ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 1,  commi
2 e 3; 7, comma 1, lettere b), d), g), m) e n); 8  (recte:  comma  1,
lettera b, e comma 3), 9, comma 4; 10, comma 1; 11, comma 1,  lettera
d); 13 (recte: commi 1, 4 e 5); 15, commi 1 e 5; 16, commi 4 e 5; 17;
18, commi 4, 5, 6, 7, 8 e 9; 19; 21; 28, comma 10; 32, comma  4;  49,
comma 2, lettera a); 54, comma 4; 56, commi 3 e 14; 51, comma 6;  59,
comma 3; 64, comma 1; 79, comma 3; 95, comma 4; 118, commi 1, lettere
e) e i), 2, lettere e) e h), e 3, lettera e); 124; 140,  commi  11  e
12; 141, comma 2; 142, comma 1; 147; 155; 151,  commi  2  e  4;  154,
commi 1 e 3; 206, comma 1; 215, commi 5 e  12;  243,  comma  1;  250,
comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli artt. 201
(recte: commi 3 e 4), 202 (recte: comma 1) e 208; 258; 264, commi 13,
14 e 16, della legge della Regione  Umbria  21  gennaio  2015,  n.  1
(Testo unico governo del territorio e  materie  correlate),  promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso  notificato  il
30 marzo-2 aprile 2015, depositato in cancelleria il 2 aprile 2015 ed
iscritto al n. 46 del registro ricorsi 2015. 
    Visto l'atto di costituzione della Regione Umbria; 
    udito nella udienza pubblica  del  23  gennaio  2018  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra; 
    uditi  l'avvocato  dello  Stato  Pio  Giovanni  Marrone  per   il
Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Paola Manuali  per
la Regione Umbria. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso spedito per  la  notifica  il  30  marzo  2015  e
depositato il successivo 2 aprile, il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, ha promosso questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
1, commi 2 e 3; dell'art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m)  ed  n);
dell'art. 8 (recte: comma 1, lettera b), e  comma  3);  dell'art.  9,
comma 4; dell'art. 10, comma 1; dell'art. 11, comma  1,  lettera  d);
dell'art. 13 (recte: commi 1, 4 e 5); dell'art.  15,  commi  1  e  5;
dell'art. 16, commi 4 e 5; dell'art. 17; dell'art. 19; dell'art.  21;
dell'art. 18, commi 4, 5, 6, 7,  8  e  9;  dell'art.  28,  comma  10;
dell'art. 56, comma 3; dell'art. 32, comma 4; dell'art. 49, comma  2,
lettera a); dell'art. 51, comma 6; dell'art. 79, comma  3;  dell'art.
56, comma 14; dell'art. 54, comma 4; dell'art. 59, comma 3; dell'art.
64, comma 1; dell'art. 95, comma 4; dell'art. 118, comma  1,  lettere
e) ed i), comma 2, lettere e) ed h), e comma 3, lettera e); dell'art.
124; dell'art. 140, commi 11 e 12; dell'art. 141, comma 2;  dell'art.
142, comma 1; dell'art. 147; dell'art. 155; dell'art. 151, commi 2  e
4; dell'art. 154, commi 1 e 3; dell'art. 206, comma 1; dell'art. 215,
commi 5 e 12; dell'art. 243, comma 1; dell'art. 250, comma 1, lettere
a), b) e c), in combinato disposto con gli artt. 201 (recte: commi  3
e 4), 202 (recte: comma 1) e 208; dell'art.  258;  e  dell'art.  264,
commi 13, 14 e 16, della legge della Regione Umbria 21 gennaio  2015,
n. 1 (Testo unico governo del territorio  e  materie  correlate),  in
riferimento agli artt. 3, 9, 42, 97, 117, primo comma, secondo comma,
lettere e), l), m), p) ed s), e terzo comma, della  Costituzione,  in
relazione all'art. 12 della direttiva 9 dicembre  1996,  n.  96/82/CE
(Direttiva del Consiglio sul  controllo  del  pericolo  di  incidenti
rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose) e all'art. 13
della  direttiva  4  luglio  2012,  n.  2012/18/UE   (Direttiva   del
Parlamento europeo e del Consiglio  sul  controllo  del  pericolo  di
incidenti  rilevanti  connessi  con  sostanze   pericolose,   recante
modifica  e  successiva  abrogazione  della  direttiva  96/82/CE  del
Consiglio). 
    2.- Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza  pubblica,
il Presidente del Consiglio dei ministri, a seguito  dell'entrata  in
vigore della legge della Regione  Umbria  23  novembre  2016,  n.  13
(Modificazioni ed integrazioni alla legge regionale 21 gennaio  2015,
n. 1 - Testo unico governo del territorio e materie  correlate),  con
cui la Regione ha apportato modifiche alla legge regionale n.  1  del
2015, sulla base di delibera del Consiglio dei ministri  adottata  in
data 18 dicembre 2017, ha rinunciato parzialmente al  ricorso  n.  46
del  2015,  con  esclusivo  riferimento  alle  censure  promosse  nei
confronti delle seguenti disposizioni: art. 1, commi 2 e 3;  art.  7,
comma 1, lettere b), d), g), m)  ed  n);  art.  8  (recte:  comma  1,
lettera b), e comma 3; art. 9, comma 4, art.  10  (recte:  comma  1);
art. 11 (recte: comma 1, lettera d); art. 15 (recte: commi  1  e  5);
art. 18, comma 4; art. 32, comma 4; art. 49,  comma  2,  lettera  a);
art. 51, comma 6; art. 54 (recte: comma 4); art. 79,  comma  3;  art.
64, comma 1; art. 95, comma 4; art. 118, comma 1, lettera  i),  comma
2, lettera e), e comma 3, lettera e); art. 124; art. 140, commi 11  e
12; art. 141, comma 2; art. 142, comma 1; art. 151, commi 2 e 4; art.
154, commi 1 e 3; art. 215, commi 5 e 12; e art. 243, comma 1. 
    Nella medesima delibera, il Consiglio dei ministri  ha,  inoltre,
dichiarato la permanenza  dei  motivi  di  impugnativa  di  cui  alla
precedente delibera di promovimento del ricorso del  27  marzo  2015,
con esclusivo riferimento agli articoli: 13 (recte: commi 1, 4 e  5),
16 (recte: commi 4 e 5), 17, 19, 28 (recte:  comma  10),  56  (recte:
comma 14), 59 (recte: comma 3), 118, comma 1, lettera e) e  comma  2,
lettera h), 147, 155, 206 (recte: comma  1),  250  (recte:  comma  1,
lettere a, b e c, in combinato disposto con gli artt. 201, commi 3  e
4, 202, comma 1, e 208), 258 e 264 (recte: commi 13, 14 e  16)  della
legge regionale n. 1 del 2015. 
    3.- Con riguardo alle disposizioni  non  oggetto  della  suddetta
rinuncia, il Presidente del Consiglio dei  ministri  ha  proposto  le
censure che si indicano di seguito. 
    4.- L'art. 13, comma 1, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015  e'
impugnato nella parte in cui limita la  pianificazione  paesaggistica
congiunta con il Ministero «ai beni paesaggistici di cui all'articolo
143, comma 1, lettere b), c) e d) del D. Lgs. 42/2004» per violazione
degli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e terzo  comma,  Cost.
Tale scelta legislativa, ancorche' formalmente  legittima,  dato  che
l'art. 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge
6  luglio  2002,  n.  137)  impone  solo  per  i  beni  vincolati  la
pianificazione congiunta, si porrebbe in contrasto  con  le  migliori
pratiche amministrative finora seguite da alcune Regioni,  che  hanno
esteso   la   cosiddetta   copianificazione   all'intero   territorio
regionale,  peraltro  in  maggiore  coerenza  con  i  dettami   della
Convenzione europea sul paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000
e ratificata e resa esecutiva con legge 9 gennaio  2006,  n.  14  (in
specie con l'art. 2). Secondo il ricorrente, inoltre, la  limitazione
della copianificazione alle sole aree territoriali coperte da vincolo
indebolirebbe la visione strategica del piano paesaggistico regionale
(PPR)  e  renderebbe  tale  strumento   condizionato   dalle   scelte
strategiche, orientate prevalentemente allo sviluppo,  contenute  nel
piano strategico territoriale (PST), inerente  all'intero  territorio
regionale, con invasione della sfera di competenza esclusiva  statale
in materia di tutela dell'ambiente ed in contrasto con  il  principio
di prevalenza gerarchica degli strumenti di pianificazione, stabilito
dal   legislatore   statale,   e   con   i    valori    paesaggistici
costituzionalmente protetti. 
    5.- I commi 4 e 5 del medesimo art. 13 sono impugnati nella parte
in cui, nel disciplinare il procedimento  di  approvazione  regionale
del PPR, stabiliscono che l'accordo con il Ministero  deve  avere  ad
oggetto il piano paesaggistico adottato dalla Giunta regionale (comma
4), e che il Consiglio regionale «decide in merito alle  proposte  ed
osservazioni ed approva il PPR nel rispetto di quanto previsto  dagli
articoli 135 e 143 del D.Lgs. 42/2004»  (comma  5),  senza  prevedere
alcun momento  di  confronto  successivo  con  il  Ministero  atto  a
verificare che il piano approvato dal Consiglio regionale corrisponda
o si discosti rispetto a quello adottato dalla Giunta  e  portato  in
sede  di  accordo  con  il  Ministero  sulla  base  del  solo  parere
preliminare del Consiglio. Tali  previsioni  violerebbero  l'art.  9,
secondo comma, e l'art. 117, secondo comma,  lettera  s),  Cost.,  in
quanto non assicurerebbero la necessaria compartecipazione paritetica
del Ministero dei beni e delle  attivita'  culturali  e  del  turismo
all'approvazione  sostanziale   dei   contenuti   del   nuovo   piano
paesaggistico, vanificando il principio dell'elaborazione  congiunta,
in contrasto con l'art. 143, comma 2, del  d.lgs.  n.  42  del  2004.
Secondo il ricorrente,  la  descritta  sequenza  procedimentale,  nel
consentire unilaterali modifiche del piano  da  parte  del  Consiglio
regionale, senza prevedere  successive  verifiche,  comporterebbe  la
possibilita' di trasformare nei fatti quella che dovrebbe essere  una
manifestazione di  discrezionalita'  tecnica  in  una  manifestazione
(unilaterale) di volonta' politica consiliare, con cio'  tradendo  il
significato di tutela  di  cui  all'art.  9  Cost.,  significato  che
sarebbe di discrezionalita' tecnica e di limite alla scelta politica. 
    6.- Gli artt. 16, commi 4 e 5, 17, 19 e 21 della  medesima  legge
reg. Umbria n.  1  del  2015,  sono  censurati  nella  parte  in  cui
disciplinano il contenuto del  piano  territoriale  di  coordinamento
provinciale (PTCP) e i rapporti di questo strumento  urbanistico  con
il piano regolatore generale (PRG), per  contrasto  con  l'art.  117,
secondo comma, lettera p), e terzo comma, Cost.  In  particolare,  il
ricorrente sostiene che essi riducano drasticamente il contenuto  del
PTCP,  sottraendo  alla  Provincia  il  compito   di   accertare   la
compatibilita' degli strumenti urbanistici comunali con il PTCP, come
previsto all'art. 20, comma 5,  del  decreto  legislativo  18  agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle  leggi  sull'ordinamento  degli  enti
locali), e che limitino la prevalenza  del  PTCP  ai  soli  contenuti
individuati all'art. 17, comma 1, lettera c), punto  1,  della  legge
regionale in esame, assegnando  al  PRG  piuttosto  che  al  PTCP  il
compito di individuare  le  diverse  destinazioni  del  territorio  e
modificando i rapporti di questo strumento urbanistico  con  i  piani
regolatori generali. In tal modo  le  citate  disposizioni,  oltre  a
contrastare con i principi fondamentali in  materia  di  governo  del
territorio,  inciderebbero   sulla   disciplina   di   una   funzione
fondamentale attribuita dallo Stato alla  competenza  delle  Province
con l'art. 1, comma 85, lettera a), della legge 7 aprile 2014, n.  56
(Disposizioni  sulle  citta'  metropolitane,  sulle  province,  sulle
unioni e fusioni di comuni). 
    7.- L'art. 18 e' impugnato con riferimento ai commi  da  5  a  9,
nella parte in cui, nel disciplinare il procedimento  di  valutazione
della conformita' e adeguamento delle previsioni  del  PTCP  e  delle
relative varianti al PPR, prevede  la  convocazione  da  parte  della
Regione di una  conferenza  istituzionale  di  copianificazione  alla
quale partecipano le Province, ma non  gli  organi  ministeriali,  in
contrasto con la disciplina statale di cui all'art.  145,  comma  55,
del d.lgs. n. 42 del 2004, e quindi in  violazione  della  competenza
statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente. 
    8.- Sono, altresi', impugnati l'art. 28, comma 10, e  l'art.  56,
comma 3, della citata legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in
cui, rispettivamente, il primo attribuisce  al  Comune,  in  sede  di
adozione del PRG, il compito di esprimere il parere di  cui  all'art.
89 del d.P.R. 6 giugno 2001,  n.  380,  recante  «Testo  unico  delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia  edilizia  (Testo
A)», previa determinazione della commissione comunale per la qualita'
architettonica ed il paesaggio di cui  all'art.  2,  comma  4,  della
stessa legge regionale; il secondo stabilisce che lo sportello  unico
delle   attivita'   produttive   ed   edilizie   (SUAPE)   acquisisca
direttamente «i pareri che debbono essere resi dagli uffici comunali,
necessari ai fini dell'approvazione del piano attuativo  compreso  il
parere in materia sismica, idraulica ed  idrogeologica  da  esprimere
con le modalita' di cui all'articolo 112, comma 4, lettera d)».  Tali
disposizioni violerebbero l'art. 117, terzo comma, Cost.,  in  quanto
si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali in materia  di
«governo  del  territorio»  e  di  «protezione   civile»,   contenuti
nell'art. 89 del d.lgs. n. 380 del 2001, secondo cui il parere  sugli
strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o  in
abitati da consolidare  andrebbe  richiesto  al  «competente  ufficio
tecnico   regionale   sugli   strumenti   urbanistici   generali    e
particolareggiati prima della  delibera  di  adozione  nonche'  sulle
lottizzazioni convenzionate prima della delibera di  approvazione,  e
loro varianti ai  fini  della  verifica  della  compatibilita'  delle
rispettive  previsioni  con   le   condizioni   geomorfologiche   del
territorio» (comma 1). 
    9.- L'art. 56, comma 14, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 e'
censurato nella parte in cui disciplina l'adozione  e  l'approvazione
del piano attuativo, senza prevedere la partecipazione  degli  organi
ministeriali  al  procedimento   di   conformazione/adeguamento   del
predetto piano attuativo al PPR, dal  momento  che  il  parere  della
soprintendenza sullo stesso  e'  prescritto  solo  per  le  opere  di
urbanizzazione e infrastrutturali. Tale disposizione  sarebbe  lesiva
dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. in quanto si porrebbe
in contrasto sia con gli artt. 145, comma 5,  e  146,  comma  5,  del
d.lgs. n. 42 del 2004, che impongono la partecipazione  degli  organi
ministeriali al predetto procedimento, sia con  gli  artt.  16  e  28
della legge 17 agosto 1942,  n.  1150  (Legge  urbanistica),  poiche'
abolirebbe il parere preventivo del  soprintendente  sugli  strumenti
attuativi, che e' diverso dall'autorizzazione paesaggistica,  di  cui
all'art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, inerente  invece  al  singolo
intervento, da realizzare "a valle" della pianificazione attuativa. 
    10.- Il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  impugna  anche
l'art. 59, comma 3, della legge reg. Umbria  n.  1  del  2015,  nella
parte in cui consente, nelle aree nelle quali non  siano  attuate  le
previsioni degli strumenti urbanistici generali,  anche  a  mezzo  di
piano attuativo, gli interventi edilizi di manutenzione  ordinaria  e
straordinaria, di restauro e  risanamento  conservativo,  nonche'  di
ristrutturazione edilizia, e stabilisce che detti interventi  possano
comportare anche la modifica della destinazione d'uso in atto  in  un
edificio esistente, purche' la nuova destinazione risulti compatibile
con le previsioni dello strumento urbanistico  generale.  Una  simile
previsione si porrebbe in  contrasto  con  la  normativa  statale  di
principio recata dall'art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001,  che  limita
la possibilita' di mutare la destinazione d'uso e, in ogni caso,  non
consente una serie di interventi (come, ad esempio, il  recupero  dei
sottotetti, con  incremento  dell'altezza  dell'edificio  e  finanche
l'apertura  di  finestre,  lucernai,  abbaini  e  terrazzi,  ne'  gli
interventi per le  infrastrutture  viarie,  tecnologiche,  a  rete  o
puntuali, nonche' per l'arredo urbano). 
    11.-  L'art.  118,  comma  1,  lettera  e),  della  citata  legge
regionale e' denunciato per violazione dell'art.  117,  terzo  comma,
Cost, nella parte in cui annovera tra  gli  interventi  di  attivita'
edilizia libera le «opere interne alle  unita'  immobiliari,  di  cui
all'art. 7, comma 1, lettera g)». 
    In tal modo,  esso  si  porrebbe  in  contrasto  con  i  principi
fondamentali in materia di «governo  del  territorio»  stabiliti  dal
legislatore statale nell'art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4,  del
d.P.R. n. 380 del 2001, che  assoggetta  a  comunicazione  di  inizio
lavori  cosiddetta  "asseverata"  «gli  interventi  di   manutenzione
straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b, ivi compresa
l'apertura di porte interne  e  lo  spostamento  di  pareti  interne,
sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio». 
    12.- E'  altresi'  impugnato  l'art.  124  della  medesima  legge
regionale, nella  parte  in  cui,  da  un  lato,  estende  il  modulo
procedimentale della segnalazione certificata di inizio di  attivita'
(SCIA)  ad  interventi  che,  invece,   la   normativa   statale   ha
assoggettato a denuncia di inizio di attivita' (DIA),  per  finalita'
di tutela del territorio,  e,  dall'altro,  configura  la  SCIA  come
"obbligatoria", in contrasto con i principi fondamentali  in  materia
di governo del territorio fissati dal  legislatore  statale  all'art.
22, commi 3 e 7, del  d.P.R.  n.  380  del  2001,  che  fa  salva  la
possibilita'  dell'interessato  di  optare   per   il   provvedimento
espresso, rinunciando al modulo procedimentale semplificato. 
    13.- Gli artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h),  della  legge
reg. Umbria n.  1  del  2015,  nella  parte  in  cui  disciplinano  i
mutamenti di destinazione d'uso, sono censurati per violazione  degli
artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost. 
    Secondo il ricorrente, essi, nella parte in cui  definiscono  gli
interventi  di  mutamento  di  destinazione  d'uso   urbanisticamente
rilevante e identificano i titoli abilitativi necessari e le sanzioni
da  irrogare  nel  caso  di  violazione  del  prescritto  regime,  si
porrebbero in contrasto con  la  normativa  statale  che  contiene  i
principi fondamentali  di  governo  del  territorio  e  inciderebbero
nell'ambito di applicazione delle sanzioni amministrative,  civili  e
penali previste dal d.P.R. n. 380  del  2001  (in  particolare,  agli
artt. 33, 36, 37 e 44),  con  conseguente  invasione  della  potesta'
legislativa statale esclusiva in  materia  di  ordinamento  civile  e
penale (art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) e  in  violazione
del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. 
    14.- Il ricorrente ritiene inoltre che l'art. 206, comma 1, della
citata legge regionale, violi l'art. 117, terzo comma,  Cost.,  nella
parte in cui prevede che per tutti i lavori di nuova costruzione,  di
ampliamento e di sopraelevazione  e  per  i  lavori  di  manutenzione
straordinaria, di restauro, di  risanamento  e  ristrutturazione  del
patrimonio edilizio esistente che compromettono la sicurezza  statica
della costruzione o riguardano le strutture o alterano l'entita'  e/o
la distribuzione dei carichi, effettuati nelle zone ad alta, media  e
bassa sismicita', sia sufficiente il certificato di collaudo  statico
o una  attestazione  dei  direttore  dei  lavori.  In  tal  modo,  la
disposizione impugnata si porrebbe in contrasto  con  l'art.  62  del
d.P.R. n. 380 del 2001, che richiede il  certificato  di  rispondenza
dell'opera alle  norme  tecniche  per  le  costruzioni,  al  fine  di
garantire la sicurezza delle costruzioni in zone sismiche, in armonia
con l'obiettivo di soddisfare un'esigenza unitaria di sicurezza,  non
derogabile. 
    15.- E', inoltre, impugnato l'art. 250, comma 1, lettere a), b) e
c), in combinato disposto con gli artt. 201, commi 3 e 4, 202,  comma
1, e 208 della legge regionale n. 1 del  2015,  nella  parte  in  cui
sostanzialmente consente alla Giunta regionale, con proprio atto,  di
sottrarre tipologie di  interventi  edilizi  dall'applicazione  della
normativa  sismica   e   dell'autorizzazione   sismica.   Le   citate
disposizioni regionali introdurrebbero una  categoria  di  interventi
edilizi  ignota  alla  legislazione  statale  e   la   escluderebbero
dall'applicazione di norme del d.P.R. n. 380 del 2001  improntate  al
principio fondamentale  della  vigilanza  assidua  sulle  costruzioni
riguardo al rischio sismico, con l'effetto di sottrarre indebitamente
determinati interventi edilizi ad ogni forma di vigilanza pubblica. 
    16.- E', poi, censurato l'art. 258 e,  «in  via  consequenziale»,
l'art. 264, comma 13, della legge reg. Umbria  n.  1  del  2015,  per
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), e  terzo  comma,
Cost. In particolare, l'art. 258, nel dettare norme speciali  per  le
aree terremotate, disciplina gli edifici, non conformi, in tutto o in
parte, agli strumenti urbanistici, realizzati prima del  31  dicembre
2000, da privati o da altri enti pubblici, anche  con  il  contributo
pubblico,  in  sostituzione  delle   abitazioni   principali,   delle
attivita' produttive, dei servizi e dei relativi accessori  che,  per
effetto della crisi sismica del 1997, sono stati oggetto di  sgombero
totale e  ne  prevede  la  cessione  ai  conduttori  degli  immobili,
consentendo incrementi delle volumetrie e delle altezze, in contrasto
con la normativa statale, e stabilendo anche che  il  proprietario  o
avente  titolo  presenta  al  comune  la  richiesta  per  il   titolo
abilitativo a sanatoria. L'art.  264,  comma  13,  dispone  che  «[i]
titoli abilitativi relativi alle istanze  di  condono  edilizio  sono
rilasciati previa acquisizione dei pareri per interventi  nelle  aree
sottoposte a vincolo imposti da leggi statali e regionali vigenti  al
momento della  presentazione  delle  istanze  medesime,  fatto  salvo
quanto previsto in materia sismica e di tutela dei beni paesaggistici
e culturali».  Secondo  il  ricorrente,  la  disciplina  posta  dalle
disposizioni censurate sostanzialmente  introdurrebbe  un'ipotesi  di
condono edilizio straordinario non previsto dalla legge  statale,  in
contrasto con i principi fondamentali  in  materia  di  «governo  del
territorio» di cui al d.P.R. n. 380  del  2001  (in  particolare  con
l'art. 36) e con le disposizioni statali in  materia  di  ordinamento
civile e penale. 
    17.- Infine, il ricorrente impugna l'art. 264  della  legge  reg.
Umbria n. 1 del 2015, sia nella  parte  in  cui  stabilisce  che  gli
interventi edilizi, limitatamente  a  quelli  riguardanti  l'area  di
pertinenza degli edifici dell'impresa agricola, esistenti  alla  data
del  30  giugno  2014  e  che  «risultino  conformi  alla  disciplina
urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non  in
contrasto con quelli adottati alla stessa data sono  autorizzati  con
la procedura prevista all'articolo 154, commi 2,  3,  6  e  7,  ferma
restando l'applicazione delle eventuali sanzioni penali. In tali casi
l'istanza e' presentata entro e non oltre  il  30  giugno  2015[...]»
(comma 14), sia nella parte in cui attribuisce alla semplice  domanda
di   concessione   di   piccola   derivazione   d'acqua   valore   di
autorizzazione  all'attingimento,  salvo  che  l'autorita'  idraulica
competente ne comunichi il diniego al richiedente entro il termine di
trenta giorni (comma 16). Tali disposizioni violerebbero l'art.  117,
secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost., in quanto  il  comma
14 configurerebbe  una  nuova,  non  consentita  ipotesi  di  condono
edilizio, in contrasto con i  principi  fondamentali  in  materia  di
governo del territorio e il  comma  16  estenderebbe  l'istituto  del
silenzio-assenso al procedimento  concessorio  in  palese  violazione
dell'art. 17, comma 1, del regio decreto 11 dicembre  1933,  n.  1775
(Testo unico delle disposizioni  di  legge  sulle  acque  e  impianti
elettrici), che richiede un provvedimento  espresso  per  derivare  o
utilizzare acqua pubblica, con conseguente invasione della  sfera  di
competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente. 
    18.- Si e' costituita in giudizio la Regione Umbria e ha  chiesto
che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate   nei
confronti delle citate disposizioni della legge reg. Umbria n. 1  del
2015 siano dichiarate inammissibili e/o infondate. 
    Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza  pubblica,  la
Regione Umbria ha, poi, accettato la rinuncia parziale al ricorso del
Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Con riguardo, invece,  alle  questioni  rispetto  alle  quali  il
ricorrente ha dichiarato la permanenza dei  motivi  dell'impugnativa,
la difesa regionale ha svolto gli argomenti di seguito sintetizzati. 
    Quanto alle censure mosse all'art.  13,  comma  1,  della  citata
legge reg. Umbria n. 1 del 2015, la Regione ne deduce l'infondatezza,
in  particolare  con  riferimento  alla  pretesa   violazione   della
prevalenza gerarchica del PPR, stabilita dall'art. 145, comma 3,  del
d.lgs. n. 42 del 2004, da parte  del  PST,  in  considerazione  della
natura meramente  programmatica  e  non  vincolante  di  quest'ultimo
documento, oltre che della garanzia della superiorita' gerarchica del
PPR offerta dall'art. 14 della medesima legge regionale. 
    Anche le censure sollevate nei confronti dell'art. 13, commi 4  e
5, di pretesa violazione del principio di elaborazione congiunta  del
piano paesaggistico regionale, sarebbero prive  di  fondamento,  dato
che la norma regionale  mirerebbe  precisamente  a  salvaguardare  la
primazia della cosiddetta "copianificazione", richiedendo  un  parere
preliminare del Consiglio regionale alla sottoscrizione  dell'accordo
e poi l'approvazione del PPR da parte  del  Consiglio  regionale  nel
rispetto degli artt. 135 e 143 del d.lgs. n. 42  del  2004,  i  quali
prescrivono  che  il  piano  sia  oggetto  di  apposito  accordo  fra
pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'art. 15 della legge 7 agosto
1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e
di diritto di accesso  ai  documenti  amministrativi),  e  che  venga
approvato  con  provvedimento  regionale  entro  il  termine  fissato
nell'accordo (art. 143, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004). 
    Le censure promosse nei confronti degli artt. 16, commi 4 e 5, 17
e 19 sarebbero prive di fondamento, considerato che la  funzione  del
PTCP di determinare gli indirizzi generali (art. 4, comma 3,  lettera
c  della  medesima   legge   regionale)   sarebbe   implicita   nella
qualificazione come  piano  territoriale  e  nell'attribuzione  della
funzione di coordinamento. Quanto, poi,  alla  denunciata  violazione
dei contenuti assegnati al PTCP dal legislatore statale,  la  Regione
osserva che, in primo luogo, l'elenco dei compiti di cui all'art. 20,
comma 2, del d.lgs. n. 267 del  2000  non  sarebbe  prescrittivo,  ma
puramente indicativo ed esemplificativo, dal momento  che  la  stessa
norma statale stabilirebbe che il contenuto del PTCP sia  determinato
in attuazione della legislazione e dei programmi regionali.  In  ogni
caso, le disposizioni regionali  impugnate  sarebbero  pienamente  in
linea con l'elenco. Anche la tesi  della  mancata  attribuzione  alla
Provincia del compito di accertare la compatibilita' degli  strumenti
urbanistici comunali con il PTCP, imposto dall'art. 20, comma 5,  del
d.lgs. n. 267 del 2000, sarebbe priva di fondamento,  atteso  che  il
richiesto controllo di conformita' (del PRG al PTCP) sarebbe previsto
dal legislatore regionale all'art. 29, comma 2, in sede di conferenza
dei servizi (art. 29, commi 3, 4 e 10). 
    Quanto alle censure promosse nei confronti dell'art. 18, commi da
5 a 9, la Regione rileva come, sebbene la rinuncia del Presidente del
Consiglio dei ministri sia riferita esclusivamente al comma 4,  debba
intendersi rivolta all'intero testo  dell'articolo,  sia  in  ragione
delle modifiche apportate dall'art. 8 della legge regionale n. 13 del
2016, sia in  considerazione  della  circostanza  che,  nella  stessa
delibera del Consiglio dei ministri di rinuncia parziale al  ricorso,
l'art. 18 non compare fra le disposizioni  per  le  quali  la  difesa
statale  dichiara  espressamente  la  permanenza   dell'interesse   a
ricorrere. 
    Anche delle censure riferite agli artt. 28, comma 10, e 56, comma
3, la difesa della Regione sostiene l'infondatezza. Essa, sulla  base
di una complessa ricostruzione del quadro normativo  di  riferimento,
ritiene che la normativa in contestazione non sia in contrasto con le
disposizioni statali di riferimento. 
    Ancora  sulla  base  di  una  diversa  ricostruzione  del  quadro
normativo di riferimento, la Regione ritiene che le censure  promosse
nei confronti dell'art. 56, comma 14, siano prive di fondamento. 
    Anche la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  59,
comma 3, per contrasto con l'art. 9, comma 2, del d.P.R. n.  380  del
2001,  sarebbe  priva  di  fondamento,  considerata  la   natura   di
disposizione di dettaglio e non di principio dell'art. 9, comma 2. 
    Gli interventi inerenti alle opere interne, poi, sarebbero  stati
legittimamente annoverati dall'art. 118, comma 1, lettera  e),  della
legge regionale  n.  1  del  2015,  fra  quelli  soggetti  al  regime
dell'edilizia libera, in considerazione della potesta' conferita alle
Regioni dal comma 6 dell'art. 6 del d.P.R. n. 380 del  2001,  secondo
cui le Regioni possono estendere la disciplina  di  cui  al  medesimo
articolo (che delinea il regime  di  edilizia  libera)  a  interventi
ulteriori rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2. 
    Secondo la Regione, anche le censure promosse nei confronti degli
artt. 147, 155 e  118,  comma  2,  lettera  h),  della  citata  legge
regionale,   in   tema   di   mutamento   di    destinazione    d'uso
urbanisticamente  rilevante,  sarebbero  prive  di  consistenza.   Il
ricorrente non avrebbe infatti adeguatamente considerato  che  l'art.
23-ter, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede espressamente  la
possibilita' di  una  deroga  da  parte  della  normativa  regionale.
Inoltre le disposizioni censurate non inciderebbero in alcun modo sul
regime sanzionatorio previsto dalla normativa di livello statale. 
    Riguardo alle censure di illegittimita'  costituzionale  promosse
in riferimento all'art. 206, comma 1, della legge regionale n. 1  del
2015, la Regione osserva che tale articolo si riferisce ad ipotesi di
interventi di minore entita', rispetto ai  quali  il  certificato  di
collaudo non sarebbe comunque richiesto. 
    Anche  la  questione  di  legittimita'  costituzionale   riferita
all'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con
gli artt. 201, commi 3 e 4, 202, comma 1,  e  208  della  legge  reg.
Umbria n. 1 del 2015, sarebbe priva di fondamento, in  considerazione
della circostanza che la norma censurata si riferirebbe ad interventi
minori  ed  irrilevanti   ai   fini   della   sicurezza   sismica   e
corrisponderebbe  ad  esigenze   di   semplificazione   e   celerita'
dell'azione amministrativa. 
    L'infondatezza delle censure promosse nei confronti dell'art. 258
della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 emergerebbe  in  considerazione
del carattere emergenziale e straordinario delle relative previsioni. 
    Neanche l'art. 264, comma  13,  della  medesima  legge  regionale
determinerebbe una lesione  della  potesta'  legislativa  statale  in
materia di condono edilizio, nella parte in cui prevede  che  l'abuso
possa  essere   sanato   anche   in   presenza   di   vincoli   posti
successivamente. La norma - sottolinea la Regione - fa comunque salvo
«quanto  previsto  in  materia  sismica  e   di   tutela   dei   beni
paesaggistici e culturali», in conformita' con  quanto  previsto  dal
legislatore statale all'art. 32 della legge 28 febbraio 1985,  n.  47
(Norme in materia di controllo  dell'attivita'  urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie). 
    Quanto, infine, alle censure  promosse  nei  confronti  dell'art.
264,  commi  14  e  16,  la  Regione  esclude   che   la   disciplina
dell'accertamento di conformita' prevista dalla legge regionale possa
essere assimilata ad un'ipotesi di condono edilizio,  dato  che  essa
prevede l'obbligo di conformita' delle opere realizzate senza  titolo
alla disciplina urbanistica ed  edilizia  vigente  al  momento  della
presentazione della domanda e agli strumenti  urbanistici  vigenti  e
adottati.  Le  opere  interessate,  peraltro,  sarebbero  di  modesta
entita', riguardando ambiti agricoli di stretta pertinenza di edifici
delle imprese agricole gia' esistenti. 
    Con riguardo, in specie, al dettato  del  comma  16,  la  Regione
precisa che esso non prevederebbe alcuna  forma  di  silenzio-assenso
vietata dall'art.  17  del  r.d.  n.  1775  del  1933  in  ordine  al
procedimento di concessione di derivazione d'acqua,  avendo  la  sola
funzione di consentire al privato di procedere all'attingimento nelle
more del procedimento concessorio. 
    La Regione  Umbria  precisa  altresi'  che  l'accettazione  della
rinuncia riguarda anche l'intero  testo  dell'art.  124  della  legge
regionale n. 1 del 2015, che - secondo la resistente - deve ritenersi
oggetto  della  rinuncia   parziale,   nonostante   non   compaia   -
diversamente  che  nella  delibera  del  Consiglio  dei  ministri   -
nell'atto notificato a cura dell'Avvocatura generale dello Stato,  se
non con esclusivo  riguardo  al  comma  1,  lettera  g).  La  Regione
puntualizza che, nella discrasia fra i due  atti,  deve  considerarsi
prevalente  la  volonta'  espressa  dal   Consiglio   dei   ministri,
costituendo la rinuncia atto di parte, da cui il difensore  non  puo'
discostarsi. 
    19.- All'udienza pubblica, la  difesa  della  Regione  Umbria  ha
insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese
scritte, sottolineando che, anche nei confronti  degli  artt.  258  e
264, commi 13, 14 e 16, della legge reg. Umbria n. 1  del  2015,  che
compaiono fra le disposizioni in relazione alle quali  il  ricorrente
ha  dichiarato  la  permanenza  dell'interesse   a   ricorrere,   sia
intervenuta l'abrogazione ad opera della legge regionale  n.  13  del
2016. 
    Anche  la  difesa  statale  ha  confermato  gli  argomenti  e  le
richieste svolte nelle  memorie  scritte,  precisando  la  permanenza
dell'interesse a ricorrere anche nei confronti  dell'art.  124  della
legge regionale  n.  1  del  2015,  nonostante  l'inclusione  fra  le
disposizioni oggetto della rinuncia parziale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   promosso
questione di legittimita'  costituzionale  di  numerose  disposizioni
della legge della Regione Umbria 21 gennaio 2015, n. 1  (Testo  unico
governo  del  territorio  e  materie  correlate),   e   precisamente:
dell'art. 1, commi 2 e 3; dell'art. 7, comma 1, lettere b),  d),  g),
m) ed n); dell'art. 8, (recte: comma  1,  lettera  b),  e  comma  3);
dell'art. 9, comma 4; dell'art. 10, comma 1; dell'art. 11,  comma  1,
lettera d); dell'art. 13 (recte: commi 1, 4 e 5); dell'art. 15, commi
1 e 5; dell'art. 16,  commi  4  e  5;  dell'art.  17;  dell'art.  19;
dell'art. 21; dell'art. 18, commi 4, 5, 6, 7, 8 e  9;  dell'art.  28,
comma 10; dell'art. 56, comma 3; dell'art. 32, comma 4; dell'art. 49,
comma 2, lettera a); dell'art. 51, comma 6; dell'art.  79,  comma  3;
dell'art. 56, comma 14; dell'art. 54 (recte: comma 4); dell'art.  59,
comma 3; dell'art. 64, comma 1; dell'art. 95, comma 4; dell'art. 118,
comma 1, lettere e) ed i), comma 2, lettere e)  ed  h),  e  comma  3,
lettera e); dell'art. 140, commi 11 e 12;  dell'art.  124;  dell'art.
141, comma 2; dell'art. 142, comma 1; dell'art. 147;  dell'art.  155;
dell'art. 151, commi 2 e 4; dell'art. 154, commi  1  e  3;  dell'art.
206, comma 1; dell'art. 215, commi 5 e 12; dell'art.  243,  comma  1;
dell'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c),  in  combinato  disposto
con gli artt. 201 (recte: commi 3 e 4), 202 (recte: comma 1)  e  208;
dell'art. 258; e dell'art. 264, commi 13, 14 e 16. 
    Tali disposizioni sono impugnate in riferimento agli artt. 3,  9,
42, 97, 117, primo comma, secondo comma, lettere e), l), m), p) e s),
e terzo comma, della Costituzione, in  relazione  all'art.  12  della
direttiva 9 dicembre 1996, n. 96/82/CE (Direttiva del  Consiglio  sul
controllo  dei  pericoli  di   incidenti   rilevanti   connessi   con
determinate sostanze pericolose) e  all'art.  13  della  direttiva  4
luglio 2012, n. 2012/18/UE (Direttiva del Parlamento  europeo  e  del
Consiglio sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti  connessi
con sostanze pericolose, recante modifica  e  successiva  abrogazione
della direttiva 96/82/CE del Consiglio). 
    2.- Successivamente all'introduzione del  presente  giudizio,  e'
entrata in vigore la legge della Regione Umbria 23 novembre 2016,  n.
13 (Modificazioni ed integrazioni alla  legge  regionale  21  gennaio
2015, n. 1 - Testo unico governo del territorio e materie correlate),
con cui sono state apportate modifiche  a  molte  delle  disposizioni
impugnate. 
    Il Consiglio dei ministri, rilevato il venir meno di alcune delle
ragioni  che  avevano  indotto  alla  proposizione  del  ricorso,  ha
deliberato,  in  data  18  dicembre  2017,   la   rinuncia   parziale
all'impugnazione  della  legge  reg.  Umbria  n.  1  del  2015,   con
riferimento alle seguenti disposizioni: art. 1, commi 2 e 3; art.  7,
comma 1, lettere b), d), g) m) e n); art. 8 (recte: comma 1,  lettera
b), e comma 3; art. 9, comma 4; art. 10; art.11; art.  15;  art.  18,
comma 4; art. 32, comma 4; art. 49, comma 2,  lettera  a);  art.  51,
comma 6; art. 54 (recte: comma 4); art. 79, comma 3; art.  64,  comma
1; art. 95, comma 4; art. 118, comma 1, lettera i), comma 2,  lettera
e), e comma 3, lettera e); art. 124; art. 140, commi 11  e  12;  art.
141, comma 2; art. 142, comma 1; art. 151, commi 2  e  4;  art.  154,
commi 1 e 3; art. 215, commi 5 e 12;  e  art.  243,  comma  1.  Nella
medesima delibera, il Consiglio dei ministri ha, inoltre,  dichiarato
la permanenza dei  motivi  di  impugnativa  di  cui  alla  precedente
delibera di promovimento del 27 marzo, con esclusivo riferimento agli
artt. 13 (recte: commi 1, 4 e 5), 16 (recte: commi 4 e 5), 17, 19, 28
(recte: comma 10), 56 (recte: comma 14), 59 (recte:  comma  3),  118,
comma 1, lettera e) e comma 2, lettera  h),  147,  155,  206  (recte:
comma 1), 250 (recte: comma 1, lettere a),  b)  e  c),  in  combinato
disposto con gli artt. 201, commi 3 e 4, 202, comma 1, e 208), 258  e
264 (recte: commi 13, 14 e 16) della legge reg. Umbria n. 1 del 2015. 
    2.1. - La rinuncia parziale  e'  stata  accettata  dalla  Regione
Umbria con atto depositato  ritualmente,  con  riguardo  a  tutte  le
disposizioni non comprese fra quelle rispetto alle quali il Consiglio
dei ministri ha affermato che permangono ancora validi  i  motivi  di
impugnativa di cui alla delibera di promovimento del ricorso. 
    E' necessario, pertanto, dichiarare, in relazione a  tali  norme,
l'intervenuta estinzione del processo. 
    2.1.1.-  Occorre  precisare  che  l'estinzione  del  processo  e'
dichiarata anche con riguardo agli artt. 18, commi da 5  a  9,  21  e
124. 
    Con riguardo all'art.  18,  commi  da  5  a  9,  occorre  infatti
rilevare che,  sebbene  nell'atto  di  rinuncia  parziale  notificato
dall'Avvocatura generale dello  Stato  tali  commi  non  siano  stati
espressamente   evocati,   dato   che   la   rinuncia   e'   riferita
esclusivamente al comma 4, nella delibera del Consiglio dei  ministri
essi non sono indicati fra le disposizioni per le  quali  si  ritiene
permangano i motivi di impugnativa. Pertanto, deve ritenersi  esclusa
la volonta' del Consiglio dei ministri di insistere  nell'impugnativa
e, conseguentemente, va estesa a tali disposizioni  la  rinuncia,  in
considerazione della  «natura  politica  dell'atto  di  impugnazione»
(sentenze n. 309 del 2013, n. 149 del 2012, n. 205 del 2011,  n.  278
del 2010). 
    Sulla base dei medesimi argomenti occorre dichiarare l'estinzione
del processo anche con riguardo all'art. 21, non  indicato  nell'atto
di rinuncia parziale notificato dall'Avvocatura generale dello Stato,
ma non ricompreso fra le disposizioni per le quali il  Consiglio  dei
ministri afferma la permanenza dei motivi di impugnativa,  come  pure
riguardo all'art. 124, benche' non menzionato espressamente nell'atto
di rinuncia. 
    3.- Non sussistono, invece, ostacoli all'esame nel  merito  delle
questioni di legittimita' costituzionale inerenti  alle  disposizioni
regionali per  le  quali  permangono  i  motivi  di  impugnativa  del
ricorrente. 
    4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri  dubita,  anzitutto,
della legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 1, della citata
legge  regionale,  nella  parte  in  cui  limita  la   pianificazione
paesaggistica congiunta con il Ministero «ai  beni  paesaggistici  di
cui all'articolo 143, comma  1,  lettere  b),  c)  e  d)  del  D.Lgs.
42/2004». 
    Secondo la difesa statale,  tale  scelta,  ancorche'  formalmente
legittima,  si  porrebbe  in  contrasto  con  le  migliori   pratiche
amministrative finora seguite da alcune Regioni, che hanno esteso  la
pianificazione congiunta all'intero territorio  regionale,  anche  al
fine  di  una  maggiore  coerenza  con  la  Convenzione  europea  sul
paesaggio, fatta a Firenze il 20  ottobre  2000,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 9 gennaio 2006, n. 14 (in specie con l'art. 2). 
    Inoltre, la limitazione della "copianificazione" alle  sole  aree
territoriali coperte da vincolo indebolirebbe la  visione  strategica
del piano paesaggistico regionale (PPR) e renderebbe  tale  strumento
oggettivamente  dipendente   dalle   scelte   strategiche   orientate
prevalentemente  allo  sviluppo,  contenute  nel   piano   strategico
territoriale (PST), con invasione della sfera di competenza esclusiva
statale in materia di tutela dell'ambiente  e  in  contrasto  con  il
principio di prevalenza gerarchica degli strumenti di pianificazione,
stabilito dal legislatore  statale,  e  con  i  valori  paesaggistici
costituzionalmente protetti. 
    4.1.- La questione non e' fondata. 
    La norma regionale  impugnata,  nell'individuare  l'ambito  della
pianificazione paesaggistica congiunta, ripete, testualmente,  quanto
stabilito dall'art. 135 del decreto legislativo 22 gennaio  2004,  n.
42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo
10 della legge  6  luglio  2002,  n.  137).  Quest'ultimo  impone  la
pianificazione congiunta solo con riferimento ai «beni  paesaggistici
di cui all'articolo 143, comma 1, lettere b), c) e  d),  nelle  forme
previste dal medesimo art. 143». Si tratta di «immobili e delle  aree
dichiarati di notevole interesse pubblico  ai  sensi  dell'art.  136»
(lettera b), delle  «aree  di  cui  al  comma  1  dell'articolo  142»
(lettera c) (e cioe'  delle  «aree  tutelate  per  legge»,  come,  ad
esempio, territori costieri, fiumi, correnti e parchi), infine  degli
«ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all'articolo  134»  -
(e cioe' «gli immobili e le aree di cui all'articolo 136, individuati
ai sensi degli articoli da 138 a 141; le  aree  di  cui  all'articolo
142; gli ulteriori immobili  ed  aree  specificamente  individuati  a
termini  dell'articolo  136  e  sottoposti   a   tutela   dai   piani
paesaggistici previsti dagli articoli 143 e 156») - «da sottoporre  a
specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione» (lettera e). 
    Al  di  fuori  delle  richiamate  ipotesi,  il  citato  art.  143
stabilisce,  al  comma  2,  che  le  Regioni  e  gli  organi  statali
competenti  «possono»,  non  devono,   «stipulare   intese   per   la
definizione delle  modalita'  di  elaborazione  congiunta  dei  piani
paesaggistici». 
    La scelta operata dal legislatore regionale umbro di prevedere la
pianificazione congiunta nei soli casi nei quali il codice  dei  beni
culturali la impone e', pertanto, in linea con la disciplina  statale
e  dunque  non  determina  alcuna  violazione  ne'  della  competenza
esclusiva  statale  in  materia  di  tutela  dell'ambiente,  ne'  dei
principi fondamentali in materia di governo del territorio  stabiliti
dalla medesima normativa statale. 
    Quest'ultima, come si e' gia' ricordato, non vincola  le  Regioni
«a coinvolgere, ne' in via  preventiva,  ne'  in  via  successiva,  i
competenti  organi  statali»  (sentenza  n.  308  del   2013)   nella
pianificazione paesaggistica del restante  territorio  regionale.  Il
legislatore statale si  e',  infatti,  limitato  ad  attribuire  alle
Regioni una facolta' di scelta  in  ordine  all'eventuale  estensione
della pianificazione  territoriale  congiunta  ad  altri  ambiti  del
territorio regionale. Alcune Regioni  hanno  ritenuto  di  esercitare
tale facolta',  senza,  tuttavia,  che  le  loro  "migliori  pratiche
amministrative" possano, per cio'  solo,  assurgere  a  parametro  di
valutazione  della  legittimita'   costituzionale   della   normativa
regionale  denunciata,  neanche  sulla  base  della   loro   asserita
(peraltro  non  dimostrata)  maggiore  coerenza  con  la  Convenzione
europea sul paesaggio, che non incide - e non potrebbe  farlo  -  sul
riparto  delle  competenze  fra  lo  Stato  e  le  Regioni  delineato
dall'ordinamento costituzionale. Essa si limita, infatti, a vincolare
lo  Stato  sottoscrittore  all'introduzione  delle  misure  volte   a
garantire tutela al paesaggio. 
    Del pari priva di fondamento si rivela la pretesa violazione  del
principio   di   superiorita'   gerarchica    della    pianificazione
paesaggistica  rispetto  agli  altri  strumenti   di   pianificazione
territoriale, da cui scaturirebbe la conseguente lesione  dei  valori
paesaggistici costituzionalmente protetti. 
    Il principio di prevalenza del piano paesaggistico sugli atti  di
pianificazione a incidenza  territoriale  posti  dalle  normative  di
settore, stabilito dall'art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004,
costituisce  espressione  del  «principio  secondo  il  quale,  nella
disciplina  delle  trasformazioni  del  territorio,  la  tutela   del
paesaggio assurge a valore prevalente» (sentenza  n.  11  del  2016).
Esso,  tuttavia,  non  puo'  ritenersi  contraddetto  in  assenza  di
esplicite  indicazioni  contenute  in  leggi   regionali   di   segno
contrastante. 
    Nella  specie,  la  mancata   estensione   della   pianificazione
paesaggistica congiunta all'intero territorio regionale  -  in  linea
con quanto prescritto dal legislatore statale - non incide  in  alcun
modo sul principio di prevalenza di tale pianificazione,  che,  anzi,
e' espressamente recepito  dal  legislatore  regionale  all'art.  14,
comma 1, lettera f), della medesima legge regionale n.  1  del  2015.
Tale prevalenza e', inoltre,  ribadita  proprio  con  riferimento  al
piano strategico  territoriale,  dall'art.  9  della  medesima  legge
regionale,  che,  al  comma  4,  stabilisce   che   «L'attivita'   di
pianificazione degli enti locali e' svolta in coerenza  con  il  PST,
ferma restando la prevalenza gerarchica del PPR». 
    Devono, pertanto, essere rigettate le censure  di  illegittimita'
costituzionale proposte nei confronti dell'art. 13,  comma  1,  della
legge reg. Umbria n. 1 del 2015. 
    5.- E', inoltre, impugnato l'art. 13, commi 4 e 5,  della  citata
legge regionale, nella parte in cui  disciplina  il  procedimento  di
approvazione regionale del PPR.  Quest'ultimo  non  assicurerebbe  la
necessaria compartecipazione paritetica  del  Ministero  dei  beni  e
delle attivita' culturali e del turismo nell'approvazione sostanziale
dei contenuti del nuovo piano  paesaggistico,  cosi'  vanificando  il
principio dell'elaborazione congiunta, in contrasto con  l'art.  143,
comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004 e quindi in violazione della sfera
di competenza legislativa statale  esclusiva  in  materia  di  tutela
dell'ambiente.  Un  simile  procedimento,  peraltro,   trasformerebbe
quella che dovrebbe essere  una  manifestazione  di  discrezionalita'
tecnica in una  manifestazione  (unilaterale)  di  volonta'  politica
consiliare, in violazione anche dell'art. 9 Cost. 
    5.1.- La questione non e' fondata. 
    Questa Corte si e' piu' volte pronunciata sui  vincoli  derivanti
dall'obbligo di pianificazione  congiunta  posto  dall'art.  135  del
d.lgs. n. 42 del 2004 e ha affermato che «l'impronta  unitaria  della
pianificazione paesaggistica e' "assunta  a  valore  imprescindibile,
non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un
intervento teso a stabilire una  metodologia  uniforme  nel  rispetto
della legislazione di  tutela  dei  beni  culturali  e  paesaggistici
sull'intero territorio nazionale" » (sentenze n. 64 del 2015, e n.197
del 2014; v. anche, fra le altre, sentenze n. 210 del 2016 e  n.  211
del 2013). 
    In questa prospettiva, l'art. 143 del medesimo d.lgs. n.  42  del
2004  definisce,  al  comma  2,  il  procedimento  di  pianificazione
congiunta e dispone che «[i]l piano e' oggetto  di  apposito  accordo
fra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'articolo 15 della  legge
7 agosto 1990, n. 241. L'accordo stabilisce altresi'  i  presupposti,
le modalita' ed  i  tempi  per  la  revisione  del  piano»,  che  «e'
approvato  con  provvedimento  regionale  entro  il  termine  fissato
nell'accordo». 
    Tale sequenza procedimentale congiunta risulta  rispettata  dalla
norma regionale impugnata. 
    Quest'ultima, infatti, delinea un procedimento  di  "elaborazione
congiunta" con il Ministero, «nel rispetto delle  forme  e  modalita'
previste dal medesimo articolo 143», che si impone gia' nella fase di
"preadozione", da parte della Giunta regionale, del progetto di  PPR,
fase  in  cui  partecipano  e  concorrono  anche  gli  enti   locali.
L'"elaborazione  congiunta"  si  conferma,  dopo  che  la  Giunta  ha
adottato  il  piano,  una  volta  acquisite  eventuali  proposte   ed
osservazioni da parte dei soggetti interessati, oltre al  parere  del
Consiglio  delle  autonomie   locali,   nel   momento   che   precede
l'approvazione  definitiva  del   piano   da   parte   dell'Assemblea
legislativa, a seguito del parere da  quest'ultima  espresso  in  via
preliminare rispetto alla sottoscrizione dell'accordo di cui all'art.
143, comma 2,  del  d.lgs.  n.  42  del  2004.  La  norma  regionale,
d'altronde, espressamente  sancisce,  al  comma  5,  che  l'Assemblea
legislativa «approva il PPR nel rispetto  di  quanto  previsto  dagli
articoli 135 e 143 del D.Lgs. 42/2004», che vincolano la  Regione  ad
adottare il piano sulla base dell'accordo. 
    Non  si  determina,  pertanto,  alcuna  lesione  della  sfera  di
competenza esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente,  ne'
alcuna violazione dell'art. 9, secondo  comma,  Cost.,  asseritamente
connessa alla  possibilita'  -  contraddetta  dalla  norma  regionale
impugnata - di unilaterali modifiche del piano in sede  di  Consiglio
regionale, senza successive verifiche. 
    Vanno,  pertanto,   respinte   le   censure   di   illegittimita'
costituzionale proposte nei riguardi dell'art. 13, commi 4 e 5, della
legge reg. Umbria n. 1 del 2015. 
    6.- Sono, poi, denunciati gli artt. 16, commi 4  e  5,  17  e  19
della medesima legge regionale, nella parte in  cui  disciplinano  il
contenuto del Piano territoriale di coordinamento provinciale  (PTCP)
e i rapporti di questo strumento urbanistico con il piano  regolatore
generale. 
    Il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  sostiene  che  tali
disposizioni,  nel  ridurre  drasticamente  il  contenuto  del  piano
territoriale di coordinamento provinciale (PTCP)  rispetto  a  quello
indicato nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo  unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), in favore  di  altri
strumenti di pianificazione, come  ad  esempio  il  piano  regolatore
generale dei Comuni (PRG), non solo si porrebbero in contrasto con  i
principi fondamentali  in  materia  di  governo  del  territorio,  ma
inciderebbero anche sulla disciplina  di  una  funzione  fondamentale
attribuita dallo Stato alla competenza delle Province, con l'art.  1,
comma 85, lettera a), della legge 7 aprile 2014, n. 56  (Disposizioni
sulle citta' metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di
comuni), in violazione dell'art.  117,  secondo  comma,  lettera  p),
Cost. 
    6.1.- La questione e' priva di fondamento. 
    L'art. 20 del d.lgs. n. 267 del 2000, nel definire i  compiti  di
programmazione della Provincia, dispone, in particolare, al comma  2,
che la Provincia, «ferme restando le  competenze  dei  comuni  ed  in
attuazione della legislazione e dei programmi  regionali,  predispone
ed adotta il piano territoriale di coordinamento  che  determina  gli
indirizzi generali di assetto del territorio» e ne identifica  alcuni
contenuti necessari. 
    Tale competenza e' stata confermata dalla legge n. 56  del  2014,
che, all'art. 1, comma 85, ha ridefinito  i  compiti  delle  Province
quali  «enti  con  funzioni  di  area  vasta»,  e,  fra  le  funzioni
fondamentali di tali enti, ha individuato, alla lettera  a),  proprio
la «pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonche'
tutela  e  valorizzazione   dell'ambiente,   per   gli   aspetti   di
competenza». 
    Le norme regionali impugnate si  inseriscono  nel  citato  quadro
normativo di riferimento, senza porsi  in  contrasto  con  esso,  ma,
anzi, dandovi attuazione. 
    La legge reg. Umbria n. 1  del  2015  dedica  il  Capo  III  alla
«[p]ianificazione d'area vasta» (artt. da  16  a  19),  per  definire
«[f]inalita' e azioni del  [...]  PTCP»  (art.  16),  individuarne  i
«contenuti»  (art.  17),  disciplinarne  modalita'  di  approvazione,
efficacia,  durata  e  varianti   (art.   18),   infine   prescrivere
l'«[a]deguamento del Piano Regolatore Generale al PTCP» (art. 19). 
    Tali disposizioni trovano le  loro  premesse  nell'art.  4  della
medesima legge regionale, che, fra gli strumenti della pianificazione
e programmazione (territoriale, urbanistica  e  paesaggistica),  alla
lettera  c)  del  comma  3,  qualifica  il  «Piano  Territoriale   di
Coordinamento  Provinciale  (PTCP),  strumento  della  pianificazione
territoriale e urbanistica tra  piu'  comuni  e  di  area  vasta,  di
dimensione strategica, programmatica e regolativa». L'impugnato  art.
16 statuisce che le Province, con il PTCP, fra l'altro, «raccordano e
coordinano i diversi  piani  sovracomunali»  (comma  4,  lettera  a),
«promuovono azioni di raccordo tra le pianificazioni dei  comuni  con
particolare  riferimento  a  quelli  i   cui   territori   presentano
un'elevata continuita' morfologica o funzionale»  (comma  4,  lettera
c), «esercitano le funzioni per attuare la perequazione  territoriale
e la compartecipazione tra i comuni» (comma  4,  lettera  d),  infine
«promuovono il coordinamento con le province ed i  comuni  contermini
ai fini dell'integrazione delle  rispettive  politiche  territoriali»
(comma  5),  nell'ambito  di  indirizzi  generali  di   assetto   del
territorio ad esse assegnati dall'art. 20 del d.lgs. n. 267 del 2000. 
    Anche quanto ai contenuti del PTCP espressamente individuati  dal
citato art. 20, la normativa regionale denunciata  non  solo  non  li
ridimensiona, ma sostanzialmente li ribadisce. Ad esempio, assegna al
PTCP il compito di effettuare la «localizzazione delle  attrezzature,
degli impianti, delle infrastrutture» (art. 17, comma 1,  lettera  b,
numero 3), nonche' di individuare «la rete delle infrastrutture della
mobilita'» (art. 17, comma 1, lettera b,  numero  2),  in  linea  con
l'art.  20,  comma  2,  lettera  b),  del  d.lgs.  n.  267  del  2000
(«localizzazione di massima delle  maggiori  infrastrutture  e  delle
principali linee di comunicazione»); o ancora il compito di  definire
le «linee di intervento in materia di difesa  del  suolo,  di  tutela
delle acque, sulla base delle caratteristiche ambientali, geologiche,
idrogeologiche e sismiche del territorio» (art. 17, comma 1,  lettera
c, numero 2) in armonia con la lettera c) del comma  2  dell'art.  20
(che assegna al predetto piano il compito, appunto,  di  definire  le
«linee di intervento per la sistemazione  idrica,  idro-geologica  ed
idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento  del  suolo  e
per la regimazione delle acque»). 
    Quanto ai  compiti  di  «indicare  le  diverse  destinazioni  del
territorio in relazione alla prevalente vocazione  delle  sue  parti»
(individuato alla lettera a del comma 2 dell'art. 20 citato), nonche'
di identificare le «aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o
riserve naturali» (di  cui  alla  lettera  d  del  medesimo  comma  2
dell'art. 20), e' agevole osservare che possano  ritenersi  impliciti
nell'attribuzione al medesimo PTCP  della  funzione  di  definire  la
disciplina paesaggistica specificamente a esso demandata dal PPR (con
specifico riferimento all'istituzione di parchi e riserve naturali  o
ad altre vocazioni paesaggistiche di parti del  territorio),  nonche'
nel generale vincolo del PTCP di coerenza con il PST e di conformita'
rispetto al PPR (art. 16, comma 2). 
    Ne' e' fondato l'assunto del ricorrente secondo cui sarebbe stato
sottratto alla Provincia il compito di  accertare  la  compatibilita'
degli strumenti urbanistici comunali con il PTCP (ai sensi  dell'art.
20, comma 5, del d.lgs. n. 267 del  2000).  Premesso  che  l'art.  19
della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 conferma l'obbligo  dei  Comuni
di adeguare i propri strumenti urbanistici al  PTCP,  il  compito  di
verifica e' previsto dall'art. 29 della medesima legge regionale, che
stabilisce che la Provincia verifichi  i  contenuti  del  PRG,  parte
strutturale,   «rispetto   alle   normative   di   settore   e   alla
pianificazione sovracomunale» (comma 2), in  vista  dell'approvazione
del predetto PRG in sede di Conferenza istituzionale tra enti. 
    Anche le censure promosse nei confronti degli artt. 16, commi 4 e
5, 17 e 19 della legge reg. Umbria n. 1 del  2015  devono,  pertanto,
essere rigettate. 
    7.- Il Presidente del Consiglio dei  ministri  impugna,  inoltre,
l'art. 28, comma 10,  e  l'art.  56,  comma  3,  della  citata  legge
regionale nella parte in cui, rispettivamente, il  primo  attribuisce
al Comune, in sede di adozione del PRG, il compito  di  esprimere  il
parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti  in  zone
sismiche o in abitati da consolidare, di cui all'art. 89 del d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380 (Testo unico  delle  disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia edilizia - Testo A); il  secondo  stabilisce
che lo sportello unico delle attivita' produttive ed edilizie (SUAPE)
acquisisca direttamente «i  pareri  che  debbono  essere  resi  dagli
uffici  comunali,  necessari  ai  fini  dell'approvazione  del  piano
attuativo  compreso  il  parere  in  materia  sismica,  idraulica  ed
idrogeologica, da esprimere con le modalita' di cui all'articolo 112,
comma 4, lettera d)». 
    Tali disposizioni si  porrebbero  in  contrasto  con  i  principi
fondamentali in materia di «governo del territorio» e di  «protezione
civile» contenuti nel citato art. 89 del  d.lgs.  n.  380  del  2001.
Secondo quest'ultimo, infatti, il parere sugli strumenti  urbanistici
generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare
deve essere richiesto al «competente ufficio tecnico regionale  sugli
strumenti  urbanistici  generali  e  particolareggiati  prima   della
delibera di adozione nonche' sulle lottizzazioni convenzionate  prima
della delibera di  approvazione,  e  loro  varianti,  ai  fini  della
verifica della compatibilita'  delle  rispettive  previsioni  con  le
condizioni geomorfologiche del territorio» (comma 1). 
    7.1.- La questione e' fondata. 
    Questa Corte ha avuto piu' volte occasione di  affermare  che  il
citato art. 89 e' norma di principio in materia non solo di  «governo
del territorio», ma anche di «protezione civile», in quanto volta  ad
assicurare  la  tutela  dell'incolumita'  pubblica  (fra  le   altre,
sentenza n. 167 del 2014). Essa, pertanto, si impone  al  legislatore
regionale nella parte in cui in cui: prescrive a tutti i Comuni,  per
la realizzazione  degli  interventi  edilizi  in  zone  sismiche,  di
richiedere il parere del competente ufficio tecnico  regionale  sugli
strumenti urbanistici generali  e  particolareggiati,  nonche'  sulle
loro varianti ai  fini  della  verifica  della  compatibilita'  delle
rispettive  previsioni  con   le   condizioni   geomorfologiche   del
territorio (comma 1); disciplina le modalita' e  i  tempi  entro  cui
deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2);  infine  prevede  che,  in
caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi  reso  in  senso
negativo (comma 3). 
    Tale  norma,  al  pari  di  altre  ritenute  di  principio  dalla
giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le sentenze n. 167  del
2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012,  n.  254  del
2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici
tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64  del
2013 e n. 182 del 2006),  «riveste  una  posizione  "fondante"  [...]
attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela
dell'incolumita'   pubblica,   i   quali   non    tollerano    alcuna
differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (sentenza  n.  167
del 2014). 
    Le disposizioni regionali impugnate di cui agli artt.  28,  comma
10, e 56, comma 3, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni -
piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale - il compito di
rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali  ed  attuativi
dei Comuni siti in zone sismiche, si  pongono  in  contrasto  con  il
principio fondamentale posto dall'art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001. 
    Nessun rilievo riveste, peraltro,  la  circostanza  -  richiamata
dalla difesa regionale - che l'art. 20 della legge 10 dicembre  1981,
n. 741 (Ulteriori  norme  per  l'accelerazione  delle  procedure  per
l'esecuzione di  opere  pubbliche)  ha  consentito  alle  Regioni  di
prevedere uno snellimento delle procedure e di introdurre  norme  per
l'adeguamento    degli    strumenti    urbanistici     generali     e
particolareggiati vigenti, nonche'  sui  criteri  per  la  formazione
degli strumenti urbanistici ai fini  della  prevenzione  del  rischio
sismico. Questa Corte ha gia' chiarito che «l'intera materia e' stata
oggetto di una piu' recente completa regolazione, che si e'  tradotta
nelle vigenti disposizioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 [...]  il
quale ha fatto venire meno - anche in mancanza di formale abrogazione
- le possibilita' di deroga di cui all'art. 20 della legge n. 741 del
1981» (sentenza n. 64 del 2013; nello stesso senso, sentenza  n.  182
del 2006). 
    Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale
degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1
del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziche'
l'ufficio tecnico regionale competente, a  rendere  il  parere  sugli
strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni  siti  in  zone
sismiche. 
    8.- E' impugnato anche l'art. 56, comma 14,  della  citata  legge
regionale n. 1 del 2015, nella parte in cui disciplina  l'adozione  e
l'approvazione del piano attuativo, senza prevedere la partecipazione
al medesimo procedimento degli organi ministeriali. 
    Tale norma, secondo il ricorrente, si porrebbe in  contrasto  sia
con gli artt. 145, comma 5, e 146, comma 5,  del  d.lgs.  n.  42  del
2004, che impongono la partecipazione degli  organi  ministeriali  al
procedimento, sia con gli artt. 16 e 28 della legge 17  agosto  1942,
n.  1150  (Legge  urbanistica),  in  quanto  abolirebbe   il   parere
preventivo  del  soprintendente,  ivi   previsto,   sugli   strumenti
attuativi (piani particolareggiati e lottizzazione delle aree).  Tale
parere si distinguerebbe, infatti, dall'autorizzazione paesaggistica,
prescritta dal medesimo art. 146 del citato d.lgs. n. 42 del 2004  in
riferimento  al  singolo  intervento  e  quindi   a   seguito   della
pianificazione attuativa. 
    8.1.- La questione e' priva di fondamento nei termini di  seguito
precisati. 
    La   norma   regionale   impugnata   disciplina   l'adozione    e
l'approvazione del piano attuativo del PRG nelle  zone  vincolate  ai
sensi del d.lgs.  n.  42  del  2004.  Essa  prescrive  che  il  piano
attuativo,  che  riguarda  interventi  nelle  zone  vincolate  ed  e'
predisposto dal Comune, sia  sottoposto  dapprima  al  previo  parere
della commissione comunale  per  la  qualita'  architettonica  ed  il
paesaggio. Esso deve essere trasmesso alla soprintendenza, unitamente
agli elaborati del piano attuativo adottato, corredati  del  progetto
delle opere di urbanizzazione e  infrastrutturali  previste,  nonche'
della documentazione di cui al comma 3, dell'art. 146 del  d.lgs.  n.
42 del 2004 relativa a tali opere, preordinata alla  «verifica  della
compatibilita' fra interesse  paesaggistico  tutelato  ed  intervento
progettato». La soprintendenza «esprime il parere di cui all'articolo
146 del D.Lgs. 42/2004 esclusivamente sulle opere di urbanizzazione e
infrastrutturali, ai fini di quanto previsto all'articolo  57,  comma
6, fermo restando il parere di  cui  allo  stesso  articolo  146  del
d.lgs. 42/2004 da esprimere successivamente sul  progetto  definitivo
dei singoli interventi edilizi». 
    In altri termini, la citata norma regionale  prescrive  che,  con
riguardo agli  interventi  nelle  zone  vincolate,  il  Comune  debba
richiedere  alla  soprintendenza  dapprima  un   parere   sul   piano
attuativo, con esclusivo riguardo  alle  opere  di  urbanizzazione  e
infrastrutturali  ivi  programmate,  al   fine   di   verificare   la
compatibilita'  del  programma  con  l'interesse   paesaggistico,   e
successivamente un parere preliminare al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica, di cui  all'art.  146  del  d.lgs.  n.  42  del  2004,
inerente alla realizzazione dei singoli interventi edilizi rientranti
nell'ambito del piano. 
    Tale previsione e' in linea con quanto prescritto dalla normativa
statale in materia. 
    Il piano  attuativo,  che  ha  la  medesima  funzione  del  piano
particolareggiato e cioe' quella di rendere esecutive  le  previsioni
generali di uno strumento urbanistico  generale,  quale  il  PRG,  e'
assoggettato al parere prescritto dall'art. 16, comma 3, della citata
legge n. 1150 del 1942, cosiddetta "legge urbanistica".  Quest'ultimo
articolo, infatti, dispone (analogamente all'art. 28  della  medesima
legge urbanistica in riferimento alle lottizzazioni di aree) che «[i]
piani  particolareggiati  nei  quali  siano  comprese  cose  immobili
soggette alla legge 1° giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle  cose
di interesse artistico o storico, e alla legge  29  giugno  1939,  n.
1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono  preventivamente
sottoposti alla competente soprintendenza ovvero al  Ministero  della
Pubblica Istruzione quando sono approvati con  decreto  del  Ministro
dei   lavori   pubblici».   Come   chiarito   dalla    giurisprudenza
amministrativa  (di  recente,  Consiglio  di  stato,  sezione  sesta,
sentenza  16  maggio  2013,  n.  2666),   secondo   tale   norma   la
soprintendenza e' chiamata a valutare la compatibilita' del programma
di interventi oggetto del piano con i valori  paesaggistici  espressi
dal territorio preso in considerazione, e dunque riguarda  solo  cio'
che del piano attuativo e' oggetto essenziale, come, ad  esempio,  le
opere di urbanizzazione. 
    Tale  previsione  si  e'  successivamente  inserita  nel   quadro
normativo che  si  e'  andato  delineando:  dapprima  a  seguito  del
trasferimento dallo Stato alle Regioni delle funzioni  amministrative
esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in  materia
di urbanistica (ai sensi del d.P.R. 15 gennaio 1972,  n.  8,  recante
«Trasferimento  alle  Regioni  a  statuto  ordinario  delle  funzioni
amministrative statali in materia di  urbanistica  e  di  viabilita',
acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale  e  dei  relativi
personali ed uffici», e del d.P.R. 24 luglio  1977,  n.  616  recante
«Attuazione della delega di cui all'art. 1 della L. 22  luglio  1975,
n. 382»), poi della puntuale ripartizione delle competenze fra  Stato
e Regioni operata dal riformato Titolo V in materia di  «governo  del
territorio», di competenza concorrente, e di  «tutela  dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei  beni  culturali»,  assegnata  alla  competenza
esclusiva del legislatore statale. In linea con  tale  riparto  delle
competenze, il d.lgs.  n.  42  del  2004,  all'art.  145,  dopo  aver
affermato che «[l]a individuazione, da  parte  del  Ministero,  delle
linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale  per  quanto
riguarda la tutela del paesaggio, con finalita'  di  indirizzo  della
pianificazione, costituisce compito di rilievo  nazionale,  ai  sensi
delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi
per il conferimento di  funzioni  e  compiti  alle  regioni  ed  enti
locali» (comma 1), assegna alle Regioni il compito di disciplinare il
«procedimento  di  conformazione  ed  adeguamento   degli   strumenti
urbanistici  alle  previsioni  della  pianificazione   paesaggistica,
assicurando  la   partecipazione   degli   organi   ministeriali   al
procedimento medesimo» (comma 5). In questa prospettiva, con riguardo
poi, agli «immobili ed  aree  di  interesse  paesaggistico,  tutelati
dalla legge», l'art.  146  introduce  l'istituto  dell'autorizzazione
paesaggistica il cui rilascio e' condizionato  «alla  verifica  della
compatibilita' fra interesse  paesaggistico  tutelato  ed  intervento
progettato». 
    Il comma 5 del predetto art. 146 precisa che  «[s]ull'istanza  di
autorizzazione paesaggistica si  pronuncia  la  regione,  dopo  avere
acquisito il parere vincolante del soprintendente in  relazione  agli
interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla
legge», parere che e' reso, «nel rispetto delle  previsioni  e  delle
prescrizioni del piano paesaggistico»,  «all'esito  dell'approvazione
delle  prescrizioni  d'uso  dei  beni  paesaggistici  tutelati  [...]
nonche' della positiva verifica da parte del Ministero  su  richiesta
della regione interessata, dell'avvenuto adeguamento degli  strumenti
urbanistici»,    peraltro    «limitatamente    alla    compatibilita'
paesaggistica del progettato intervento nel  suo  complesso  ed  alla
conformita'  dello  stesso  alle  disposizioni  contenute  nel  piano
paesaggistico» (comma 8). 
    Nel disegno  tratteggiato  dal  legislatore  statale  emerge  con
chiarezza  che  l'intento   perseguito   attraverso   la   richiamata
disciplina - di assicurare la massima tutela dei valori paesaggistici
coinvolti in un programma di interventi edilizi da  realizzare  nelle
zone vincolate - e' perseguito mediante la  previsione  di  un  primo
parere  della  soprintendenza  circa   la   generale   compatibilita'
paesaggistica del piano degli interventi programmati  sul  territorio
in questione, in attuazione del PRG,  costituito  dall'insieme  delle
opere di urbanizzazione e delle infrastrutture, opere il cui  impatto
potrebbe realmente incidere sui  valori  paesaggistici  espressi  dal
territorio preso in considerazione. Inoltre, il suddetto  intento  si
realizza  tramite  l'imposizione  di  un   ulteriore   parere   della
soprintendenza in relazione ai singoli interventi,  in  un'ottica  di
valutazione  della  coerenza  del  concreto  intervento  edilizio   o
urbanistico  con  il  pregio  riconosciuto  all'area   destinata   ad
accoglierlo. Si tratta di provvedimenti diversi (l'uno inerente  alla
generale compatibilita' paesaggistica dell'insieme  degli  interventi
urbanistici ed edilizi rilevanti programmati; l'altro  relativo  alle
concrete caratteristiche del  singolo  intervento  e  alle  modalita'
esecutive  dello  stesso  e  alla  loro   coerenza   con   i   valori
paesaggistici dell'area), ma strettamente connessi in quanto tesi  ad
un unico fine, com'e' dimostrato dalla circostanza, confortata  dalla
giurisprudenza amministrativa, che tanto piu' puntuale e  dettagliato
e' il giudizio  di  compatibilita'  paesaggistica  reso  in  sede  di
approvazione del piano attuativo, tanto piu' ridotti sono  i  margini
di ulteriore valutazione che e' consentito svolgere con  riguardo  ai
singoli  interventi  rientranti  nel  piano  stesso  (fra  le  altre,
Consiglio di stato, sezione sesta, sentenza 5 febbraio 2010, n. 538 e
sentenza 15 marzo 2010, n. 1491). 
    In questa prospettiva, la norma regionale impugnata non solo  non
si pone in contrasto con le richiamate  indicazioni  del  legislatore
statale, ma si  rivela  coerente  espressione  del  compito  ad  essa
affidato con gli artt. 145 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004. 
    9.- Ulteriore norma denunciata e' l'art. 59, comma 3, della legge
reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui consente gli interventi
edilizi di manutenzione ordinaria  e  straordinaria,  di  restauro  e
risanamento conservativo, nonche' di ristrutturazione edilizia, nelle
aree in cui non siano state attuate  le  previsioni  degli  strumenti
urbanistici generali, anche a mezzo di piano  attuativo,  presupposto
per  l'edificazione,  e  stabilisce  che  tali   interventi   possano
comportare anche la modifica della destinazione d'uso in atto  in  un
edificio esistente, purche' la nuova destinazione risulti compatibile
con le previsioni dello strumento urbanistico generale. 
    Tale norma si porrebbe in contrasto con la normativa  statale  di
principio contenuta nell'art. 9 del  d.P.R.  n.  380  del  2001,  che
limita la possibilita' di mutare la destinazione  d'uso  e,  in  ogni
caso, non consentirebbe gli interventi previsti dalla norma regionale
impugnata. 
    9.1.- La questione e' fondata. 
    La disposizione regionale  impugnata  disciplina  gli  interventi
edilizi  consentiti  in   assenza   del   piano   attuativo,   quando
quest'ultimo sia obbligatorio, poiche' qualificato come  «presupposto
per l'edificazione». 
    A tal proposito, considerato l'insegnamento  costante  di  questa
Corte secondo cui l'urbanistica e l'edilizia  vanno  ricondotte  alla
materia «governo del territorio», di cui all'art. 117,  terzo  comma,
Cost., viene in rilievo - come indicato dal ricorrente - l'art. 9 del
d.P.R. n. 380 del 2001. Quest'ultimo, dopo aver individuato, al comma
1, gli  interventi  edilizi  consentiti  «nei  comuni  sprovvisti  di
strumenti urbanistici», «[s]alvi i piu'  restrittivi  limiti  fissati
dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle norme di cui  al
d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad identificare, al comma  2,  quelli
che possono essere realizzati in assenza di piani  attuativi,  quando
questi ultimi siano indicati  dagli  strumenti  urbanistici  generali
come  presupposto  per  l'edificazione.  Fra  questi  annovera:   gli
interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione  straordinaria,
di restauro e di risanamento conservativo (art. 9, comma  1,  lettera
a) e quelli di ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lettera d)
«che riguardino singole unita' immobiliari o parti  di  esse»  o  che
«riguardino globalmente uno o piu' edifici e modifichino fino  al  25
per cento delle destinazioni preesistenti, purche'  il  titolare  del
permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura
e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale
mantenuta  ad  uso  residenziale,  prezzi  di  vendita  e  canoni  di
locazione concordati con il comune ed a  concorrere  negli  oneri  di
urbanizzazione di cui alla  sezione  II  del  capo  II  del  presente
titolo». 
    Questa Corte ha gia' avuto occasione di pronunciarsi  sul  citato
art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e ha ritenuto che
esso, pur dettando specifici e puntuali limiti alla  possibilita'  di
realizzare interventi edilizi in assenza  di  strumenti  urbanistici,
«non puo' qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo  piuttosto
un principio fondamentale della materia» (sentenza n. 87  del  2017).
Cio' ha  ritenuto  in  ragione  della  sua  peculiare  funzione,  che
consiste nell'«impedire, tramite l'applicazione di  standard  legali,
una incontrollata espansione edilizia in caso di "vuoti urbanistici",
suscettibile  di  compromettere  l'ordinato  (futuro)   governo   del
territorio  e  di  determinare  la  totale  consumazione  del   suolo
nazionale, a garanzia di valori  di  chiaro  rilievo  costituzionale»
(sentenza n. 87 del 2017). 
    La medesima funzione - e quindi la medesima natura  di  norma  di
principio - deve essere ascritta anche al comma 2 del citato  art.  9
del d.P.R. n.  380  del  2001,  la'  dove  individua  e  delimita  la
tipologia di interventi edilizi  realizzabili  in  assenza  di  piani
attuativi, che siano qualificati dagli strumenti urbanistici generali
come presupposto necessario per l'edificazione. Anche in tal caso  la
norma in esame mira a salvaguardare  la  funzione  di  pianificazione
urbanistica intesa nel suo complesso, evitando che,  nelle  more  del
procedimento di approvazione del piano  attuativo,  siano  realizzati
interventi  incoerenti  con  gli  strumenti  urbanistici  generali  e
comunque tali da compromettere l'ordinato uso del territorio. 
    L'art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1  del  2015,  nella
parte  in  cui  consente  la  realizzazione,  in  assenza  del  piano
attuativo, quando quest'ultimo sia  obbligatorio,  di  interventi  di
manutenzione ordinaria e straordinaria,  di  restauro  e  risanamento
conservativo,   nonche'   di   ristrutturazione    edilizia,    senza
limitazioni, prevedendo che tali interventi possano «comportare anche
la modifica della destinazione d'uso in atto in un edificio esistente
nell'ambito dell'insediamento, purche' la  nuova  destinazione  d'uso
risulti compatibile con le  previsioni  dello  strumento  urbanistico
generale», si pone in contrasto con le previsioni di  cui  al  citato
art. 9, comma 2, del  d.P.R.  n.  380  del  2001,  che  costituiscono
principi fondamentali della materia. 
    Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1 del 2015, in quanto
non limita gli interventi edilizi  consentiti  in  assenza  di  piano
attuativo a quelli individuati dall'art. 9, comma 2,  del  d.P.R.  n.
380 del 2001. 
    10.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, poi,  impugnato
l'art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg.  Umbria  n.  1  del
2015, nella parte in cui annovera tra  gli  interventi  di  attivita'
edilizia libera le «opere interne  alle  unita'  immobiliari  di  cui
all'art. 7, comma 1, lettera g)». 
    La citata disposizione regionale contrasterebbe  con  i  principi
fondamentali in materia di «governo del  territorio»,  stabiliti  dal
legislatore statale nell'art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4,  del
d.P.R. n. 380 del 2001, che  assoggetta  a  comunicazione  di  inizio
lavori  cosiddetta  "asseverata"  «gli  interventi  di   manutenzione
straordinaria di  cui  all'articolo  3,  comma  1,  lettera  b),  ivi
compresa l'apertura di porte  interne  e  lo  spostamento  di  pareti
interne,   sempre   che   non   riguardino   le   parti   strutturali
dell'edificio». 
    10.1.- La questione e' fondata. 
    Secondo   la   costante   giurisprudenza   costituzionale,    «la
definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il
regime dei  titoli  abilitativi  costituisce  principio  fondamentale
della materia concorrente "governo del territorio", vincolando  cosi'
la legislazione regionale di dettaglio» (sentenza n.  282  del  2016;
nello stesso senso, fra le tante, sentenze n. 231 del 2016, n. 49 del
2016 e n. 259 del 2014).  Pertanto,  «pur  non  essendo  precluso  al
legislatore regionale di esemplificare  gli  interventi  edilizi  che
rientrano  nelle  definizioni  statali,  tale  esemplificazione,  per
essere costituzionalmente legittima,  deve  essere  coerente  con  le
definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia» (sentenza n. 231
del 2016). 
    In linea  con  tale  orientamento,  questa  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale di una normativa regionale, analoga a
quella ora in esame, che escludeva dall'obbligo di  comunicazione  di
inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato  (CILA)  nonche'
di comunicazione semplice (CIL) «le opere interne  a  singole  unita'
immobiliari,  ivi  compresi  l'eliminazione,  lo  spostamento  e   la
realizzazione  di  aperture  e  pareti  divisorie  interne  che   non
costituiscono elementi strutturali, sempre che non comportino aumento
del numero delle unita' immobiliari  o  implichino  incremento  degli
standard urbanistici», per  contrasto  con  i  principi  fondamentali
della materia contenuti nell'art. 6, comma 2, lettera a), del  d.P.R.
n. 380 del 2001 (sentenza n. 282 del 2016). 
    Quest'ultimo,  infatti,  pur  intitolato  «[a]ttivita'   edilizia
libera», assoggettava (congiuntamente con il comma 4,  nel  testo  in
vigore nel momento della proposizione del ricorso) «gli interventi di
manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3,  comma  1,  lettera
b), ivi compresa l'apertura di porte  interne  o  lo  spostamento  di
pareti interne,  sempre  che  non  riguardino  le  parti  strutturali
dell'edificio,  non  comportino  aumento  del  numero  delle   unita'
immobiliari e non implichino incremento  dei  parametri  urbanistici»
alla comunicazione di inizio dei lavori asseverata (CILA). 
    Dopo la proposizione del ricorso, le disposizioni (commi  2  e  4
dell'art. 6) indicate come parametro interposto sono  state  abrogate
dall'art. 3, comma 1, lettera b), n. 4, del  decreto  legislativo  25
novembre 2016, n. 222 recante «Individuazione di procedimenti oggetto
di autorizzazione, segnalazione certificata di  inizio  di  attivita'
(SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei  regimi
amministrativi applicabili a determinate attivita' e procedimenti, ai
sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124»,  senza  che
mutasse il quadro normativo dei principi fondamentali di  riferimento
della materia. L'art. 3, comma 1, lettera c), del  citato  d.lgs.  n.
222 del 2016 ha infatti introdotto l'art. 6-bis nel d.P.R. n. 380 del
2001, che ha confermato  il  regime  di  CILA  gia'  previsto  per  i
predetti interventi. 
    La norma regionale impugnata, pertanto, la' dove prescrive per le
cosiddette opere interne un regime  di  edilizia  totalmente  libera,
escludendo la CILA,  contrasta  con  i  principi  fondamentali  della
materia fissati dal legislatore statale. Infatti,  come  si  e'  gia'
precisato  con  riguardo  agli  interventi  sottoposti  a  regime  di
edilizia libera, le Regioni non  possono  «differenziarne  il  regime
giuridico, dislocando diversamente  gli  interventi  edilizi  tra  le
attivita' deformalizzate, soggette a CIL e CILA» (sentenza n. 231 del
2016). L'«omogeneita' funzionale della comunicazione preventiva [...]
rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di
costruire, DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla  norma  che  la
prescrive - al pari di quelle che disciplinano i  titoli  abilitativi
edilizi - la natura  di  principio  fondamentale  della  materia  del
governo del territorio», in  quanto  volto  a  garantire  l'interesse
unitario ad un corretto uso  del  territorio  (sentenza  n.  231  del
2016). 
    Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg. Umbria n. 1  del
2015, nella parte in cui annovera tra  gli  interventi  di  attivita'
edilizia libera le «opere interne  alle  unita'  immobiliari  di  cui
all'art. 7, comma 1, lettera g)»,  escludendo  la  sottoposizione  di
esse alla CILA. 
    11.- Sono, altresi', impugnati gli artt. 147, 155 e 118, comma 2,
lettera h), della citata legge regionale n. 1 del 2015,  nella  parte
in cui disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso, per violazione
degli artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost. 
    Tali disposizioni, nella parte in cui definiscono gli  interventi
di mutamento  di  destinazione  d'uso  urbanisticamente  rilevante  e
identificano i titoli abilitativi necessari e le sanzioni da irrogare
nel caso di  violazione  del  prescritto  regime,  si  porrebbero  in
contrasto  con  la  normativa  statale  che   contiene   i   principi
fondamentali in materia di governo del  territorio  ed  inciderebbero
nell'ambito di applicazione delle sanzioni amministrative,  civili  e
penali previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (agli artt. 33, 36,  37  e
44), con conseguente invasione  della  potesta'  legislativa  statale
esclusiva in materia  di  ordinamento  civile  e  penale  (art.  117,
secondo comma, lettera l, Cost.) e in  violazione  del  principio  di
eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. 
    11.1.- In linea preliminare, occorre sottolineare che la modifica
apportata all'art. 118, comma 2, lettera h), dall'art. 26,  comma  7,
della legge reg. Umbria n. 13 del 2016, non ha inciso  sulla  portata
prescrittiva, ne' sul tenore letterale della  disposizione  medesima,
limitandosi al mero mutamento del segno di punteggiatura finale della
stessa. Cio' induce, dunque, questa Corte  ad  estendere  il  proprio
scrutinio anche al testo ora vigente dell'art. 118, comma 2,  lettera
h), della citata legge regionale. 
    11.2.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    Le norme regionali impugnate dettano la disciplina dei  mutamenti
di destinazione d'uso  degli  edifici  e  delle  unita'  immobiliari,
identificandone  le  tipologie,  individuando   i   relativi   titoli
abilitativi richiesti e le connesse sanzioni. 
    Posto  che   una   simile   operazione   e'   assimilabile   alla
classificazione delle categorie di interventi edilizi o  urbanistici,
valgono anche in tal caso le indicazioni espresse da questa Corte con
riguardo alla disciplina del  governo  del  territorio,  secondo  cui
«sono  principi  fondamentali  della  materia  le  disposizioni   che
definiscono le categorie di interventi, perche' e' in  conformita'  a
queste ultime che e' disciplinato il regime dei  titoli  abilitativi,
con riguardo al procedimento e agli oneri, nonche' agli abusi e  alle
relative sanzioni, anche penali (cosi' la sentenza n. 309 del  2011),
sicche' la definizione delle diverse categorie di interventi  edilizi
spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)»  (sentenza  n.
259 del 2014). Lo spazio di intervento  che  residua  al  legislatore
regionale e' quello di  «esemplificare  gli  interventi  edilizi  che
rientrano nelle definizioni statali», a condizione, pero',  che  tale
esemplificazione sia «coerente con le definizioni contenute nel testo
unico dell'edilizia» (sentenza n. 49 del 2016). 
    Occorre verificare se, nella specie, sussista una tale coerenza. 
    L'art. 23-ter del d.P.R.  n.  380  del  2001  e'  stato  inserito
dall'art. 17, comma 1, lettera n),  del  decreto-legge  12  settembre
2014,  n.  133  (Misure  urgenti  per  l'apertura  dei  cantieri,  la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione  del  Paese,
la   semplificazione   burocratica,    l'emergenza    del    dissesto
idrogeologico  e  per  la  ripresa   delle   attivita'   produttive),
convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 2014, n.  164,
con l'obiettivo di uniformare le  differenti  normative  regionali  e
semplificare l'applicazione della disciplina anche  nel  segno  della
liberalizzazione. Tale articolo ha definito come «mutamento rilevante
della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della
singola unita' immobiliare diversa da  quella  originaria,  ancorche'
non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purche'  tale  da
comportare l'assegnazione  dell'immobile  o  dell'unita'  immobiliare
considerati  ad  una  diversa  categoria  funzionale».   Ha   inoltre
identificato  cinque  categorie  funzionali  cosi'  qualificate:   a)
residenziale;   a-bis)   turistico-ricettiva;   b)    produttiva    e
direzionale; c) commerciale; d) rurale. Ha poi disposto che  «[s]alva
diversa previsione da parte delle leggi regionali e  degli  strumenti
urbanistici  comunali,  il   mutamento   della   destinazione   d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale e'  sempre  consentito»
(comma 3). 
    Quanto alla normativa regionale denunciata, occorre rilevare  che
l'art. 155, al comma 3, definisce come mutamenti  della  destinazione
d'uso di  edifici  o  di  singole  unita'  immobiliari  tutti  quegli
interventi che comportano il passaggio da  una  categoria  funzionale
all'altra, «indipendentemente dalle diverse  tipologie  di  attivita'
riconducibili alle stesse», in armonia con la normativa  statale.  Ma
individua  le  categorie   funzionali   nelle   tre   seguenti:   «a)
residenziale; b) produttiva, compresa quella agricola;  c)  attivita'
di servizi come definite all'articolo 7, comma  1,  lettera  l)».  Al
comma 4, il medesimo art. 155, inoltre, indica i  titoli  abilitativi
richiesti per gli interventi di mutamento di destinazione d'uso - per
la cui assenza sono stabilite le specifiche sanzioni dall'art. 147  -
e li identifica nella «SCIA nel caso di modifica  della  destinazione
d'uso o  per  la  realizzazione  di  attivita'  agrituristiche  o  di
attivita' connesse all'attivita'  agricola,  realizzate  senza  opere
edilizie o nel caso in cui la modifica sia contestuale alle opere  di
cui all'articolo 118, comma 1» (lettera a); nel permesso di costruire
o nella SCIA, «in relazione all'intervento edilizio da effettuare con
opere, al quale e' connessa la  modifica  della  destinazione  d'uso»
(lettera b). 
    L'art. 118, comma 2, lettera  h),  stabilisce,  infine,  che  gli
eventuali mutamenti di attivita' tra le destinazioni d'uso consentite
all'interno delle richiamate tre categorie sono eseguiti senza titolo
abilitativo,  previa  comunicazione  al   Comune   competente   prima
dell'inizio dei lavori o delle attivita'. 
    L'esame  congiunto  delle  normative  -  statale  e  regionale  -
evidenzia con chiarezza che la  normativa  regionale  impugnata,  non
solo non si rivela coerente con le definizioni contenute  nel  d.P.R.
n. 380 del 2001, ma si pone in contrasto con le stesse e quindi con i
principi fondamentali espressi da quest'ultimo. 
    Mentre  il  legislatore  statale   individua   cinque   categorie
funzionali  e  stabilisce  che  il   passaggio   dall'una   all'altra
costituisce  mutamento   di   destinazione   d'uso   urbanisticamente
rilevante, il legislatore regionale umbro ne individua solo tre,  che
risultano dall'accorpamento  di  alcune  di  quelle  individuate  dal
legislatore  statale  (sono  accorpate   nella   medesima   categoria
funzionale  dei   "servizi"   tutte   le   attivita'   «a   carattere
socio-sanitario, direzionale, pubbliche o private atte a supportare i
processi insediativi e produttivi, comprese le attivita' commerciali,
di  somministrazione  di  cibi   e   bevande,   turistico-produttive,
ricreative, sportive e culturali»: art. 7, comma 1, lettera l). 
    Cio' comporta  l'esclusione  della  "rilevanza  urbanistica"  dei
mutamenti di destinazione d'uso  interni  alle  categorie  funzionali
accorpate  e,  quindi,  della   loro   assoggettabilita'   a   titoli
abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con
conseguente incisione  dell'ambito  di  applicazione  delle  sanzioni
previste dal  legislatore  statale  nell'esercizio  della  competenza
esclusiva in  materia  di  «ordinamento  civile  e  penale»,  di  cui
all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 
    Va, pertanto, dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  degli
artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h), della  citata  legge  reg.
Umbria n. 1 del 2015. 
    12.- E' inoltre impugnato l'art. 206, comma 1, della citata legge
regionale, nella parte in cui prevede che per tutti i lavori di nuova
costruzione, di ampliamento e di sopraelevazione e per  i  lavori  di
manutenzione   straordinaria,   di   restauro,   di   risanamento   e
ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, che compromettano
la sicurezza statica della costruzione o riguardino  le  strutture  o
alterino l'entita' e/o la distribuzione dei carichi, effettuati nelle
zone  ad  alta,  media  e  bassa  sismicita',  sia   sufficiente   il
certificato di collaudo statico o una attestazione del direttore  dei
lavori. 
    Tale norma si porrebbe in contrasto con l'art. 62 del  d.P.R.  n.
380 del 2001, che richiede il certificato di  rispondenza  dell'opera
alle norme tecniche per le  costruzioni,  al  fine  di  garantire  la
sicurezza  delle  costruzioni  in  zone  sismiche,  in  armonia   con
l'obiettivo di soddisfare  un'esigenza  unitaria  di  sicurezza,  non
derogabile. 
    12.1.- La questione non e' fondata. 
    La disposizione  regionale  impugnata  stabilisce  che  «[p]er  i
lavori di cui all'articolo 201, comma 1» - e cioe' «tutti i lavori di
nuova costruzione, di ampliamento e di sopraelevazione e i lavori  di
manutenzione  straordinaria,  di  restauro,  di  risanamento   e   di
ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente che  compromettono
la sicurezza statica della costruzione o riguardano  le  strutture  o
alterano l'entita' e/o la  distribuzione  dei  carichi»,  nonche'  le
«varianti sostanziali» ai progetti relativi  ai  predetti  interventi
«nelle Zone 1, 2 e 3 ad alta, media e bassa sismicita',  il  deposito
del certificato di collaudo statico tiene luogo anche del certificato
di rispondenza dell'opera alle  norme  tecniche  per  le  costruzioni
previsto all'articolo 62 del D.P.R. 380/2001». Precisa, inoltre,  che
«[n]egli  interventi  in  cui  il  certificato  di  collaudo  non  e'
richiesto, la rispondenza e' attestata dal direttore dei  lavori  che
provvede al relativo deposito presso la provincia competente». 
    In linea  con  la  costante  giurisprudenza  costituzionale,  «le
disposizioni di leggi regionali  che  intervengono  sulla  disciplina
degli interventi edilizi in zone sismiche  devono  essere  ricondotte
all'ambito materiale del "governo del territorio", nonche'  a  quello
relativo alla "protezione  civile",  per  i  profili  concernenti  la
tutela dell'incolumita' pubblica (in termini la sentenza n.  167  del
2014)» (sentenza n. 60 del 2017). Questa Corte ha anche affermato che
«assumono  la  valenza  di  principio  fondamentale  le  disposizioni
contenute nel TUE che prevedono determinati adempimenti  procedurali,
a condizione che  questi  ultimi  rispondano  ad  esigenze  unitarie,
particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico (in termini la
sentenza n. 282 del 2016, la sentenza n. 300 del 2013 e quella n. 182
del 2006)» (sentenza n. 60 del 2017). 
    Tale affermazione e' assai rilevante nella valutazione  del  caso
in esame, in cui viene in rilievo - come indicato  dal  ricorrente  -
l'art. 62  del  d.P.R.  n.  380  del  2001,  richiamato  dalla  norma
regionale. Questo articolo, al fine di garantire  il  rispetto  delle
norme tecniche  specifiche  per  le  costruzioni  in  zone  sismiche,
stabilite al Capo IV del medesimo d.P.R. n. 380 del  2001,  prescrive
che l'attestazione di agibilita', di cui all'art.  24,  comma  1,  e'
condizionata  «all'esibizione  di  un  certificato   da   rilasciarsi
dall'ufficio  tecnico  della  regione,  che   attesti   la   perfetta
rispondenza dell'opera eseguita alle norme del capo quarto». 
    Tale previsione si inquadra  in  un  contesto  normativo  che  ha
conosciuto varie modifiche, culminate, prima del d.lgs.  n.  222  del
2016, in una sempre piu' puntuale e rigorosa disciplina del  rilascio
del certificato di collaudo statico, di cui al decreto  del  Ministro
delle infrastrutture e dei trasporti 14  gennaio  2008  (Approvazione
delle nuove norme tecniche per le costruzioni),  ora  sostituito  dal
d.m. 17 gennaio 2018 (Aggiornamento  delle  «Norme  tecniche  per  le
costruzioni»). Il collaudo «riguarda il giudizio sul comportamento  e
le prestazioni delle parti dell'opera che svolgono funzioni portanti»
(capitolo  9  del  citato  d.m.  14  gennaio  2008),   giudizio   del
collaudatore che presuppone la verifica, non solo della comunicazione
della data di inizio e fine dei lavori e della previa  autorizzazione
scritta al loro inizio, ma anche, piu' in generale, della rispondenza
della costruzione ai requisiti previsti  in  progetto  e  alle  norme
tecniche, ivi comprese quelle inerenti alle zone sismiche. 
    Il certificato di perfetta rispondenza dell'opera  eseguita  alla
normativa sismica - previsto dall'art. 25 (poi abrogato),  oltre  che
dall'art. 62 del d.P.R. n. 380 del 2001 - doveva essere richiesto dal
committente dei lavori allegandovi la sola copia del  certificato  di
collaudo statico, depositato ai  sensi  della  vigente  normativa  in
materia di edilizia antisismica, attestante, fra l'altro, come si  e'
gia' ricordato, il rispetto delle norme tecniche. 
    Con l'art. 3 del d.lgs. n. 222 del 2016, al fine di realizzare la
«Semplificazione  di  regimi  amministrativi  in  materia  edilizia»,
l'art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001 e'  stato  sostituito  e  si  e'
previsto che, ai fini del rilascio del certificato di agibilita',  e'
sufficiente «il certificato di collaudo statico di  cui  all'articolo
67 ovvero, per gli interventi di cui  al  comma  8-bis  del  medesimo
articolo, dichiarazione di regolare esecuzione resa dal direttore dei
lavori».  Non  e'  piu'  richiesto,  quindi,  il   «certificato   del
competente ufficio tecnico della regione,  di  cui  all'articolo  62,
attestante la conformita' delle opere eseguite  nelle  zone  sismiche
alle disposizioni di cui al capo IV  della  parte  I»,  poiche'  tale
conformita' e' gia' verificata in sede di rilascio del certificato di
collaudo statico. 
    In questa linea si pone anche la modifica del richiamato art.  67
del d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di rilascio  del  certificato  di
collaudo statico. Quest'ultimo, infatti, nel definire le modalita' di
espletamento del collaudo statico, al comma 7,  dopo  aver  stabilito
che « [i]l collaudatore redige, sotto la propria responsabilita',  il
certificato di collaudo in tre copie che invia al competente  ufficio
tecnico regionale e al committente, dandone contestuale comunicazione
allo sportello unico», precisa che «[i]l deposito del certificato  di
collaudo statico equivale al certificato  di  rispondenza  dell'opera
alle norme tecniche per le costruzioni previsto dall'articolo 62». E,
al comma 8-bis, puntualizza che «[p]er gli interventi di  riparazione
e  per  gli  interventi  locali  sulle  costruzioni  esistenti,  come
definiti dalla normativa  tecnica,  il  certificato  di  collaudo  e'
sostituito  dalla  dichiarazione  di  regolare  esecuzione  resa  dal
direttore dei lavori». 
    Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 222 del 2016 alle norme  del
d.P.R.  n.  380  del  2001  hanno,  dunque,  comportato   una   nuova
declinazione del principio  fondamentale  stabilito  dal  legislatore
statale,  in  armonia  con  la   normativa   regionale   oggetto   di
impugnazione,   eliminando   il   contrasto,    nel    segno    della
semplificazione amministrativa. 
    12.1.1.- Su questo snodo interpretativo, che riguarda  una  legge
statale sopravvenuta,  cui  ora  risulta  allineata  la  disposizione
regionale in precedenza impugnata, occorre soffermarsi. 
    Nel verificare  il  rispetto  del  riparto  costituzionale  delle
competenze legislative, assume un rilievo particolare la peculiarita'
della competenza  legislativa  concorrente  prevista  dall'art.  117,
terzo comma, Cost. Quest'ultima e' contraddistinta non da  una  netta
separazione  di  materie,  ma  dal  limite  "mobile"  e  "variabile",
costituito dai principi fondamentali (sentenze n. 50 del 2005 e n. 16
del 2010). Tale limite e' incessantemente modulabile dal  legislatore
statale sulla base di  scelte  discrezionali,  ove  espressive  delle
esigenze unitarie sottese alle varie materie, cui le  Regioni  devono
adeguarsi. 
    La modulazione del principio fondamentale risponde, nel  caso  in
esame, a un'esigenza di semplificazione della materia edilizia,  tale
da non ridurre il livello complessivo di  controllo  in  vista  della
tutela  della  pubblica  incolumita'  e  dell'ordinato  governo   del
territorio. Essa,  dunque,  obbedisce  a  criteri  di  concretezza  e
adattabilita', nel  solco  di  una  precedente  disciplina  (d.m.  14
gennaio 2008) riconducibile a  una  medesima  ratio,  ispirata  dallo
stesso principio fondamentale (sentenza n. 186 del 1990). 
    Il fatto che il nuovo parametro interposto rifletta  esigenze  di
semplificazione in conformita' con la norma regionale precedentemente
censurata e sia coerente con la  ratio  della  previgente  disciplina
statale, impone a questa Corte, di ritenere che la norma impugnata e'
conforme al principio fondamentale espresso dal parametro  interposto
e  di  respingere  conseguentemente   il   dubbio   di   legittimita'
costituzionale proposto. 
    13.- Un'ulteriore questione  di  legittimita'  costituzionale  e'
promossa nei confronti dell'art. 250, comma 1, lettere a), b)  e  c),
in combinato disposto con gli artt. 201 (commi 3 e 4), 202 (comma  1)
e 208 della legge regionale  n.  1  del  2015,  nella  parte  in  cui
consente alla  Giunta  regionale,  con  proprio  atto,  di  sottrarre
tipologie di  interventi  edilizi  all'applicazione  della  normativa
sismica e quindi anche all'autorizzazione sismica di cui al d.P.R. n.
380 del 2001. 
    Le citate disposizioni regionali introdurrebbero una categoria di
interventi  edilizi   ignota   alla   legislazione   statale   e   la
escluderebbero dall'applicazione di  norme  improntate  al  principio
fondamentale della vigilanza assidua sulle  costruzioni  riguardo  al
rischio sismico, con l'effetto di sottrarre indebitamente determinati
interventi edilizi ad ogni forma di vigilanza pubblica. 
    13.1.- La questione e' fondata. 
    Anche in tal caso vengono all'attenzione  disposizioni  regionali
che incidono  sulla  disciplina  degli  interventi  edilizi  in  zone
sismiche e che, quindi, sono riconducibili all'ambito  materiale  del
«governo del territorio» e a quello relativo alla «protezione civile»
per i profili concernenti la tutela dell'incolumita' pubblica, ambiti
nei quali spetta allo Stato fissare i principi  fondamentali.  Questa
Corte  ha  piu'  volte  ribadito  che  «tali  devono   ritenersi   le
disposizioni contenute nel Capo  IV  della  Parte  II  del  TUE,  che
prevedono adempimenti procedurali, quando questi ultimi rispondano  a
esigenze unitarie, particolarmente pregnanti  di  fronte  al  rischio
sismico»   (sentenza   n.   282   del   2016),    come    nel    caso
dell'autorizzazione  sismica,  prevista  dall'art.  94  del  predetto
d.P.R. n. 380 del 2001. 
    Proprio in considerazione  della  necessita'  di  garantire  «una
vigilanza assidua sulle  costruzioni  riguardo  al  rischio  sismico»
(sentenza n. 232 del 2017) sull'intero territorio  nazionale,  questa
Corte ha altresi' precisato che « [e]ventuali deroghe  al  d.P.R.  n.
380 del 2001 per interventi edilizi in zone sismiche  possono  essere
previste solo con disposizioni statali» (sentenza n. 300 del 2013)  e
ha,   pertanto,   dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale   di
disposizioni regionali volte a esentare taluni interventi edilizi  in
zone sismiche dagli adempimenti prescritti  dal  d.P.R.  n.  380  del
2001,  in  difformita'  rispetto  alle  indicazioni  del  legislatore
statale (fra le altre, sentenza n. 300 del 2013). 
    L'art. 250 della legge regionale n.  1  del  2015,  al  comma  1,
lettere a), b) e c), attribuisce alla Giunta regionale il  potere  di
individuare categorie di interventi «privi di rilevanza ai fini della
pubblica incolumita'» (lettera a), «di minore rilevanza ai fini della
pubblica  incolumita'»  (lettera  b),  nonche'  varianti   di   parti
strutturali prive di carattere sostanziale  (lettera  c),  interventi
questi rispetto ai quali si  esclude  o  si  delimita  l'applicazione
delle norme tecniche corrispondenti a quelle  previste  dal  Capo  IV
della Parte II del d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 201, commi 3 e 4,  ed
art. 202, comma 1, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015) e si  detta
una disciplina derogatoria (art. 208 della medesima legge regionale). 
    Risulta, pertanto, evidente che  una  simile  normativa,  poiche'
introduce categorie di interventi edilizi  ignote  alla  legislazione
statale  e  le  esclude  dall'applicazione  di  norme  improntate  al
principio fondamentale  della  vigilanza  assidua  sulle  costruzioni
riguardo al rischio sismico, si pone in contrasto  con  i  richiamati
principi fondamentali fissati dal legislatore statale in  materia  di
«protezione civile» e di «governo del territorio» e  deve,  pertanto,
essere dichiarata costituzionalmente illegittima. 
    14.- Sono, poi, impugnati l'art. 258 e, «in via  consequenziale»,
l'art. 264, comma 13, della legge reg. Umbria  n.  1  del  2015,  per
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), e  terzo  comma,
Cost. 
    Secondo  la  difesa  statale,  la  disciplina   contenuta   nelle
disposizioni censurate sostanzialmente  introdurrebbe  un'ipotesi  di
condono edilizio straordinario, non previsto dalla legge statale,  in
contrasto con i principi  fondamentali  in  materia  di  governo  del
territorio di cui al d.P.R. n.  380  del  2001  (in  particolare  con
l'art. 36) e con le disposizioni statali in  materia  di  ordinamento
civile e penale. 
    14.1.- In linea preliminare, occorre rilevare che sia l'art.  258
che il comma 13 dell'art. 264 della citata legge regionale n.  1  del
2015  -  sebbene  non  siano  oggetto  della  rinuncia  parziale  del
ricorrente e compaiano, anzi, fra le disposizioni rispetto alle quali
il Consiglio dei ministri, nella delibera del 18  dicembre  2017,  ha
dichiarato la permanenza dei  motivi  di  impugnativa  -  sono  stati
espressamente abrogati, rispettivamente, dall'art. 49 e dall'art. 51,
comma 2, della legge regionale n. 13 del 2016. 
    Occorre, pertanto, valutare se sussistano le condizioni  per  una
pronuncia di cessazione della materia del contendere. 
    Secondo l'orientamento costante della  giurisprudenza  di  questa
Corte, «la materia del contendere cessa solo se lo  ius  superveniens
ha carattere satisfattivo delle pretese avanzate con il ricorso e  se
le disposizioni censurate non hanno avuto medio tempore  applicazione
(tra le molte, le sentenze n. 33 e n. 8 del 2017, nonche' le sentenze
n. 263 e n. 147 del 2016)» (sentenza n. 5 del 2018). 
    Nel caso di specie, le norme abrogate sono rimaste in vigore  per
un arco temporale rilevante, dal 29 gennaio 2015 fino al 26  novembre
2016, durante il quale non vi e' alcuna prova  che  non  siano  state
applicate. Tale circostanza, di per se', esclude la cessazione  della
materia del contendere. 
    14.2.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    Le disposizioni regionali impugnate si inseriscono nell'ambito di
una serie di «[n]orme speciali per le aree terremotate» (Capo  V  del
Titolo VIII  della  legge  regionale  in  esame)  e  disciplinano  il
«[r]ecupero urbanistico-edilizio» di «edifici, non conformi, in tutto
o in parte, agli  strumenti  urbanistici,  realizzati  prima  del  31
dicembre 2000 [...], che per effetto della  crisi  sismica  dell'anno
1997 sono stati oggetto di  sgombero  totale»  (art.  258).  Di  tali
edifici si impone  ai  Comuni  che  sia  fatto  il  censimento  e  ai
conduttori di presentare, entro trenta giorni dalla pubblicazione del
censimento, la richiesta ai fini dell'acquisto dell'edificio (commi 1
e 2 dell'art. 258). Si riconosce, inoltre, ai Comuni la possibilita',
entro novanta giorni dal censimento, di  adottare  apposita  variante
allo strumento urbanistico generale, finalizzata al recupero  e  alla
riqualificazione delle aree degli edifici interessati (comma 3),  con
l'ulteriore eventuale possibilita' di modifica entro  il  limite  del
dieci per cento di volumetrie ed altezze  degli  edifici  interessati
(comma  6).  Entro  e  non  oltre  trenta  giorni   dalla   data   di
pubblicazione nel BUR della deliberazione consiliare di  approvazione
della variante, si prescrive, poi, al proprietario o avente titolo di
presentare al  Comune  la  richiesta  per  il  titolo  abilitativo  a
sanatoria,  titolo  che  viene  rilasciato   a   seguito   del   mero
«accertamento  della  conformita'  alle  previsioni  della   variante
approvata ai sensi del presente articolo» (comma 8). 
    Tale ultima previsione si  raccorda,  poi,  con  quanto  previsto
dall'art. 264, intitolato «Norme transitorie  generali  e  finali  in
materia edilizia, urbanistica e finanziaria», la' dove, al comma  13,
dispone che «I titoli abilitativi relativi alle  istanze  di  condono
edilizio  sono  rilasciati  previa  acquisizione   dei   pareri   per
interventi nelle aree sottoposte a vincolo imposti da leggi statali e
regionali  vigenti  al  momento  della  presentazione  delle  istanze
medesime [...]». 
    La disposizione  appena  richiamata  rivela  come  la  disciplina
dettata dall'impugnato art. 258, nella parte in  cui  mira  a  sanare
opere non conformi, in tutto o in parte, agli strumenti  urbanistici,
finisca per introdurre un condono edilizio straordinario. Si  tratta,
infatti, di una fattispecie  non  riconducibile  all'accertamento  di
conformita' di cui all'art. 36  del  d.P.R.  n.  380  del  2001,  che
prescrive, ai  fini  del  rilascio  del  permesso  in  sanatoria  per
interventi edilizi realizzati in assenza di titolo o  in  difformita'
da  esso,  l'accertamento  della  conformita'   degli   stessi   alla
disciplina urbanistica ed  edilizia  vigente  sia  al  momento  della
realizzazione degli stessi, sia al momento della presentazione  della
domanda. L'art. 258 della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 ha, invece,
a  oggetto  edifici  «realizzati  prima   del   31   dicembre   2000»
espressamente riconosciuti come «non conformi, in tutto o  in  parte,
agli strumenti urbanistici» (comma 1) vigenti al momento  della  loro
realizzazione, e  dispone  che,  ai  fini  del  rilascio  del  titolo
abilitativo  in  sanatoria,  e'  sufficiente  l'«accertamento   della
conformita' alle previsioni della variante  approvata  ai  sensi  del
presente articolo» (comma 8). 
    Questa Corte, anche  di  recente,  ha  precisato  che  l'istituto
dell'accertamento  di  conformita',  espressione  di  un   «principio
fondamentale  nella  materia  governo  del  territorio»  (da  ultimo,
sentenza n. 107 del 2017), «si distingue  dal  condono  edilizio,  in
quanto "fa riferimento alla possibilita' di sanare opere che, sebbene
sostanzialmente conformi alla  disciplina  urbanistica  ed  edilizia,
sono state realizzate  in  assenza  del  titolo  stesso,  ovvero  con
varianti essenziali", laddove il condono edilizio "ha  quale  effetto
la sanatoria non solo formale  ma  anche  sostanziale  dell'abuso,  a
prescindere dalla conformita' delle opere realizzate alla  disciplina
urbanistica ed edilizia" (sentenza n. 50 del 2017)» (sentenza n.  232
del 2017). L'accertamento di conformita' e', infatti, «finalizzato  a
garantire  l'assoluto  rispetto  della  disciplina   urbanistica   ed
edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione
dell'opera  e  la  presentazione  dell'istanza  volta   ad   ottenere
l'accertamento di conformita'» (sentenza n. 101 del 2013). 
    Quanto alla possibilita' per le Regioni di introdurre un  condono
extra ordinem, questa Corte l'ha costantemente esclusa  (di  recente,
sentenze n. 232 e n. 73 del 2017; fra le altre, sentenza n.  233  del
2015), anche alla luce delle caratteristiche del condono. Da tempo si
e', a tal proposito, osservato che «[i]l  condono  edilizio  di  tipo
straordinario, quale finora configurato  nella  nostra  legislazione,
appare essenzialmente caratterizzato dalla volonta'  dello  Stato  di
intervenire in via straordinaria  sul  piano  della  esenzione  dalla
sanzionabilita' penale nei riguardi dei soggetti che, avendo posto in
essere  determinate  tipologie  di  abusi  edilizi,  ne  chiedano  il
condono» (sentenza n. 196  del  2004).  E  cio'  sulla  base  di  una
delicata valutazione, che non puo' che essere operata dal legislatore
statale, in quanto volta a realizzare, in via del tutto  eccezionale,
un «contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio,  della
cultura, della salute, della  conformita'  dell'iniziativa  economica
privata all'utilita' sociale, della funzione sociale della proprieta'
da una parte, e quelli, pure  di  fondamentale  rilevanza  sul  piano
della  dignita'  umana,  dell'abitazione  e  del  lavoro,  dall'altra
(sentenze n. 302 del 1996 e n. 427 del 1995)» (sentenza  n.  196  del
2004), che giunge fino all'esclusione della sanzionabilita' penale di
alcune condotte. Ne consegue che non solo «spettano alla legislazione
statale, oltre ai profili  penalistici  (integralmente  sottratti  al
legislatore regionale: sentenze n. 49 del 2006, n. 70 del 2005  e  n.
196 del 2004), le scelte di principio sul  versante  della  sanatoria
amministrativa, in particolare quelle relative all'an, al quando e al
quantum» (sentenza n. 73 del 2017),  ma  che  «esula  dalla  potesta'
legislativa  regionale  il  potere  di  disporre  autonomamente   una
sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale (sentenza n.
233 del 2015)» (sentenza n. 73 del 2017). 
    Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 258  e  del  connesso  art.  264,  comma  13,  della  legge
regionale n. 1 del  2015,  in  quanto  disciplinano  una  ipotesi  di
condono edilizio straordinario, da cui discende la  cessazione  degli
effetti penali dell'abuso,  non  previsto  dalla  legge  statale,  in
contrasto con i principi  fondamentali  in  materia  di  governo  del
territorio di cui al d.P.R. n.  380  del  2001  (in  particolare  con
l'art. 36) e con conseguente  invasione  della  sfera  di  competenza
esclusiva statale in materia di ordinamento civile e penale. 
    15.- Il Presidente del Consiglio dei  ministri  impugna,  infine,
l'art. 264, commi 14 e 16, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015. 
    In particolare, il comma 14  e'  censurato  nella  parte  in  cui
autorizza gli interventi edilizi, riguardanti  l'area  di  pertinenza
degli edifici dell'impresa  agricola,  esistenti  alla  data  del  30
giugno 2014 e che risultino conformi alla disciplina  urbanistica  ed
edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in  contrasto  con
quelli adottati alla stessa data, in quanto configurerebbe una nuova,
non consentita ipotesi  di  condono  edilizio,  in  contrasto  con  i
principi fondamentali in materia di governo del territorio. 
    Il comma 16, invece, e' impugnato nella parte in cui  attribuisce
alla semplice domanda di concessione di piccola derivazione di  acqua
pubblica  valore  di  autorizzazione  all'attingimento,   in   quanto
estenderebbe  l'istituto   del   silenzio-assenso   al   procedimento
concessorio, in palese violazione dell'art. 17, comma  1,  del  regio
decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni  di
legge sulle acque e impianti elettrici),  con  conseguente  invasione
della sfera di competenza esclusiva dello Stato in materia di  tutela
dell'ambiente. 
    15.1.- Preliminarmente, occorre dar conto della  circostanza  che
anche gli artt. 258 e 264, commi 14 e 16 - non  oggetto  di  rinuncia
parziale ed anzi  compresi  fra  le  disposizioni  per  le  quali  il
Consiglio dei ministri ha dichiarato la permanenza  dell'interesse  a
ricorrere nella delibera del 18 dicembre 2017  -  sono  stati  incisi
dall'art. 51, commi 2 e 3, della legge regionale n. 13 del  2016.  In
particolare, il comma 14 e' stato abrogato, laddove il  comma  16  e'
stato modificato in senso satisfattivo delle pretese avanzate con  il
ricorso, in quanto non e' piu' attribuito alla domanda di concessione
di piccola derivazione di acqua  pubblica  valore  di  autorizzazione
all'attingimento, ma  solo  quello  di  richiesta  di  autorizzazione
provvisoria annuale all'attingimento. 
    Considerato, tuttavia, che le norme  impugnate  sono  rimaste  in
vigore per un arco temporale rilevante, dal 29 gennaio 2015  fino  al
26 novembre 2016, durante il quale non vi e'  alcuna  prova  che  non
siano state applicate, deve, in linea con la costante  giurisprudenza
costituzionale,  escludersi   la   cessazione   della   materia   del
contendere. 
    15.2.- La questione promossa nei confronti del comma 14 dell'art.
264 e' fondata. 
    La citata disposizione stabilisce che «[g]li interventi  edilizi,
limitatamente a quelli riguardanti l'area di pertinenza degli edifici
dell'impresa  agricola,  compresa  la   realizzazione   delle   opere
pertinenziali, nonche' le opere senza  strutture  fondali  fisse  per
l'attivita' zootecnica di cui all'articolo 17, comma  1,  lettera  d)
delle norme regolamentari, esistenti alla data del 30 giugno  2014  e
che risultino conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia,  agli
strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli  adottati
alla  stessa  data  sono  autorizzati  con  la   procedura   prevista
all'articolo 154, commi 2, 3, 6, e 7, ferma  restando  l'applicazione
delle eventuali sanzioni penali [...]». 
    Si tratta, in altri termini, della previsione  del  rilascio  del
permesso in sanatoria relativo a  interventi  riguardanti  l'area  di
pertinenza degli edifici dell'impresa agricola, gia'  esistenti  alla
data del 30 giugno 2014,  realizzati  in  assenza  del  titolo.  Tale
sanatoria viene condizionata all'accertamento della  conformita'  dei
predetti interventi alla disciplina urbanistica ed  edilizia  e  agli
strumenti urbanistici vigenti al momento della  domanda,  nonche'  al
non contrasto con quelli adottati alla data del 30 giugno 2014,  data
nella  quale  i  predetti  interventi  erano  gia'  esistenti,   come
espressamente indicato nella stessa norma. 
    Una simile previsione contrasta apertamente  con  l'art.  36  del
d.P.R. n. 380 del 2001 che, come si e' gia' ricordato (v. supra punto
14.2), disciplina l'accertamento di conformita' per il  rilascio  del
titolo  abilitativo  in   sanatoria,   subordinandolo   alla   doppia
conformita' degli interventi realizzati con la disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione degli  stessi,
che a quello della presentazione della domanda, in linea con  la  sua
funzione, che e'  quella  «di  garantire  l'assoluto  rispetto  della
disciplina urbanistica ed edilizia  durante  tutto  l'arco  temporale
compreso  tra  la  realizzazione  dell'opera   e   la   presentazione
dell'istanza  volta  ad  ottenere  l'accertamento   di   conformita'»
(sentenza n. 101 del 2013). 
    Nel caso di specie, si configura un'ipotesi di condono  edilizio,
che ha  «quale  effetto  la  sanatoria  non  solo  formale  ma  anche
sostanziale dell'abuso, a prescindere dalla conformita'  delle  opere
realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia  (sentenza  n.  50
del 2017)» (sentenza n. 232 del 2017), in contrasto con il  principio
fondamentale dell'accertamento di doppia conformita' di cui al citato
art. 36 del d.P.R n. 380 del 2001. 
    15.3.- Anche la questione che ha ad oggetto il comma 16 dell'art.
264 e' fondata. 
    La  disciplina  delle  derivazioni  d'acqua  pubblica   per   usi
idroelettrici trova ancora oggi la sua base  normativa  nel  r.d.  n.
1775 del 1933, originariamente emanato per rispondere  alle  esigenze
di regolamentazione dell'utilizzazione  delle  acque  ai  fini  della
produzione di energia elettrica, in corrispondenza della  prima  fase
di  sviluppo  della  produzione  industriale.   Successivamente,   al
predetto  testo  sono  state   apportate   numerose   modifiche,   in
particolare ad opera del decreto legislativo 3 aprile  2006,  n.  152
(Norme in materia ambientale), nel segno della necessita' di tutelare
le  acque  pubbliche,  sia   sotto   l'aspetto   ambientale   (tutela
dall'inquinamento), che sotto l'aspetto della  tutela  dell'acqua  in
se', in quanto risorsa limitata. 
    Nella regolamentazione delle derivazioni di  acqua  pubblica,  in
altri termini, da un  lato,  viene  in  rilievo  la  circostanza  che
l'utilizzo eccezionale ed esclusivo di  un  bene  demaniale  qual  e'
l'acqua, la cui titolarita' e' dello Stato, e' oggetto di concessione
(articolo 822 del codice civile; articolo 144 del d.lgs. n.  152  del
2006); dall'altro, vengono in rilievo i  valori  ambientali,  la  cui
tutela, che puo' giustificare  limitazioni  al  prelievo  idrico,  e'
affidata alla potesta' legislativa statale esclusiva. Infine viene in
rilievo la  potesta'  legislativa  concorrente  nella  materia  della
«produzione,  trasporto  e  distribuzione  nazionale   dell'energia»,
rispetto  alla  quale  spetta   allo   Stato   dettare   i   principi
fondamentali. 
    E' in questo contesto normativo che deve essere letto  l'art.  17
del citato r.d. n. 1775 del 1933, che vieta di derivare o  utilizzare
acqua pubblica senza un  provvedimento  autorizzativo  o  concessorio
dell'autorita' competente  (comma  1),  in  vista  dell'obiettivo  di
garantire la tutela dell'ambiente e di assicurare, al  tempo  stesso,
un uso corretto e misurato  dell'acqua  pubblica,  preordinato  anche
alla produzione di energia. 
    La norma regionale in esame, nella  parte  in  cui  qualifica  la
domanda di concessione ordinaria di piccola derivazione d'acqua quale
«autorizzazione annuale all'attingimento»,  consentendo  cosi'  l'uso
dell'acqua  pubblica  sotterranea  dai  pozzi,  in  assenza   di   un
provvedimento di autorizzazione o concessione  e  quindi  in  assenza
della verifica  delle  condizioni  atte  a  consentirlo,  «fino  alla
conclusione  del  procedimento  di  concessione  senza   obbligo   di
ulteriori formalita'  o  istanze»,  invade  la  sfera  di  competenza
esclusiva statale in materia di tutela  dell'ambiente,  riducendo  il
livello di protezione fissato dalla legge statale nel citato art. 17.
Le previsioni di quest'ultimo sono tali da indicare sia  standard  di
tutela  dell'ambiente  sia  principi  fondamentali  in   materia   di
«produzione, trasporto e distribuzione  nazionale  dell'energia»  che
s'impongono al legislatore regionale. 
    15.4. - Va, pertanto, dichiarata l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 264, commi 14 e 16, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015.