ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.   567,
secondo comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di
Varese nel  procedimento  penale  a  carico  di  P.S.  ed  altro  con
ordinanza del 30 settembre 2015,  iscritta  al  n.  13  del  registro
ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2016 il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con  ordinanza  del  30  settembre  2015,  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale n. 5 del 2016 (r.o. n. 13 del 2016), il  Tribunale
ordinario di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e  27
della  Costituzione,   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 567, secondo comma, del codice penale, nella parte  in  cui
prevederebbe un trattamento sanzionatorio irragionevolmente eccessivo
e  sproporzionato,  anche  in  riferimento  alle  altre   fattispecie
delittuose contenute nel Libro II, Titolo XI, Capo  III,  del  codice
penale. 
    1.1.  -  Quanto  alla  rilevanza  delle  questioni,  il   giudice
rimettente evidenzia  che  esse  sono  sollevate  nell'ambito  di  un
giudizio penale nel quale  si  procede  a  carico  di  due  imputati,
accusati del delitto di cui all'art. 567, secondo comma,  cod.  pen.,
perche', in concorso tra loro, nella formazione dell'atto di  nascita
di una neonata, ne alteravano lo stato civile, attestando  falsamente
che ella era nata dall'unione naturale dei dichiaranti.  In  caso  di
condanna, sottolinea il giudice a quo, agli imputati non potrebbe che
essere  irrogata  una  sanzione  da  determinarsi  all'interno  della
cornice edittale la cui legittimita' costituzionale e' contestata. 
    1.2. -  In  punto  di  non  manifesta  infondatezza,  ricorda  il
rimettente che la disposizione censurata  incrimina  la  condotta  di
chi, nella formazione di un atto di nascita, altera lo  stato  civile
di un neonato, mediante false certificazioni,  false  attestazioni  o
altre falsita', e sanziona tale condotta con la pena della reclusione
da cinque a quindici anni. 
    Considera,   quindi,   che   l'indicata   cornice   edittale   si
presenterebbe, da un lato, eccessiva, per quanto  riguarda,  in  modo
particolare,  il  minimo  edittale,  e  sarebbe,   dall'altro   lato,
sproporzionata, sol che si raffronti la  condotta  incriminata  dalla
disposizione censurata con altre norme del medesimo Libro II,  Titolo
XI, Capo III, del codice penale, che  sanzionerebbero  in  modo  meno
severo comportamenti illeciti della medesima indole, oltre che, a suo
dire, ben piu' gravi sotto  il  profilo  della  manifestazione  della
capacita' a  delinquere,  e  tali  da  destare  un  maggiore  allarme
sociale. 
    In particolare, il  tribunale  rimettente  rileva  che  l'entita'
della pena edittale minima non consentirebbe di adeguare la  sanzione
alle  circostanze  specifiche  del  fatto   concreto   e,   in   modo
particolare, agli effettivi profili di  allarme  sociale  conseguenti
alla condotta posta in essere dagli imputati. 
    Secondo il giudice a quo, il  bene  giuridico  della  fattispecie
penale in questione andrebbe individuato nell'esigenza di  assicurare
la certezza e la fedelta' al vero dello  stato  civile  del  neonato,
attribuitogli  al  momento  della  nascita,  attraverso  la  corretta
formazione del documento  finalizzato  a  certificarlo:  la  certezza
all'attribuzione veritiera e fedele della propria maternita' e  della
propria paternita' naturale  costituirebbe  diritto  fondamentale  di
ogni individuo, «tanto sotto un profilo di carattere  morale  (inteso
quale diritto a conoscere le proprie radici e la propria discendenza)
quanto sotto un profilo di natura materiale (per quanto riguarda  gli
aspetti di natura successoria, conseguenti al rapporto di filiazione,
anche al di fuori del vincolo matrimoniale)». 
    Il giudice  rimettente  osserva,  quindi,  che,  all'epoca  della
promulgazione del codice penale, l'atto  di  nascita,  contenente  le
dichiarazioni presentate all'ufficiale di stato  civile  al  fine  di
attribuire  la  maternita'  e  la  paternita'  naturali  al  neonato,
costituiva il principale - se non l'unico - strumento per attestare e
dimostrare lo stato civile dello stesso.  Era,  pertanto,  necessario
tutelare  «il  diritto  del  neonato   alla   corretta   e   veridica
attribuzione della propria discendenza» attraverso la  previsione  di
una sanzione penale particolarmente incisiva e severa,  che  potesse,
tra le altre finalita', svolgere un'adeguata funzione deterrente, per
scoraggiare  (in  un'ottica  general-preventiva)  ogni  tentativo  di
formazione di un atto di nascita non corrispondente al vero, mediante
false attestazioni, false certificazioni o altre falsita'. Stante  la
mancanza di strumenti alternativi che  consentissero  di  ricostruire
con certezza  gli  effettivi  rapporti  di  maternita'  e  paternita'
naturali del neonato, la formazione di un atto  di  nascita  infedele
avrebbe reso estremamente ardua, se non addirittura  impossibile,  la
corretta attribuzione all'interessato del suo stato civile. 
    In tale prospettiva, ad avviso del rimettente, si giustificava il
maggiore disvalore assegnato alla condotta criminosa contemplata  dal
secondo comma  dell'art.  567  cod.  pen.  rispetto  a  quello  della
condotta  tipizzata  dal  primo  comma  del  medesimo  articolo,  che
presuppone l'alterazione  di  stato  civile,  non  gia'  mediante  la
formazione di un atto falso, bensi'  attraverso  la  sottrazione  del
neonato e la sua sostituzione con un altro,  entrambi  comunque  gia'
riconosciuti e, quindi, muniti di atti di nascita veritieri. 
    Il giudice a quo osserva come  il  descritto  assetto  normativo,
certamente funzionale alle esigenze di tutela dello stato civile  del
neonato  al  momento  della  promulgazione  del  codice  penale,  non
potrebbe piu' essere considerato adeguato alla situazione attuale. 
    Infatti,  i  progressi   scientifici,   medici   e   tecnologici,
realizzatisi con un'accelerazione sempre maggiore  soprattutto  negli
ultimi  anni,  consentono  di  accertare  l'effettiva  paternita'   e
maternita' di un individuo - con una certezza pressoche'  assoluta  -
attraverso indagini svolte sul relativo  DNA  (le  cosiddette  "prove
tecniche"), con procedure  poco  invasive,  prive  di  pericolosita',
nonche' particolarmente rapide ed economiche. 
    Nella medesima prospettiva, il tribunale  rimettente  colloca  la
riforma  del  diritto  di  famiglia,  realizzata   con   il   decreto
legislativo 28 dicembre 2013, n. 154  (Revisione  delle  disposizioni
vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge
10 dicembre 2012, n. 219), che  ha  profondamente  innovato,  tra  le
altre, anche la  disciplina  civilistica  in  materia  di  filiazione
legittima e naturale, da un lato parificando in  toto  lo  status  di
figlio  legittimo   e   di   figlio   naturale,   e   ridimensionando
notevolmente, dall'altro, l'importanza dell'atto di nascita  ai  fini
della prova della filiazione, legittima o naturale,  con  conseguente
maggior incidenza delle  cosiddette  "prove  tecniche",  ossia  degli
accertamenti sul corredo genetico degli interessati. 
    Da tali modifiche normative,  il  giudice  rimettente  deduce  il
«ridimensionamento» della  funzione  dell'atto  di  nascita  ai  fini
dell'accertamento della discendenza naturale del neonato. 
    Da  cio'  conseguirebbe,  a  suo  avviso,  che  la  condotta   di
alterazione di stato di cui all'art. 567, secondo comma,  cod.  pen.,
risulterebbe a sua  volta  ridimensionata,  sotto  il  profilo  della
gravita' e del disvalore della condotta. 
    Al contrario di  quanto  accadeva  in  passato,  si  rivelerebbe,
invece, oggi piu' grave ed allarmante la fattispecie  di  alterazione
di stato mediante la sostituzione di neonato,  contemplata  al  primo
comma dell'art. 567 cod. pen., sanzionata con una pena (reclusione da
tre a dieci anni) sensibilmente inferiore rispetto a quella  prevista
dalla disposizione censurata. Tale delitto,  infatti,  presupporrebbe
una  maggiore  risoluzione  ad  agire   da   parte   del   reo,   una
consapevolezza piu' marcata  dell'intrinseca  antigiuridicita'  della
condotta ed una piu' spiccata propensione a delinquere, rispetto alla
mera dichiarazione di un dato non corrispondente al vero. 
    Il tribunale rimettente considera,  inoltre,  che  il  Libro  II,
Titolo  XI,  Capo  III,  del  codice   penale   contempla   ulteriori
disposizioni  incriminatrici,  connotate   da   un'asserita   maggior
gravita' della condotta, e tali da destare, a suo avviso, un  maggior
allarme sociale, le quali sarebbero  tuttavia  punite  in  modo  meno
severo rispetto a quella censurata, come  la  soppressione  di  stato
civile mediante occultamento del neonato (art.  566,  secondo  comma,
cod. pen., che prevede la pena della reclusione da tre a dieci  anni)
e l'occultamento di stato civile di un figlio (art.  568  cod.  pen.,
punito con la reclusione da uno a cinque anni). 
    Tanto premesso, il giudice a quo osserva che la cornice  edittale
di pena prevista dalla disposizione censurata risulterebbe  eccessiva
rispetto alla  gravita'  oggettiva  della  condotta  incriminata.  In
particolare, la manifesta eccessivita' del minimo  edittale  di  pena
non consentirebbe al giudice di eventualmente adeguare il trattamento
sanzionatorio alle circostanze concrete del fatto, tenendo conto che,
in molti casi, la condotta  antigiuridica  tipizzata  dall'art.  567,
secondo comma, cod. pen. e' posta in  essere  proprio  nell'interesse
del neonato (magari privo di un padre o che il genitore naturale  non
vuole riconoscere), al quale l'agente intende  attribuire,  comunque,
dei legami familiari, ancorche' in un'ottica  certamente  distorta  e
scorretta. Il  rimettente  sottolinea  come,  cionondimeno,  anche  a
ritenere applicabile la circostanza attenuante di  cui  all'art.  62,
primo comma, numero 1), cod. pen., la pena concretamente  applicabile
al soggetto agente rimarrebbe eccessiva rispetto alle caratteristiche
concrete del fatto, con ripercussioni pratiche che risulterebbero del
tutto  irragionevoli  ed  ingiustificate:   la   sanzione   irrogata,
ancorche' determinata a partire dal minimo edittale ed  eventualmente
ridotta per l'attenuante sopra indicata, precluderebbe, comunque,  la
possibilita' di concedere i benefici della  sospensione  condizionale
della pena e della non menzione della condanna «ad un  soggetto  che,
per quanto abbia commesso un reato, non ha manifestato alcun  profilo
antisociale o  tale  da  destare  un  particolare  allarme  sociale»;
inoltre,  la  sanzione  concretamente  applicata  non  potrebbe   che
apparire, «ad un soggetto che [...]  ha  ritenuto  (erroneamente)  di
agire  nell'interesse  del  neonato  e  non  gia'  per   un   proprio
tornaconto, assolutamente priva di  ogni  giustificazione  logica  e,
quindi, fondamentalmente ingiusta». 
    Il giudice rimettente si mostra consapevole della circostanza che
la Corte costituzionale si  e'  gia'  pronunziata,  nel  senso  della
manifesta   infondatezza,   su   una   questione   di    legittimita'
costituzionale analoga a quella proposta. Ritiene, tuttavia,  che  si
tratterebbe di una  decisione  precedente  alle  modifiche  normative
sopra illustrate, la quale non poteva tenere conto del riconoscimento
- anche a livello legislativo -  del  valore  e  dell'importanza  dei
nuovi strumenti tecnici, scientifici e  medici  di  accertamento  dei
rapporti genetici tra individui. 
    Le considerazioni svolte troverebbero  conferma,  a  suo  avviso,
anche in sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, le quali
avrebbero  contribuito  a  ridimensionare  sensibilmente  il  rilievo
dell'atto  di  nascita  come  strumento  volto  all'accertamento  dei
rapporti di paternita' e maternita' e, conseguentemente, il disvalore
delle sue alterazioni (e' ricordata, in particolare, la sentenza  del
27 gennaio 2015 - ricorso n. 25358/12 - Paradiso e Campanelli  contro
Italia). 
    Secondo il tribunale rimettente, la  previsione  di  una  cornice
edittale di pena irragionevolmente elevata, come  quella  contemplata
dall'art. 567,  secondo  comma,  cod.  pen.,  contrasterebbe  con  il
necessario rispetto del diritto alla vita privata e familiare di  cui
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, il
quale  richiede  che  vi  sia  una   proporzione   tra   il   livello
dell'ingerenza dell'autorita'  pubblica  nella  vita  privata  e  nei
rapporti familiari di ciascun  individuo  e  il  legittimo  obiettivo
della tutela dell'ordine pubblico e della pubblica fede che la stessa
disposizione intende perseguire. Nel caso di specie, la  sproporzione
si  manifesterebbe  nel  precludere   al   giudice   di   merito   la
determinazione di una pena ragionevolmente  correlata  alla  gravita'
del fatto ed ai motivi che hanno spinto l'imputato ad agire. 
    1.3. - Il giudice a quo - premesso di essere consapevole  che  e'
precluso alla Corte costituzionale il sindacato di  costituzionalita'
«in relazione alle  questioni  strettamente  inerenti  alla  politica
criminale,   le   valutazioni   punitive   e    le    quantificazioni
sanzionatorie, di volta in volta decise dal legislatore»  -  ritiene,
tuttavia,  che,  nel  caso  di  specie,  il  denunciato   trattamento
sanzionatorio non possa considerarsi  espressione  di  una  legittima
scelta normativa di politica criminale. 
    Infatti, a fronte della complessiva evoluzione  della  situazione
normativa, tecnica e medica sopra descritta,  il  legislatore  penale
sarebbe rimasto irragionevolmente inerte. 
    La disposizione censurata sarebbe,  quindi,  in  primo  luogo  in
contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,
perche' sanziona con una pena eccessivamente elevata un comportamento
che, oggi, avrebbe perso quei connotati  di  gravita'  e  di  allarme
sociale  che   in   altra   epoca   giustificavano   un   trattamento
sanzionatorio particolarmente rigoroso e severo, cio' anche  rispetto
alle altre condotte ricordate, previste e punite dal  medesimo  Libro
II, Titolo XI, Capo III, del codice penale, che  appaiono  ugualmente
(se non piu') gravi. 
    Il giudice rimettente richiama  in  proposito  la  giurisprudenza
costituzionale che avrebbe riconosciuto «la possibilita' di  vagliare
la cornice edittale di pena determinata  dal  legislatore,  sotto  il
principio della ragionevolezza di tale determinazione,  ovvero  della
sua rispondenza ai bisogni effettivi di tutela della collettivita'  e
al grado effettivo di antigiuridicita' e gravita'  del  comportamento
incriminato» (vengono citate le sentenze n. 341 del 1994 e n. 409 del
1989). 
    In  secondo  luogo,  l'art.  567,  secondo   comma,   cod.   pen.
contrasterebbe con il  principio  di  colpevolezza  e  di  necessaria
finalizzazione rieducativa della  pena  di  cui  all'art.  27  Cost.,
giacche' «la previsione di una pena eccessiva rispetto alla  gravita'
della  condotta,  soprattutto  quanto  al  minimo  edittale,  nonche'
sproporzionata  rispetto  alle  altre  condotte   contemplate   dalle
disposizioni del medesimo Capo, impedi[rebbe] al Giudice di  adeguare
la sanzione concretamente inflitta all'imputato, in caso di condanna,
alle  circostanze  del  fatto,  e  al  reo  stesso   di   comprendere
adeguatamente, con piena consapevolezza,  il  disvalore  del  proprio
comportamento». 
    2. - Con atto depositato il 23 febbraio 2016  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello   Stato,   concludendo   per
l'infondatezza  delle  questioni   di   legittimita'   costituzionale
sollevate. 
    2.1.  -  L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha,  innanzitutto,
evidenziato che la medesima questione ora sollevata dal Tribunale  di
Varese sarebbe gia' stata dichiarata manifestamente  infondata  dalla
Corte  costituzionale  con  l'ordinanza  n.  106  del  2007.  Ricorda
l'Avvocatura  generale  dello  Stato   che,   secondo   la   costante
giurisprudenza  costituzionale,  la  determinazione  del  trattamento
sanzionatorio  per  condotte  penalmente  rilevanti   rientra   nella
discrezionalita'   del   legislatore,   salvo   il    sindacato    di
costituzionalita'  su  scelte  normative  palesemente  arbitrarie   o
radicalmente ingiustificate, tali da evidenziare un uso  distorto  di
tale discrezionalita'. 
    Detto sindacato, inoltre, sarebbe possibile solo  qualora  ci  si
dolga del fatto che per un certo reato sia prevista una  pena  troppo
elevata e  siano  indicate,  come  tertia  comparationis,  norme  che
prevedano,  in  relazione  a  fattispecie  di  reato  sostanzialmente
identiche, una pena piu' mite. 
    Nella richiamata ordinanza la Corte costituzionale  chiari'  come
le fattispecie descritte dal primo e dal secondo comma dell'art.  567
cod. pen. siano oggettivamente diverse, perche', seppure in  entrambe
e' tutelato il medesimo bene giuridico (l'interesse del  minore  alla
verita' dell'attestazione ufficiale della  propria  ascendenza),  nel
caso del primo comma la condotta consiste in uno scambio materiale di
neonati, mentre la fattispecie prevista dal secondo comma si realizza
mediante  la  commissione  di  un  altro  reato  (quello   di   falso
ideologico, che non concorre con quello  di  alterazione  di  stato),
rivelando una piu' intensa carica criminosa, sicche' il principio  di
uguaglianza appare rispettato, avendo il  legislatore  trattato,  dal
punto di vista sanzionatorio, situazioni diverse in modo diverso. 
    Inoltre,  con  riguardo  alle  altre  fattispecie  incriminatrici
indicate  quali  tertia   comparationis   dal   giudice   rimettente,
l'Avvocatura generale dello Stato osserva che le  condotte  descritte
sia  dall'art.  566,  secondo  comma,  cod.  pen.  ("supposizione   o
soppressione di stato"), sia dall'art. 568 cod.  pen.  ("occultamento
di stato di un figlio"),  si  differenzierebbero  dalla  disposizione
denunciata perche' non presuppongono necessariamente la  consumazione
di un falso ideologico. 
    Non  conferente,  secondo  l'Avvocatura  generale  dello   Stato,
sarebbe poi  il  riferimento  all'art.  8  della  CEDU  nonche'  alla
sentenza della Corte EDU Paradiso e Campanelli contro Italia. In ogni
caso,  in  base  all'ormai  consolidato  orientamento   della   Corte
costituzionale  -  secondo  il  quale  le  disposizioni  della   CEDU
integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale di cui
all'art. 117, primo comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali -, ove emerga un eventuale contrasto tra  una
norma interna e una norma  della  CEDU,  il  giudice  nazionale  deve
investire la Corte costituzionale del dubbio di costituzionalita'  in
riferimento al citato art. 117, primo comma, Cost.  Nella  specie,  a
causa del mancato richiamo di tale  parametro,  la  relativa  censura
sarebbe inammissibile. 
    Da ultimo, l'Avvocatura generale dello Stato contesta  l'utilita'
del riferimento operato dal giudice rimettente alle  recenti  riforme
che hanno interessato il diritto di  famiglia,  perche'  disposizioni
civilistiche  non  potrebbero  assumere   alcun   rilievo   ai   fini
dell'individuazione  di  un  tertium  comparationis  attinente   alla
materia   penale.   Per   parte    sua,    l'accresciuta    facilita'
dell'accertamento della paternita' e maternita' naturale, determinata
dai progressi tecnico-scientifici, non avrebbe alcun concreto rilievo
per la fattispecie in questione, ne' potrebbe sminuire  il  disvalore
della condotta sanzionata dall'art. 567,  secondo  comma,  cod.  pen.
Infatti, l'eventuale commissione  di  tale  reato  determinerebbe  il
rischio concreto che colui che ne sia stato vittima possa  non  avere
mai dubbi sulle proprie effettive origini  e,  conseguentemente,  che
l'astratta possibilita' di accedere alle indagini genetiche non abbia
alcuna utilita' concreta. 
    3. - L'Avvocatura generale dello Stato, in data 10  agosto  2016,
ha depositato memoria nella quale ha ribadito quanto  gia'  affermato
in sede di intervento in giudizio, richiamando a sostegno dei  propri
assunti la decisione della Corte di cassazione, sesta sezione penale,
12  febbraio-14  aprile  2003,  n.  17627,  in  base  alla  quale  la
disposizione   incriminatrice   de   qua   e'   «posta   a   garanzia
dell'identita' del neonato, del rapporto  effettivo  di  procreazione
per come naturalmente si determina e, quindi,  dell'integrita'  dello
stato di filiazione, quale attributo della personalita'». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Varese ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 567, secondo comma, del  codice
penale,  nella  parte  in  cui  prevederebbe,  per  il  delitto   ivi
contemplato, un trattamento sanzionatorio irragionevolmente eccessivo
e sproporzionato, anche in  riferimento  alle  altre  fattispecie  di
delitto contenute nel Libro II, Titolo XI, Capo III, cod.  pen.,  con
conseguente  violazione  del  principio  di  ragionevolezza  di   cui
all'art. 3 della Costituzione  e  di  quello  di  colpevolezza  e  di
necessaria finalizzazione rieducativa della pena di cui  all'art.  27
Cost. 
    La disposizione  censurata,  sotto  la  rubrica  «Alterazione  di
stato», prevede, al secondo comma, che chiunque, nella formazione  di
un atto di nascita, altera lo stato civile di  un  neonato,  mediante
false certificazioni, false attestazioni o altre falsita', e'  punito
con la reclusione da cinque a quindici anni. Il giudice a quo  dubita
della legittimita' costituzionale di una siffatta  cornice  edittale,
ritenendola eccessiva e percio' irragionevole  e  sproporzionata,  in
violazione dell'art. 3  Cost.,  alla  luce  dell'effettivo  disvalore
attualmente  attribuibile  alla  condotta   incriminata,   anche   in
relazione al trattamento sanzionatorio  che  il  legislatore  riserva
alle fattispecie di reato di cui agli artt. 567,  primo  comma,  566,
secondo comma, e 568  cod.  pen.,  asseritamente  analoghe  a  quella
prevista dalla disposizione censurata e ritenute  comunque  non  meno
gravi (o addirittura piu' gravi) di essa. 
    Lamenta, inoltre, la violazione dell'art. 27  Cost.,  poiche'  la
previsione di una pena  cosi'  elevata,  particolarmente  nel  minimo
edittale,  non  consentirebbe  al  giudice   di   irrogare   sanzioni
proporzionate al reale disvalore della condotta, in tal modo violando
il principio di personalita' della responsabilita' penale e quello di
necessaria finalizzazione rieducativa della pena. 
    Nella motivazione dell'ordinanza,  ma  non  nel  dispositivo,  e'
fatto anche un  riferimento  all'art.  8  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,  sul  presupposto  che  la
previsione di una cornice edittale irragionevolmente elevata  sarebbe
in contrasto con la corretta proporzione che deve sussistere  tra  il
livello e l'intensita' dell'ingerenza dell'autorita'  pubblica  nella
vita  privata  e  nei  rapporti  familiari  di  ciascun  individuo  -
ingerenza costituita dalla norma  incriminatrice  censurata  -  e  il
legittimo obiettivo della protezione della  veridicita'  dello  stato
civile del neonato, che la disposizione persegue. Tale  sproporzione,
in particolare,  si  manifesterebbe  nel  precludere  al  giudice  la
determinazione di una pena ragionevolmente  correlata  alla  gravita'
del fatto ed ai motivi che spingono l'imputato ad agire in violazione
della disposizione. 
    2.-  L'eccezione  di  parziale  inammissibilita'  dell'Avvocatura
generale dello Stato,  riferita  ai  rilievi  da  ultimo  menzionati,
avrebbe  ragion  d'essere  se  il  giudice  a   quo   avesse   inteso
effettivamente prospettare un diretto contrasto della norma censurata
con l'art. 8 della CEDU. La giurisprudenza ormai costante  di  questa
Corte ha chiarito, infatti, che le norme della citata Convenzione non
sono parametri direttamente invocabili per affermare l'illegittimita'
costituzionale  d'una  disposizione  dell'ordinamento  nazionale,  ma
costituiscono  norme  interposte  la  cui  osservanza  e'   richiesta
dall'art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis ordinanze  n.  21  del
2014, n. 286 del 2012, n. 180  del  2011  e  n.  163  del  2010):  un
parametro,  quest'ultimo,  che  il  giudice  a  quo  non  ha  nemmeno
menzionato, ne' in motivazione, ne' nel dispositivo dell'ordinanza. 
    Proprio  per  tale  ragione,  peraltro,  puo'  ritenersi  che   i
riferimenti  del  rimettente  alla  norma   convenzionale   svolgano,
nell'economia del suo provvedimento, solo un ruolo rafforzativo delle
censure  relative  alla  pretesa  carenza  di  proporzionalita'   tra
l'intervento  repressivo  attuato  mediante  la  norma  censurata   e
l'esigenza di tutela che tale intervento giustifica (sentenza  n.  12
del 2016; ordinanza n. 286 del 2012). 
    3.- Il tratto caratteristico delle  questioni  in  esame  risiede
nella censura di manifesta irragionevolezza intrinseca della  cornice
edittale prevista per il delitto di cui all'art. 567, secondo  comma,
cod. pen. 
    Essa e', prima di tutto, contestata  alla  luce  di  un  asserito
mutamento  complessivo  delle  condizioni   normative,   tecniche   e
scientifiche, che avrebbe  reso  anacronistica  una  punizione  cosi'
severa. Assume infatti il rimettente che il disvalore della  condotta
descritta nella  disposizione  censurata  si  sarebbe  ridimensionato
rispetto all'epoca in cui e' entrato in vigore il codice  penale.  In
particolare, l'anacronismo  insito  in  una  cornice  edittale  cosi'
severa sarebbe reso evidente  sia  dal  rilievo  per  cui  l'atto  di
nascita non e' piu', attualmente, l'unico strumento per accertare  il
reale   status   filiationis   -   vista   l'accresciuta    facilita'
dell'accertamento  della  paternita'  e  della  maternita'  naturali,
determinata dai progressi tecnico-scientifici  -  sia  dalle  recenti
riforme   del   diritto   di   famiglia,   che   consentirebbero   la
reclamabilita' di uno stato di figlio contrario a  quello  attribuito
dall'atto di nascita (anche) nell'ipotesi in cui il neonato sia stato
iscritto come figlio  di  ignoti,  ovvero  in  conformita'  ad  altra
presunzione di paternita'. 
    Inoltre,  la   cornice   edittale   manifesterebbe   la   propria
irragionevole severita' nell'impedire di fatto al giudice  di  tenere
conto delle situazioni in  cui  il  soggetto  agente  e'  condotto  a
presentare  false  certificazioni  o  attestazioni  in  vista  di  un
obbiettivo di cura dell'interesse del neonato,  magari  privo  di  un
padre o che il genitore naturale non intende riconoscere, e al  quale
il  soggetto  intende  attribuire  comunque  dei  legami   familiari,
ancorche' in un'ottica distorta  e  scorretta:  cio'  che,  oltre  ad
imporre al giudice di irrogare sanzioni non  proporzionate  al  reale
disvalore della condotta, aggraverebbe, nel  reo,  la  percezione  di
subire una condanna ingiusta, svincolata dalla gravita' della propria
condotta, in  frontale  contrasto  con  il  principio  di  necessaria
finalizzazione rieducativa della pena. 
    Infine,  il  rimettente  osserva  come  l'altra  fattispecie   di
alterazione di stato, commessa  mediante  sostituzione  del  neonato,
prevista al primo comma del medesimo  art.  567  cod.  pen.,  sarebbe
sanzionata con una pena «decisamente  inferiore»,  pur  presentandosi
quale frutto di una  condotta  che  egli  considera  «piu'  grave  ed
allarmante», rivelando, a suo  avviso,  una  maggior  risoluzione  ad
agire  da  parte   del   reo,   una   consapevolezza   piu'   marcata
dell'intrinseca antigiuridicita' della condotta ed una piu'  spiccata
propensione a delinquere. 
    4.- Le questioni sono fondate, alla luce di entrambi i  parametri
costituzionali evocati. 
    4.1.-  Non  tutti  gli  argomenti  spesi   dal   rimettente   per
sollecitare  l'accoglimento  delle  questioni  sollevate,  per  vero,
colgono nel segno. Cosi'  e'  a  dirsi,  in  particolare,  di  quelli
relativi  all'asserito  anacronismo  che  la  severita'  della   pena
prevista dalla disposizione censurata rivelerebbe. 
    Le trasformazioni dell'assetto normativo, tecnico e  scientifico,
allegate dal giudice a quo quali prove del complessivo  mutamento  di
contesto, di per se' stesse non hanno la  capacita'  di  alleggerire,
nella  percezione  comune,  la  gravita'  della  condotta  punita   e
l'allarme sociale conseguente. Non erra l'Avvocatura  generale  dello
Stato quando osserva che  l'accresciuta  facilita'  dell'accertamento
della  paternita'  e  della  maternita'  naturale,  determinata   dai
progressi  tecnico-scientifici  e  dalla  possibilita'   di   accesso
all'esame del DNA, non e' in grado di diminuire  il  disvalore  della
condotta sanzionata dalla disposizione  censurata,  per  la  semplice
ragione che la vittima dell'eventuale reato di alterazione  di  stato
potrebbe non nutrire mai quel dubbio sulle proprie origini che, solo,
potrebbe indurla a ricorrere, in concreto, ad indagini genetiche. 
    Allo  stesso  modo,  non   hanno   specifica   incidenza,   nella
fattispecie in esame, le recenti riforme del diritto di famiglia.  E'
vero che questa Corte ha gia' censurato  discipline  legislative  per
irragionevolezza sopravvenuta, in  quanto  scrutinate  in  un  quadro
normativo mutato rispetto a quello esistente al  momento  della  loro
approvazione (sentenze n. 354 del 2002 e n. 440 del 1994). Ma  lo  ha
fatto quando le modifiche in questione, ancorche' solo indirettamente
rilevanti, interessavano da vicino la norma censurata, travolgendo la
sua stessa  giustificazione.  Nella  prospettazione  del  rimettente,
invece, si dovrebbe dare  peso  a  riforme  intervenute  nel  diverso
settore  del  diritto  civile,  soprattutto  in  quanto   tese   alla
valorizzazione, ai fini della prova del rapporto di filiazione, delle
cosiddette «prove tecniche», ossia dei  gia'  ricordati  accertamenti
sul corredo  genetico  degli  interessati:  accertamenti,  ai  quali,
tuttavia, anche da questo punto di vista non puo' attribuirsi  alcuna
capacita'  di  incisione  sul  disvalore  della  condotta  sanzionata
dall'art. 567, secondo comma, cod. pen. 
    4.2.-  La  fondatezza  delle  questioni  sollevate   si   rivela,
piuttosto, in  virtu'  della  manifesta  sproporzione  della  cornice
edittale censurata, se considerata  alla  luce  del  reale  disvalore
della condotta punita. 
    E'   costante,   nella    giurisprudenza    costituzionale,    la
considerazione secondo cui l'art. 3  Cost.  esige  che  la  pena  sia
proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in  modo  che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale ed a quella di  tutela  delle  posizioni  individuali.  E  la
tutela del principio  di  proporzionalita',  nel  campo  del  diritto
penale, conduce a «negare legittimita' alle incriminazioni che, anche
se  presumibilmente  idonee  a  raggiungere  finalita'  statuali   di
prevenzione, producono, attraverso la pena, danni  all'individuo  (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela dei  beni  e  valori  offesi  dalle  predette  incriminazioni»
(sentenze n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989). Deve essere  ricordato,
in questa prospettiva, anche l'art. 49, numero 3),  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea - proclamata a  Nizza  il  7
dicembre 2000, e che ha ora lo stesso valore giuridico dei  trattati,
in forza dell'art. 6,  comma  1,  del  Trattato  sull'Unione  europea
(TUE), come  modificato  dal  Trattato  di  Lisbona,  firmato  il  13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n.
130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 - a  tenore  del  quale
«le pene  inflitte  non  devono  essere  sproporzionate  rispetto  al
reato». 
    In questo delicato  settore  dell'ordinamento,  il  principio  di
proporzionalita'   esige   un'articolazione   legale   del    sistema
sanzionatorio che  renda  possibile  l'adeguamento  della  pena  alle
effettive  responsabilita'  personali,  svolgendo  una  funzione   di
giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di  limite
della  potesta'  punitiva  statale,  in   armonia   con   il   "volto
costituzionale" del sistema penale (sentenza n. 50 del 1980). 
    A cio'  si  aggiunge  che,  alla  luce  dell'art.  27  Cost.,  il
principio della finalita' rieducativa  della  pena  costituisce  «una
delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la  pena  nel
suo  contenuto  ontologico,  e  l'accompagnano   da   quando   nasce,
nell'astratta previsione normativa, fino  a  quando  in  concreto  si
estingue» (sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le  sentenze  n.
183 del 2011 e n. 129 del 2008). Esso, pertanto, non vale per la sola
fase esecutiva, ma obbliga tanto  il  legislatore  quanto  i  giudici
della cognizione (sentenza n.  313  del  1990).  Anche  la  finalita'
rieducativa  della  pena,   nell'illuminare   l'astratta   previsione
normativa,  richiede  «un  costante  principio  di  proporzione   tra
qualita'  e  quantita'  della  sanzione,  da  una  parte,  e  offesa,
dall'altra» (sentenza n. 251 del 2012 e, ancora, sentenza n. 341  del
1994), mentre la palese sproporzione del  sacrificio  della  liberta'
personale produce «una vanificazione del fine rieducativo della  pena
prescritto dall'art. 27, terzo  comma,  della  Costituzione,  che  di
quella liberta' costituisce una garanzia istituzionale  in  relazione
allo stato di detenzione» (sentenza n. 343 del 1993). 
    Laddove  la   proporzione   tra   sanzione   e   offesa   difetti
manifestamente, perche' alla carica offensiva insita  nella  condotta
descritta dalla fattispecie  normativa  il  legislatore  abbia  fatto
corrispondere conseguenze punitive di entita'  spropositata,  non  ne
potra' che discendere  una  compromissione  ab  initio  del  processo
rieducativo, processo  al  quale  il  reo  tendera'  a  non  prestare
adesione,  gia'  solo  per  la  percezione  di  subire  una  condanna
profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del  tutto
svincolata dalla gravita' della propria condotta e dal  disvalore  da
essa espressa. 
    In  tale  contesto,  una  particolare  asprezza  della   risposta
sanzionatoria determina percio' una violazione congiunta degli  artt.
3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalita' della
pena rispetto alla gravita' del  fatto  commesso,  sia  quello  della
finalita' rieducativa della  pena  (sentenza  n.  68  del  2012,  che
richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993). 
    E' cio' che accade nel caso della cornice edittale  prevista  per
il delitto di cui all'art. 567, secondo comma, cod. pen. 
    Vale la pena ricordare che, intervenendo  sulla  pena  accessoria
della perdita della potesta'  (oggi  "responsabilita'")  genitoriale,
stabilita quale automatica conseguenza della condanna per il medesimo
delitto di alterazione di stato, questa Corte  ha  gia'  sottolineato
che il delitto  di  cui  all'art.  567,  secondo  comma,  cod.  pen.,
«diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca
in se' una presunzione assoluta di pregiudizio per i  loro  interessi
morali e materiali» (sentenza n. 31 del 2012), riconoscendo,  dunque,
come non si possa escludere che il reo sia guidato dal fine, non gia'
di pregiudicare, bensi' di favorire, sia pur  commettendo  un  reato,
l'interesse del neonato. 
    In tali ipotesi, la sproporzione del trattamento sanzionatorio si
rivela con nettezza: giacche', pur  indirizzandosi  verso  il  minimo
edittale, il giudice e'  comunque  costretto  a  infliggere  pene  di
entita' eccessiva, che  non  sono  in  ragionevole  rapporto  con  il
disvalore della condotta. 
    Nell'ordinanza di rimessione, per vero, le circostanze  del  caso
concreto tratto in giudizio non sono lumeggiate in dettaglio, se  non
attraverso i soli riferimenti sufficienti a  sostenere  la  rilevanza
delle  questioni  di  legittimita'   costituzionale   sollevate.   Il
rimettente aggiunge soltanto che,  anche  applicando  la  circostanza
attenuante prevista dall'art. 62, primo comma, numero 1),  cod.  pen.
(che consente una mitigazione di pena per il reo che abbia agito «per
motivi di particolare valore morale o sociale»),  il  condannato  non
potrebbe giovarsi della sospensione condizionale della pena. 
    Ai fini del giudizio di  legittimita'  costituzionale,  tuttavia,
non importa accertare se nel processo principale siano effettivamente
giudicate condotte poste in  essere  con  la  supposta  finalita'  di
giovare agli interessi del minore, e in particolare  di  attribuirgli
un legame familiare altrimenti assente.  E'  sufficiente  considerare
che la disposizione censurata, per come e' normativamente definita la
cornice edittale, impone  al  giudice  di  infliggere  una  punizione
irragionevolmente sproporzionata per eccesso, anche nelle ipotesi  in
cui l'obbiettivo dell'agente  -  sia  pur  perseguito,  in  un'ottica
scorretta, mediante la commissione di un falso -  sia  effettivamente
quello di attribuire un legame familiare al neonato,  che  altrimenti
ne resterebbe privo. 
    Non  erra  percio'  il   giudice   a   quo   nel   ritenere   che
l'applicazione, pur nel minimo  edittale,  della  sanzione  stabilita
dalla disposizione censurata risulti manifestamente irragionevole per
eccesso, in violazione dell'art. 3 Cost.,  e  si  ponga  altresi'  in
contrasto con il principio della finalita'  rieducativa  della  pena,
poiche' ingenera nel condannato la convinzione di essere  vittima  di
un ingiusto sopruso, sentimento  che  osta  all'inizio  di  qualunque
efficace processo rieducativo, in violazione dell'art. 27 Cost. 
    4.3.- L'ordinanza di rimessione pone in dubbio la  ragionevolezza
intrinseca della cornice edittale stabilita dal codice penale per  il
delitto di alterazione di stato commesso mediante falso,  «anche»  in
relazione al diverso, e piu' mite, trattamento sanzionatorio previsto
dal legislatore per altre fattispecie contenute nel Libro II,  Titolo
XI, Capo III, cod.  pen.,  che  lo  stesso  rimettente  non  esita  a
definire  non  meno  gravi  (o  addirittura  piu'  gravi)  di  quella
descritta dalla disposizione censurata. 
    Un ruolo non secondario - nelle valutazioni del giudice a quo  e,
come si dira', di questa stessa Corte - e' in  effetti  svolto  dallo
specifico  riferimento  al  piu'   mite   trattamento   sanzionatorio
stabilito  per  il  delitto  di   alterazione   di   stato   mediante
sostituzione di un  neonato,  significativamente  presente  al  primo
comma dello stesso articolo 567 cod. pen.,  che  riunisce,  sotto  la
medesima rubrica, due fattispecie accomunate dall'essere  indirizzate
alla tutela del medesimo bene giuridico, come questa  Corte  ha  gia'
riconosciuto nell'ordinanza n. 106 del 2007. 
    Rimane fermo che  le  questioni  all'attuale  esame  sollecitano,
prima di  tutto,  un  controllo  di  proporzionalita'  sulla  cornice
edittale stabilita dalla norma  censurata,  alla  luce  dei  principi
costituzionali evocati (artt. 3 e 27 Cost.), non  gia'  una  verifica
sull'asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili  o
identiche,  lamentato   attraverso   la   mera   identificazione   di
disposizioni idonee a fungere  da  tertia  comparationis.  Piuttosto,
nella prospettazione del giudice a quo, l'esito negativo di  un  tale
controllo, in termini di manifesta irragionevolezza per  sproporzione
tra cornice  edittale,  da  un  lato,  e  disvalore  della  condotta,
dall'altro, viene a  disvelarsi  «anche»  alla  luce  del  piu'  mite
trattamento riservato ad altre fattispecie, tra cui, in  particolare,
quella del primo comma del medesimo art. 567 cod. pen. 
    Una censura di violazione del solo art. 3 Cost.,  incentrata  sul
supposto diverso trattamento sanzionatorio  rispettivamente  previsto
dai due commi dell'art. 567 cod. pen., e' stata rigettata  da  questa
Corte (ordinanza n. 106  del  2007),  che  -  pur  riconoscendo  come
entrambe le fattispecie tutelino il medesimo  bene  giuridico,  cioe'
l'interesse del minore alla verita' dell'attestazione ufficiale della
propria  ascendenza  -   ritenne   non   illegittimo   tale   diverso
trattamento, essendo distinte le condotte  descritte  nei  due  commi
della disposizione in questione. 
    Come chiarito, il diverso esito delle questioni all'attuale esame
e' sollecitato dall'aver il giudice a quo richiesto uno scrutinio  di
costituzionalita'   imperniato   sulla   manifesta   irragionevolezza
intrinseca  della  risposta  sanzionatoria  stabilita   dalla   norma
censurata, sotto il  profilo  della  proporzionalita'  tra  severita'
della cornice edittale e  disvalore  della  condotta,  con  ulteriore
riferimento alla vanificazione,  determinata  dall'entita'  eccessiva
della sanzione, della finalizzazione rieducativa della pena, ai sensi
dell'art. 27 Cost. 
    4.4.- Non appartengono a questa Corte  valutazioni  discrezionali
di dosimetria sanzionatoria penale, risultando,  queste,  tipicamente
spettanti  alla  rappresentanza  politica,  chiamata  attraverso   la
riserva di legge sancita nell'art. 25 Cost. a stabilire il  grado  di
reazione dell'ordinamento al cospetto di una lesione a un determinato
bene  giuridico.  E  non  puo'  che  essere  ribadita   la   costante
giurisprudenza  costituzionale,  che  in  tale  materia   tutela   la
discrezionalita'   del   legislatore,   salvo   il    sindacato    di
costituzionalita' su scelte  palesemente  arbitrarie  o  radicalmente
ingiustificate,  tali  da  evidenziare  un  uso  distorto   di   tale
discrezionalita' (ex multis sentenze n. 148 e 23 del 2016, n. 81  del
2014, n. 394 del 2006, e ordinanze n. 249 e 71 del 2007, n. 169 e  45
del 2006). 
    Al tempo stesso, tuttavia, laddove emergano sintomi di  manifesta
irragionevolezza, per sproporzione, di un trattamento  sanzionatorio,
e l'intervento della Corte costituzionale sia  invocato,  a  fini  di
giustizia, dai giudici a quibus, questo e' possibile, al ricorrere di
determinate condizioni. 
    Per non sovrapporre la  propria  discrezionalita'  a  quella  del
Parlamento rappresentativo, finendo per esercitare  un  inammissibile
potere di scelta (sentenza n. 22 del 2007) in  materia  sanzionatoria
penale,  la  valutazione  di  questa  Corte  deve   essere   condotta
attraverso precisi punti di riferimento, gia' rinvenibili nel sistema
legislativo. Anche nel giudizio di "ragionevolezza intrinseca" di  un
trattamento  sanzionatorio  penale,  incentrato  sul   principio   di
proporzionalita', e' infatti essenziale l'individuazione di soluzioni
gia'  esistenti,  idonee  a  eliminare   o   ridurre   la   manifesta
irragionevolezza lamentata (sentenza n. 23 del 2016). 
    Solo se condotta secondo  queste  modalita',  la  valutazione  si
mantiene  fedele  al  costante  orientamento   della   giurisprudenza
costituzionale,  in  base  al   quale,   in   tema   di   trattamento
sanzionatorio  penale,  e'  consentito   emendare   le   scelte   del
legislatore   «in   riferimento   a   grandezze   gia'    rinvenibili
nell'ordinamento» (sentenze n. 148  del  2016  e  n.  22  del  2007):
giacche' obiettivo del  controllo  sulla  manifesta  irragionevolezza
delle scelte sanzionatorie non e' alterare le  opzioni  discrezionali
del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte gia' delineate  a
tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove
possibile, all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze. 
    4.5.- Alla luce di tali rigorose coordinate, nel caso di  specie,
il controllo  sulla  sproporzione  manifestamente  irragionevole  tra
qualita' e  quantita'  della  sanzione,  da  una  parte,  e  gravita'
dell'offesa, dall'altra,  e'  possibile  attraverso  una  valutazione
relazionale, che anche il rimettente sollecita, condotta  per  intero
all'interno della disciplina del medesimo art. 567 cod. pen. 
    Si tratta di uno scrutinio svolto entro  il  perimetro  conchiuso
dal medesimo articolo, che, anche per questa ragione, non  conduce  a
sovrapporre, dall'esterno, una  dosimetria  sanzionatoria  eterogenea
rispetto alle scelte legislative, ma giudica "per linee  interne"  la
coerenza  e  la  proporzionalita'  delle   sanzioni   rispettivamente
attribuite dal legislatore a ciascuna delle due fattispecie di cui si
compone il reato di alterazione di stato. 
    In questa chiave, la manifesta irragionevolezza per  sproporzione
della forbice edittale censurata si evidenzia al cospetto della  meno
severa cornice (reclusione da tre a dieci anni) che il medesimo  art.
567 cod. pen. prevede, al primo comma,  per  l'altra  fattispecie  di
alterazione dello stato di famiglia del neonato, commessa mediante la
sua sostituzione. 
    Le fattispecie punite, rispettivamente, al  primo  e  al  secondo
comma del  citato  articolo,  non  sono  identiche,  ma  non  possono
considerarsi  del   tutto   disomogenee,   non   foss'altro   perche'
indirizzate a proteggere, come  questa  Corte  ha  gia'  riconosciuto
(ordinanza n. 106 del 2007), il medesimo bene giuridico. 
    Infatti, il reato di cui all'art. 567, secondo comma, cod.  pen.,
punisce la modificazione del vero non per se', ma in quanto  da  essa
derivi la perdita  dell'autentico  status  filiationis  del  neonato,
evidenziando  che  la  fattispecie  protegge  in   primo   luogo   la
veridicita' dello stato  di  filiazione,  ovvero,  piu'  esattamente,
l'interesse del minore a vedersi riconosciuto un  rapporto  familiare
corrispondente alla propria effettiva ascendenza. 
    Ma lo stesso puo' dirsi della fattispecie di cui al primo  comma,
dove, in egual  modo,  e'  privilegiata  la  protezione  del  diritto
fondamentale del minore  alla  corretta  rappresentazione  della  sua
ascendenza, quale presupposto della  sua  complessiva  condizione  di
vita,  e,  d'altra  parte,   la   condotta   incriminata,   che   non
implausibilmente appare al rimettente non meno (se non  piu')  grave,
comporta il coinvolgimento non di uno solo, ma di due neonati. 
    I due reati, la cui regolamentazione il legislatore ha deciso  di
circoscrivere nel perimetro di  un  medesimo  articolo,  segnato  dal
medesimo  nomen  juris,  presentano  allora  non  irrilevanti  tratti
comuni.  Ancorche'  autonomi,  essi  descrivono  un  medesimo  evento
delittuoso, consistente nella  alterazione  dello  stato  civile  del
neonato, mentre a variare sono le modalita' esecutive, perche' in  un
caso  l'alterazione  si  produce  «mediante  la  sostituzione  di  un
neonato»,   nell'altro   «mediante   false   certificazioni,    false
attestazioni o altre falsita'» nell'atto di nascita del  neonato.  Ma
l'evento delittuoso e' per l'appunto identico, come  per  conseguenza
identico, per le ragioni gia' dette, e' il  bene  giuridico  protetto
dalle due fattispecie incriminatrici. 
    In definitiva, in entrambi i casi, e' un medesimo bene ad  essere
leso, sia pur in forme diverse. Ma le differenti modalita'  esecutive
non esprimono, in se'  stesse,  connotazioni  di  disvalore  tali  da
legittimare una divergenza di  trattamento  sanzionatorio.  Ed  anzi,
tale divergenza, che si traduce in una cornice edittale  marcatamente
piu'  severa  nel  caso  del  secondo  comma,  appare  manifestamente
irragionevole. 
    5.-  Tutto  cio'  premesso,  alla  luce  dei  limiti  dei  poteri
d'intervento di questa Corte, l'unica soluzione praticabile  consiste
nel parificare il trattamento  sanzionatorio  delle  due  fattispecie
nelle quali si articola l'unitario art. 567 cod.  pen.,  trattandosi,
appunto, di  utilizzare  coerentemente  «grandezze  gia'  rinvenibili
nell'ordinamento». 
    Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
567, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui punisce il  delitto
ivi descritto con la pena della reclusione da cinque a quindici anni,
anziche' con la pena della reclusione da tre a dieci anni. 
    Tale soluzione riconsegna al giudice la possibilita' di  adeguare
effettivamente, con risultati apprezzabili nel  sistema  vigente,  la
pena alle circostanze del caso concreto, calibrandola  altresi'  alla
finalita' rieducativa cui essa deve mirare.  Facendo  riferimento  al
nuovo minimo edittale di tre anni di reclusione, infatti, il  giudice
potra' valorizzare circostanze dalle quali emerga una propensione  di
protezione  nei  confronti  del  nato;  ma,  tutt'al  contrario,   in
relazione ad una cornice edittale che prevede  una  pena  massima  di
dieci anni di reclusione, ben potra' tenere conto  di  circostanze  o
pratiche meritevoli di una piu' severa risposta sanzionatoria. 
    La  pronuncia  di  questa  Corte  consente  l'eliminazione  della
manifesta irragionevolezza denunciata. Un auspicabile intervento  del
legislatore,  che  riconsideri  funditus,  ma  complessivamente,   il
settore dei delitti in esame, potra' introdurre i diversi trattamenti
sanzionatori ritenuti adeguati.