ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt.  464-bis,
comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di  Catania,
nel procedimento penale a carico di M. L.P.,  con  ordinanza  del  13
dicembre 2017, iscritta al  n.  92  del  registro  ordinanze  2018  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  26,  prima
serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  3  aprile  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 13 dicembre 2017, il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale  ordinario  di  Catania  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3 e 24,  secondo  comma,  della  Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale degli artt.  464-bis,  comma
2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui
tali disposizioni «non  prevedono  la  possibilita'  di  disporre  la
sospensione del procedimento con messa alla prova ove,  in  esito  al
giudizio, il fatto di reato venga,  su  sollecitazione  del  medesimo
imputato, diversamente qualificato dal giudice cosi' da rientrare  in
uno di quelli contemplati dal  primo  comma  dell'art.  168-bis»  del
codice penale. 
    1.1.- Il giudice a quo espone che M. L.P. e' imputato dei delitti
di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen. e  73,  comma  1,  del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza),  per
aver detenuto e ceduto, con piu'  azioni  esecutive  di  un  medesimo
disegno criminoso, marijuana e cocaina. 
    Nel corso dell'udienza preliminare, svoltasi il 12  luglio  2017,
il difensore  aveva  chiesto,  previa  diversa  qualificazione  delle
condotte di reato contestate ai sensi del comma 5  dell'art.  73  del
d.P.R. n. 309 del 1990, la sospensione del processo  con  messa  alla
prova,  depositando  richiesta  di  elaborazione  del  programma   di
trattamento ai sensi dell'art.  464-bis  cod.  proc.  pen.  inoltrata
all'ufficio esecuzione penale esterna territorialmente competente. 
    Tale istanza era, tuttavia, stata rigettata, in  quanto  la  pena
editale prevista per il reato  contestato  non  consentiva  l'accesso
alla sospensione del procedimento con messa alla prova. 
    Il difensore, munito di procura speciale, aveva quindi chiesto di
definire il giudizio con rito abbreviato. 
    Alla successiva udienza dell'8  novembre  2017,  fissata  per  la
discussione del giudizio  abbreviato,  il  difensore  aveva  ribadito
nelle  proprie  conclusioni  la   precedente   istanza   di   diversa
qualificazione del fatto ascritto a M. L.P.  ai  sensi  del  comma  5
dell'art. 73 del d.P.R. n. 309  del  1990,  chiedendo  nuovamente  la
sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato. 
    1.2.- Rileva il  rimettente  che  le  risultanze  degli  atti  di
indagine comproverebbero  la  responsabilita'  di  M.  L.P.  per  una
«pluralita'  di  fatti  di  spaccio  di  lieve  entita'»,  come  tali
effettivamente qualificabili ai sensi del  comma  5  -  anziche'  del
comma 1 - dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. 
    Osserva  il  giudice  a  quo   che,   nell'attuale   elaborazione
giurisprudenziale, e' incontroverso che  il  potere  del  giudice  di
attribuire in sentenza al fatto contestato una definizione  giuridica
diversa da quella enunciata  nella  imputazione,  previsto  dall'art.
521, comma 1, cod. proc. pen., sia esercitabile anche con la sentenza
emessa all'esito del giudizio abbreviato (e'  citata,  in  proposito,
Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza  26  settembre-22
ottobre 1996, n. 9213). 
    Sulla base, allora, della riqualificazione dei fatti ai sensi del
comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. n 309 del 1990, che prevede  la  pena
massima di quattro anni di reclusione, l'imputato avrebbe ben  potuto
beneficiare della sospensione del  processo  con  messa  alla  prova,
trattandosi «di giovane incensurato [...] e non ricorrendo, altresi',
alcuna delle cause di esclusione di cui all'art. 168, commi  4  e  5,
c.p.». Tuttavia,  la  concessione  del  beneficio  non  sarebbe  piu'
possibile in questa fase, stante l'avvenuto  superamento  del  limite
temporale fissato dall'art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. per  la
proposizione della relativa richiesta. 
    1.3.- Il giudice a quo dubita, tuttavia, che tale  preclusione  -
discendente dal combinato disposto degli artt. 464-bis,  comma  2,  e
521, comma 1, cod. proc. pen. - sia compatibile  con  gli  artt.  24,
secondo comma, e 3 Cost. 
    Osserva il rimettente che un tema analogo era stato affrontato da
questa Corte nella sentenza n. 530 del  1995,  che  aveva  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale degli artt.  516  e  517  cod.  proc.
pen., nella parte in cui non prevedevano la facolta' dell'imputato di
proporre domanda di oblazione relativamente al  fatto  diverso  e  al
reato concorrente contestati in dibattimento,  indipendentemente  dal
carattere "patologico" o "fisiologico" della nuova contestazione. 
    Rammenta ancora il giudice a quo che tali rilievi erano stati  di
seguito recepiti dal legislatore che, con l'art. 53, comma 1, lettera
c), della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni
sul procedimento davanti al tribunale in composizione  monocratica  e
altre modifiche al codice di procedura penale.  Modifiche  al  codice
penale e all'ordinamento  giudiziario.  Disposizioni  in  materia  di
contenzioso civile pendente, di indennita' spettanti  al  giudice  di
pace e di esercizio della professione  forense),  aveva  aggiunto  un
comma 4-bis all'art. 141 delle norme di attuazione, di  coordinamento
e transitorie del codice di procedura  penale,  allegate  al  decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in forza del quale «[i]n caso  di
modifica dell'originaria  imputazione  in  altra  per  la  quale  sia
ammissibile  l'oblazione,  l'imputato  e'  rimesso  in  termini   per
chiedere la medesima [...]». 
    Proprio grazie a tale intervento normativo si sarebbe consolidato
«un indirizzo giurisprudenziale che consente il ricorso all'oblazione
anche nel caso in cui la differente definizione giuridica del  fatto,
cosi' reso compatibile con l'accesso al rito,  costituisca  l'oggetto
di una decisione assunta dal  giudice  in  sede  di  definizione  del
procedimento», salvo l'onere dell'imputato di «formulare  istanza  di
ammissione all'oblazione in rapporto alla diversa qualificazione  che
contestualmente solleciti al giudice di definire» (e' citata Corte di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 giugno-22 luglio  2014,
n. 32351). 
    Tale soluzione interpretativa, tuttavia, non sarebbe  praticabile
nella ipotesi di sospensione del procedimento con messa  alla  prova,
in difetto di una norma equivalente  al  comma  4-bis  dell'art.  141
norme att. cod. proc. pen. 
    Una tale disciplina si porrebbe in contrasto con  gli  artt.  24,
secondo comma, e 3 Cost., in quanto la preclusione per l'imputato  di
accedere ad una modalita' anticipata di definizione del  procedimento
sarebbe «indubbiamente lesiva del diritto di difesa nonche' priva  di
razionale giustificazione», non essendo riconducibile ad  una  libera
scelta dell'imputato o ad una inerzia al medesimo addebitabile. 
    Le disposizioni censurate, in particolare, determinerebbero  «una
ingiustificata disparita'  di  trattamento  di  situazioni  identiche
[...] giacche' dipendente - piuttosto che da una scelta  difensiva  -
dalla qualificazione giuridica del  fatto  di  volta  effettuata  dal
pubblico  ministero»;   cio'   che   comporterebbe   «un   vizio   di
irragionevolezza della disciplina impugnata, con ulteriore violazione
dell'art. 3 Cost. poiche' [...] ricollega alle  scelte  del  pubblico
ministero la facolta'  dell'imputato  di  accedere  ad  un  rito  (o,
meglio,   ad   un   "meccanismo   di   definizione   anticipata   del
procedimento") il cui esito positivo consentirebbe,  addirittura,  di
estinguere il reato». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili. 
    Eccepisce, in via preliminare, l'Avvocatura generale dello  Stato
che il giudice a quo avrebbe insufficientemente motivato la rilevanza
della  questione,  non  avendo  precisato  perche'  il  fatto   debba
ritenersi diversamente qualificato e non si tratti  piuttosto  di  un
fatto diverso rispetto a quello originariamente contestato. 
    Nel contesto normativo successivo alla entrata  in  vigore  della
legge 16 maggio 2014, n. 79 (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, recante disposizioni  urgenti
in materia di disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della  Repubblica
9 ottobre 1990, n. 309, nonche' di impiego di medicinali meno onerosi
da parte del Servizio sanitario  nazionale),  infatti,  il  fatto  di
lieve entita' di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990
non  costituirebbe  piu'  lo  stesso  reato  previsto  nella  ipotesi
"ordinaria" e non vi sarebbe piu' continuita'  sanzionatoria  tra  le
due fattispecie. 
    Il giudice rimettente, inoltre, non avrebbe considerato  che,  in
caso di richiesta di sospensione  del  procedimento  con  messa  alla
prova dell'imputato, il giudice e' tenuto a verificare la correttezza
della qualificazione giuridica  attribuita  al  fatto  dall'accusa  e
puo',  ove  la  ritenga  non  corretta,  modificarla,   traendone   i
conseguenti effetti sul piano della ricorrenza o meno dei presupposti
dell'istituto (e' citata Corte di cassazione, sezione quarta  penale,
sentenza 20 ottobre 2015-3 febbraio 2016, n. 4527). 
    A tal fine, conformemente a quanto ritenuto da questa Corte nella
sentenza n. 91 del 2018, sarebbe consentito al  giudice  di  prendere
visione  degli   atti   del   fascicolo   del   pubblico   ministero,
restituendoli per l'ulteriore corso in  caso  di  pronuncia  negativa
sulla concessione o sull'esito della messa alla prova. 
    Il giudice rimettente, pertanto, non avrebbe compiuto un accurato
esame  delle  opzioni  interpretative  rese  possibili  dal  contesto
normativo in cui si collocano le norme censurate. 
    Una   interpretazione    costituzionalmente    orientata    delle
disposizioni  censurate  sarebbe  stata  possibile  alla  luce  della
giurisprudenza  di  questa  Corte  sulla  facolta'  dell'imputato  di
chiedere il  patteggiamento  o  il  giudizio  abbreviato  dopo  nuove
contestazioni  in  fase  dibattimentale,  fondate  su  elementi  gia'
risultanti  dagli  atti  di  indagine   al   momento   dell'esercizio
dell'azione  penale  o  collegate  alle  risultanze   dell'istruzione
dibattimentale, a norma degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. 
    Tale elaborazione giurisprudenziale sarebbe, peraltro, alla  base
della recente sentenza n. 141 del 2018, con la quale questa Corte  ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt.
3 e 24 Cost., l'art. 517 cod. proc. pen.,  nella  parte  in  cui,  in
seguito alla nuova contestazione di una circostanza  aggravante,  non
prevede la  facolta'  dell'imputato  di  richiedere  al  giudice  del
dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale  ordinario  di  Catania  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3 e 24,  secondo  comma,  della  Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale degli artt.  464-bis,  comma
2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui
tali disposizioni «non  prevedono  la  possibilita'  di  disporre  la
sospensione del procedimento con messa alla prova ove,  in  esito  al
giudizio, il fatto di reato venga,  su  sollecitazione  del  medesimo
imputato, diversamente qualificato dal giudice cosi' da rientrare  in
uno di quelli contemplati dal  primo  comma  dell'art.  168-bis»  del
codice penale. 
    2.-  L'Avvocatura  generale  dello  Stato  eccepisce,  anzitutto,
l'inammissibilita'    delle    questioni     sotto     il     profilo
dell'insufficiente motivazione della  loro  rilevanza.  Nel  caso  di
specie, non si tratterebbe in effetti di una diversa  qualificazione,
ai sensi dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., dello stesso  fatto
originariamente   contestato   dal   pubblico    ministero,    bensi'
dell'emersione di un fatto diverso. 
    L'eccezione e' infondata. 
    Dal mero confronto tra il capo di imputazione e la pur  sintetica
descrizione, contenuta nell'ordinanza di rimessione, delle risultanze
istruttorie, non emerge infatti alcuna diversita' tra i fatti storici
di detenzione e cessione di marijuana e cocaina descritti nel decreto
che dispone il giudizio, e quelli che l'imputato - sulla  base  degli
atti di indagine - risulta effettivamente avere  commesso;  bensi'  -
esclusivamente - una diversita'  nella  qualificazione  giuridica  da
parte del giudice rispetto a quella  originariamente  ipotizzata  dal
pubblico ministero, in ragione della modesta quantita' delle sostanze
stupefacenti  detenute  e  cedute  dall'imputato,   con   conseguente
sussumibilita' dei fatti contestati e accertati nella piu' favorevole
fattispecie prevista dal comma 5 dell'art. 73 del  d.P.R.  9  ottobre
1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina  degli
stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), anziche'  in
quella piu' grave disciplinata dal comma 1. Tale  situazione  e'  per
l'appunto disciplinata - come esattamente ritenuto dal giudice a  quo
- dall'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., pacificamente  applicabile
anche al giudizio abbreviato  (Corte  di  cassazione,  sezione  sesta
penale, sentenza 20 gennaio 1992, n. 477). 
    3.- L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, che  il
giudice a quo non avrebbe esperito alcun tentativo di interpretazione
costituzionalmente orientata della disciplina censurata. 
    L'eccezione e', parimenti, infondata. 
    Il rimettente ha, in effetti, motivatamente escluso che una  tale
interpretazione  sia  possibile,  deducendo   dall'assenza   di   una
disposizione equivalente all'art. 141, comma 4-bis,  delle  norme  di
attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
penale, allegate al decreto  legislativo  28  luglio  1989,  n.  271,
l'impraticabilita' di una rimessione in termini dell'imputato per  la
richiesta di ammissione alla sospensione del processo con messa  alla
prova in caso di diversa qualificazione del fatto a  conclusione  del
giudizio abbreviato. Tanto basta ai  fini  dell'ammissibilita'  delle
questioni di legittimita' costituzionale proposte,  attenendo  invece
al merito la valutazione se delle  disposizioni  censurate  possa  in
effetti darsi una  lettura  conforme  a  Costituzione  (ex  plurimis,
sentenze n. 135 del 2018, n. 255 e n. 53 del 2017). 
    4.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    Il rimettente muove, infatti, dal presupposto interpretativo  che
il combinato disposto delle disposizioni censurate  precluderebbe  al
giudice di ammettere l'imputato alla  sospensione  del  processo  con
messa alla prova, anche nell'ipotesi in cui questi ne abbia formulato
richiesta entro i termini di cui all'art. 464-bis cod. proc. pen., ma
tale richiesta sia stata respinta  in  ragione  dell'incompatibilita'
del  beneficio  con  i  limiti   di   pena   previsti   dalla   norma
incriminatrice ai sensi  della  quale  il  pubblico  ministero  aveva
qualificato il fatto contestatogli,  incompatibilita'  -  peraltro  -
successivamente venuta meno in seguito  alla  diversa  qualificazione
del fatto compiuta dal giudice ai sensi dell'art. 521, comma 1,  cod.
proc. pen., in esito al giudizio abbreviato. 
    Tale interpretazione, tuttavia, non e' l'unica possibile. 
    4.1.-  La   giurisprudenza   di   legittimita'   ha,   anzitutto,
ripetutamente affermato che, in caso di richiesta di sospensione  del
processo con  messa  alla  prova  presentata  dall'imputato  entro  i
termini previsti dall'art. 464-bis cod. proc.  pen.,  il  giudice  e'
tenuto a verificare la  correttezza  della  qualificazione  giuridica
attribuita al fatto dall'accusa ed eventualmente a  modificarla,  ove
non la ritenga corretta, traendone le  conseguenze  sul  piano  della
ricorrenza del beneficio in  parola  (Corte  di  cassazione,  sezione
quarta penale, sentenze 8  maggio-31  luglio  2018,  n.  36752  e  20
ottobre 2015-3 febbraio 2016, n. 4527). 
    Recenti  pronunce  della  Corte  di  cassazione  hanno,  inoltre,
ritenuto che la celebrazione del giudizio di primo grado nelle  forme
del rito abbreviato non  precluda  all'imputato  la  possibilita'  di
dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego,
da parte del giudice di primo grado, della richiesta  di  sospensione
con messa alla prova (Corte di  cassazione,  sezione  quarta  penale,
sentenza 18 settembre-8 ottobre 2018, n. 44888; sezione terza penale,
sentenza  15  febbraio-2  luglio  2018,  n.  29622).   Tale   recente
orientamento non e', invero,  incontrastato,  altre  pronunce  avendo
invece   ritenuto   la   sussistenza   di   una   tale   preclusione,
essenzialmente sulla base dell'argomento dell'alternativita'  tra  il
beneficio in parola e il rito abbreviato; di talche', una  volta  che
l'imputato abbia  formulato,  dopo  il  rigetto  della  richiesta  di
sospensione del  processo  con  messa  alla  prova,  una  domanda  di
giudizio abbreviato, egli  non  potrebbe  piu'  riproporre  la  prima
richiesta, secondo il principio "electa una via, non  datur  recursum
ad alteram" (Corte di cassazione, sezione quarta penale,  sentenza  3
luglio-27 settembre 2018, n. 42469; sezione sesta penale, sentenza 28
marzo-9 maggio 2017, n. 22545;  sezione  terza  penale,  sentenza  19
ottobre 2016-30 gennaio 2017, n. 4184). A tale  argomento  e'  stato,
tuttavia,  plausibilmente  replicato  che  la  domanda  di   giudizio
abbreviato conseguente al rigetto della richiesta, formulata  in  via
principale, di ammissione alla sospensione  del  processo  con  messa
alla  prova  previa  riqualificazione  del  fatto   contestato   deve
necessariamente intendersi come presentata con  riserva;  e  piu'  in
particolare con riserva di gravame, in sede  di  appello,  contro  il
provvedimento  di  diniego  del  beneficio  gia'  richiesto  in   via
principale, che non  puo'  pertanto  intendersi  come  implicitamente
rinunciato all'atto della richiesta del rito  abbreviato  (in  questo
senso, le sopra citate Cass., n. 44888 e n. 29622 del 2018). 
    Se dunque, in base al menzionato recente orientamento della Corte
di cassazione, il  giudice  di  appello  investito  dell'impugnazione
contro una sentenza di condanna resa in sede di  giudizio  abbreviato
puo' ammettere l'imputato alla sospensione  del  processo  con  messa
alla prova, allorche' ritenga ingiustificato il diniego  opposto  dal
giudice di  primo  grado  a  tale  richiesta,  a  fortiori  una  tale
possibilita' dovra' essere riconosciuta allo stesso giudice di  primo
grado, allorche' - in esito al giudizio - riscontri  che  il  proprio
precedente   diniego   era   ingiustificato,   sulla    base    della
riqualificazione giuridica del fatto contestato cui lo abilita l'art.
521, comma 1, cod. proc. pen., quando l'imputato abbia dal canto  suo
richiesto il beneficio entro i termini  indicati  dall'art.  464-bis,
comma 2, cod. proc. pen. 
    Una  tale  soluzione  risponde  a  ovvie  ragioni   di   economia
processuale, e segnatamente al fine di evitare la celebrazione di  un
giudizio in grado di appello finalizzato esclusivamente a  consentire
all'imputato di conseguire un risultato  che  ben  potrebbe  essergli
assicurato dal giudice di primo grado, previa semplice  revoca  della
precedente ordinanza di rigetto della richiesta  di  sospensione  del
processo con messa alla prova. 
    4.2.- La conclusione appena raggiunta non solo  non  trova  alcun
ostacolo nel tenore letterale delle disposizioni censurate, ma appare
altresi' l'unica in grado  di  assicurare  un  risultato  ermeneutico
compatibile con i parametri costituzionali invocati dal rimettente. 
    Questa Corte ha gia' affermato,  in  una  con  la  giurisprudenza
della Corte di cassazione (sezioni unite penali, sentenza 31 marzo-1°
settembre  2016,  n.  36272),  che  lo   speciale   procedimento   di
sospensione del processo con messa alla prova costituisce un  vero  e
proprio rito alternativo (sentenze n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015),
in grado di assicurare significativi benefici in termini sanzionatori
all'imputato in cambio  -  tra  l'altro  -  di  una  sua  rinuncia  a
esercitare nella loro piena estensione i propri diritti di difesa  in
un processo ordinario. 
    Coerentemente   con    l'affermazione,    risalente    a    epoca
immediatamente successiva  all'introduzione  del  vigente  codice  di
procedura penale, secondo cui «[l]a  richiesta  di  riti  alternativi
"costituisce [...] una modalita', tra le piu' qualificanti  (sentenza
n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di  difesa  (ex  plurimis,
sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del
1993)" (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 141 del 2018), questa
Corte ha piu' volte  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  di
disposizioni del codice di rito nella parte in cui  non  consentivano
all'imputato di essere rimesso in termini al fine  di  esercitare  la
propria eventuale opzione per un rito alternativo allorche', in esito
al giudizio celebrato con rito ordinario, gli venisse  contestato  un
fatto nuovo o un reato concorrente che risultava gia' dagli  atti  di
indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, e che pertanto
il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli  gia'  in  quel
momento, si' da porlo in condizione di esercitare il proprio  diritto
di difesa in merito alla scelta del rito (in particolare, sentenza n.
265 del 1994, in relazione al patteggiamento, e sentenza n.  333  del
2009, in relazione al rito abbreviato). 
    Una situazione a ben vedere non dissimile e' quella  che  ricorre
nel caso di specie, in cui - sulla  base  dell'interpretazione  delle
disposizioni censurate fatta propria dal rimettente -  l'imputato  si
vedrebbe negata la possibilita' di esercitare il proprio  diritto  di
difesa,  sotto  lo  specifico  profilo  della  scelta  di   un   rito
alternativo e dei  connessi  benefici  in  termini  sanzionatori,  in
conseguenza  dell'erroneo  apprezzamento  da   parte   del   pubblico
ministero - al momento della formulazione dell'imputazione - circa la
qualificazione  giuridica  del  fatto  contestatogli,  laddove   tale
erronea qualificazione, pur immediatamente contestata  dalla  difesa,
sia stata rilevata dal giudice soltanto in esito al giudizio. 
    Un tale pregiudizio al diritto di difesa - che si risolverebbe in
un evidente vulnus dell'art. 24,  secondo  comma,  Cost.,  oltre  che
dello stesso principio di eguaglianza -  non  e'  pero'  univocamente
imposto dalle disposizioni  censurate  dal  rimettente,  che  ben  si
prestano a essere interpretate in modo da evitare quel risultato; si'
da consentire, in particolare, al giudice di ammettere l'imputato  al
rito alternativo che egli aveva a suo tempo richiesto entro i termini
di legge, e di  garantirgli  in  tal  modo  i  benefici  sanzionatori
connessi  a  tale  rito,  assicurando  che  l'errore  compiuto  dalla
pubblica accusa non si risolva in un irreparabile pregiudizio  a  suo
danno. E cio' indipendentemente dalla possibilita'  di  conseguire  o
meno, nel caso concreto,  un  effetto  deflattivo  sul  carico  della
giustizia penale, a cui tra l'altro mirano i procedimenti speciali in
parola. 
    4.3.- Applicando dunque tali principi  nel  caso  di  specie,  il
giudice a quo ben avrebbe potuto  non  solo  concedere  il  beneficio
della sospensione del processo con messa alla prova  direttamente  in
sede  di  udienza  preliminare,  previa  riqualificazione  del  fatto
contestato dal pubblico ministero sulla base degli elementi probatori
disponibili; ma avrebbe altresi' potuto, una volta  avvedutosi  -  in
esito al giudizio abbreviato - dell'erronea qualificazione  giuridica
dei fatti contestati all'imputato,  revocare  il  proprio  precedente
provvedimento di diniego della sospensione  del  processo  con  messa
alla prova, e ammettere conseguentemente al beneficio l'imputato, che
ne aveva fatto rituale richiesta entro  i  termini  di  cui  all'art.
464-bis cod. proc. pen., senza necessita' di sollecitare il  presente
incidente di costituzionalita'.