ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  degli  artt.  204  e
205, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica  30  maggio
2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo  A)»,  promosso
dal Giudice per le indagini preliminari del  Tribunale  ordinario  di
Venezia, nel procedimento penale a carico di  X.  J.  e  Z.  J.,  con
ordinanza del  3  luglio  2017,  iscritta  al  n.  165  del  registro
ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 5 dicembre  2018  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 3 luglio 2017 il Giudice  per  le  indagini
preliminari  del  Tribunale  ordinario  di  Venezia  -  premesso  che
l'ufficio recupero crediti aveva richiesto che il dispositivo  di  un
decreto penale di condanna per i delitti di cui agli artt. 334 e  349
del codice penale, divenuto definitivo  perche'  non  opposto,  fosse
integrato, ai sensi dell'art. 130 del codice di procedura penale, con
la pronuncia di condanna al pagamento delle spese di custodia  di  un
autocarro sequestrato agli imputati e poi restituito  alla  legittima
proprietaria senza che quest'ultima fosse gravata di tali spese -  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 205, comma 1, del  decreto  del
Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n.  115,  recante  «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  di
spese di giustizia (Testo A)», nella parte  in  cui  dispone  che  le
spese del processo  penale  anticipate  dall'erario  sono  recuperate
nella  misura  fissa  stabilita  con  decreto  del   Ministro   della
giustizia, e dell'art. 204 dello stesso d.P.R., nella  parte  in  cui
dispone che nel caso di decreto ai sensi dell'art. 460 del codice  di
procedura penale si procede al recupero delle spese per  la  custodia
dei beni sequestrati. 
    Secondo il rimettente, tali disposizioni darebbero  luogo  a  una
irragionevole disparita' di trattamento ponendo  il  pagamento  delle
spese per la custodia dei beni sequestrati a carico dei soli imputati
condannati che abbiano optato per il procedimento per decreto  (oltre
che per l'applicazione della pena su richiesta delle  parti,  ipotesi
parimenti contemplata dall'art. 204, ma non  rilevante  nel  caso  in
esame), lasciando esenti da  tale  obbligo  gli  imputati  condannati
all'esito di giudizi celebrati con rito ordinario o  con  altri  riti
alternativi. 
    In premessa il rimettente osserva che le spese  di  custodia  dei
veicoli e, in genere, dei beni in  sequestro,  rientrano  nell'ambito
delle spese processuali, come si desume sia dall'art. 535 cod.  proc.
pen., che distingue dalle spese processuali solo quelle  relative  al
mantenimento  del  condannato  durante  la  custodia  cautelare,  sia
dall'art. 150, comma 2, del d.P.R. n. 115  del  2002,  ai  sensi  del
quale «[l]a restituzione e' concessa a  condizione  che  prima  siano
pagate le spese  per  la  custodia  e  la  conservazione  delle  cose
sequestrate». Tali disposizioni, inoltre, rivelerebbero  la  volonta'
del legislatore di collegare l'obbligo del pagamento all'accertamento
della  responsabilita'  penale  dell'imputato,   come,   del   resto,
affermato dalla giurisprudenza di legittimita', che ha  chiarito,  in
particolare, che il  presupposto  necessario  e  sufficiente  perche'
sussista  l'obbligo  di  pagamento  delle  spese  processuali  e'  la
pronuncia di una sentenza di condanna (Corte di  cassazione,  sezione
prima penale, 16 marzo 2016-21 novembre 2016, n. 49280). 
    In particolare, il rimettente, nel ricordare che il d.P.R. n. 115
del 2002 che disciplina la materia e' un testo  unico  costituito  da
norme di natura legislativa e  regolamentare  e  che  l'art.  204  ha
natura   regolamentare,   esclude   la   possibilita'   di   ritenere
inapplicabile la disposizione  per  effetto  della  prevalenza  della
fonte primaria costituita dall'art. 460, comma 5,  cod.  proc.  pen.,
che prevede che «[i]l decreto penale  di  condanna  non  comporta  la
condanna al pagamento delle spese del  procedimento».  Cio'  in  base
alla considerazione secondo cui l'art. 205  del  d.P.R.  n.  115  del
2002, disposizione primaria, nel rinviare a un  decreto  ministeriale
per la determinazione delle spese  processuali  soggette  a  recupero
«non puo' non avere richiamato, implicitamente ma chiaramente,  anche
la norma regolamentare del precedente art. 204». Del resto,  aggiunge
il  giudice  rimettente,  la  gia'   richiamata   giurisprudenza   di
legittimita' si e' espressa in tal senso, affermando che, in caso  di
decreto di condanna, l'obbligo al pagamento delle spese di custodia e
conservazione dei beni sequestrati discende direttamente dalla legge,
in base al combinato disposto degli artt. 204 e 150 del d.P.R. n. 115
del 2002. 
    Cio'  posto,  il  giudice  rimettente  denuncia   la   violazione
dell'art. 3 Cost. in quanto, ai sensi delle  disposizioni  censurate,
«l'imputato condannato all'esito del giudizio ordinario  o  all'esito
del giudizio abbreviato non e' tenuto al  pagamento  delle  spese  di
custodia  e  conservazione  dei  beni  in  sequestro,  che  non  sono
ricomprese tra quelle che per  legge  devono  essere  recuperate  per
intero, mentre chi riporta sentenza di applicazione [della] pena, nel
limite di anni  due  di  pena  detentiva  soli  o  congiunti  a  pena
pecuniaria, o decreto penale di condanna, esentati rispettivamente ex
art. 445, comma 1, e art. 460, comma 5, dal pagamento delle spese del
procedimento - che non devono  dunque  pagare  nemmeno  nella  misura
forfettaria stabilita dal decreto ministeriale - devono pero'  pagare
le spese di custodia e conservazione del bene». 
    Quanto alla rilevanza delle questioni  di  costituzionalita',  il
rimettente osserva che la possibilita' di rigettare la  richiesta  di
integrazione del decreto di condanna inoltrata dall'ufficio  recupero
crediti   potrebbe   discendere   solo   dalla    dichiarazione    di
illegittimita' costituzionale delle disposizioni censurate. 
    2.- Con atto depositato il 12 dicembre  2017  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque,  manifestamente
infondate. 
    In punto di ammissibilita', l'Avvocatura dello Stato sostiene che
il giudice a quo «non indica chiaramente le norme  su  cui  fonda  le
censure  ne'  esprime  con  precisione  quali  disposizioni   trovino
applicazione nel giudizio sottoposto al suo vaglio». In  particolare,
secondo l'Avvocatura, il rimettente ha censurato gli artt. 205 e  204
del d.P.R. n. 115  del  2002  assumendo  che  il  primo  richiami  il
secondo, non considerando, invece, che, il collegamento va  ricercato
tra gli artt. 204 e 150 del citato d.P.R., dal cui combinato disposto
scaturisce l'obbligo di pagare le spese di conservazione  e  custodia
dei beni sequestrati in caso di sentenza e di decreto ai sensi  degli
artt.  445  e  460  cod.  proc.  pen.  Tale  carenza   dell'ordinanza
precluderebbe  a  questa  Corte  la  possibilita'  di  esercitare  un
controllo sulla rilevanza delle questioni. 
    Nel merito, l'Avvocatura sostiene, comunque,  la  non  fondatezza
delle questioni sollevate dissentendo dal presupposto  interpretativo
da cui muove  il  rimettente.  Dopo  aver  ricordato  il  consolidato
orientamento  della  giurisprudenza  di  legittimita'   secondo   cui
l'esenzione dal pagamento delle spese processuali prevista dal codice
di procedura penale nei casi di pena patteggiata e di decreto  penale
di condanna va riferita alle spese processuali in senso stretto e non
si estende alle spese di custodia  dei  beni  sequestrati  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, 26 aprile 2007-21 maggio  2007,  n.
19687), l'Avvocatura dello Stato evidenzia che, in  realta',  nessuna
disposizione normativa prevede  l'esenzione  dal  pagamento  di  tali
spese per il condannato all'esito di un giudizio ordinario o speciale
diverso dal patteggiamento e dal decreto penale. Dunque, non sussiste
alcuna disparita' di trattamento. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 3 luglio 2017 il Giudice  per  le  indagini
preliminari  del  Tribunale  ordinario  di   Venezia   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 205, comma 1, del  decreto  del
Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n.  115,  recante  «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  di
spese di giustizia (Testo A)», nella parte  in  cui  dispone  che  le
spese del processo penale anticipate dall'erario sono recuperate  nei
confronti di ciascun condannato  nella  misura  fissa  stabilita  con
decreto del Ministro della giustizia, e dell'art.  204  dello  stesso
d.P.R., nella parte in cui  prevede  che,  nel  caso  di  decreto  di
condanna emesso ai  sensi  dell'art.  460  del  codice  di  procedura
penale, si procede al recupero delle spese per la custodia  dei  beni
sequestrati. 
    Assume il giudice rimettente che tali disposizioni violano l'art.
3  della  Costituzione  sotto  il   profilo   della   disparita'   di
trattamento, in quanto «l'imputato condannato all'esito del  giudizio
ordinario o all'esito  del  giudizio  abbreviato  non  e'  tenuto  al
pagamento delle  spese  di  custodia  e  conservazione  dei  beni  in
sequestro, che non sono ricomprese tra quelle che  per  legge  devono
essere recuperate per intero, mentre [coloro che riportano]  sentenza
di applicazione  [della]  pena,  nel  limite  di  anni  due  di  pena
detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria,  o  decreto  penale  di
condanna, esentati rispettivamente ex art. 445, comma 1, e art.  460,
comma 5, [cod. proc. pen.] dal pagamento delle spese del procedimento
- che non devono  dunque  pagare  nemmeno  nella  misura  forfettaria
stabilita dal decreto ministeriale - devono pero' pagare le spese  di
custodia e conservazione del bene». 
    2.-  Preliminarmente  non  puo'  essere  accolta  l'eccezione  di
inammissibilita' sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    Il giudice  rimettente  e'  chiamato  a  rettificare  il  decreto
penale, non opposto, integrandolo con la condanna degli  imputati  al
pagamento delle  spese  di  custodia  e  conservazione  del  bene  in
sequestro; rettifica consentita in generale  a  norma  dell'art.  130
cod. proc. pen. con riferimento alla sentenza  di  condanna  che  non
abbia provveduto circa le spese (art. 535, comma 4, cod. proc.  pen.)
e plausibilmente ritenuta, dal giudice  rimettente,  possibile  anche
per integrare il decreto di condanna divenuto definitivo (cosi'  come
si e' affermato in giurisprudenza in caso di  omessa  statuizione  in
ordine alle spese di custodia dei beni sequestrati nella sentenza  di
applicazione della pena su richiesta: Corte  di  cassazione,  sezione
terza penale, 31 marzo 2016-7 luglio 2016, n. 28239). A tal  fine  il
giudice deve  fare  applicazione  delle  disposizioni  censurate  che
disciplinano il recupero delle spese processuali, sicche' e' di tutta
evidenza la rilevanza dei dubbi di  legittimita'  costituzionale  che
investono  tale  normativa  in  ragione  della  dedotta  e   asserita
disparita' di trattamento rispetto alla fattispecie della sentenza di
condanna, la quale invece -  assume  il  rimettente  -  non  potrebbe
contenere analoga condanna dell'imputato al pagamento delle spese  di
custodia e conservazione dei beni in sequestro. 
    Ne' l'ammissibilita' delle questioni puo' ritenersi  revocata  in
dubbio - come sostiene  l'Avvocatura  generale  -  per  non  aver  il
giudice rimettente compreso nella normativa  censurata  anche  l'art.
150 del  d.P.R.  n.  115  del  2002,  atteso  che  tale  disposizione
disciplina la restituzione dei beni sequestrati e  non  attiene  alla
possibilita', o no, di  condanna  dell'imputato  al  pagamento  delle
stesse;  sicche'  non  incide  sulla  rilevanza  delle  questioni  di
costituzionalita', ma appartiene solo al complessivo quadro normativo
di riferimento. 
    3.- Le questioni  sono  ammissibili  anche  nella  parte  in  cui
investono, in particolare, l'art. 204 del d.P.R. n. 115 del 2002.  E'
vero che tale disposizione - contenuta in un testo  unico  cosiddetto
"misto", quale il citato d.P.R., che raccoglie disposizioni normative
sia primarie che subprimarie - ha origine in una norma  regolamentare
e conserva  tale  natura.  Ma  il  suo  contenuto  fa  corpo  con  il
successivo art. 205, recante una  norma  di  rango  primario,  e  nel
complesso le due disposizioni disciplinano congiuntamente aspetti del
recupero delle spese processuali. 
    Questa Corte ha piu' volte affermato che «ove la regolamentazione
censurata di illegittimita' costituzionale sia  rappresentata,  nella
sostanza, dal combinato disposto di  una  norma  primaria  e  di  una
subprimaria e se la prima "risulta in concreto applicabile attraverso
le specificazioni formulate nella fonte secondaria", e' possibile  il
sindacato di costituzionalita' sulla norma primaria tenendo conto che
quella subprimaria ne costituisce  un  "completamento  del  contenuto
prescrittivo"» (sentenza n. 200 del 2018). 
    Anche nella fattispecie in esame sussiste questo nesso stretto di
specificazione qualificata che lega la norma primaria  (art.  205)  e
quella  subprimaria  (art.  204)  perche'  entrambe  le  disposizioni
censurate concorrono  a  disciplinare  il  recupero  delle  spese  di
giustizia in ordine al quale il  giudice  rimettente  e'  chiamato  a
pronunciarsi. 
    4.- Nel merito le questioni non  sono  fondate  nei  termini  che
seguono. 
    5.- La regolamentazione delle spese di giustizia fa perno innanzi
tutto sulla disposizione contenuta nel comma  1  dell'art.  535  cod.
proc. pen., secondo cui «[l]a sentenza di condanna pone a carico  del
condannato il pagamento delle spese processuali»; norma questa che  -
novellata dall'art. 67, comma 2, lettera a), della  legge  18  giugno
2009,  n.  69   (Disposizioni   per   lo   sviluppo   economico,   la
semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia  di  processo
civile), che ha  soppresso  le  parole  «relative  ai  reati  cui  la
condanna si riferisce», cosi' ampliandone la portata  -  esprime  una
regola affatto generale secondo cui in ogni caso sul condannato grava
anche l'obbligo di pagare le spese processuali  che  sono  anticipate
dallo Stato (ai sensi dell'art. 4 del d.P.R. n. 115 del 2002). 
    A  questa  regola,  apporta  un'eccezione,  con  riferimento   al
procedimento per decreto, il comma 5 dell'art. 460 cod. proc. pen.  -
come sostituito dall'art. 37, comma 2, lettera  b),  della  legge  16
dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni  sul  procedimento
davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al
codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e
all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia  di  contenzioso
civile pendente, di indennita' spettanti al  giudice  di  pace  e  di
esercizio  della  professione  forense)  -  prevedendo,   in   chiave
incentivante di questo rito speciale  che  «[i]l  decreto  penale  di
condanna non comporta  la  condanna  al  pagamento  delle  spese  del
procedimento». Invece nella sua formulazione originaria  il  comma  2
della stessa disposizione prevedeva che «[c]on il decreto di condanna
il  giudice  [...]  pone  a  carico  del  condannato  le  spese   del
procedimento», cosi' inizialmente allineandosi alla  regola  generale
del richiamato art. 535, comma 1. 
    Analoga eccezione e' apportata dall'art. 445, comma 1, cod. proc.
pen.  per  l'ipotesi  di  applicazione  della   pena   su   richiesta
(cosiddetto patteggiamento), prevedendo che la sentenza «non comporta
la condanna al pagamento delle spese del procedimento». 
    Si tratta, in entrambe le ipotesi, di un  regime  di  favore  (di
tipo  «premiale»:  sentenza  n.   219   del   2004)   -   della   cui
giustificatezza il giudice  rimettente  non  dubita  -  previsto  per
questi  due  procedimenti  speciali,  semplificati  e   rapidi,   che
consentono di perseguire finalita'  acceleratorie  e  deflattive  del
processo penale. 
    Tale deroga di favore trova pero', a sua volta,  una  limitazione
nel censurato art. 204 che, al comma  3,  prevede  che  nel  caso  di
sentenza di applicazione della pena su richiesta (ai sensi dell'artt.
445 cod. proc. pen.) e di decreto di condanna (ai sensi dell'art. 460
cod. proc. pen.) si procede al recupero delle spese per  la  custodia
dei beni sequestrati. 
    Pertanto, si ha che, a fronte della regola generale per cui tutti
i condannati sono tenuti  al  pagamento  delle  spese  processuali  e
quindi sono obbligati anche al pagamento delle spese di custodia  dei
beni sequestrati, espressamente indicate dall'art. 5  del  d.P.R.  n.
115 del 2002 tra le spese ripetibili, vi e' un regime derogatorio  di
favore previsto per i condannati con decreto penale (o a  seguito  di
applicazione  della  pena  su  richiesta)  che  sono  esonerati   dal
pagamento delle spese del procedimento, ma non anche di quelle per la
custodia dei beni sequestrati. 
    Questa regolamentazione si completa con l'art. 150, comma 2,  del
d.P.R. n. 115 del 2002 che prevede che la restituzione e' concessa  a
condizione che prima siano pagate le  spese  per  la  custodia  e  la
conservazione  delle  cose  sequestrate,  salvo   che   siano   stati
pronunciati provvedimento di archiviazione, sentenza di non  luogo  a
procedere  o  sentenza  di  proscioglimento  ovvero   che   le   cose
sequestrate appartengano a persona diversa  dall'imputato  o  che  il
decreto di sequestro sia stato revocato. 
    6.-  Il  presupposto  interpretativo  da  cui  muove  il  giudice
rimettente  per  fondare  le  sollevate  questioni  di   legittimita'
costituzionale riguarda la quantificazione delle spese processuali. 
    Originariamente - secondo l'iniziale formulazione  dell'art.  205
del d.P.R. n. 115 del 2002 - le spese  processuali  erano  recuperate
per intero, ad eccezione dei diritti e delle indennita' di  trasferta
spettanti all'ufficiale giudiziario e delle spese di  spedizione  per
la notificazione degli atti  a  richiesta  dell'ufficio,  che  invece
erano  recuperati  nella  misura  fissa  stabilita  con  decreto  del
Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con  il  Ministro
della  giustizia.  Quindi,  le  spese  per  la  custodia   dei   beni
sequestrati, non rientrando tra quelle recuperate  in  misura  fissa,
erano  liquidate  per  intero,  sia  allorche'  poste  a  carico  "in
generale" del condannato (ai sensi dell'art. 535, comma 1, cod. proc.
pen.), sia quando anche il condannato per decreto ex  art.  460  cod.
proc. pen. (o a seguito di applicazione della pena  su  richiesta  ex
art. 445 cod. proc. pen.) ne era obbligato al pagamento. 
    Sotto questo profilo specifico, la  disciplina  di  queste  spese
(quelle di custodia dei beni sequestrati)  allineava,  parificandole,
la  situazione  ordinaria  del  condannato,  in  generale  tenuto  al
pagamento delle  spese  processuali,  e  quella  del  condannato  per
decreto (o a seguito di patteggiamento) che invece, come  trattamento
di favore, non era tenuto, per il resto,  al  pagamento  delle  spese
stesse; cio' secondo una scelta discrezionale del legislatore:  anche
se «[n]essuna norma della Costituzione  impone  [...]  che  lo  Stato
esiga dal condannato il rimborso  delle  spese  del  processo  penale
[...], quella delle spese  processuali  e'  materia  nella  quale  il
legislatore, salvo il limite della ragionevolezza,  e'  dotato  della
piu' ampia discrezionalita'» (sentenza n. 98 del 1998). 
    Il citato art. 205, pero', e' stato novellato dall'art. 67, comma
3, lettera e), numero 2), della legge n. 69 del 2009, che ha previsto
che  le  spese  del  processo  penale  anticipate  dall'erario   sono
recuperate nei confronti di  ciascun  condannato,  senza  vincolo  di
solidarieta', nella misura fissa stabilita con decreto  del  Ministro
della giustizia, di concerto con il Ministro  dell'economia  e  delle
finanze.  Sono,  invece,  recuperate  per  intero  le  spese  per  la
consulenza tecnica e per  la  perizia,  per  la  pubblicazione  della
sentenza penale di condanna, per la demolizione di  opere  abusive  e
per la riduzione in pristino dei luoghi, nonche' quelle relative alle
prestazioni previste dall'art. 96 del decreto legislativo  1º  agosto
2003, n. 259 (Codice  delle  comunicazioni  elettroniche),  e  quelle
funzionali all'utilizzo delle prestazioni medesime. 
    Questa nuova  regolamentazione  ha  poi  trovato  attuazione  nel
decreto  del  Ministro  della  giustizia  10  giugno  2014,  n.   124
(Regolamento recante disposizioni in materia di recupero delle  spese
del processo penale),  che  ha  previsto  distintamente  il  recupero
forfettizzato e quello per intero o per quota. In particolare, l'art.
1  ha  prescritto  che  le  spese  del  processo  penale   anticipate
dall'erario  sono  recuperate  nella  misura  fissa  stabilita  nella
«Tabella A» allegata allo stesso decreto. L'art. 2 ha  stabilito  che
le spese del processo penale anticipate dall'erario per la consulenza
tecnica e per la perizia, per la pubblicazione della sentenza  penale
di condanna e per la demolizione di opere abusive e la  riduzione  in
pristino dei luoghi, di cui all'art. 205, comma  2,  ultimo  periodo,
del d.P.R. n. 115 del 2002, sono recuperate dal condannato nella loro
interezza. 
    7.- La criticita', evidenziata dal giudice rimettente e assunta a
presupposto interpretativo delle sollevate questioni di  legittimita'
costituzionale, sorge proprio  a  seguito  della  nuova  formulazione
dell'art. 205, perche' da  una  parte  il  recupero  delle  spese  di
custodia dei beni sequestrati non  e'  espressamente  previsto  nella
Tabella A del d.m. n. 124 del 2014, si' da non risultare  determinato
in modo forfettario secondo il  criterio  dell'art.  1  dello  stesso
decreto (come gia' in passato nella precedente formulazione dell'art.
205);  ma  d'altra   parte   tali   spese   non   rientrano   neppure
nell'enumerazione di quelle previste dal successivo  art.  2  per  le
quali il recupero e' fissato per l'intero o per quota. 
    Orbene, in disparte l'ipotesi  in  cui  il  condannato  richieda,
ottenendola, la restituzione delle cose in sequestro -  la  quale  e'
sempre  condizionata,  ai  sensi  dell'art.  150  citato,  al  previo
pagamento delle spese di custodia -, nel caso invece in cui  il  bene
in sequestro sia restituito ad altri aventi diritto non  obbligati  a
tale previo pagamento - cosi' come si e' verificato nella specie  per
quanto riferisce il giudice rimettente - si pone  il  problema  della
sorte di tali spese.  Peraltro,  analogo  interrogativo  si  porrebbe
anche in caso di confisca delle cose in sequestro, ma  il  rimettente
espressamente  esclude  questa   fattispecie   dalle   questioni   di
costituzionalita' perche' non rilevante nel giudizio a quo. 
    Tale carenza normativa induce  il  giudice  rimettente  a  trarre
dalla novellazione dell'art. 205 una conseguenza solo  apparentemente
coerente, ma in realta' asistematica e illogica. 
    Si  ha,  infatti,  che  dalla  mancata  espressa  previsione  del
criterio, forfettario (art. 1 del citato decreto ministeriale) o  per
intero (art. 2 del suddetto decreto), per quantificare  le  spese  di
custodia e conservazione delle cose in  sequestro  il  rimettente  fa
discendere una regola di generalizzato esonero  dall'obbligo  per  il
condannato  di  pagare  tali  spese,   cosi'   operando   un'indebita
commistione tra il quantum debeatur, che  per  una  indubbia  carenza
normativa, e' rimasto non espressamente normato, e l'an debeatur, che
continua invece a trovare un preciso riferimento normativo nella gia'
richiamata regola generale dell'art. 535, comma 1, cod. proc. pen. 
    In generale, nel giudizio incidentale di costituzionalita', anche
se il presupposto interpretativo da cui muove il  giudice  rimettente
va verificato alla stregua di un mero canone di  plausibilita',  deve
invece privilegiarsi l'interpretazione adeguatrice della disposizione
censurata ogni qual volta cio' consenta di evitare la  violazione  di
un parametro costituzionale. 
    Ed e' cio' che e' possibile fare nella fattispecie in esame. 
    Secondo  un'interpretazione  costituzionalmente   orientata   del
novellato art. 205, cui occorre accedere perche' non sia  violato  il
principio di eguaglianza  come  denunciato  dal  giudice  rimettente,
l'ampia estensione delle  ipotesi  di  forfettizzazione  delle  spese
processuali non puo' significare -  per  una  (assunta)  inferenza  a
contrario - esonero del condannato dal pagamento di quelle spese  per
le quali non sia espressamente  prevista  ne'  tale  forfettizzazione
secondo il disposto dell'art. 1 del citato d.m., ne' il recupero  per
intero o per quota secondo l'art. 2 del medesimo decreto. Si avrebbe,
altrimenti, un ingiustificato regime differenziato, nel senso che  in
generale le spese di custodia dei beni sequestrati non sarebbero, per
il  condannato,  oggetto  dell'obbligo  di   pagamento,   laddove   -
inspiegabilmente e irragionevolmente - lo sarebbero nelle ipotesi  di
condanna  per  decreto  penale  o  di  applicazione  della  pena   su
richiesta. Solo in  queste  ipotesi  il  condannato  sarebbe  gravato
dall'obbligo di pagarle con palese contraddittorieta'  rispetto  alla
gia' richiamata  disciplina  speciale  di  favore  che  espressamente
esonera il condannato per  decreto  (o  in  caso  di  patteggiamento)
dall'obbligo di pagare le spese di giustizia. 
    Invece, la perdurante regola  generale,  che  rimane  pur  sempre
quella (ai sensi dell'art. 535, comma 1, cod. proc. pen.) che pone  a
carico di tutti i condannati  l'obbligo  del  pagamento  delle  spese
processuali con le sole eccezioni della condanna per  decreto  e  del
patteggiamento, consente un'interpretazione adeguatrice del novellato
art. 205 nel senso che tale  disposizione,  letta  congiuntamente  al
precedente  art.  204  e  agli  artt.  1  e  2  del  citato   decreto
ministeriale, ha solo  ampliato,  seppur  notevolmente,  il  catalogo
delle spese processuali forfettizzate, ma non ha alterato  la  regola
generale, la quale - con le limitate  due  eccezioni  suddette  -  e'
operante senza essere scalfita dalla mancata espressa previsione  del
quantum debeatur limitatamente alle spese di conservazione delle cose
in sequestro. 
    Il primo comma dell'art. 205 va letto alla luce dell'art.  1  del
d.m. n. 124 del 2014: vi e' una serie nominata di spese  processuali,
elencate  della  Tabella  A  del  decreto  ministeriale,   che   sono
quantificate in misura fissa; ma proprio  perche'  sono  elencate  le
ipotesi nominate soggette a tale criterio, questo non puo'  assurgere
a  regola  generale,   che   non   si   concilia   con   la   tecnica
dell'enumerazione. 
    Il  secondo  comma  dello   stesso   art.   205   pure   contiene
un'elencazione, ma - letta tale disposizione  in  combinato  disposto
con l'art. 535, comma 1, cod. proc. pen. e  con  la  gia'  richiamata
regola generale che vuole che le spese processuali siano a carico del
condannato - deve ritenersi (con interpretazione adeguatrice) che  si
tratta di elencazione non tassativa. Quindi il criterio residuale  e'
quello del recupero delle spese processuali, quali esse siano,  ossia
per l'intero, sicche' le spese di custodia delle cose  in  sequestro,
non essendo contenute nell'elenco delle spese forfettizzate  (di  cui
all'art. 1 del citato d.m.), non possono che gravare, per l'intero, a
carico dell'imputato. 
    Una conferma dell'interpretazione adeguatrice  e'  nella  regola,
posta dall'art. 2, comma 2, del d.m. n. 124  del  2014,  secondo  cui
fino all'emanazione del decreto ministeriale previsto dall'art.  205,
comma 2-bis, del d.P.R. n. 115 del  2002,  il  recupero  delle  spese
relative alle prestazioni previste dall'art. 96 del d.lgs. n. 259 del
2003 e di quelle funzionali all'utilizzo delle  prestazioni  medesime
e' operato nella loro interezza.  Ossia,  il  recupero  per  l'intero
costituisce criterio generale di chiusura, operante fino a quando non
ne sia previsto uno diverso. 
    Del resto - a ulteriore conferma dell'interpretazione  accolta  -
c'e' che quando e' il condannato a  ottenere  la  restituzione  delle
cose in sequestro, deve prima pagare le spese di custodia  -  secondo
il chiaro dettato del citato art. 150 del d.P.R. n. 115 del 2002 -  e
cio' non puo' fare altrimenti che per l'intero e non gia'  in  misura
fissa (forfettizzata). 
    8.- In conclusione, va corretto,  in  chiave  di  interpretazione
adeguatrice, il presupposto dal quale muove  il  giudice  rimettente:
anche il condannato, in generale, e' tenuto al pagamento delle  spese
di custodia dei beni in sequestro, sicche' non sussiste la denunciata
disparita' di trattamento con riguardo al condannato per decreto  che
parimenti e' tenuto allo stesso obbligo di pagamento.