistenza  di  un  ragionevole
termine di paragone, che consenta di individuare  una  diversa  norma
applicabile al caso, sulla base di una scelta di  politica  criminale
compiuta dal legislatore. Non solo, ma  l'esigenza  anche  in  questo
ambito di escludere zone franche dal controllo  di  costituzionalita'
impone un certo margine di elasticita'  nel  ritenere  sussistenti  i
presupposti dell'intervento della Corte costituzionale. 
    Cio' vale in particolare e a maggior ragione per  gli  interventi
in bonam partem, ai quali appartiene  l'intervento  qui  sollecitato,
perche' il fondamento della riserva di legge prevista  dall'art.  25,
comma 2 Cost. non e'  costituito  solo  dal  profilo  politico  della
sovranita'  dell'organo  Parlamento  e  -  in  quella  sede  -  della
dialettica democratica, con  necessario  coinvolgimento  anche  delle
minoranze, con preclusione di possibili arbitri  da  parte  di  altri
poteri dello Stato, tra i quali la stessa Corte costituzionale  (c.d.
profilo negativo della riserva di legge), ma anche e per certi  versi
soprattutto da un contenuto ed una ratio garantista, in  forza  della
quale "tende ancor oggi (...) a  ridurre  la  quantita'  delle  norme
penali, e, cosi, a  concentrare  queste  ultime  nella  sola  tutela,
necessaria (ultima ratio) di  pochi  beni,  significativi  ed  almeno
importanti, per l'ordinato vivere civile" (cfr. Corte  costituzionale
n. 487 del 1989). La ratio garantista della riserva di legge concerne
non solo l'individuazione  delle  condotte  penalmente  rilevanti  ma
anche la stessa individuazione della pena. 
    Traducendo questi principi nella  soluzione  al  caso  in  esame,
l'intervento qui richiesto consiste essenzialmente in  una  riduzione
del ricorso alla pena carceraria, in omaggio alla scelta di  politica
criminale  piu'  attuale  e  maggiormente  aderente  ai  principi  di
offensivita',  di  sussidiarieta'  e  di  proporzionalita',  rispetto
all'opposta scelta di politica criminale compiuta  nel  1990,  in  un
diverso contesto normativo  di  riferimento  (punizione  anche  della
detenzione finalizzata al consumo personale, fatto di  lieve  entita'
configurato come circostanza attenuante e punito con la pena  massima
di anni 6 di reclusione) ormai in insanabile contrasto con  l'attuale
contesto  normativo  di  riferimento,  oltre  che  coi   fondamentali
principi di pari trattamento e di proporzionalita' delle pene. 
    Ad  ulteriore  conforto  della  necessita'  di  adottare  criteri
sufficientemente elastici e  duttili  possono  essere  annoverate  le
suggestioni  provenienti  dal  diritto   europeo,   con   particolare
riferimento. all'art. 49, par.  '2  della  CDFUE  e  dal  diritto  di
origine convenzionale, con particolare riferimento al divieto di pene
o di trattamenti inumani o degradanti di cui all'art. 3 CEDU. 
    Sotto il secondo profilo, se anche non  si  puo'  negare  che  un
possibile   esito   della   presente   questione   sia   quello    di
inammissibilita',  magari  collegato  ad   un   monito   rivolto   al
legislatore, come ritenuto dal Tribunale di Torino, ci si deve  pero'
chiedere se cio' basti davvero ad escludere l'obbligo del giudice  di
adire la Corte costituzionale. La risposta positiva cui e'  pervenuto
il Tribunale di Torino, benche' formalmente assunta sulla base di una
pronunzia di "manifesta infondatezza", e' in realta' fondata  su  una
valutazione della  causa  di  inammissibilita'  che  potrebbe  essere
ritenuta dalla Corte costituzionale, per  mancanza  di  un  possibile
intervento "a rime obbligate". 
    Sennonche'  in  presenza  di  una  norma  di   legge   che   deve
necessariamente trovare applicazione  nella  soluzione  del  caso  da
decidere che il giudice ritenga incostituzionale,  si  deve  ritenere
che il giudice abbia un  solo  obbligo,  quello  di  adire  la  Corte
costituzionale,  non  potendo  ne'  applicare  la  norma  di   dubbia
costituzionalita' ne' disapplicarla. A norma dell'art. 23,  comma  2,
legge n. 87 del 1953 gli unici presupposti che sono sottoposti al suo
scrutinio  sono  relativi  alla  rilevanza  e  alla   non   manifesta
infondatezza della questione. 
    Nella  specie,  invece,  il  preteso  vizio  di  inammissibilita'
attiene all'individuazione del confine di competenze del  legislatore
e della Corte costituzionale che e' tanto chiaro in teoria quando  di
difficile  individuazione  in  pratica,   perche'   attiene   ad   un
delicatissimo bilanciamento tra norme e principi  costituzionali  che
possono entrare tra loro in conflitto e  che  e'  bene  sia  compiuto
unicamente dalla Corte costituzionale. Con cio' si vuol dire che  una
questione di legittimita' costituzionale non puo' essere  scongiurata
sulla sola base di un incerto pronostico, compiuta dal giudice a quo,
sulla possibile decisione della Corte costituzionale rispetto a  temi
certamente estranei al proprio ambito di competenza, perche' cio'  si
tradurrebbe, ancora, nel creare indebite zone franche  dal  controllo
di legittimita' costituzionale. 
    A conferma di quanto sopra affermato si deve poi  aggiungere  che
una possibile sentenza di inammissibilita' con  un  pressante  monito
rivolto al legislatore affinche' compia una riforma di sistema ed una
razionalizzazione  delle  pene  previste  per  i  reati  in  tema  di
stupefacenti non potrebbe certo essere considerata  inutiliter  data.
Se e' vero, infatti, che il  giudice  a  quo  dovrebbe  comunque  far
applicazione della norma sospetta, da un punto di vista  generale  le
sentenze c.d. monito possono essere stimolo appunto per  una  riforma
legislativa  ovvero  preludio   di   una   successiva   sentenza   di
accoglimento, perdurando la colpevole inerzia del  legislatore,  come
la giurisprudenza costituzionale conferma. 
    Anche per questi motivi la  presente  questione  di  legittimita'
costituzionale deve quindi essere proposta.