TRIBUNALE PENALE DI ROVERETO Ufficio del Giudice dell'udienza preliminare Ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale - art. 23, legge n. 87 del 1953. 1. Premessa: il fatto oggetto di giudizio. In data 27 settembre 2015, S.I., cittadino extracomunitario originario del ..., privo di fissa dimora in Italia, veniva arrestato in flagranza di reato, all'atto del suo arrivo alla stazione ferroviaria di Rovereto (TN), per aver illecitamente detenuto e trasportato sostanza stupefacente di tipo eroina contenuta in tre ovuli, occultati nella propria persona a mezzo di ingestione. Condotto in ospedale veniva prima sottoposto, col suo consenso, a TAC dell'addome, che evidenziava la presenza di corpi estranei e poi veniva indotta l'evacuazione. A mezzo di relazione tecnica eseguita il 3 ottobre 2015 presso il laboratorio analisi sostanze stupefacente dei Carabinieri di Laives (BZ) si misurava il peso lordo di gr. 58,291 della sostanza stupefacente in questione e si accertava l'ottimo principio attivo medio del 31,60%, pari a complessivi mg. 18.447, che consentono di ricavare n. 738 dosi medie singole efficaci (secondo le indicazioni del decreto ministeriale 11 aprile 2006). All'esito della convalida dell'arresto il giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Rovereto, con ordinanza del 29 settembre 2015 disponeva la misura cautelare della custodia in carcere, ritenendo sussistente il pericolo di commissione di reati della stessa specie, a norma dell'art. 274, lettera c) c.p.p., desumendolo dalla quantita', qualita' e tipologia di sostanza detenuta, dalle modalita' di occultamento, dal denaro detenuto senza alcuna plausibile giustificazione in ordine ad un'origine lecita, da un recente arresto in flagranza per un analogo fatto e da quanto osservato dagli inquirenti in occasione di un precedente viaggio a Rovereto il 15 settembre 2015 (con incontro con altri extracomunitari gia' denunziati per reati analoghi). Riteneva, infine, il giudice per le indagini preliminari che, in ragione della gravita' oggettiva del reato e del limite edittale minimo previsto dalla legge per la pena detentiva (anni 8 di reclusione), si dovesse, da un lato, escludere in radice la possibilita' di concessione in giudizio della sospensione condizionale della pena e, dall'altro, ritenere che la pena concreta irrogata in giudizio sarebbe stata senz'altro superiore alla soglia dei 3 anni di reclusione. Emesso decreto di giudizio immediato, a norma dell'art. 453, comma 1 c.p.p., l'imputato formalizzava tempestiva richiesta di rito abbreviato, a norma dell'art. 458 c.p.p. All'udienza del 21 gennaio 2016, all'esito della discussione, questo giudice sollevava d'ufficio la presente questione di legittimita' costituzionale. Come emerge con chiarezza da quanto sopra esposto il processo non presenta alcuna difficolta' ordine all'accertamento della responsabilita' penale dell'imputato, neppure contestata dalla difesa che si e' limitata a richiedere la condanna alla pena minima possibile (per la pena detentiva anni 3, mesi 6 e giorni 20 di reclusione, previa applicazione della riduzione massima di un terzo per la concessione delle attenuanti generiche sulla pena edittale minima, e successiva riduzione di un ulteriore terzo per il rito). Invero, alla luce degli elementi di prova raccolti nelle indagini preliminari, non puo' esservi alcun dubbio che l'imputato abbia svolto il classico ruolo di corriere tra il fornitore e i piccoli spacciatori c.d. da strada., operanti sulla piazza di Rovereto, della sostanza stupefacente di cui e' stato trovato in possesso. Piu' problematica e', invece, la precisa qualificazione del reato contestato, ai sensi del primo ovvero del quinto comma dell'art. 73, decreto del Presidente della Repubblica n. 309. del 1990 che ha un'eccezionale incidenza sulla pena in concreto applicabile, perche' dalla pena da 8 a 20 anni di reclusione e da € 25.822,00 ad e 258.228,00 di multa, prevista nel primo comma, si passa alla pena, di gran lunga inferiore, da 6 mesi a 4 anni di reclusione e da € 1.032,00 ad € 10.329,00 di multa, prevista nel quinto comma. Prima di affrontare il merito della questione e' tuttavia opportuno ripercorrere, coli particolare riferimento alle pene previste, il recente e disordinato avvicendarsi di interventi legislativi e della Corte costituzionale sull'art. 73, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, che hanno reso particolarmente complessa persino la mera ricognizione del testo di legge attualmente vigente. 1.1 (segue): la ricostruzione del diritto vigente. Il diritto vigente e' il risultato della seguente evoluzione normativa: 1. Il testo unico stupefacenti, approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (c.d. legge Jervolino-Vassalli, di seguito t.u.), come e' noto, distingueva in modo netto i reati aventi ad oggetto le droghe pesanti, di cui alle tabelle I e III (tra le quali l'eroina) dalle droghe c.d. leggere, di cui alle tabelle II e IV, prevedendo trattamenti punitivi molto diversi per le condotte descritte in alternativa al comma 1: la reclusione da 8 a 20 anni e la multa da € 25.822,00 ad € 258.228, nel primo caso; la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da € 5.164,00 ad € 77.468,00, nel secondo caso (comma 4). Al comma quinto era poi prevista un'attenuante ad effetto speciale per entrambi i reati per il caso in cui il fatto fosse di lieve entita', con previsione di pene ancora distinte: la reclusione da l a 6 anni e la multa da € 2.582,00 ad € 25.822,00, per le droghe c.d. pesanti e la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da € 1.032,00 ad € 10.329,00, per le droghe c.d. leggere. 2. La legge n. 49/2006 (c.d. legge Fini-Giovanardi, che ha convertito il d.l. n. 272/2005) ha compiuto una riforma sistematica della materia sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio e, per cio' che qui piu' interessa, ha soppresso la distinzione tra droghe leggere e pesanti, riunificando i due distinti reati in unico, reato, punito con la pena della reclusione da 6 anni a 20 anni e della multa da € 26.000,00 ad € 260.000,00. Nel caso di ricorrenza dell'attenuante del fatto di lieve entita' la pena prevista e' quella della reclusione da 1 a 6 anni e della multa da € 3.000,00 ad € 26.000,00. Pertanto, la riunificazione tra droghe leggere e droghe pesanti ha in concreto comportato la sostanziale equiparazione verso l'alto del trattamento punitivo, mediante l'estensione delle pene previste originariamente per le droghe pesanti anche alle droghe leggere (salvo la contenuta riduzione del limite edittale minimo della sola pena detentiva, portato da 8 a 6 anni di reclusione). Per controbilanciare l'estremo rigore di questa innovativa scelta di politica criminale, e' stata introdotta la possibilita', per il caso di fatti di lieve entita' commessi da tossicodipedenti, di sostituire la pena col lavoro di pubblica utilita' (cfr: art. 73, comma 5-bis, t.u., misura poi estesa, a date condizioni, anche ai reati comuni commessi da tossicodipendenti, mediante l'introduzione del comma 5-ter, ad opera del d.l. 78/2013). 3. Col decreto-legge n: 146/2013 (convertito con legge n. 10/2014) il legislatore ha poi trasformato la circostanza attenuante del fatto di lieve entita' in reato autonomo (secondo le convincenti e diffuse argomentazioni di Cass., 08,01.2014 n. 14288, rv. 259057, subito condivise da numerosissime sentenze di legittimita' e, percio', assurte al rango di diritto vivente), ritoccando al ribasso il limite edittale massimo della sola pena detentiva, portandolo da 6 a 5 anni di reclusione. L'intervento e' stato espressamente disposto in considerazione della "straordinaria necessita' ed urgenza di adottare misure per ridurre con effetti immediati il sovraffollamento carcerario, in particolare, sul versante della legislazione penale in materia (...) di reati concernenti le sostanze stupefacenti" (cfr. primo ritenuto del preambolo). Come e' noto l'emergenza carceraria e' divenuta non piu' procrastinabile a seguito della condanna del nostro paese per la violazione dell'art. 3 della CEDU, che vieta le pene o i trattamenti inumani e degradanti, per la mancanza dello spazio minimo all'interno della cella, con la sentenza pilota della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani-c. Italia, la quale avendo accertato il "carattere strutturale e sistemico" del grave sovraffollamento carcerario, aveva concesso un termine di un anno per adottare le misure necessarie per porre rimedio alla situazione. Dalla relazione governativa emerge chiaramente come principale scopo della trasformazione in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entita', fosse quello di sottrarla al bilanciamento con circostanze aggravanti (in particolare con la recidiva, assai frequente in questa materia), col rischio, in caso di giudizio di equivalenza o prevalenza delle aggravanti, dell'applicazione delle piu' rigorose pene previste per i reati maggiori. 4. E' su questo dato normativo che si innesta la sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014 che ha dichiarato l'incostituzionalita' degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del decreto-legge n. 272/2005 (inseriti dalla legge di conversione) che avevano profondamente modificato il t.u., per violazione dell'art. 77, comma 2 Cost. e, in particolare, perche' adottati "in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione", a causa del difetto di omogeneita' e, quindi di nesso funzionale tra decreto-legge e legge di conversione. Un vizio, dunque, relativo alla fonte e non al contenuto, tanto radicale da far ritenere le disposizioni di legge illegittime adottate "in una situazione di carenza di potere" e, come tali, inidonee "ad innovare l'ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa". Su questa premessa la Corte ha ritenuto che a seguito della dichiarazione di incostituzionalita' tornano "a ricevere applicazione l'art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate", ossia nella formulazione di cui alla legge Jervolino-Vassalli (cfr. § 5 del considerando in diritto). L'indicato effetto di riviviscenza viene, inoltre, argomentato sulla base degli obblighi di penalizzazione imposti dalla normativa dell'Unione europea, con la decisione quadro n. 2004/757/GAI, "che l'Italia e' tenuta a rispettare in virtu' degli articoli 11 e 117 Cost.". Altra precisazione della Corte che merita di essere sottolineata, e' che gli effetti della sentenza "non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013 (...), in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest'ultima" (cfr. § 3 del considerando in diritto). Si deve pertanto ritenere che il comma quinto del cit. art. 73 non sia stato investito della declaratoria di incostituzionalita'. 5. Infine, col decreto-legge 36/2014 (convertito con legge n. 79/2014) si e' posto rimedio alla grave emergenza creata dalla pronunzia della Corte costituzionale sopra citata, che aveva in sostanza azzerato tutti gli aggiornamenti delle tabelle, con inserimento di numerosissime nuove sostanze stupefacenti, avvenuti sulla base della legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale, determinando corrispondenti abolitiones criminis (i dubbi interpretativi al riguardo, affacciatesi soprattutto in dottrina, sono stati definitivamente fugati da Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 29316, rv. 264264), ripristinando tutti gli aggiornamenti nel frattempo intervenuti nonche' l'originaria classificazione in distinte tabelle per le droghe c.d. pesanti e leggere. Nel contempo, la legge di conversione ha ulteriormente modificato al ribasso le pene previste per l'autonomo reato di cui all'art. 73, comma 5 tu., prevedendo la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da € 1.032,00 ad € 10.329,00, senza distinguere tra droghe pesanti e leggere. In tal caso, quindi, la riduzione di pena ha investito non solo il limite edittale massimo ma anche quello minimo e non solo la pena detentiva ma anche quella pecuniaria. Solo apparentemente, tuttavia, si tratta di una scelta politico criminale omogenea a quella della legge Fini-Giovanardi, per tre fondamentali ragioni. In primo luogo, la distinzione tra droghe pesanti e leggere non e' toccata per i reati maggiori, previsti dall'art. 73, commi 1 e 4, testo unico e con cio' e' chiaramente confermata, anche attraverso il ripristino della vecchia classificazione in 4 tabelle. In secondo luogo, la legge n. 79 del 2014 ha modificato anche l'art. 75, t.u., dedicato all'illecito amministrativo della detenzione di stupefacenti per farne uso personale, prevedendo distinti limiti edittali per le sanzioni amministrative a seconda che la condotta abbia ad oggetto droghe pesanti o leggere. In terzo luogo e soprattutto, in caso di ricorrenza del reato minore (fatto di lieve entita') se e' vero che la rilevanza della distinzione e' stata espressamente negata, tuttavia il trattamento punitivo e' rivisto al ribasso con la previsione, anche per le droghe pesanti, della stessa pena originariamente (dalla legge c.d. Jervolinio-Vassalli) prevista per le droghe leggere mentre, come si e' visto, la legge Fini-Giovanardi, aveva piuttosto esteso le pene previste per le droghe pesanti a quelle leggere. All'esito di questa tortuosa evoluzione normativa il testo vigente dell'art. 73, testo unico e' ricostruibile nel senso che i commi 1, 2, 3 e 4 sono quelli di cui alla legge Jervolino-Vassalli, mentre i commi 5 e 5-bis sono quelli rispettivamente emendati ed inseriti con legge n. 79/2014 (di conversione del d.l". 36/2014). 1.2 (segue): l'incoerenza sistematica del diritto vigente. Cio' posto, si puo' affermare, che oggi i fatti di lieve entita', non importa se afferenti a droghe pesanti o leggere, sono in linea di principio puniti e trattati al di fuori del circuito carcerario, considerando i limiti edittali di pena previsti, che consentono l'ampio ricorso alla sospensione condizionale e alle misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario, nonche' la possibilita' di sostituzione col lavoro di pubblica utilita', a norma dell'art. 73, comma 5-bis tu. Questa nuova direttrice di politica criminale, condivisibile perche' congruente col principio di extrema ratio, trova conferma anche in sede cautelare, perche' la nuova pena massima di anni 4 di reclusione preclude alla radice la possibilita' di disporre la custodia in carcere, per difetto del presupposto generale previsto dall'art. 280, comma 2, codice di procedura penale (pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, limite cosi fissato dal decreto-legge n. 78 del 2013). Anzi, l'ultimo ritocco della pena massima (da 5 a 4 anni di reclusione) appare funzionale proprio a questo obiettivo, di precludere in assoluto il ricorso alla custodia cautelare in carcere, al fine di contenere il grave problema del sovraffollamento carcerario e si puo' senz'altro ritenere che sia stato una tra le misure piu' efficaci a ridurre in modo significativo la popolazione carceraria. La medesima direttrice di politica criminale e' poi ulteriormente confermata da nuovi istituti nel frattempo entrati in vigore, quali la messa alla prova per maggiorenni e la causa di non punibilita' per particolare irrilevanza del fatto, previsti rispettivamente dai nuovi articoli 168-bis e 131-bis c.p., entrambi applicabili al reato minore di cui all'art. 73, comma 5, t.u., proprio grazie al minore limite edittale massimo della pena detentiva oggi prevista (essendo applicabili a reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo, rispettivamente a 4 e 5 anni). Opposta e', invece, la direttrice di politica criminale seguita per il reato maggiore avente ad oggetto le droghe Pesanti, poiche' la pena edittale minima di anni 8 di reclusione preclude, nella generalita' dei casi non solo la sospensione condizionale della pena ma anche le misure alternative per la pratica impossibilita' di contenere in concreto la pena sotto la soglia di 3 anni (cfr. art. 47, ordinanza pen.), pur considerando la congiunta riduzione di pena per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e per riti speciali a contenuto premiale. Anche nella materia delle misure cautelari proprio l'elevatissimo limite edittale minimo spinge per forza di cose ad un ampio ricorso alla custodia in carcere, perche', sul piano generale, attesta che il reato in parola e', nella valutazione del legislatore, tra i piu' gravi in assoluto e, sul piano tecnico, rende pressoche' automatiche le necessarie previsioni secondo le quali in giudizio non sara' concessa la sospensione condizionale della pena e sara' irrogata una pena concreta superiore ai 3 anni di reclusione. Ad ogni modo il rapporto tra i commi 1, 4 e 5 dell'art. 73, testo unico evidenzia, come la dottrina non ha mancato subito col rilevare, una grave incoerenza sistematica, perche' non si capisce davvero perche' per il fatto lieve non sia prevista alcuna distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere che, invece, e' prevista non solo per i fatti non lievi ma anche per l'illecito amministrativo della detenzione per uso personale di cui all'art. 75 t.u. Insomma, non si puo' in effetti negare che sia intimamente contraddittorio determinare in astratto le pene previste per i reati maggiori e le sanzioni amministrative per l'illecito amministrativo alla luce di questa distinzione e non, invece, per il reato minore. La scelta di ripercorrere in via analitica le varie tappe dell'evoluzione normativa risponde allo scopo di far emergere come questa contraddittorieta' e' in buona sostanza il frutto non di una precisa e ponderata scelta di politica criminale compiuta dal legislatore, ma del disordinato-succedersi degli eventi e della necessita' di provvedere in via d'urgenza. Infatti, la legge n. 79 del 2014, di conversione del decreto-legge n. 36 del 2014, alla quale e' imputabile come si e' visto questa contraddizione, non costituisce una riforma di sistema ma e' dominata dalla necessita' ed urgenza di far fronte a due distinte e concorrenti emergenze particolarmente impellenti: quella originata dalla pronunzia della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e quella del sovraffollamento carcerario. Il problema e' che una volta risolta l'urgenza, il tema di una riforma complessiva dei reati relativi agli stupefacenti, e' subito scomparso dall'agenda politica. L'indicata disarmonia sistematica, ad avviso di questo giudice, non integra di per se' solo un vizio di legittimita' costituzionale, non potendosi ravvisare alcun obbligo costituzionale di distinzione tra le varie tipologie di sostanze stupefacenti, neppure alla luce del diritto europeo, che si limita, in realta', a fornire una mera indicazione di massima favorevole alla distinzione, nel fissare norme minime di incriminazione, come si avra' modo di vedere piu' diffusamente in seguito. Va, infatti, affermata con forza la distinzione tra norme inopportune, imperfette o comunque criticabili, anche sotto il profilo della coerenza sistematica e norme, invece, illegittime perche' contrastanti con la Costituzione. Insomma, il trattamento punitivo unitario tra droghe leggere e droghe pesanti di cui al comma 5 dell'art. 73 t.u., in rapporto al trattamento distinto di cui ai precedenti commi l e 4, non integra ancora un vero e proprio vizio di legittimita' costituzionale. Il discorso pero' cambia se questa incoerenza sistematica si traduce, in modo vincolante per il giudice, in gravi sperequazioni punitive, nel senso che casi assimilabili, quanto a gravita' di offesa, sono in concreto puniti con pene molto diverse tra loro e che casi molto diversi sono, invece, puniti tutti con la stessa pena. Cio' dipende evidentemente dai limiti edittali di pena previsti per le varie ipotesi. Questo problema non si pone per le droghe leggere perche', come si e' visto, i limiti edittali di pena previsti ai commi 4 e 5 dell'art. 73 t.u., rispettivamente per il reato maggiore e minore, in larga misura si sovrappongono, cosi' rendendo possibile per il giudice modulare la pena sulla concreta offensivita' della condotta tenuta, a prescindere dalla qualificazione formale del fatto in termini di lieve entita'. A dir meglio il legislatore ha valutato che l'integrazione del reato maggiore non implica necessariamente una pena radicalmente diversa rispetto a quella prevista per il reato minore, sulla base della realistica presa d'atto che nelle inevitabili zone di confine i casi concreti tipicamente presentano un contenuto offensivo sostanzialmente omogeneo. Questa valutazione e' sorretta razionalmente dalla considerazione che i due reati sono identici riguardo alla condotta punita e l'unica differenza e' data dal grado di offesa, sicche' e' del tutto ragionevole ipotizzare una forte omogeneita' offensiva tra le condotte piu' gravi del fatto lieve e le condotte meno gravi del fatto non lieve. Infatti, se il fatto punito e' identico quanto a condotta e colpevolezza e l'elemento distintivo risiede in un concetto, quale la graduazione dell'offesa, che esprime una progressiva intensificazione di gravita', dal fatto meno a quello piu' grave, senza soluzione di continuita', e' gioco forza ritenere che le classi di fatti immediatamente prima ed immediatamente dopo il confine tra le due ipotesi, presentino contenuti offensivi sostanzialmente omogenei. Ma totalmente diversa e' la situazione normativa per le droghe c.d. pesanti, perche' il limite edittale minimo di 8 anni di reclusione, previsto per il reato maggiore, e' addirittura pari al doppio del massimo previsto per il reato minore, tanto che la distinzione tra fatto lieve e non lieve assume una valenza drammatica per la determinazione della pena in concreto. E' proprio questa eccessiva ed irragionevole distanza tra le pene previste per ipotesi per definizione confinanti a creare problemi di legittimita' costituzionale, sotto diversi profili, perche' impone al giudice di punire con pene molto diverse tra loro casi sostanzialmente omogenei quanto a contenuto offensivo e, comunque, con pene manifestamente sproporzionate in eccesso in un numero rilevantissimo di condotte. Per il momento basti osservare come quel limite edittale minimo di pena fosse originariamente previsto dalla legge Jervolino-Vassalli, ora rivissuta in parte qua per effetto dell'intervento della Corte costitizionale, in un contesto normativo affatto diverso, perche' il fatto di lieve entita' prevedeva solo una circostanza attenuante e non un reato autonomo e perche' la pena massima per il fatto di lieve entita' avente ad oggetto droghe pesanti era di 6 e non di 4 anni di reclusione. Sotto il primo punto di vista, la configurazione del fatto lieve come semplice circostanza attenuante, imponeva di considerare la pena di cui al comma l dell'art. 73 testo unico prevista, in linea di principio, per tutti i fatti di reato, anche quelli qualificabili in termini di lieve entita', tanto e' vero che quella pena ad essi si applicava sulla sola base del riconoscimento di una circostanza aggravante prevalente o equivalente all'attenuante. La doverosa presa d'atto che quei limiti edittali erano eccessivi rispetto a numerosi casi in grado di integrare il reato, aveva indotto il legislatore a prevedere una circostanza attenuante ad effetto speciale, secondo una tecnica seguita anche per numerosi delitti previsti nel codice (cfr., ad es., artt. 311, 323-bis, 609-bis u.c., 648 cpv. c.p.). Viceversa, oggi, la configurazione come reato autonomo esclude che la pena prevista nel comma 1 del cit. art. 73, possa essere considerata come prevista in astratto anche per i fatti di lieve entita', al quale invece puo' essere applicata la sola pena prevista dal comma 5, eventualmente aumentata per la ricorrenza di circostanze aggravanti. Come si e visto, la ratio della trasformazione del fatto lieve in reato autonomo risiede proprio nella volonta' del legislatore di escludere sempre per questi fatti le piu' gravi pene previste per i reati maggiori. Insomma, la distinzione tra le due ipotesi e ora certamente piu' netta, gia' a livello di previsione astratta. Sotto il secondo punto di vista, se e' vero che anche la disciplina originaria prevedeva una notevole distanza tra pena massima prevista per il fatto di lieve entita' (anni 6 di reclusione) e pena minima per il reato base (anni 8 di reclusione), e' pur vero che e' una distanza molto minore, pari alla meta' di quella attuale, che, contrariamente alla distanza oggi prevista, non espropriava totalmente il giudice dalla possibilita' di modulare la pena sulla base del concreto contenuto offensivo della condotta illecita posta in essere. Infatti, laddove il giudice ritenga che il fatto alla sua attenzione, pur non potendo essere ricondotto al fatto di lieve entita', esprima comunque una gravita' in concreto di poco superiore e, pertanto, tale da non giustificare la rigorosa pena minima prevista dal comma primo, attraverso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e l'applicazione dello sconto massimo previsto (un terzo), puo' pervenire ad una pena detentiva minima di anni 5 e mesi 4 di reclusione. Ebbene, questa pena, e' inferiore alla pena massima prevista per l'attenuante nel sistema originario (anni 6 di reclusione) e cosa era garantita la minima ragionevolezza e la proporzionalita' del trattamento punitivo nel suo complesso, attraverso il prudente esercizio dei poteri discrezionali del giudice. Oggi, invece, quella pena e' ancora di molto superiore alla pena massima prevista per i fatti di lieve entita' (4 anni di reclusione) e, pertanto, il potere discrezionale del giudice, pur esercitato nella sua massima estensione, non e' in grado di evitare evidenti sperequazioni punitive tra fatti dal contenuto offensivo omogeneo. 2. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. La rilevanza del presente dubbio di legittimita' costituzionale impone l'espressa motivazione che questo giudice debba fare applicazione dell'art. 73, comma 1 t.u. e non, invece, del comma quinto. Come gia' si e' avuto modo di notare i due reati sono in tutto identici salvo l'elemento, descritto nel comma 5 della lieve entita' del fatto "per i mezzi, la modalita' o le circostanze dell'azione ovvero per la qualita' e quantita' delle sostanze", che sono elementi che non incidono sull'obiettivita' giuridica e sulla struttura della fattispecie previste come reato, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva. In buona sostanza una distinzione tanto rilevante, non solo con riferimento alla pena applicabile, ma anche a numerosi ed assai significativi effetti indiretti di disciplina (la prescrizione, le misure cautelari, la messa alla prova per maggiorenni e la causa di non punibilita' per particolare tenuita' del fatto, per citare solo i piu' rilevanti), viene rimesso al prudente apprezzamento del giudice riguardo al caso concreto. E' ben nota, peraltro, la ricca elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha consentito di superare o comunque contenere entro limiti accettabili il deficit di determinatezza della formula legale, negativamente apprezzabile rispetto al requisito di tassativita' desumibile dall'art. 25, comma 2 Cost. Alla stregua della giurisprudenza in questione si puo' affermare che la lieve entita' del fatto va accertata sulla base di un giudizio globale, di carattere oggettivo e soggettivo, diretto a valutare la concreta offensivita' del reato, in particolare mediante un'analisi congiunta e complessiva di tutti i parametri legislativi. Nella prassi applicativa, peraltro, e' assai frequente un rilievo preminente assegnato al criterio quantitativo che puo' trovare una sua giustificazione razionale nell'osservazione che si tratta di un criterio che, da un lato, e' tipicamente oggetto non solo di prova certa ma anche misurabile in modo preciso, a mezzo della consulenza tossicologica sullo stupefacente sequestrato e, dall'altro, ha diretta correlazione con il grado di intensita' dell'offesa al bene giuridico protetto, essendo evidente che a quantita' maggiori di sostanze stupefacenti corrisponde un'offesa maggiore dei beni della salute e dell'ordine pubblico. Si tratta cioe' di un criterio che, a differenza degli altri, si mostra particolarmente adatto a misurare in termini precisi e percio' razionalmente controllabili, il grado dell'offesa della condotta in concreto posta in essere, attraverso il riferimento ai mg. di principio attivo di sostanza stupefacente, oggetto materiale della condotta, ed il corrispondente numero di dosi ricavabili. Si aggiunga che questo ruolo privilegiato ha potuto storicamente giovarsi su precisi agganci normativi, sia pure mutevoli nel corso del tempo. Cosi' all'indomani dell'entrata in vigore del t.u. si sono subito diffuse elaborazioni giurisprudenziali che assumevano il parametro della dose media giornaliera come mezzo per determinare la quantita' massima compatibile col fatto lieve, normalmente espressa in alcuni multipli. L'abrogazione referendaria della dose media giornaliera ha determinato il venir meno di questi indirizzi che, pero'), si sono subito riproposti all'indomani dell'entrata in vigore della legge c.d. Fini-Giovanardi che, come e' noto, ha inserito all'interno della norma incriminatrice di illecita detenzione (cfr. art. 73, comma 1-bis t.u.) un rinvio ai limiti massimi, suddivisi per singole sostanze, stabiliti da apposito decreto ministeriale, della quantita' di stupefacente la cui detenzione poteva presumersi ad uso esclusivamente personale, in concreto poi fissati con decreto ministeriale 11.04.2006 (in Gazzetta Ufficiale 24.04.2006, n. 95). Solo apparentemente questo riferimento normativo venuto meno per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, perche' se vero che scomparso dalla norma incriminatrice, e' stato subito ripristinato dalla legge n. 79 del 2014, con la sostanziale medesima funzione di criterio di accertamento della destinazione ad un uso non esclusivamente personale dello stupefacente illecitamente detenuto, sia pure collocandolo nell'art. 75 t.u. Infatti, il nuovo comma 1-bis dell'art. cit., impone ora di tenere conto, ai fini dell'accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale, della circostanza che la quantita' di stupefacente non sia superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute. In dettaglio il decreto ministeriale 11 aprile 2006 ha fissato, per l'eroina, in mg. 25 il quantitativo di principio attivo, corrispondente alla c.d. dose, media singola e in mg. 250 il limite massimo che, in linea di principio, puo' essere considerato come detenuto ad uso personale. Per cio' che puo' valere, a margine di un locale incontro di formazione immediatamente successivo all'entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi ed in risposta alle pressanti richieste delle forze dell'ordine circa un'indicazione precisa, sul piano quantitativo, del confine tra fatto di lieve entita' e non (allora rilevante per la distinzione tra arresto obbligatorio e facoltativo in flagranza di reato), si e' proposto di applicare, in via puramente indicativa, un moltiplicatore di 10 per le droghe c.d. pesanti (e di 30 per quelle c.d. leggere) al quantitativo massimo indicato nel d.m. In sede di giudizio, poi, il Tribunale di Rovereto si e' sempre attenuto a questa indicazione, salvo casi del tutto eccezionali nei quali, per ulteriori particolari circostanze proprie del caso concreto (stato di tossicodipedenza dell'imputato, particolari modalita' di detenzione, ecc...), si fosse ritenuto che parte dello stupefacente detenuto fosse destinato in realta' anche ad un uso personale. Anche in tali casi, tuttavia, non si e' mai ritenuto un fatto di lieve entita', per le droghe pesanti, in presenza di un quantitativo di 30 volte superiore a quello indicato dal d.m. cit. (dunque, per l'eroina sino ad un limite massimo di 7.500 mg. di principio attivo). Anche il c.d. diritto vivente evincibile dai consolidati orientamenti della Cassazione e' sostanzialmente omogeneo, prendendo per ora in considerazione solo le pronunzie antecedenti alla trasformazione del fatto di lieve entita' in reato autonomo. Due sono, infatti, le massime ricorrenti al riguardo, consolidate sotto la vigenza della legge Fini-Giovanardi, ma che trovano origine in orientamenti ben piu' risalenti. In base alla prima il fatto di lieve entita' "puo' essere riconosciuto solo in ipotesi di minima offensivita' penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalita', circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" (Cass. Sez. Un. 24.06.2010, n. 35737, rv. 247911 e, da ultimo, Cass., 19.09.2013, n. 39977, rv. 256610). Dalla lettura delle motivazioni delle pronunzie, si evince che dietro questa formula linguistica, in se' generica, si cela la preminenza in realta' assegnata al dato quantitativo, ritenuto di per se' in grado di escludere il fatto lieve, nel caso superi determinate soglie, pur in presenza di ulteriori circostanze favorevolmente valutabili per l'imputato (nella sentenza da ultimo citata e' stato ritenuto preclusivo il possesso di 9 grammi lordi di eroina custoditi in 5 ovuli ingeriti; per analoga decisione, riferita alla vendita in distinte occasioni di 200 pasticche di ecstasy cfr. Cass., 22.12.2011, n. 6732, rv. 251942). A conferma di quanto affermato va sottolineato che del tutto analogo era il rilievo attribuito al criterio quantitativo gia' in Cassazione Sez. Un. 21.06.2000, n. 17, rv. 216668, non a caso massimata in modo identico sul punto (nella specie 30 grammi lordi di cocaina, corrispondenti a 300 dosi, cfr. pg. 65 ss. della motivazione). In base alla seconda, l'ipotesi del fatto di lieve entita' e' "configurabile nelle ipotesi di c.d. piccolo spaccio, che e' caratterizzato per una complessiva minore portata dell'attivita' dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonche' di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenuto conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a decine" (cfr. da ultimo e tra le tante Cass., 18.07,2013, n. 5410990, rv. 256609). Alla luce dei criteri sopra esposti appare indiscutibile che il caso in esame, relativo come gia' si e' precisato, al trasporto e alla detenzione a fine di spaccio di mg. 18.447 di principio attivo, corrispondenti a ben n. 738 dosi medie singole efficaci, esula dal fatto di lieve entita', a maggior ragione se si considera che anche le modalita' dell'azione non appaiono valutabili in senso favorevole all'imputato, perche' l'occultamento in ovuli ingeriti, con l'accettazione di gravi rischi per la salute e persino per la vita in caso di rottura degli ovuli, e' piuttosto indicativo di gravita' del reato e di capacita' a delinquere del reo. 2.1 (segue): impraticabilita' di correttivi in via interpretativa. La conclusione sopra raggiunta deve essere mantenuta ferma, anche alla luce del diritto vigente che si caratterizza, come si e' visto, per tratti distintivi di forte novita', rispetto al dato normativo sul quale si sono formati indirizzi interpretativi sopra esposti. In termini generali potrebbe apparire attraente la prospettiva di modificare verso l'alto il confine tra reato minore e reato maggiore, valorizzando l'innovativa qualificazione normativa in termini di reato autonomo, e non piu' di semplice circostanza attenuante, ed i modificati limiti edittali di pena. In effetti, l'assoluto rilievo dei principi di offensivita', ragionevolezza e proporzione della pena, anche sul piano interpretativo, piu' volte affermato con forza dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., quanto al primo, Corte cost., n. 333 del 1991, n. 133 del 1992, n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996, per citare i precedenti in tema di reati in materia di stupefacenti) unitamente all'assoluto rigore della pena minima prevista dal comma 1 dell'art. 73 t.u., potrebbe indurre l'interprete a fissare questo confine nel senso di ravvisare il reato maggiore solo nei casi in cui quella pena appaia proporzionata al concreto contenuto offensivo del fatto e, ritenere, invece, sempre integrato il fatto di lieve entita' in caso contrario. Se si ritiene la pena minima di anni 8 di reclusione sproporzionata in eccesso per una certa classe di fatti concreti, in presenza di un reato "minore" ancillare e di una distinzione legale tra le due fattispecie che assicura un ampio margine di discrezionalita' al giudice, si puo' sostenere che il giudice abbia l'obbligo di definire la tipicita' del reato maggiore in conformita' ai principi di proporzione della pena, ragionevolezza ed offensivita', facendo refluire nel reato minore tutti i casi concreti per i quali quella pena sarebbe eccessiva. Si tratterebbe di un mutamento di prospettiva radicale, perche' si finirebbe col ravvisare il fatto di lieve entita' nella generalita' dei casi ed il reato maggiore in casi statisticamente del tutto limitati, mentre secondo i principi interpretativi sino ad ora adottati e' esattamente il contrario. Un'operazione simile e' stata proposta da autorevole dottrina a margine ed in parziale critica ad una delle pronunzie piu' rilevanti, nel recente passato, della Corte costituzionale in materia di trattamento punitivo. Il riferimento e' alla sentenza n. 68 del 2012 che, come e' noto, ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 630 c,p. nella parte in cui, nel determinare la pena per il sequestro di persona a scopo di estorsione, non consente l'applicazione della circostanza attenuante del fatto di lieve entita', prevista dall'art. 311 del codice penale per l'analogo reato del sequestro di persona a scopo eversivo o di terrorismo di cui all'art. 289-bis del codice penale. Ebbene la dottrina in questione ha osservato come la giusta valorizzazione dell'obbligo di interpretazione costituzionalmente conforme, unitamente alla pena minima prevista di eccezionale rigore (anni 25 di reclusione), avrebbe potuto consigliare un'interpretazione restrittiva del precetto e, in particolare, dello scopo di estorsione tale da escludere l'integrazione del reato nel caso concreto che ha originato la decisione della Consulta (si trattava di un sequestro realizzatosi per un limitato periodo di tempo e finalizzato ad ottenere l'adempimento di un pregresso accordo illecito), con conseguente inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale proposta. A ben vedere, pero', e' una via di uscita impraticabile in questo caso non solo perche' in evidente contraddizione col dato normativo della riduzione della pena massima prevista per il fatto di lieve entita' avente ad oggetto droghe pesanti, che sembra confermare con forza la volonta' del legislatore di confinare l'ipotesi del fatto lieve a casi marginali, ma soprattutto perche' non in grado in realta' di risolvere il prospettato dubbio di costituzionalita' ed anzi foriero di ulteriori e piu' gravi problemi di legittimita' costituzionale, per tre distinte ragioni. Anzitutto si rischia di riproporre in modo drammatico il problema della scarsa determinatezza della descrizione del fatto tipico, incentrato sulla nozione di fatto di lieve entita', perche' una volta ritenuti non piu' applicabili i consueti criteri interpretativi ormai consolidati, la distinzione tra le due ipotesi sarebbe in sostanza riservata a soggettivi giudizi di proporzionalita' della pena dei singoli giudici, necessariamente mutevoli a seconda delle sensibilita' e delle appartenenze ideologiche di ciascuno, con sostanziale violazione delle istanze garantistiche sottese ai principi di certezza del diritto e di legalita' di cui all'art. 25, comma 2 Cost. Insomma, il rischio di forti sperequazioni punitive, anziche' diminuire, finirebbe inevitabilmente col crescere esponenzialmente. In secondo luogo, qualunque sia il confine stabilito tra i due reati resterebbe l'assoluta irragionevolezza, con concreta violazione del principio di uguaglianza, di punire con una pena massima di anni 4 di reclusione il fatto che si collochi al limite superiore di gravita' del fatto lieve e con una pena minima di anni 8 di reclusione il fatto che si colloca al limite inferiore di gravita' del fatto non lieve che, dal punto di vista del concreto contenuto offensivo, e' del tutto omologo al precedente. Esemplificando, se anche si ritenesse, in ipotesi, che il fatto di lieve entita' sia integrato per condotte aventi ad oggetto sino ad una quantita' massima di eroina pari a mille dosi medie efficaci, resterebbe ancora del tutto ingiustificato il diversissimo trattamento punitivo per chi detiene illecitamente 1.000 dosi di eroina e di chi, nelle medesime condizioni, ne detiene 1.001. Invero, il dubbio di legittimita' costituzionale se investe direttamente l'art. 73, comma 1 testo unico e' soprattutto un problema di rapporto tra norme che si assume regolino fatti concreti, nelle inevitabili zone di confine, omogenei quando a disvalore e non puo', pertanto, essere risolto semplicemente spostando il confine in via interpretativa, appunto perche' si riproporrebbe tale e quale in corrispondenza del diverso confine individuato. In terzo luogo, molti dei fatti refluiti in modo artificioso nell'ipotesi lieve rischierebbero di essere puniti con una pena sproporzionata, questa volta in difetto, in riferimento agli obblighi provenienti dal diritto europeo, perche' la pena massima di anni 4 di reclusione non rispetta il minimo fissato in 5 anni, quale pena massima, dalla decisione quadro n. 2004/757/GAI per le sostanze che comportano maggiori danni alla salute, quale e' senz'altro l'eroina, come si avra' modo meglio di illustrare in seguito. Infine e per chiudere sul punto, non solo l'obbligo di interpretazione costituzionalmente conforme, correttamente inteso, non puo' essere utilmente invocato in questo caso ma si deve ritenere sussista gia' il suo tradizionale limite, rappresentato dal c.d. diritto vivente. L'ormai gia' copiosa giurisprudenza di legittimita' formatasi dopo le ultime convulse vicende normative ha con sicurezza confermato la tradizionale interpretazione sul fatto di lieve entita'. Sin da subito, infatti, la Suprema Corte ha affermato come "in tema di stupefacenti, l'avvenuta trasformazione della fattispecie prevista dall'art. 73, comma quinto, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma di reato (...) non ha comportato alcun mutamento nei caratteri costitutivi del fatto di lieve entita', che continua ad essere configurabile nelle ipotesi di minima offensivita' penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalita', circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra Considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" (cfr. Cass., 28.01.2014, n. 9892, rv. 2593552 e Cass., 29.01.2014, n. 15020, rv. 259353, relativa, quest'ultima, a 100 grammi lordi di cocaina con un principio attivo del 21%, corrispondente a 146 dosi e in sentenza si afferma che questo quantitativo "ex se appare all'evidenza" in grado di escludere il fatto lieve). La medesima rigorosa interpretazione e' stata seguita, senza eccezioni note, da tutte le numerose sentenze successive (a titolo puramente esemplificativo Cass., 19.03.2014, n. 27064 rv. 259664; Cass., 27.03.2015, n. 32695, rv. 264491; Cass., 27.03.2015, n. 32695, rv. 264490; Cass., 29.04.2015, n. 23945, rv. 263651; inoltre Cassazione 27.01.2015, n. 15642 rv. 263068 ha riproposto il tradizionale criterio del numero di dosi "conteggiate a decine"). In conclusione, al caso oggetto di giudizio questo giudice e' obbligato ad applicare la pena prevista dal comma 1 dell'art. 73 t.u. 3. La non manifesta infondatezza: il contrasto col principio di ragionevolezza-uguaglianza (art. 3 Cost.). Venendo al merito della questione, il tema centrale del possibile contrasto col principio di ragionevolezza-uguaglianza, e' stato in gran misura gia' impostato nelle pagine precedenti. Occorre ora meglio precisare due aspetti, tra loro strettamente correlati: il termine di paragone in base al quale impostare il giudizio ed il petitum, ossia il tipo di pronunzia di accoglimento che ci si propone di ottenere. Al riguardo va, prima di tutto, ricordato come il dubbio di costituzionalita' investa unicamente il limite edittale minimo di pena previsto dal comma 1 dell'art. 73 t.u., precisando che le argomentazioni che seguiranno saranno riferite essenzialmente alla pena detentiva, per ragioni di semplicita' espositiva e perche' incide direttamente sul bene primario della liberta' personale, ma possono essere estese, mutatis mutandis, anche alla pena pecuniaria. Si e' gia' diffusamente argomentato come il primo ed essenziale tertium paragonis sia costituito dalla fattispecie di lieve entita', benche' sia evidente che, sul piano della previsioni astratta, costituisca un reato di minore gravita' per il quale il principio di uguaglianza, prescrivendo pari trattamenti per casi uguali e trattamenti differenziati per casi diversi, non solo giustifica ma addirittura impone un trattamento punitivo minore rispetto alla fattispecie di cui al comma 1 dell'art. 7 t.u., caratterizzata da un piu' elevato grado di offesa. Nonostante cio' la possibilita' di assumere l'indicato tertium paragonis si fonda su due fondamentali rilievi. Il primo, che gia' si e' avuto modo di argomentare, e' che i due reati sono in tutto identici riguardo alla condotta punita e l'unica differenza e' relativa al grado dell'offesa, cui si riferisce l'elemento del "fatto di lieve entita'". Poiche' grado di offesa e', per sua natura, un concetto quantitativo, che esprime la progressiva intensificazione della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico protetto, senza soluzioni di continuita', se la distinzione tra le due fattispecie e' ancorata solo a questo elemento, si deve necessariamente assumere una forte omogeneita', quanto a concreto contenuto offensivo, tra le condotte piu' gravi del fatto lieve e quelle meno gravi del fatto non lieve, ossia delle condotte che si collocano nelle inevitabili zone di confine tra le due fattispecie. Il secondo e' riconducibile alla particolare declinazione che il principio di legalita' delle pene assume con riferimento ai poteri del giudice. Come si puo' desumere dalla costante giurisprudenza costituzionale, infatti, l'art. 25, comma 2 Cost, " (...) non stabilisce soltanto l'irretroattivita' della norma penale, ma da', altresi', fondamento legale alla potesta' punitiva del giudice; eppero' e' altrettanto vero che il principio di legalita' della pena non puo' prescindere dalla individuazione di questa, ossia dal suo adeguamento alle singole fattispecie. E' perfettamente conforme al disposto costituzionale che la norma penale sia prefissata dalla legge in modo da consentire che la sanzione corrisponda alla specifica violazione concreta (...); e che la legge rimetta, con una certa ampiezza, al giudice la valutazione di situazioni e circostanze, lasciandogli un congruo ambito di discrezionalita' per l'applicazione della pena (...)" (Corte Cost. n. 131 del 1970, par. 2 del considerando in diritto). Insomma, come pure efficacemente e' stato precisato, il principio di legalita' delle pene "esige la differenziazione piu' che l'uniformita'" (cfi.. Corte costituzionale n. 50 del 1980, par. 3 del considerando in diritto, in tema di tendenziale contrasto alla Costituzione delle pene fisse) e cio' per adeguare la pena concreta ad altri principi costituzionali fondamentali, quali il principio di uguaglianza, di necessaria offensivita', della personalita' della responsabilita' penale nonche' del finalismo rieducativo della pena. Il sistema delineato dalla Costituzione riguardo al trattamento punitivo per condotte penalmente rilevanti e', dunque, impostato su un delicato bilanciamento tra esigenze di certezza della pena ed esigenze di individualizzazione, rispettivamente salvaguardate dalla previsione legale dei limiti massimi e minimi della pena e, nel contempo, dal riconoscimento di appropriati spazi di discrezionalita' per il giudice chiamato, nella determinazione della pena in concreto, ad adeguarla al concreto contenuto offensivo del fatto commesso, in modo da assicurarne la proporzionalita' alla "personale" responsabilita' ed il finalismo rieducativo, non realizzabile senza un'attenta considerazione della specificita' del caso concreto. Il combinarsi dei due rilievi appena evidenziati - particolare rapporto tra le due fattispecie prese in considerazione (distinzione solo per il gado dell'offesa) e necessaria individualizzazione della pena al caso concreto ad opera del giudice - rende evidente come nella specie non possano essere presi a confronto i limiti edittali omogenei delle due fattispecie e cio' per l'ovvia considerazione che si riferiscono a classi di casi concreti nettamente diversi, quando a contenuto offensivo. I casi di minore gravita' del reato minore e maggiore esprimono un contenuto offensivo nettamente differenziato ed e', pertanto, ovvio che i due limiti edittali minimi siano diversi. Lo stesso dicasi per casi di maggiore gravita'. Non avrebbe quindi senso porre a raffronto i limiti edittali minimi (o massimi) previsti tra le due fattispecie. Invece, come gia' si e' avuto modo di argomentare diffusamente, le classi di casi che presentano una forte omogeneita' di contenuto offensivo che, come tali, consentono un giudizio comparativo alla stregua del principio di uguaglianza-ragionevolezza, sono quelle di maggiore gravita' del reato minore, da un lato, e quelle di minore gravita' del reato maggiore, dall'altro, ai quali sono dedicati i limiti edittali massimo e minimo rispettivamente del reato minore e del reato maggiore. Dunque il confronto deve essere tra le grandezze espresse dal massimo edittale per il fatto di lieve entita' ed il minimo edittale per il reato maggiore ed e' proprio l'abnorme distanza tra queste grandezze che impedisce in concreto al giudice di svolgere il proprio ruolo, di adeguare al caso concreto la pena, imponendo gravi sperequazioni punitive. Vale la pena solo di sottolineare come la sostanziale violazione del principio di uguaglianza sia predicabile non solo perche' sono imposti trattamenti diversi per fatti uguali ma anche perche' sono imposti trattamenti uguali per fatti diversi. Si verifica il primo e' piu' grave profilo ponendo in confronto le classi di casi concreti che si pongono immediatamente prima ed immediatamente dopo il confine tra le due fattispecie in progressione di tipicita' tra loro, punite con pene concrete necessariamente diversissime tra loro, non solo a livello puramente quantitativo ma anche, come pure gia' si e' ampiamente argomentato, per il fatto che la punizione avviene generalmente in un caso al di fuori dal circuito carcerario e, nell'altro, necessariamente all'interno del medesimo circuito. Si verifica, invece, il secondo profilo prendendo in considerazione fatti tutti riconducibili al reato maggiore, ma di concreto contenuto offensivo fra loro molto diversificati, perche' e' un dato di comune esperienza che limiti edittali minimi troppo severi finiscano inevitabilmente con l'essere costantemente applicati alla maggioranza dei casi riconducibili al tipo. La prassi applicativa proprio in materia di stupefacenti dimostra, infatti, come la pena minima di anni 8 di reclusione viene in concreto applicata costantemente a condotte aventi ad oggetto quantitativi lordi di stupefacente corrispondenti non solo a poche decine di grammi, ossia a casi, come quello in esame, che legittimamente sono collocabili ai limiti inferiore di gravita' del tipo, ma anche a svariati etti e, persino, a chilogrammi, ossia a casi che in presenza di un limite edittale minimo piu' ragionevole, non potrebbero aspirare ad essere puniti col minimo edittale. In buona sostanza questo eccessivo limite edittale minimo di pena finisce di fatto col costituire, se non proprio una pena fissa, comunque un automatismo sanzionatorio. Ed e' noto come la giurisprudenza costituzionale stigmatizza gli automatismi sanzionatori proprio per la chiara violazione dei principi di uguaglianza-ragionevolezza, di proporzionalita' e del finalismo rieducativo della pena (cfr. Corte Cost., n. 183 del 2011, in tema di limiti al riconoscimento delle attenuanti generiche al recidivo reiterato; Corte Cost. n. 251 del 2012, n. 105 e 106 del 2014, in tema di divieto di prevalenza dell'attenuante del fatto di lieve entita', prevista nei reati in materia di stupefaCenti, di ricettazione e di violenza sessuale sulla recidiva reiterata e, da ultimo, Corte Cost. n. 185 del 2015, in tema di recidiva obbligatoria). L'ampio potere discrezionale in astratto riconosciuto al giudice (nella specie, per la pena detentiva, da 8 a 20 anni di reclusione), rischia di essere di pura facciata se il limite minimo appare in tutta evidenza sproporzionato in eccesso per un notevole numero di casi riconducibili al tipo perche', a questo punto, il giudice sara' inevitabilmente indotto ad applicarlo costantemente se non proprio a tutti comunque ad una amplissima classe di casi concreti, tra loro molto diversi quanto a concreto contenuto offensivo. L'assoluta irragionevolezza di questa disciplina si e' addirittura aggravata con la trasformazione del fatto di lieve entita' da circostanza attenuante a reato autonomo, perche' la natura circostanziale consentiva di riferire, in astratto, la pena prevista nel primo comma anche ai fatti di lieve entita', mentre ora alle due autonome fattispecie corrispondono distinti limiti edittali di pena, tra loro indipendenti. L'idea di porre a confronto il limite edittale massimo del reato minore col limite edittale minimo del reato maggiore puo' trovare sostegno nel rilievo che e' possibile predicare un rapporto di omogeneita' tra due norme solo in funzione del trattamento di cui si discute, non invece in termini assoluti e una tantum. E' il trattamento di cui si discute che consente di guidare l'interprete nella selezione degli elementi che necessitano di essere comparati. Nella specie, se il problema di trattamento consiste nell'impossibilita' per il giudice di individuare la pena proporzionata in concreto nel passaggio tra i casi di lieve entita' ed i casi non di lieve entita', ma comunque collocabili nei limiti inferiori del reato maggiore, sono proprio i limiti edittali di pena massimi e minimi delle due fattispecie a dover essere messi a raffronto. Gli stessi precedenti della giurisprudenza costituzionale confortano la possibilita' di porre a confronto norme e fattispecie, a fini specifici, pur presentando ad altri fini forti elementi di eterogeneita'. Cosi' riguardo al precedente che ha riconosciuto l'illegittimita' della pena minima prevista originariamente per l'oltraggio, il confronto col delitto di ingiuria e' stato ammesso nonostante la premessa per la quale "la plurioffensivita' del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu' grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della p.a." (cfr. Corte costituzionale n. 341 del 1994, par. 3 del considerando in diritto). Da questa premessa la Corte non trae senz'altro la conseguenza dell'eterogeneita' dei termini posti a raffronto ma, al contrario, dal rilievo che "nei casi piu' lievi, il prestigio ed il buon andamento della p.a., scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo cosi' irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere 12 volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria", giunge alla conclusione secondo la quale il limite minimo di pena si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3 Cost. e deve, percio', essere sostituito col limite di giorni 15 fissato in via generale dall'art. 23 c.p. "senza con cio' effettuare alcuna opzione invasiva della discrezionalita' del legislatore, il quale peraltro resta libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purche' ragionevole (...)". Questa argomentazione e' molto interessante ai presenti fini perche', se non ci si inganna, il termine di paragone e stato impostato non tanto tra fattispecie astratte, che anzi sono state riconosciute come eterogenee, quanto a classi di casi concreti riconducibili al tipo, nel senso cioe' di affermare che i fatti di minore gravita' ricondotti all'oltraggio sono sostanzialmente equivalenti, quanto a concreto contenuto offensivo, ai fatti di ingiuria, perche' non incidono in realta', a differenza degli altri, sul bene del prestigio della p.a. Cio' spiega anche la ragione del ricorso al limite minimo edittale previsto in via generale dall'art. 23 del codice penale per eliminare la ravvisata incostituzionalita', certamente fruibile nella specie perche' il termine di raffronto rappresentato dall'art. 594 c.p, non prevede un espresso diverso limite edittale, ma va comunque sottolineato come la Corte non abbia proceduto ad una completa assimilazione tra le due fattispecie, non avendo esteso ne' la pena alternativa prevista per l'ingiuria ne', tantomeno, il regime di procedibilita' a querela di parte. Va, inoltre, osservato come il rilievo finale sulla liberta' del legislatore di prevedere una diversa disciplina abbia trovato positivo riscontro, perche' con legge n. 205 del 1999 si e proceduto all'abrogazione della fattispecie di oltraggio e con legge n. 94 del 2009 si e' introdotto nuovamente l'oltraggio, ma con significative differenze rispetto alla tradizione, in particolare prevedendo quali nuovi elementi costitutivi il luogo pubblico o aperto al pubblico e la presenza di piu' persone ed e' stata prevista una pena (la reclusione sino a 3 anni) nettamente differenziata rispetto all'ingiuria. Con cio' si vuole evidenziare come l'intervento della Corte non fosse affatto obbligato, sul piano costituzionale, in termini assoluti ma solo in termini relativi, in riferimento cioe' alla concreta disciplina e al contesto normativo allora vigente. Utili indicazioni vengono anche dal piu' recente precedente, relativo al sequestro a scopo di estorsione (Corte Cost. n. 68 del 2012). Infatti, anche in quella occasione il confronto tra le due fattispecie - sequestro a scopo di estorsione e sequestro a scopo di terrorismo - viene ammesso nonostante la netta differenza di beni giuridici protetti, riflessa nel contenuto del dolo specifico; da un lato il patrimonio e dall'altro l'ordine costituzionale. Non solo, ma questa differenza non solo non e' ritenuta preclusiva per la comparazione "ma rafforza, anzi, il giudizio di violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza", dal momento che la sicura preminenza dell'ordine costituzionale rispetto al patrimonio, se giustifica "uno statuto in generale piu' severo (...) rende, di contro, manifestamente irrazionale - e dunque lesiva dell'art. 3 Cost. - la mancata previsione, in rapporto al sequestro a scopo di estorsione, di un'attenuante per i fatti di lieve entita', analoga a quella applicabile alla fattispecie gemella che, coeteris paribus, aggredisce l'interesse di rango piu' elevato" (cfr. par. 5 del considerando in diritto). L'omogeneita' dei termini posti a raffronto viene inoltre meticolosamente argomentata in rapporto ad una serie di indici, quali la matrice storica, la struttura delle fattispecie, il trattamento sanzionatorio, la previsione di identiche aggravanti ed attenuanti, la medesima disciplina sul concorso eterogeneo delle circostanze. Non solo, ma la Corte legittima il confronto anche su due fondamentali rilievi: da un lato che il trattamento sanzionatorio "di eccezionale asprezza" era stato previsto dalla legislazione emergenziale di fine anni '70, al fine di contenere lo straordinario incremento di sequestri a scopo di estorsione, operati da pericolose organizzazioni criminali con efferate modalita' esecutive; dall'altro che la descrizione del fatto incriminato dall'art. 630 del codice penale si presta a far ritenere compresi nel tipo "anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell'emergenza", i quali "hanno finito, di fatto, per assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella piu' recente casistica dei sequestri estorsivi", come "i sequestri attuati al fine di ottenere una prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto di natura illecita con la vittima" (cfr. par. 3 del considerando in diritto). Insomma, anche in questo caso, l'irragionevolezza e sproporzione della pena (minima) viene argomentata non in astratto ma con specifico riferimento a classi di casi concreti riconducibili al tipo, espressivi di un disvalore diverso e minore, rispetto ai casi tenuti presenti in astratto dal legislatore nel fissare il trattamento punitivo. Infine, vanno citati due ulteriori recenti precedenti particolarmente significativi per dimostrare come l'omogeneita' o diversita' di trattamento ben possa essere impostata in termini diversi rispetto al tradizionale confronto di compassi edittali previsti per le due fattispecie poste a raffronto. Nel primo, infatti, il confronto attiene non al trattamento sanzionatorio ma all'area del penalmente rilevante in relazione alla previsione di diverse soglie di punibilita'. Nel dichiarare l'incostituzionalita' dell'art. 10-ter, decreto legislativo n. 74 del 2000, nella parte in cui, per i fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 50.000,00, Corte costituzionale n. 80 del 2014 reputa irragionevole che per il reato meno grave sia prevista una soglia di punibilita' minore rispetto alle piu' gravi fattispecie, assunte corne termine di paragone, rappresentate dalla dichiarazione infedele o dalla omessa dichiarazione (articoli 4 e 5, decreto legislativo cit., che prevedevano soglie di punibilita' rispettivamente di euro 77.468,53 e di euro 103.291,38). Per eliminare il vizio di costituzionalita' procede ad allineare la soglia di punibilita' "alla piu' alta fra le soglie di punibilita' delle violazioni in rapporto alle quali si manifesta l'irragionevole disparita' di trattamento: quella, cioe', della dichiarazione infedele (euro 103.291,38)". In tal caso, a ben vedere, il confronto non e' tra norme penali ma tra la fattispecie sanzionata penalmente dell'omesso versamento dell'IVA e fattispecie sanzionate solo amministrativamente di omessa e fraudolenta dichiarazione (nel caso la condotta superi la prima soglia di punibilita' ma non le altre due). In Corte costituzionale n. 143 del 2014, il confronto tra incendio colposo (art. 449 c.p.) ed incendio doloso (art. 423 c.p.) viene impostato per censurare il maggiore termine prescrizionale previsto per il primo reato (12 anni per effetto del raddoppio previsto dall'art. 157, comma 6, c.p.) rispetto al secondo (7 anni). Dopo aver ricordato come il legislatore puo' certamente introdurre deroghe alla regola generale di computo della prescrizione "sulla base di valutazioni correlate alle specifiche caratteristiche degli illeciti considerati", in specie per il particolare allarme sociale generato da alcuni reati ovvero per la speciale complessita' delle indagini richieste per il loro accertamento, la Corte evidenzia pero' come le due fattispecie poste a raffronto non si distinguano in rapporto al bene protetto o alle modalita' di aggressione ma unicamente per la componente psicologica. Cio' rende illogico il differente trattamento previsto, con un termine prescrizionale piu' lungo per la fattispecie meno grave, non giustificato ne' da un maggiore allarme sociale connesso al reato ne' da considerazioni di ordine probatorio, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost. Il vizio viene emendato eliminando la norma che prevede il raddoppio del termine di prescrizione (art. 157, comma 6 c.p.) con conseguente applicazione della disciplina generale (anni 6) e, pertanto, senza estendere il termine previsto per la fattispecie assunta come termine di raffronto (anni 7). Va, inoltre, sottolineato come, a ben vedere, la manifesta irragionevolezza del trattamento punitivo del reato di cui al comma 1 dell'art. 73 testo unico emerge, in tutta la sua evidenza, anche dal confronto con la disciplina prevista per i reati aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, da assumere come autonomo tertium paragonis. In tal caso, cioe', il confronto corre tra due coppie affini, se non sostanzialmente identiche, di fatti lievi e non lievi, quelli aventi ad oggetto droghe pesanti (dunque colmi 1 e 5 dell'art. 73 cit.) e quelli aventi ad oggetto droghe leggere (commi 4 e 5), in entrambi i casi caratterizzate da una progressione senza soluzioni di continuita' dell'offesa (dal fatto lieve al fatto non lieve), dal momento che le note di tipicita' e strutturali dei reati restano le stesse, a prescindere dal fatto che oggetto materiale della condotta sia una droga pesante o una droga leggera. Ebbene non si capisce davvero per quale ragione il legislatore abbia tratto la dovuta conseguenza da questa comune premessa per le droghe leggere, prevedendo limiti di pena addirittura in larga misura sovrapposti per le due ipotesi, cosi assicurando il pieno potere del giudice di adeguare la pena al caso concreto, anche a prescindere dalla formale qualificazione in termini di fatto lieve ed abbia, invece, previsto uno iato addirittura di 4 anni, tale cioe' da non poter essere colmato neppure con l'esercizio massimo del potere discrezionale riconosciuto al giudice (mediante il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche), per le droghe pesanti. Inoltre, va pure considerato che la tipologia della sostanza stupefacente nei reati di cui ai commi 1 e 4 dell'art. 73 t.u., e' ritenuta idonea a giustificare, evidentemente sulla base di un giudizio da parte del legislatore di una notevole differenza di disvalore della condotta, una rilevantissima modificazione della cornice edittale, tale per cui da un minimo di anni 2 di reclusione si passa ad un minimo di anni 8 di reclusione e da un massimo di anni 6 di reclusione si passa ad un massimo di anni 20 di reclusione, sicche' resta davvero difficile comprendere come il medesimo elemento sia ritenuto del tutto irrilevante per i fatti di lieve entita'. Una simile asimmetria di trattamento tra reati aventi ad oggetto droghe pesanti e droghe leggere, nei reciproci rapporti col fatto di lieve entita', sembra proprio tracimare nel puro arbitrio legislativo ed integrare quella manifesta irragionevolezza che comporta la violazione del principio di uguaglianza, secondo la costante giurisprudenza costituzionale. Il merito della questione proposta coinvolge, dunque, soprattutto un rapporto tra norme: in prima battuta il rapporto tra comma 1 e comma 5 dell'art. 73 t.u.; in seconda battuta anche l'omologo rapporto tra comma 4 e comma 5 ed in tal caso il confronto si pone tra le diverse discipline previste tra reato minore e reato maggiore a seconda che la condotta abbia ad oggetto droghe pesanti ovvero droghe leggere. Cio' consente anche di individuare la possibile via d'uscita, ossia il preciso petitum richiesto alla Corte costituzionale. In astratto il problema potrebbe essere risolto anche innalzando il limite edittale massimo per il reato minore avente ad oggetto droghe pesanti, cosi' ripristinando la distinzione tra tipologie di stupefacenti anche per i fatti di lieve entita'. Ma, a parte il rilievo che l'eventuale questione di costituzionalita' del comma 5 non sarebbe rilevante in questa sede, dovendo questo giudice applicare il comma 1, un simile intervento e' certamente riservato al solo legislatore, dal momento che sono esclusi interventi additivi in malam partem ad opera della stessa Corte costituzionale. L'unica possibilita' per porre rimedio a questa intollerabile asimmetria di trattamento punitivo e' quella di "agganciare" il minimo edittale per i fatti di cui al comma 1 dell'art. 73 cit. al massimo edittale previsto per i fatti di lieve entita', ossia alla pena prevista dallo gesso legislatore per la classe di fatti concreti omogenea, quanto a contenuto offensivo. L'intervento richiesto, pertanto, e' la dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 73, comrna 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 nella parte in cui prevede la pena edittale minima di anni 8 di reclusione ed € 25.822,00 di multa, anziche' quella di anni 4 di reclusione ed € 10.329,00 di multa. Alternative plausibili non sembra sussistano. Impraticabile, in particolare, appare nella specie il riferimento ai limiti minimi previsti in via generale dagli articoli 23 e 24 Cost., ai quali pure la giurisprudenza costituzionale ha fatto talvolta riferimento e cio' per un concorrente ordine di ragioni. Il precedente dell'oltraggio (Corte Cost. n. 341 del 1994) sarebbe qui mal invocato, perche' in quel caso, come si e' visto, il ricorso all'art. 23 del codice penale per superare il vizio di costituzionalita' era reso possibile dalla circostanza che il termine di paragone, rappresentato dall'ingiuria, prevedesse una pena detentiva senza espresso limite edittale minimo e, pertanto, con applicazione appunto del limite generale. Nel caso di specie, invece, non solo manca un termine di paragone analogo, ma il termine di paragone individuato, rappresentato dal comma 5 dell'art. 73 del testo unico prevede un limite edittale minimo (6 mesi di reclusione per la pena detentiva) decisamente maggiore. Ne deriva che una simile soluzione e' chiaramente impraticabile perche' rischia di creare maggiori problemi di costituzionalita' di quanti non ne risolva. Infatti, si avrebbe, da un lato, un reato di maggiore gravita', con un limite minimo di soli giorni 15 di reclusione superiore di 12 volte rispetto q quello previsto per il reato minore, in chiara violazione dell'art. 3 Cost. e, dall'altro, lo stesso amplissimo compasso edittale da 15 giorni a 20 anni di reclusione si porrebbe in insanabile contrasto col principio di legalita' delle pene, risolvendosi nella sostanza in una sorte di delega in bianco concessa al giudice, degradando il suo potere discrezionale nella commisurazione della pena al caso concreto, in puro arbitrio. La stessa giurisprudenza costituzionale ha sottolineato con forza, da un lato, l'impossibilita' di adottare i limiti generali di pena come rimedio di sperequazioni punitive, in assenza di un idoneo termine di paragone (cfr. Corte costituzionale n. 22 del 2007 e n. 81 del 2014) e, dall'altro, l'incostituzionalita' di compassi edittali troppo divaricati (cfr. Corte costituzionale n. 299 del 1992). 3.1 (segue): il contrasto col principio di proporzione delle pene (art. 27, comma 3 Cost.). Ulteriore profilo di contrasto alla Costituzione che occorre evidenziare attiene al principio di proporzionalita'. In termini generali l'indicato principio esprime un canone di razionalita' minima, di coerenza tra norme secondo il quale "la scelta dei mezzi o strumenti, da parte dello Stato, per raggiungere i propri fini va limitata da considerazione razionali rispetto ai valori" (cosi' Corte Cost. n. 409 del 1989) e vale per l'intero diritto pubblico. In ambito penale il principio di proporzionalita' esprime l'esigenza che sussista un rapporto forte tra gravita' del fatto tipico punito e pena prevista, negando "legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionalmente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (ancora Corte Cost., n. 409 del 1989). Ancora in termini generali la circostanza che la pena pregiudica il bene primario della liberta' del singolo (art. 13 Cost.) dovrebbe conferire al principio una forza in ambito penale particolarmente stringente. Sennonche' il mancato espresso riconoscimento in Costituzione, ha reso necessario riferirsi ad altri principi costituzionali, in stretto rapporto tra loro, quali il principio di offensivita', il principio uguaglianza-ragionevolezza e, da ultimo, il principio del necessario finalismo rieducativo di cui all'art. 27, comma 3 Cost. In particolare, la necessaria funzione rieducativa risulta impossibile se la pena sproporzionata in eccesso, essendo necessariamente percepita dal destinatario come ingiusta e vessatoria e pregiudicando quindi quel necessario processo di rielaborazione che costituisce la premessa di ogni seria rieducazione, stimolando anzi sentimenti di ribellione ed ostilita'. Da questo punto di vista una pena sproporzionata in eccesso configura un mezzo del tutto inadeguato rispetto al fine specialpreventivo, imposto costituzionalmente. D'altra parte, costituisce opinione comune che una minima proporzione tra gravita' oggettiva del reato ed intensita' della colpevolezza, da un lato e pena, dall'altro, appare requisito imprescindibile anche sui distinti piani funzionali della prevenzione generale e della retribuzione. Viceversa, lo stretto collegamento col principio di ragionevolezza-uguaglianza ha comportato che la giustiziabilita' del principio di proporzione sia stata in concreto subordinata dall'individuazione di un idoneo termine di paragone, essendo altrimenti precluso l'intervento della Corte costituzionale, principalmente a causa del limite rappresentato dal principio della riserva di legge. In questa prospettiva vanno qui richiamate, sotto l'angolo visuale del rispetto del principio di proporzionalita' della pena, tutte le argomentazioni gia' sopra spese in ordine al principio di ragionevolezza-uguaglianza. Va ora piuttosto evidenziato come la violazione del principio di proporzionalita' della pena si manifesti in termini macroscopici in via assoluta, anche prescindendo dal confronto con la fattispecie del fatto di lieve entita' ovvero con la disciplina degli omologhi reati aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, ossia con le fattispecie che si e' ritenuto possano assurgere ad idonei termini di confronto. In questa prospettiva la pena prevista dall'art. 73, comma l testo unico e, in particolare, il limite edittale minimo, si appalesa come intimamente irrazionale, perche' fortemente contraddittoria rispetto al contesto normativo nella quale quella pena si inserisce. Come e' noto la misura della gravita' di un reato va apprezzata sulla base essenzialmente di tre criteri, rappresentati dal rango del bene giuridico tutelato, dalle modalita' di aggressione e dall'intensita' della colpevolezza. E' altresi' noto come i reati in materia di stupefacenti siano tradizionalmente ricondotti ad una matrice plurioffensiva, fondata sui beni della salute pubblica, dell'ordine pubblico e della sicurezza collettiva (nella giurisprudenza costituzionale, cfr. Corte costituzionale n. 333 del 1991, n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996). Non vi e' dubbio che il bene primario della salute pubblica sia pregiudicato in modo particolare dalle droghe c.d. pesanti e, tra esse, dagli oppiacei che, secondo le comuni acquisizioni scientifiche, sono in grado di instaurare gravi stati di dipendenza, implicano sempre danni clinici e possono persino rivelarsi letali in caso di overdose. Anche i beni, tra loro strettamente collegati, dell'ordine pubblico e della sicurezza collettiva sono pregiudicati, considerando gli effetti criminogeni indotti dalla tossicodipendenza ed il coinvolgimento di pericolose organizzazioni criminali nel traffico di stupefacenti. Sul piano delle modalita' di aggressione e' altrettanto tradizionale la configurazione dei reati in materia di stupefacenti come reati di pericolo astratto e/o presunto, non essendo affatto necessaria per l'integrazione del reato ne' l'effettiva lesione dei beni giuridici protetti ne' la dimostrazione di un pericolo concreto. Infine, sul piano della colpevolezza, si tratta di reati punibili a titolo di dolo generico. Ebbene se quelle sopra sinteticamente analizzate sono le coordinate essenziali per misurare la gravita' del reato di cui all'art. 73, comma 1 cit., non puo' non balzare agli occhi l'evidente sproporzione delle pene previste rispetto a vari reati previsti nel codice penale. Considerando il bene salute, la natura di reato di pericolo non e' stata minimamente tenuta in considerazione dal legislatore nel prevedere i rigorosissimi limiti edittali e in particolare il limite minimo di 8 anni, quasi tre volte superiore a quello previsto per le lesioni gravi (3 anni di reclusione, cfr. art. 583 c.p.) e, addirittura superiore al limite massimo (7 anni di reclusione). Non solo, ma persino il tentato omicidio, punito con la pena da 7 a 14 anni di reclusione (cfr. articoli 56 e 575 c.p.) e' considerato meno grave. Considerando il bene dell'ordine pubblico il confronto coi delitti di cui al Titolo V del codice, benche' siano in prevalenza di pericolo concreto, secondo l'interpretazione prevalente sono tutti sensibilmente meno gravi. L'unica fattispecie che contempla lo stesso minimo edittale e' quella di devastazione o saccheggio (art. 419 c.p.), punita tuttavia con una pena massima, pari ad anni 15 di reclusione, sensibilmente inferiore. Considerando che tutti i reati considerati sono dolosi neppure il criterio della colpevolezza appare in grado di giustificare simili sperequazioni punitive. D'altra parte la notevolissima distanza delle pene previste rispetto a reati certamente piu' gravi (come il tentato omicidio) non sembra possa essere controbilanciata unicamente dalla dimensione plurioffensiva del reato considerato. Vale solo la pena di aggiungere che benche' la gravita' del reato sia generalmente connessa col limite massimo, assume in realta' rilievo preminente, ai presenti fini, il limite minimo. Da un lato, infatti, la presente questione prende le mosse da fatti concreti che si pongono ai limiti inferiori di gravita' del tipo e, dall'altro, a ben guardare e' il limite minimo che costituisce l'autentico criterio vincolante per il giudice nella determinazione della pena in concreto. 3.1.1. (segue): il contrasto col principio formale di proporzione delle pene (articoli 11 e 117 Cost. in rapporto all'art. 49 par. 3 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). La violazione del principio di proporzione delle pene puo' essere invocato anche attraverso il diverso parametro rappresentato dagli artt. 11 e 117 Cost., essendo riconosciuto in modo espresso dall'art. 49, par. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (di seguito CDFUE). La norma in questione, sotto la rubrica Principi di legalita' e della proporzionalita' delle pene", recita testualmente "le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato". Al riguardo merita di essere evidenziato il riferimento alle pene "inflitte" piuttosto che alle pene previste dalla legge, a dimostrazione che, il diritto europeo sembra prestare attenzione alle concrete violazioni dei diritti fondamentali dei condannati piuttosto che alla coerenza astratta delle norme di legge. Questa indicazione impone, ancora una volta, di prestare attenzione, nel nostro sistema di determinazione della pena, al limite edittale minimo, essendo questo limite a condizionare, in via vincolata per il giudice, le pene in concreto irrogate. L'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale impone la dimostrazione, da un lato, dell'operativita' e della vincolativita' per lo Stato della norma europea al caso di specie e, dall'altro, la non applicabilita' diretta, con obbligo di disapplicazione della norma interna eventualmente contrastante. Sotto il primo profilo, premesso che la CDFUE, a norma dell'art. 51 non introduce competenze nuove rispetto a quelle previste dai Trattati, deve pero' osservarsi come il traffico illecito di stupefacenti (insieme al terrorismo, alla tratta degli essere umani, allo sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, al traffico illecito delle armi, al riciclaggio di denaro, alla corruzione, alla contraffazione di mezzi di pagamento, alla criminalita' informatica e alla criminalita' organizzata) appartenga espressamente all'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, per il quale "il Parlamento europeo ed il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalita' particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni", a norma dell'art. 83, par. 1 del Trattato UE. Si tratta cioe' delle materie del c.d. ex Terzo pilastro secondo la disciplina vigente prima del Trattato di Lisbona, per le quali lo strumento normativo di uniformazione era la decisione quadro. Ebbene l'Unione ha in concreto legiferato sul punto mediante la decisione quadro, gia' citata, 2004/757/GA1 e cio' e' quanto basta per ritenere applicabile al caso di specie il diritto dell'Unione e, in particolare, l'art. 49, par. 3 della CDFUE. Sotto il secondo profilo, e' noto che le norme della CDFUE hanno lo stesso valore giuridico delle norme dei Trattati e, pertanto, trattandosi di diritto primario dell'Unione, in linea teorica si potrebbe porre la questione della loro applicazione diretta da parte del giudice comune, con conseguente obbligo di disapplicazione delle norme interne ritenute con esse incompatibili e conseguente inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale proposta ai sensi degli articoli 11 e 117 Cost. A ben vedere, tuttavia, si tratta di una prospettiva impraticabile con riferimento all'art. 49, par. 3 CDFUE, trattandosi di norma strutturata a livello di norma di principio costituzionale, insuscettibile di applicazione diretta per la semplice considerazione che non indica con precisione quale sia la pena proporzionata al caso da decidere, in luogo di quella in ipotesi sproporzionata prevista dal diritto interno: Se il principio di riserva di legge in materia penale vincola la Corte costituzionale, si deve necessariamente ritenere che vincoli a fortiori anche giudice ordinario che non potrebbe individuare in autonomia la pena ritenuta proporzionale al caso da decidere, in assenza di parametri legali fissati in astratto. Andando di contrario avviso si finirebbe non solo col violare la riserva di legge in materia penale ma, paradossalmente, con l'aumentare il rischio di sperequazioni punitive rispetto a casi omogenei quanto a contenuto offensivo che costituisce, come si e' visto, la ragione sostanziale della presente questione di legittirnita' costituzionale. Insomma, si finirebbe col sostituire l'arbitrio del legislatore con l'arbitrio del giudice, ancora piu' pericoloso perche' privo di criteri certi di riferimento. Ad ulteriore conforto dell'impraticabilita' di una soluzione che consenta di disapplicare il diritto interno per violazione di una norma di principio quale l'art. 49, par. 3 CDFUE potrebbe forse invocarsi anche la c.d. teoria dei controlimiti, qualificando quali principi costituzionali fondamentali per il nostro sistema, da un lato, la riserva di legge in materia penale e, dall'altro, il controllo centralizzato di costituzionalita' ad opera della Corte costituzionale (art. 134 ss. Cost.). A quest'ultimo riguardo occorre considerare che, poiche' la CDFUE costituisce, sotto il profilo dei contenuti, una vera e propria Costituzione, che ribadisce tutti o quasi i principali principi che gia' trovano riconoscimento nella nostra Costituzione, ammettere che il giudice ordinario possa disapplicare il diritto interno con essa contrastante, sia pure nelle materie di competenza dell'Unione, finirebbe fatalmente col sostituire, nel medesimo ambito, l'attuale controllo di costituzionalita' centralizzato ad opera della Corte costituzionale con un controllo diffuso ad opera dei giudici comuni. Un simile esito non sembra possa essere affermato in via puramente interpretativa, quale conseguenza indiretta dell'entrata in vigore della CDFUE, senza un'espressa cessione di sovranita', in tal senso, appunto perche' finisce col trasformare l'assetto costituzionale fondamentale ed irrinunciabile del nostro ordinamento. Se le indicazioni sopra riportate sono corrette, si deve quindi concludere che il principio c.d. formale di proporzionalita' delle pene, affermato dall'art. 49, par. 3 CDFUE non possa trovare applicazione in via diretta da parte del giudice comune, senza la mediazione da parte del legislatore nazionale trattandosi, comunque, di norma vincolante per lo Stato la sua violazione da parte della legislazione ordinaria si traduce in una violazione della nostra Costituzione e, in particolare, dei parametri interposti di cui agli articoli 11 e 117 Cost. che ribadisdono sul piano Costituzionale i vincoli internazionali, anche sulla base di trattati che comportano cessioni di sovranita', quali sono certamente i trattati istitutivi dell'Unione europea. Benche' non vi sia ancora una compiuta elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte di giustizia sul principio c.d. formale di proporzionalita' delle pene, l'opportunita' di una sua autonoma considerazione in questa sede deriva dalla possibilita', derivante dal diverso contesto in cui e' inserito, che esso possa avere un contenuto maggiormente stringente rispetto all'analogo principio del diritto costituzionale interno. Va, in particolare, considerato come il principio di riserva di legge in materia penale non sia operante, almeno con la medesima portata, in ambito europeo, per la presenza anche degli ordinamenti di common law. A livello di diritto interno, cio' potrebbe indurre a ritenere, non gia' senz'altro superato il principio di riserva di legge che risulta fondamentale nel nostro sistema, ma piuttosto possibile una maggiore ampiezza di intervento della Corte costituzionale, almeno nei casi di piu' evidente violazione di altri principi costituzionali, quali in particolare i principi di proporzionalita' delle pene, della funzione rieducativa e di ragionevolezza-uguaglianza. Cio' potrebbe tradursi, in particolare, in un minore rigore, rispetto alle interpretazioni tradizionali, nell'individuare idonei termini di paragone in forza dei quali sostituire, in bonam partem, pene ritenute eccessive rispetto alla gravita' dei reati presi in considerazione. Per concludere l'analisi del diritto europeo va analizzato il contenuto della citata decisione quadro 2004/757/GAI che e' certamente atto normativo vincolante per lo Stato, ma non direttamente applicabile dal giudice comune. Al riguardo va subito affermato, a confutazione di ricorrenti allegazioni difensive che la nostra legislazione non contrasta in modo formale e diretto con la predetta decisione quadro e cio' perche' si tratta di strumento volto a fissare norme minime di contrasto penale al traffico degli stupefacenti, restando liberi gli Stati di prevedere norme piu' rigorose. Quando in ambito europeo afferma la necessita' di prevedere "sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, comprendenti pene privative della liberta'" (cfr. considerando n. 5 della cit. decisione quadro e art. 4) si intende far riferimento a pene sufficientemente gravi per contrastare il fenomeno illecito considerato, per cui la proporzionalita' delle pene viene invocata in senso inverso rispetto alla tutela dei diritti fondamentali dei condannati, nel senso cioe' che si vuole evitare pene sproporzionate in difetto, perche' troppo poco severe per svolgere la loro funzione di contrasto alla criminalita'. Con specifico riferimento ai limiti sanzionatori previsti nelle decisioni quadro cio' si traduce nel principio secondo la quale questi limiti individuano i minimi dei massimi edittali, sicche' la violazione del diritto europeo si ha solo se il massimo edittale previsto sia inferiore alla soglia fissata a livello europeo, non invece se e' superiore. Quanto al concreto contenuto della decisione quadro in questione, dopo aver fissato all'art. 2 le condotte che obbligatoriamente occorre punire, con la precisazione che sono escluse le condotte finalizzate al mero consumo personale, l'art. 4 prevede che ciascun Stato membro provveda affinche' i reati in questione "siano soggetti a pene detentive della durata massima compresa tra almeno 1 e 3 anni" (par 1), ovvero "tra almeno 5 e 10 anni" se il reato implica grandi quantitativi, abbia ad oggetto gli stupefacenti piu' dannosi per la salute, oppure ha determinato gravi danni alla salute di piu' persone (par. 2) ovvero ancora "della durata massima di almeno dieci anni, qualora il reato sia commesso nell'ambito di un'organizzazione criminale ai sensi dell'azione comune 98/733/GAI del 21 dicembre 1998" (par. 3). Come si e' sopra chiarito le soglie di 1, 3, 5 e 10 anni non individuano i minimi e i massimi edittali ma sempre i soli livelli minimi dei massimi edittali, a seconda dei casi, come anche la giurisprudenza di legittimita' non ha mancato di precisare (Cass., 02.03.2010, n. 12635, rv. 246815 e Cass:, 09.05.2012, n. 33512, non massimata). L'unico profilo di possibile frizione con l'indicata decisione quadro attiene alla pena massima di 4 anni di reclusione, prevista dall'art. 73, comma 5 testo unico per i fatti di lieve entita' aventi ad oggetto droghe c.d. pesanti che, come tali, possono essere ritenute quali stupefacenti piu' dannosi per la salute, con la conseguente applicazione di un livello minimo di pena massima di 5 anni di reclusione. Va pero' avvertito che si potrebbe argomentare la conformita' con la decisione quadro, facendo leva sull'interpretazione che la giurisprudenza fornisce del fatto di lieve entita', ricondotto a casi di davvero minimale gravita', soprattutto con riferimento al dato quantitativo, spesso molto vicini alle condotte finalizzate al mero consumo personale e sul considerando n. 4 della decisione quadro secondo il quale "in virtu' del principio di sussidiarieta', l'azione dell'Unione europea dovrebbe vertere sulle forme piu' 4 gravi di reati in materia di stupefacenti". Si potrebbe cioe' argomentare che i fatti di lieve entita' di cui all'art. 73, comma 5 t.u., cosi come interpretati ed individuati dalla giurisprudenza interna, fuoriescono dal campo di applicazione della decisione quadro, appunto in ragione della loro minimalita' ed anche in applicazione al c.d. principio di necessita' - indispensabilita' di pena posto proprio dalla norma che fonda la base giuridica della competenza penale indiretta dell'Unione europea. L'art. 83, par 2 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea stabilisce, infatti, che "allorche' ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si riveli indispensabile per garantire l'attuazione efficace di una politica dell'Unione (...) norme minime relative alla definizione di reati e delle sanzioni, nel settore in questione possono essere stabilite tramite direttive". Ebbene si potrebbe fondatamente sostenere che quando i fatti illeciti sono di minima gravita' non sussiste il requisito di indispensabilita' di garantire l'attuazione efficace di una politica dell'Unione. E' pero' evidente che questo discorso e' posto in grave crisi nel caso si decida, anche solo a livello interpretativo, di estendere verso l'alto il confine del fatto di lieve entita', come gia' si e' avuto modo di segnalare, perche' a questo punto il fatto tipico di lieve entita' ricomprenderebbe anche casi non di minima offensivita' e, pertanto, occorrerebbe rispettare, per le droghe pesanti, il minimo di 5 anni di reclusione, come pena massima. Neppure si puo' ritenere che la fattispecie di lieve entita', in quanto non distingue tra droghe pesanti e droghe leggere, contrasti per cio' solo con la decisione quadro e cio' perche' essa non pone un chiaro obbligo di distinzione, limitandosi a fornire un'indicazione di massima favorevole alla distinzione, non vincolante per gli Stati quando afferma, solo nel considerando n. 5 che "per stabilire l'entita' della pena, si dovrebbe tener conto degli elementi di fatto quali i quantitativi e la natura degli stupefacenti oggetto di traffico (...)". Questa interpretazione e' condivisa dalla giurisprudenza di legittimita', secondo la quale "in realta' non si desume alcuna specifica previsione di necessaria differenziazione di pena fra tipi di droghe in quanto il predetto) art. 4 prevede un livello minimo di sanzioni per le droghe maggiormente dannose ma non impedisce che il medesimo trattamento venga riservato a qualsiasi sostanza catalogata come stupefacente" (cfr. Cass., 29.04.2013, n. 18804, rv. 254930). Ad ogni modo, a parte gli evidenziati profili problematici, tutti gli altri limiti edittali massimi previsti rispettano i livelli minimi fissati in ambito europeo, essendo di molto superiori. Se non appare invocabile un autonomo vizio di costituzionalita' per una formale violazione della decisione quadro, si puo' pero' ritenere che la previsione di pene superiori a quelle soglie in modo abnorme, siano comunque indice di violazione del principio di proporzione delle pene affermato dalla CDFUE. Al riguardo non si puo' fare a meno di notare che non solo il massimo edittale previsto per il reato non lieve avente ad oggetto droghe pesanti e' di 20 anni di reclusione, ossia pari a 4 volte e a 2 volte i limiti minimi previsti in ambito europeo, ma addirittura il minimo edittale di 8 anni di reclusione, che e' quello che piu' interessa perche' sospettato" di incostituzionalita' nella presente sede, e' di molto superiore alla soglia minima previsto per il massimo per questa tipologia di sostanze (5 anni di reclusione), per i fatti non particolarmente gravi. Una simile distanza, rispetto ai livelli europei non puo' che essere apprezzata come un forte indice di manifesta sproporzione in eccesso e, dunque, di manifesta irragionevolezza, anche in considerazione del principio di sussidiarieta' e di extrema ratio in diritto penale. Non si tratterebbe, cioe', del legittimo esercizio dello spazio di discrezionalita' concesso ai legislatori nazionali dal diritto europeo, ma di una tutela abnorme e sovrabbondante e, come tale, controproducente. Questo discorso potrebbe essere ulteriormente sviluppato con riferimento alla congruita' rispetto all'effetto utile che la normativa europea si propone di ottenere, rappresentato dall'uniformazione delle legislazioni nazionali per la comune lotta al fenomeno criminale considerato. Se e' vero che la legislazione europea lascia liberi gli Stati nazionali nel prevedere norme piu' rigorose rispetto ai livelli minimi indicati si potrebbe, forse, sostenere che normative nazionali distanti in modo abnorme rispetto a quei livelli finiscano di essere controproducenti e, dunque, sproporzionate, rispetto all'obiettivo dell'uniformazione delle normative nazionali. In buona sostanza punire con una pena minima (di anni 8 di reclusione) di molto superiore al livello minimo del massimo previsto a livello europeo (di anni 5 di reclusione) e, addirittura con una pena massima pari a 4 volte rispetto a quella soglia, fatti che si collocano comunque ai livelli minimi di gravita' del tipo, rischia seriamente di compromettere l'obiettivo di una concreta ed effettiva uniformita', a livello europeo, delle legislazioni nazionali. Un simile modo di intendere la proporzionalita' e' stata, ad es., accolta nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia di immigrazione irregolare nella sentenza 28 aprile 2011, caso El Dridi, causa C-61/11. In quel caso, infatti, l'uso della sanzione penale, in contrasto con la direttiva in materia di rimpatri, finiva con l'ostacolare una piu' veloce esecuzione del provvedimento di espulsione dello straniero irregolare, pregiudicando appunto l'uniformita' a livello europeo delle relative procedure. 3.1.2 (segue): il contrasto col principio di proporzione e con l'art. 117 Cost. in rapporto al divieto di pene inumane e degradanti di cui all'art. 3 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e all'art. 4 della CDFUE. Un terzo ed autonomo profilo di contrasto col principio di proporzione puo' essere affermato in rapporto col divieto di pene e di trattamenti inumani o degradanti, come e' noto espressamente riconosciuto, in via generale, sia dalla nostra Costituzione (art. 27, comma 3 prima parte), sia dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (di seguito CEDU: cfr. art. 3) sia dalla CDFUE (art. 4). E' tuttavia soprattutto la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha avuto il merito di indicare in termini precisi il concreto contenuto che il divieto assume in relazione al grave problema del sovraffollamento carcerario, in particolare attraverso l'indicazione dello spazio minimo che deve essere garantito a ciascun detenuto all'interno della cella, espresso in specifiche soglie minime di metri quadrati, variabili anche in funzione di altri parametri. Come e' noto, per il nostro paese queste indicazioni hanno assunto un valore vincolante dopo la sentenza pilota della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, la quale avendo accertato il "carattere strutturale e sistemico" del sovraffollamento carcerario in Italia ha concesso un termine perentorio per porre rimedio alla situazione, sia mediante misure strutturali tali da incidere sulle cause del sovraffollamento carcerario, sia mediante rimedi che consentano di "riparare le violazioni in atto". Sotto il primo profilo, in attuazione di questi precisi obblighi, il legislatore ha adottato una serie di variegati provvedimenti legislativi che hanno in concreto da subito garantito una significativa riduzione della popolazione carceraria. Tra queste misure devono essere senz'altro annoverate proprio le novelle del 2013 e del 2014 sul fatto di lieve entita', di cui all'art. 73, comma 5 t.u., con la trasformazione da circostanza aggravante a reato autonomo e con la riduzione della pena massima, prima a 5 anni e poi a 4 anni di reclusione, con conseguente esclusione della custodia in carcere per questo tipo di reato. Insomma va rimarcato che l'intervento che ha ridotto la pena massima del fatto di lieve entita', se da un lato ha acuito l'irragionevolezza della disciplina complessiva, amplificando l'abnorme iato di pene tra fatto lieve e non lieve per i reati aventi ad oggetto droghe pesanti, dall'altro risponde ad una ratio del tutto apprezzabile e condivisibile, quella di contenere la popolazione carceraria, in adempimento di precisi obblighi internazionali non piu' procrastinabili e particolarmente significativi sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Se ne dovrebbe dedurre che una simile scelta di politica criminale possiede una particolare forza di resistenza, soprattutto se paragonata all'opposta scelta di politica criminale di individuazione del limite edittale minimo di anni 8 di reclusione per i fatti non lieve, risalente al lontano 1990, quando il problema del sovraffollamento carcerario si poneva in termini del tutto diversi. Con cio' si vuol dire che se si vuole porre rimedio all'irragionevolezza dello scarto di pena tra il massimo previsto per i fatti di lieve entita' ed il minimo per i fatti non lievi, si deve necessariamente intervenire non sul primo ma sul secondo ordine di grandezza, riducendolo sensibilmente. Quanto ai rimedi che consentano di "riparare le violazioni in atto", e' altresi' noto che con decreto-legge n. 92 del 2014 (convertito con legge n. 117 del 2014) il legislatore ha introdotto nuovi "rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'art. 2 della CEDU", introducendo l'art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) che, da un lato, consente ai detenuti che stiano subendo un pregiudizio grave ed attuale ai propri diritti fondamentali, in conseguenza delle condizioni detentive in cui si trovano, di rivolgersi al magistrato di sorveglianza per ottenere uno sconto di pena ancora da espiare, pari ad un giorno ogni 10 di pregiudizio subito: Qualora il pregiudizio non sia ancora in atto, ovvero sia inferiore ai 15 giorni e' previsto, poi, un rimedio di risarcimento in forma monetaria, paria ad € 8 ogni giorno di pregiudizio subito. Tornando al principio di proporzionalita', inteso come canone di minima razionalita' e di congruenza tra mezzi e scopi perseguiti, si potrebbe sostenere che il rapporto col divieto di pene e di trattamenti disurnani, con specifico riferimento al problema del sovraffollamento carcerario, cosi' come definito dalla sentenza Torreggiani, impone al legislatore, nelle scelte di politica criminale, un preciso obbligo di parametrare la legislazione penale al numero di posti disponibili nelle carceri italiane, con la conseguenza che risultano illegittimi tutti gli interventi che determinano significativi aumenti della popolazione carceraria, creando una situazione di grave sovraffollamento, tale da determinare la violazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Naturalmente il legislatore resterebbe pienamente libero di approvare singole leggi che determinano anche significativi aumenti della popolazione carceraria, ma col vincolo di prevedere anche un corrispondente aumento dei posti disponibili nelle carceri, coi relativi impegni di spesa. Solo osservando questo banale criterio di minima razionalita' si osserva sino in fondo il divieto di pene inumani e degradanti, con particolare riferimento al problema del sovraffollamento carcerario e si puo' limitare l'abusato utilizzo della legislazione penale a scopi puramente simbolici e di propaganda politica del tutto evidente negli ultimi anni, anche nella materia del traffico degli stupefacenti. Una pena minima di anni 8 di reclusione per i fatti aventi. ad oggetto droghe pensanti che, pur non potendosi considerare di lieve entita', a norma del comma 5 dell'art. 73 t.u., sono comunque di non particolare offensivita', in particolare per la quantita' di sostanze stupefacenti illecitamente trattate, determina certamente un significativo aumento della popolazione carceraria perche' preclude, nella assoluta generalita' dei casi, una determinazione concreta della pena inferiore ai limiti di 2 e 3 anni che, come e' noto, costituiscono rispettivamente i limiti per l'applicazione della sospensione condizionale della pena e delle misure alternative alla detenzione (cfr. art. 47 ss. ordinanza pen.). In buona sostanza il limite edittale minimo della pena detentiva censurata finisce con l'imporre un trattamento rieducativo del condannato con esclusivo ricorso al carcere. Cio' si ripercuote anche sul distinto piano delle misure cautelari, con un massiccio ricorso alla custodia in carcere che si traduce, soprattutto nel caso di giudizio immediato, in un passaggio costante dalla misura cautelare in carcere all'esecuzione della pena sempre in carcere, per l'impossibilita' di procedere alla sospensione dell'ordine di carcerazione a norma dell'art. 656 codice di procedura penale. Tutto cio' senza che sia in alcun modo giustificato dalla gravita' dei fatti considerati che, occorre ricordare, si collocano ai limiti inferiori di gravita' del tipo considerato ed in un sistema in cui fatti concreti omogenei, quanto a contenuto offensivo, ossia i fatti di maggiore gravita' riconducibili al reato minore di cui al comma 5 del cit. art. 73 sono, al contrario, trattati, in linea di principio totalmente al di fuori dal circuito carcerario. In conclusione la pena minima di anni 8 di reclusione, prevista dall'art. 73, comma 1 t.u., in quanto manifestamente sproporzionata alla gravita' oggettiva dei fatti considerati, potrebbe considerarsi incompatibile con l'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e, dunque, con l'art. 117 Cost., in quanto pena disumana per eccessiva durata perche' impone, pressoche' costantemente, il ricorso al carcere nel trattamento punitivo, rischiando di provocare gravi forme di sovraffollamento carcerario, con la paradossale conseguenza di far girare a vuoto la gia' sovraccarica macchina della giustizia: Si e' visto, infatti, the in caso di grave sovraffollamento carcerario che comporti la mancanza dello spazio minimo a disposizione all'interno della cella, il carcerato ha diritto ad ottenere uno sconto sul residuo della pena da espiare. E' 'evidente che un sistema che sappia valorizzare minimi criteri di razionalita' e di efficienza dovrebbe rendere un simile rimedio del tutto eccezionale e residuale, agendo piuttosto sulle cause del sovraffollamento carcerario, mediante la previsione di pene strettamente necessarie e proporzionate rispetto alla gravita' del reato. 4. Conclusioni: i precedenti ed il limite della riserva di legge. Per concludere, appare opportuno, in primo luogo, evidenziare come l'assoluta irragionevolezza della disciplina dei reati in materia di stupefacenti sia gia' stata piu' volte sollevata davanti alla giurisprudenza di merito e, in secondo luogo, approfondire la motivazione del principale limite tecnico di una possibile sentenza di accoglimento, rappresentato dalla riserva di legge in materia penale. Nonostante la brevita' del lasso temporale trascorso dalla pronunzia della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e dalla legge n. 79 del 2104, sono gia' state ben tre le ordinanze che hanno sollevato questioni di legittimita' costituzionale, ad opera del tribunale di Nola (ord. 08.05.2014), del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria (ord. 05.02.2015) e del Tribunale di Perugia (ord. 31.07.2015). Le prime due ordinanze, pronunziate in ordine a fatti ritenuti di lieve entita' aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, hanno dubitato della legittimita' costituzionale dell'art. 73, comma 5 t.u. nella parte in cui non distingue le pene tra droghe pesanti e droghe leggere, per contrasto col solo principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nel primo caso, ed anche per contrasto con l'art. 27, comma 3 Cost. (principio di proporzionalita' delle pene e della necessaria finalita' rieducativa) e, infine, con l'art. 117 Cost., in relazione alla decisione quadro 2004/757/GAI e dell'art. 49, par. 3 CDFUE, nel secondo caso. In entrambi i casi, pero', non si precisa il tipo di intervento richiesto alla Corte costituzionale ne' si indica alcun tertium paragonis che consenta di individuare la diversa pena da applicare. Benche' l'apparato motivazionale di entrambi i provvedimenti sembri orientato alla richiesta di un intervento in bonam partem, va ribadito che la mancata distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere nel reato minore potrebbe essere superata, sul piano politico-criminale, anche innalzando le pene per le droghe pesanti, lasciando inalterata quella prevista per le droghe leggere che, tra l'altro costituisce la pena originariamente (dalla legge c.d. Jervolino-Vassalli) prevista per questa tipologia di reati ed il cui limite minimo, di mesi 6 di reclusione e' gia' molto contenuto ed ulteriormente riducibile mediante l'uso dell'ordinario potere discrezionale da parte del giudice (mediante la concessione delle circostanze attenuanti generiche). Risulta, pertanto, assai complicato argomentarne l'incostituzionalita', in assenza di un termine di paragone idoneo, a maggior ragione ove si consideri che qualora si ritenga quel limite comunque irragionevole perche' sproporzionato in relazione al concreto contenuto offensivo della condotta posta in essere, non mancano al giudice strumenti per garantire il pieno rispetto del principio di offensivita', a livello interpretativo, mediante gli istituti del reato impossibile (art. 49 c.p.), da un lato, e della causa di non punibilita' per particolare tenuita' del fatto (art. 131-bis c.p), dall'altro. Molto vicina alla presente questione di costituzionalita' e', invece, quella posta dal tribunale di Perugia, relativa ad un caso di detenzione a fine di spaccio di gr. 30 di cocaina, con un principio attivo di gr. 13,5, pari a 90 dosi medie singole, ritenuto di non lieve entita'. Anche in quella occasione, infatti, si censura la macroscopica differenza di pena prevista, per le droghe pesanti, tra comma 1 e comma 5 dell'art. 73 t.u., alla quale "non corrisponde se non una differenza di disvalore di grado minimo, in quanto, per necessita' logica, il passaggio dal disvalore del fatto di lieve entita' a quello del fatto non di lieve entita' non presenta soluzioni di continuita'". Con questa motivazione viene abbozzata l'individuazione, quale tertium paragonis, proprio del massimo edittale previsto per il fatto di lieve entita', gia' sopra piu' diffusamente argomentato. Peraltro i parametri sono solo gli art. 3 e 27 Cost., senza ulteriori specificazioni. Il riferimento all'art. 27 Cost., sembra limitato al comma 1 in quanto si afferma che la disciplina "non consente l'individuazione di un trattamento sanzionatorio conforme al principio di personalita' della responsabilita' penale, secondo cui la pena deve essere determinata proporzionalmente alla gravita' del fatto di reato". La questione sollevata dal Tribunale di Perugia non risulta ancora decisa e neppure risulta al momento fissata l'udienza di decisione. Invece, la questione sollevata dal tribunale di Nola ha originato l'ordinanza della Corte costituzionale n. 53 del 2015 con la quale si e' disposta la restituzione degli atti al giudice a quo affinche' "valuti la questione alla luce del mutato quadro normativo" e, in particolare, l'ulteriore riduzione delle pene operata dal decreto-legge n. 36 del 2014, convertito con legge n. 79 del 2014. Piu' interessante ai presenti fini e' la soluzione alla muestione sollevata dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Con ordinanza n. 23 del 2016 la. Corte ha dichiarato inammissibile la questione sollevata "in quanto si chiede alla Corte un intervento additivo in materia penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate", in contrasto alla costante giurisprudenza costituzionale che ritiene "inammissibili questioni formulate con un petitutm che (...) per l'ampiezza della sua portata additiva (...) non si Configura come unica soluzione costituzionalmente obbligata" (sentenze, n. 81, n. 30 e 241 del 2014), in particolare quando "il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di manipolativita', derivante anche dalla natura creativa e non costituzionalmente obbligata della soluzione evocata (sentenza n. 241, 81 e n. 30 del 2014; ordinanza n. 190 del 2013), tanto piu' in materie rispetto alle quali e' stata riconosciuta ampia discrezionalita' del legislatore (sentenza n. 277 del 2014)", quale in particolare "la configurazione del trattamento sanzionatorio di condotte individuate come punibili "ex plurimis, sentenze n. 185 del 2015, n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006)". La diversa disciplina, sotto il profilo della distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, viene inoltre giustificata dalla configurazione autonoma del reato di lieve entita' rispetto ai fatti non lievi che porta ad escludere che sussista "piu' alcuna esigenza di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entita' e quelli non lievi", ossia "che il legislatore sia vincolato a configurare intervalli edittali differenziati a seconda della natura della sostanza, nel caso di reati di lieve entita'". Quanto alla misura della pena l'invocato parametro dell'art. 49, par. 3 della CDFUE che riconosce parametro di proporzionalita' della pena non consente comunque alla Corte di determinare in via autonoma la misura della pena "ma semmai di emendare le scelte del legislatore in riferimento a grandezze gia' rinvenibili nell'ordinamento", sulla base quindi di idonei termini di paragone che consentano di rinvenire la soluzione costituzionalmente obbligata, come avvenuto nel precedente relativo al delitto di oltraggio (sentenza n. 341 del 1994). Infine, viene respinta anche la censura fondata sulla decisione quadro n. 2004/757/GAI perche' non determina affatto "precisi intervalli di pena" ma si limita ad esigere soglie minime, derogabili solo in pejus, secondo il c.d. principio del minimo del massimo". Il principale motivo di inammissibilita' e' quindi costituito dal difetto di un petitum preciso, certamente non ricorrente nella presente ordinanza. Inoltre, il secondo motivo di inammissibilita', rappresentato dall'assenza di un idoneo termine di paragone tale da garantire una soluzione costituzionalmente "a rime obbligate", e' argomentato con specifico riferimento alla questione sollevata, relativa al comma 5 e non al comma 1 dell'art. 73 testo unico e alle motivazione dell'ordinanza di rimessione che non individuava in alcun modo un termine di paragone. In ragione delle profonde differenze della questione sollevata e della diffusa argomentazione con la quale si e' cercato di motivare la presenza di un idoneo tertium paragonis non si ritiene che la citata ordinanza n. 23 del 2016 precluda l'esame nel merito della presente questione di legittimita' costituzionale. Con cio' non ci si vuole sottrarre al confronto col fondamentale problema di concreta giustiziabilita' dei denunziati vizi di costituzionalita', rappresentato, in termini generali, dall'art. 28, legge n. 87 del 1953, in base al quale "il controllo di legittimita' della Corte costituzionale (...) esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento". In ambito penale e ancor piu' in materia di previsione della quantita' di pena questo limite generale risulta ancora piu' stringente per la presenza della riserva di legge prevista dall'art. 25, comma 2 Cost. che esclude alla radice che una pena possa essere liberamente determinata dalla Corte costituzionale, sulla base di una sua autonoma scelta di politica criminale, tanto da giustificare pienamente il tradizionale atteggiamento della Consulta di estrema prudenza, piu' volte affermato nei precedenti gia' sopra citati dall'ordinanza n. 23 del 2016. Il problema e' stato lucidamente posto da una decisone di merito che ha ritenuto "manifestamente infondata" una questione di legittimita' identica a quella sollevata nella presente sede (cfr. Tribunale di Torino, 17.12.2014, in Questione giustizia, 14 luglio 2015) con articolata ed apprezzabile motivazione, relativa ad un caso di illecita detenzione di gr. 77 di cocaina, pari a mg. 53.137 di principio attivo. In buona sostanza, pur ammettendo le gravi sperequazioni punitive che la disciplina denunziata comporta, il giudice torinese ha ritenuto che manchi "la possibilita' di prospettare alla Corte costituzionale un quesito che implichi una risposta a rime obbligate", per l'assenza di idonei termini di paragone, sia nel codice penale che all'interno della disciplina dei reati in tema di stupefacenti, che consentano alla Corte di individuare una diversa pena congrua, senza esercitare una scelta di politica criminale riservata come tale al legislatore. Conclude quindi il Tribunale che un'eventuale eccezione di costituzionalita' sarebbe percio' inammissibile e potrebbe originare, al massimo, una pronuncia c.d. "monito". Ma in senso contrario vanno richiamate le diffuse argomentazioni sopra rese in ordine all'individuazione, quale idoneo tertium paragonis, del limite edittale massimo previsto dalla fattispecie di lieve entita' che consente di ritenere, allo stato attuale della disciplina vigente, costituzionalmente obbligata la soluzione di assumere come limite edittale minimo del reato maggiore di cui al comma 1 dell'art. 73 testo unico la medesima pena. A ben vedere, quindi, in realta' esiste una grandezza di pena gia' prevista dal legislatore per una classe di casi dal concreto contenuto offensivo del tutto assimilabile rispetto alla classe di casi, che si colloca al limite inferiore di gravita' del reato maggiore e che, invece, e' oggi punita con una pena doppia. Certo si potrebbero sempre opporre riserve sulla corretta individuazione del tertium paragonis oppure che non si tratta di una soluzione costituzionalmente obbligata in senso assoluto, perche' in ipotesi il legislatore ben potrebbe aumentare la pena massima per i fatti di lieve entita' oppure ridurre la pena minima per i fatti non lievi sino a 5 o 6 anni di reclusione, ossia sino a limiti di pena comunque in grado di garantire una minima coerenza di disciplina e proporzionalita' di pene, oppure ancora eliminare la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere anche nei reati maggiori, prevedendo congrue pene (ad es. da 3 a 10 ani di reclusione). Ma si puo' replicare che una pena costituzionalmente obbligata in senso assoluto non esiste mai e, pertanto, il limite della necessita' di individuare un intervento "a rime obbligate", precluderebbe in via generalizzata l'intervento della Corte costituzionale, che invece si e' sempre garantita un residuo spazio di intervento per rimediare ai casi di piu' macroscopica irragionevolezza. Cosi', nel precedente dell'oltraggio la soluzione adottata dalla Consulta non era costituzionalmente obbligata in senso assoluto, ma solo in senso relativo ed in relazione alla disciplina allora vigente, come gia' si e' ricordato. Analogamente neppure l'estensione della circostanza attenuante del fatto di lieve entita' prevista per il sequestro a scopo di terrorismo al sequestro a scopo di estorsione (cfr. sentenza n. 68 del 2012) e' una soluzione a rime obbligate in senso assoluto, ma ancora una volta in senso relativo ed in stretta aderenza al diritto attualmente vigente, perche' nulla impedisce al legislatore di differenziare i trattamenti punitivi riservati ai due reati, che tutelano beni giuridici diversi, magari riducendo il limite edittale minimo del sequestro a scopo di estorsione, sulla base di una rinnovata valutazione politica criminale del fenomeno considerato, ma escludendo l'attenuante del fatto di lieve entita'. Insomma non sembra affatto assurdo ipotizzare che l'intervento della Consulta sia possibile tutte le volte in cui sia individuabile un rimedio tale da scongiurare autonome scelte di politica criminale, perche' agganciato ad una scelta di politica criminale gia' effettuata dal legislatore, per regolare casi vicini o analoghi e la cui adozione anche nei casi prospettati e' sufficiente a scongiurare una violazione alla Costituzione che, altrimenti, si manifesterebbe in maniera macroscopica. In questa prospettiva cioe' il rimedio non necessariamente dovrebbe essere l'unica soluzione costituzionalmente imposta in astratto ed in senso assoluto. Nella specie, la scelta di politica criminale gia' compiuta dal legislatore per regolare casi vicini o analoghi e' appunto quella compiuta nel 2014 che ha fissato il limite edittale massimo per i fatti di lieve entita', anche quelli aventi ad oggetto droghe pesanti, in soli 4 anni di reclusione, rispetto alla quale la scelta di politica criminale, risalente al 1990, di fissare il limite minimo per i corrispondenti fatti di non lieve entita' in 8 anni di reclusione, si appalesa come gravemente contraddittoria ed irragionevole. E confronto tra le ratio delle due opposte ed inconciliabili scelte di politica criminale, non potrebbe che essere risolto in favore della prima, la piu' attuale e la piu' aderente ai principi di offensivita' e di sussidiarieta'. Insomma, contrariamente a quanto ritenuto da taluni giudici remittenti (il Tribunale di Nola ed il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria) la legge n. 79 del 2014 si dovrebbe ritenere impeccabile per la scelta di politica criminale compiuta e censurabile solo per cio' che non ha detto, ossia perche' non e' intervenuta per realizzare una riforma di sistema, modificando anche la disciplina e, soprattutto, le pene dei reati previsti dall'art. 73, commi 1 e 4 t.u. Alle considerazioni che precedono vanno aggiunte due ulteriori considerazioni, finalizzata la prima a meglio argomentare l'opportunita' che il limite dell'intervento "a rime obbligate" sia inteso con la necessaria elasticita' e relativa, la seconda, al ruolo e ai limiti del giudice a quo nel sollevare questioni di legittimita' costituzionale. Sotto il primo profilo un eccessivo irrigidimento del limite indicato determinerebbe, inevitabilmente, pericolose zone franche dal controllo di legittimta' costituzionale, in paradossale contraddizione col contenuto «garantista" della riserva penale. Come e' noto, proprio la necessita' di impedire l'esistenza di zone franche dal controllo di legittimita' costituzionale ha consentito di superare il tradizionale limite ad interventi della Corte costituzionale in malam partem, in origine ricollegato ad un preteso difetto di rilevanza della questione nel giudizio a qua, privo di possibili eccezioni perche' comunque, anche in caso di accoglimento, il giudice dovrebbe comunque risolvere il caso alla propria attenzione applicando la norma piu' favorevole, dichiarata incostituzionale, in omaggio al superiore principio di irretroattivita', ad una posizione decisamente piu' duttile che individui specifici casi di ammissibilita' simili interventi, con specifico riferimento alle nozione di "norme penali di favore" (secondo la definizione fornita dalle sentenze della Corte costituzionale n. 148 del 1983 e n. 394 del 2006) ovvero a vizi nella formazione delle leggi, in particolare per l'abuso degli strumenti del decreto-legge e del decreto legislativo (cfr., per il primo caso, Corte Cost, n. 32 del 2014 e, per il secondo caso, Corte Cost. n. 5 del 2014; in termini generali cfr. anche Corte costituzionale 46 del 2014). In ogni caso l'intervento additivo in malam partem e' ritenuto ammissibile perche' consente di agganciare il piu' severo trattamento penale, costituzionalmente imposto, non gia' ad una scelta discrezionale di politica criminale ad opera della Consulta, ma ad una scelta compiuta da parte dello stesso legislatore, mediante la riespansione della disciplina generale, illegittimamente derogata dalla norma di favore ovvero la riviviscenza della precedente disciplina, illegittimamente abrogata, nel caso di vizi nella formazione delle leggi. Se perfino interventi in malam partem non sono preclusi in via assoluta dal limite rappresentato dalla riserva di legge, a maggior ragione non possono ritenersi preclusi interventi in bonam partem sul trattamento punitivo, almeno nelle ipotesi di piu' macroscopica violazione dei fondamentali principi di ragionevolezza-uguaglianza e di proporzionalita' delle pene e di sussistenza di un ragionevole termine di paragone, che consenta di individuare una diversa norma applicabile al caso, sulla base di una scelta di politica criminale compiuta dal legislatore. Non solo, ma l'esigenza anche in questo ambito di escludere zone franche dal controllo di costituzionalita' impone un certo margine di elasticita' nel ritenere sussistenti i presupposti dell'intervento della Corte costituzionale. Cio' vale in particolare e a maggior ragione per gli interventi in bonam partem, ai quali appartiene l'intervento qui sollecitato, perche' il fondamento della riserva di legge prevista dall'art. 25, comma 2 Cost. non e' costituito solo dal profilo politico della sovranita' dell'organo Parlamento e - in quella sede - della dialettica democratica, con necessario coinvolgimento anche delle minoranze, con preclusione di possibili arbitri da parte di altri poteri dello Stato, tra i quali la stessa Corte costituzionale (c.d. profilo negativo della riserva di legge), ma anche e per certi versi soprattutto da un contenuto ed una ratio garantista, in forza della quale "tende ancor oggi (...) a ridurre la quantita' delle norme penali, e, cosi, a concentrare queste ultime nella sola tutela, necessaria (ultima ratio) di pochi beni, significativi ed almeno importanti, per l'ordinato vivere civile" (cfr. Corte costituzionale n. 487 del 1989). La ratio garantista della riserva di legge concerne non solo l'individuazione delle condotte penalmente rilevanti ma anche la stessa individuazione della pena. Traducendo questi principi nella soluzione al caso in esame, l'intervento qui richiesto consiste essenzialmente in una riduzione del ricorso alla pena carceraria, in omaggio alla scelta di politica criminale piu' attuale e maggiormente aderente ai principi di offensivita', di sussidiarieta' e di proporzionalita', rispetto all'opposta scelta di politica criminale compiuta nel 1990, in un diverso contesto normativo di riferimento (punizione anche della detenzione finalizzata al consumo personale, fatto di lieve entita' configurato come circostanza attenuante e punito con la pena massima di anni 6 di reclusione) ormai in insanabile contrasto con l'attuale contesto normativo di riferimento, oltre che coi fondamentali principi di pari trattamento e di proporzionalita' delle pene. Ad ulteriore conforto della necessita' di adottare criteri sufficientemente elastici e duttili possono essere annoverate le suggestioni provenienti dal diritto europeo, con particolare riferimento. all'art. 49, par. '2 della CDFUE e dal diritto di origine convenzionale, con particolare riferimento al divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti di cui all'art. 3 CEDU. Sotto il secondo profilo, se anche non si puo' negare che un possibile esito della presente questione sia quello di inammissibilita', magari collegato ad un monito rivolto al legislatore, come ritenuto dal Tribunale di Torino, ci si deve pero' chiedere se cio' basti davvero ad escludere l'obbligo del giudice di adire la Corte costituzionale. La risposta positiva cui e' pervenuto il Tribunale di Torino, benche' formalmente assunta sulla base di una pronunzia di "manifesta infondatezza", e' in realta' fondata su una valutazione della causa di inammissibilita' che potrebbe essere ritenuta dalla Corte costituzionale, per mancanza di un possibile intervento "a rime obbligate". Sennonche' in presenza di una norma di legge che deve necessariamente trovare applicazione nella soluzione del caso da decidere che il giudice ritenga incostituzionale, si deve ritenere che il giudice abbia un solo obbligo, quello di adire la Corte costituzionale, non potendo ne' applicare la norma di dubbia costituzionalita' ne' disapplicarla. A norma dell'art. 23, comma 2, legge n. 87 del 1953 gli unici presupposti che sono sottoposti al suo scrutinio sono relativi alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione. Nella specie, invece, il preteso vizio di inammissibilita' attiene all'individuazione del confine di competenze del legislatore e della Corte costituzionale che e' tanto chiaro in teoria quando di difficile individuazione in pratica, perche' attiene ad un delicatissimo bilanciamento tra norme e principi costituzionali che possono entrare tra loro in conflitto e che e' bene sia compiuto unicamente dalla Corte costituzionale. Con cio' si vuol dire che una questione di legittimita' costituzionale non puo' essere scongiurata sulla sola base di un incerto pronostico, compiuta dal giudice a quo, sulla possibile decisione della Corte costituzionale rispetto a temi certamente estranei al proprio ambito di competenza, perche' cio' si tradurrebbe, ancora, nel creare indebite zone franche dal controllo di legittimita' costituzionale. A conferma di quanto sopra affermato si deve poi aggiungere che una possibile sentenza di inammissibilita' con un pressante monito rivolto al legislatore affinche' compia una riforma di sistema ed una razionalizzazione delle pene previste per i reati in tema di stupefacenti non potrebbe certo essere considerata inutiliter data. Se e' vero, infatti, che il giudice a quo dovrebbe comunque far applicazione della norma sospetta, da un punto di vista generale le sentenze c.d. monito possono essere stimolo appunto per una riforma legislativa ovvero preludio di una successiva sentenza di accoglimento, perdurando la colpevole inerzia del legislatore, come la giurisprudenza costituzionale conferma. Anche per questi motivi la presente questione di legittimita' costituzionale deve quindi essere proposta.