ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1,
della  legge  14  aprile  1982,  n.  164   (Norme   in   materia   di
rettificazione di attribuzione  di  sesso),  promosso  dal  Tribunale
ordinario di Avezzano, nel procedimento vertente tra S. T. e Pubblico
ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale  ordinario
di Avezzano, con ordinanza del 12 gennaio 2017, iscritta al n. 58 del
registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21  giugno  2017  il  Giudice
relatore Giuliano Amato. 
    Ritenuto che il Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato,  in
riferimento agli  artt.  2  e  3  della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1,  comma  1,  della  legge  14
aprile  1982,  n.  164  (Norme  in  materia  di   rettificazione   di
attribuzione di sesso), nell'interpretazione data dalla  sentenza  n.
221 del 2015 di questa Corte e dalla  sentenza  20  luglio  2015,  n.
15138 della Corte di cassazione,  in  quanto  il  riconoscimento  del
diritto alla rettifica dell'attribuzione di sesso, anche  in  assenza
di modifica dei caratteri sessuali primari, finirebbe  per  prevalere
sul diritto della gran parte dei consociati a  conservare  «il  pieno
duopolio  uomo/donna»,   comprimendo   irragionevolmente   i   doveri
inderogabili di solidarieta' sociale, e imporrebbe alla collettivita'
la  necessita'  di  adeguarsi  alla  sua  estrinsecazione  anche  nei
confronti di  minori,  lavoratori,  istituzioni,  imponendo  loro  un
mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati; 
    che il giudice a quo e' chiamato a  decidere  in  ordine  ad  una
domanda di rettificazione dell'attribuzione di sesso, da  maschile  a
femminile, in assenza dell'intervento chirurgico di  adeguamento  dei
caratteri sessuali; d'altra parte, la consulenza  tecnica  d'ufficio,
acquisita  nel  corso  del   giudizio,   ha   affermato   l'idoneita'
psicofisica della parte istante al cambiamento di genere; 
    che, dopo avere illustrato le recenti  pronunce  della  Corte  di
cassazione (prima sezione civile, sentenza 20 luglio 2015, n.  15138)
e di questa Corte (sentenza n. 221 del 2015), con le quali  e'  stata
riconosciuta al singolo la scelta delle modalita' attraverso le quali
realizzare il proprio percorso di transizione, il  rimettente  deduce
che nelle stesse sarebbe mancata la dovuta attenzione verso l'aspetto
relazionale,   essendo   stata   trascurata,   sia   la   valutazione
dell'entita'  delle  modificazioni  ritenute   necessarie,   sia   la
rilevanza degli effetti di tale impostazione sulla collettivita'; 
    che, ad avviso del giudice a quo, laddove anche  nel  trattamento
ormonale fosse ravvisata  una  costrizione  della  propria  identita'
personale, o comunque una violazione  del  diritto  alla  salute,  si
arriverebbe  all'accoglimento  di  qualsiasi  istanza  di  rettifica,
ancorche'  sorretta   dal   solo   elemento   volontaristico,   ossia
dall'esigenza di  adeguare  la  propria  identita'  fisica  a  quella
psichica, a prescindere da qualsiasi intervento; 
    che,  tuttavia,  il  dato   normativo   continua   a   richiedere
l'intervenuto mutamento  dei  caratteri  sessuali,  poiche'  l'inciso
«quando necessario», contenuto nell'art. 31,  comma  4,  del  decreto
legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari  al
codice di procedura civile in materia di riduzione e  semplificazione
dei procedimenti civili di  cognizione,  ai  sensi  dell'articolo  54
della legge 18 giugno 2009, n. 69), sarebbe riferibile  ai  casi  nei
quali il mutamento sia l'effetto di malformazioni  congenite,  ovvero
di trattamenti chirurgici eseguiti all'estero; 
    che, a suo avviso, la domanda di rettificazione dovrebbe, quindi,
essere respinta laddove essa si fondi esclusivamente «su un desiderio
irrefrenabile del soggetto agente, senza che questi appaia  conforme,
anche esteticamente ed esteriormente, al sesso richiesto»; viceversa,
l'accezione del diritto all'identita' di genere sostenuta  dalle  due
pronunce in esame varrebbe a configurare  l'identita'  sessuale  come
oggetto di una mera scelta soggettiva  dell'interessato,  di  cui  la
consulenza  medica  si  limiterebbe  ad  accertare  la  serieta'   ed
univocita'; 
    che,  d'altra   parte,   tale   impostazione   trascurerebbe   la
considerazione dei rapporti interpersonali; viceversa,  il  principio
personalista  andrebbe  declinato  anche  nelle  relazioni   sociali,
attraverso  un   bilanciamento   dell'interesse   del   singolo   con
l'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici; 
    che, sotto questo profilo, si osserva che la  vita  di  relazione
conterrebbe numerose occasioni  di  contatto,  nelle  quali  rilevano
anche i caratteri sessuali primari della persona; in ciascuna di esse
ricorrerebbe l'esigenza di stabilirne con sicurezza il  «genere»,  al
fine di evitare che alcuno, a fortiori  se  minorenne,  possa  essere
disorientato in ordine all'identita' di genere del «mutato di sesso»; 
    che, viceversa,  laddove  l'elemento  documentale  prevalesse  su
quello fisico, la societa' non sarebbe  piu'  fondata  sul  «duopolio
uomo/donna»,  ma  su  un   numero   indeterminato   di   generi;   si
verificherebbe una «promiscuita'  fondata  sul  dato  cartolare»,  in
danno della maggioranza dei cittadini, la quale, essendo ancorata  ad
altri valori, sarebbe costretta «ad elaborare regole di comportamento
certamente molto lontane dalla tradizione secolare»; 
    che, pertanto, ad avviso del rimettente, sarebbe insufficiente il
mutamento dei caratteri secondari, dovendosi attribuire rilievo anche
ai caratteri sessuali primari; la scelta meramente personalistica del
proprio orientamento sessuale costituirebbe  un  aspetto  sicuramente
degno di considerazione, ma dovrebbe essere  valutata  alla  luce  di
regole  di  analogo  rilievo  costituzionale,   che   devono   essere
bilanciate con criteri di ragionevolezza e proporzionalita'; 
    che si porrebbe un problema di tutela delle  maggioranze  ed  una
questione di parita' di  trattamento  «al  contrario»;  si  dovrebbe,
infatti, rendere compatibile la  situazione  di  coloro  che  abbiano
ottenuto la rettifica anagrafica senza intervento chirurgico  con  il
diritto degli altri consociati a ricevere  servizi  differenziati  in
ragione della propria appartenenza ad un sesso; 
    che, ad  avviso  del  rimettente,  sarebbe  privo  di  fondamento
costituzionale l'adeguamento  che  la  societa'  sarebbe  chiamata  a
compiere al fine di consentire l'integrale esplicazione  del  diritto
in esame; 
    che, inoltre, nel caso oggetto del giudizio a quo, la  consulenza
tecnica  d'ufficio  attesterebbe  un'«idoneita'   alla   prosecuzione
dell'iter transizionale», ma non la sua  definitiva  maturazione;  si
avrebbe,  infatti,  la  percezione  autonoma   e   soggettiva   della
condizione femminile, ma non gia' quella obiettiva,  da  parte  della
collettivita';  tale  situazione  non  sarebbe   indicativa   di   un
definitivo  ed  irreversibile  cambiamento  di   genere   ma,   anzi,
porterebbe al riconoscimento  del  transgender  come  tertium  genus,
rispetto al quale  verrebbero  in  rilievo  le  sole  caratteristiche
psichiche  del   soggetto,   restando,   viceversa,   molto   sfumata
l'identita' sessuale secondaria; 
    che viceversa,  laddove  si  escludesse  la  rilevanza  dei  soli
aspetti psicologici, ovvero del trattamento  ormonale,  il  test  sui
caratteri  sessuali  secondari  non  sarebbe  cosi'  evanescente   e,
pertanto,  inidoneo  a  dimostrare   la   definitiva   trasmigrazione
all'altro genere; 
    che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  inammissibile  o,
comunque, infondata. 
    Considerato che il Tribunale ordinario di Avezzano ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 2 e  3  della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1,  comma  1,  della  legge  14
aprile  1982,  n.  164  (Norme  in  materia  di   rettificazione   di
attribuzione di sesso); 
    che il giudice a quo ritiene  che  la  disposizione  censurata  -
nell'interpretazione adottata dalla  sentenza  n.  221  del  2015  di
questa Corte e da quella della Corte  di  cassazione,  sezione  prima
civile, 20 luglio 2015, n. 15138 - contrasti con  gli  artt.  2  e  3
Cost.,  perche'  il  riconoscimento  del   diritto   alla   rettifica
dell'attribuzione  di  sesso,  anche   in   assenza   di   intervento
chirurgico, finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte  dei
consociati  a  conservare   il   pieno   «duopolio   uomo/donna»   ed
implicherebbe che la  societa'  debba  adeguarsi  all'estrinsecazione
delle sue conseguenze anche verso  minori,  lavoratori,  istituzioni,
imponendo loro un  mutamento  dei  tradizionali  valori,  comunemente
accettati; 
    che il  giudice  a  quo  ritiene  che  nella  scelta  ermeneutica
compiuta  nelle  due  pronunce  in  esame  sia  mancata   la   dovuta
considerazione dei suoi effetti sulla collettivita'; egli paventa  il
rischio che, nonostante  il  dato  normativo  continui  a  richiedere
l'intervenuto  mutamento  dei  caratteri  sessuali  ai   fini   della
rettifica anagrafica, questa linea interpretativa porti ad accogliere
qualsiasi istanza in tal senso, purche' sorretta  dal  solo  elemento
volontaristico, a prescindere da ogni intervento; 
    che, tuttavia, l'analisi e le osservazioni del giudice a quo  non
tengono adeguatamente conto dei principi  affermati  dalle  decisioni
richiamate,  le  quali  hanno   indicato   un'interpretazione   della
disposizione censurata, rispettosa dei valori costituzionali e  posta
«nell'alveo di una civilta'  giuridica  in  evoluzione,  sempre  piu'
attenta ai valori, di liberta' e dignita', della persona  umana,  che
ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale», come
gia' affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 161 del 1985; 
    che, in particolare, la  Corte  di  cassazione  ha  ritenuto  non
obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio o  modificativo  dei
caratteri sessuali anatomici primari, affermando  che  l'acquisizione
di una nuova identita' di genere, in quanto risultato di un  processo
individuale, non ne postula la necessita',  purche'  la  serieta'  ed
univocita' del percorso scelto e la compiutezza  dell'approdo  finale
siano oggetto di accertamento tecnico in sede giudiziale; 
    che, nello stesso senso, la successiva sentenza n. 221  del  2015
di    questa    Corte    ha    affermato    che    un'interpretazione
costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982  consenta  di
escludere la necessita'  del  ricorso  all'intervento  chirurgico  di
normoconformazione,    ai    fini    della    rettifica    anagrafica
dell'attribuzione di sesso; 
    che,  in   particolare,   l'interpretazione   adeguatrice   della
disposizione censurata, pur escludendo la necessita' di modificazioni
chirurgiche dei  caratteri  sessuali,  ha  mantenuto  fermo  il  dato
testuale dell'art.  1,  comma  1,  il  quale  prevede,  comunque,  le
«intervenute modificazioni dei caratteri sessuali»; 
    che, d'altra parte, tale  pronuncia  non  ha  sottovalutato,  ne'
tanto meno escluso, la necessita' di  un  accertamento  rigoroso  non
solo   della   serieta'   e   univocita'   dell'intento,   ma   anche
dell'intervenuta transizione dell'identita'  di  genere,  emersa  nel
percorso seguito dalla persona  interessata,  il  quale  corrobora  e
rafforza l'intento cosi' manifestato; 
    che  la  linea  interpretativa  adottata  nelle  pronunce   sopra
richiamate mostra di tenere nella dovuta  considerazione  proprio  le
esigenze evidenziate dallo stesso rimettente, in particolare  laddove
si riconosce che nella legge n. 164 del  1982  la  realizzazione  del
diritto  del  singolo   al   riconoscimento   del   proprio   diritto
all'identita' personale, di cui e' parte l'identita' di genere, trova
la  sua  realizzazione  attraverso  un  procedimento  giudiziale  che
garantisce, al contempo, sia il diritto del  singolo  individuo,  sia
quelle  esigenze   pubblicistiche   di   certezza   delle   relazioni
giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici; 
    che, sebbene l'aspirazione del singolo  alla  corrispondenza  del
sesso   attribuitogli   nei   registri    anagrafici    con    quello
soggettivamente percepito e  "vissuto"  costituisca  espressione  del
diritto al riconoscimento dell'identita' di  genere,  il  ragionevole
punto di equilibrio tra le molteplici istanze di  garanzia  -  in  un
quadro  di  «irriducibile  varieta'  delle   situazioni   soggettive»
(sentenza n. 221 del  2015)  -  e'  stato  individuato  affidando  al
giudice, nell'ambito di un giudizio cui partecipa anche  il  pubblico
ministero, l'accertamento delle  modalita'  attraverso  le  quali  le
modificazioni  siano  intervenute,  tenendo   conto   di   tutte   le
componenti,  compresi  i  caratteri  sessuali,   che   concorrono   a
determinare l'identita' personale e di genere; 
    che, pertanto, risulta del tutto privo  di  fondamento  l'assunto
del rimettente circa la possibilita' che, ai  fini  dell'accertamento
della transizione, rivesta esclusivo o comunque  prioritario  rilievo
il solo elemento volontaristico; 
    che, d'altra parte, va rilevato che la denunciata imposizione  di
un onere di adeguamento da parte della collettivita' non  costituisce
affatto una violazione dei doveri inderogabili  di  solidarieta',  ma
anzi ne riafferma la perdurante  e  generale  valenza,  la  quale  si
manifesta proprio nell'accettazione e nella tutela di  situazioni  di
diversita', anche «minoritarie  ed  anomale»  (sentenza  n.  161  del
1985); 
    che, a questo riguardo, va rilevato  che  le  preoccupazioni  del
rimettente attengono a situazioni di fatto destinate a verificarsi  a
prescindere dalla  disciplina  della  rettificazione  anagrafica,  la
quale e' volta a regolare una  realta'  che,  prima  ancora  che  nel
diritto, esiste nella natura; 
    che,  pertanto,  le  censure  del  rimettente  in   ordine   alla
prospettata lesione dei principi di cui agli artt. 2  e  3  Cost.  si
rivelano manifestamente infondate. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi  davanti  alla
Corte costituzionale.