ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.   147,
secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89  (Ordinamento  del
notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall'art. 30 del
decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249, recante «Norme in materia
di procedimento  disciplinare  a  carico  dei  notai,  in  attuazione
dell'articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28  novembre  2005,
n. 246», promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda  civile,
nel procedimento vertente tra B. B. e il Consiglio notarile di Milano
e altri, con ordinanza del 15 novembre 2017, iscritta al  n.  35  del
registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti gli atti di costituzione di B. B. e del Consiglio  notarile
di Milano, nonche' l'atto di intervento del Presidente del  Consiglio
dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  17  aprile  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi gli avvocati Francesco Marone e Massimo Rossi  per  B.  B.,
Matteo Gozzi per il Consiglio notarile di Milano e  l'avvocato  dello
Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 novembre 2017 la  Corte  di  cassazione,
sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e
24  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 147, secondo comma, della legge 16  febbraio  1913,  n.  89
(Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito
dall'art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249,  recante
«Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in
attuazione dell'articolo 7, comma  1,  lettera  e),  della  legge  28
novembre 2005, n. 246». 
    1.1.- Espone  la  sezione  rimettente  di  essere  investita  del
ricorso proposto da un notaio, B. B., avverso l'ordinanza della Corte
d'appello di Milano del  12  luglio  2017,  con  la  quale  e'  stato
rigettato  il  gravame  contro  una   decisione   della   Commissione
amministrativa regionale di disciplina (CO.RE.DI.)  della  Lombardia,
che aveva inflitto a B. B la sanzione disciplinare della destituzione
ai sensi della disposizione censurata. 
    Riferisce il giudice a quo che B. B. era  gia'  stata  due  volte
ritenuta responsabile - nel 2012 e nel 2013 - dell'illecito  previsto
dall'art. 147, primo comma, della legge n. 89 del 1913, per non avere
versato  all'erario  le  somme   versatele   dai   clienti   per   la
registrazione e la trascrizione degli atti rogati. Nel primo caso  le
era stata inflitta la sanzione della sospensione per la durata di due
mesi, e nel secondo caso quella della sospensione per la durata di un
anno. Avendo nel 2015 la CO.RE.DI. ritenuto  nuovamente  responsabile
B. B. per altre condotte integranti l'illecito  disciplinare  di  cui
all'art. 147 della legge n. 89 del 1913, la  stessa  CO.RE.DI.  aveva
ritenuto di dover applicare il secondo comma di  detta  disposizione,
il quale prevede che «la  destituzione  e'  sempre  applicata  se  il
notaio, dopo essere stato condannato per due volte  alla  sospensione
per la violazione del presente articolo, vi  contravviene  nuovamente
nei dieci anni successivi all'ultima violazione». 
    1.2.-  Ad  avviso  della  sezione  rimettente,  la   disposizione
censurata detta una norma di carattere speciale rispetto alla  regola
generale di cui  all'art.  144  della  legge  n.  89  del  1913,  che
disciplina l'applicazione delle circostanze attenuanti agli  illeciti
disciplinari dei notai, prevedendo in particolare che - ove le stesse
siano ritenute sussistenti - alla  sanzione  della  destituzione  sia
sostituita  quella  della  sospensione.  Tale  regola  generale   non
opererebbe, secondo il giudice a quo, nella  particolare  fattispecie
di recidiva  reiterata  infradecennale  prevista  dalla  disposizione
censurata, nella quale sarebbe sempre doveroso applicare la  sanzione
massima della destituzione: il trattamento sanzionatorio risulterebbe
infatti, in tal  caso,  «insensibile  alla  eventuale  "lievita'"  in
concreto del fatto  costituente  illecito  disciplinare,  essendo  la
sanzione prevista dalla legge in modo inderogabile, sulla base di una
presunzione iuris et de iure di gravita' del fatto». 
    1.3.- La sezione rimettente dubita, tuttavia, della  legittimita'
costituzionale di tale disciplina. 
    1.3.1.- Essa sarebbe, anzitutto, in contrasto con l'art. 3 Cost. 
    Il giudice a quo richiama, in  proposito,  la  giurisprudenza  di
questa Corte in materia di proporzionalita' della  pena  rispetto  al
disvalore del fatto illecito commesso, giurisprudenza che si porrebbe
in consonanza con l'art. 49, paragrafo 3,  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza  il  7  dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre  2007  (CDFUE).  Da  tale
giurisprudenza  discenderebbe,  in   particolare,   il   divieto   di
automatismi sanzionatori, i quali impedirebbero di adeguare  la  pena
alle   effettive   responsabilita'   personali;   divieto   che    la
giurisprudenza costituzionale avrebbe esteso dal  campo  del  diritto
penale alla materia  delle  sanzioni  disciplinari  (sono  citate  le
sentenze n. 268 del 2016 e n. 363 del 1996 in materia di sanzioni per
i militari, la sentenza n. 170 del 2015 in materia di sanzioni per  i
magistrati e la sentenza n. 2 del 1999 in materia di sanzioni  per  i
ragionieri e periti commerciali). 
    Con specifico riferimento alla responsabilita'  disciplinare  dei
notai, il rimettente rileva come la sentenza n. 40 del 1990 di questa
Corte  abbia  dichiarato  -  per   violazione   del   «principio   di
proporzione»  discendente  dall'art.  3  Cost.   -   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 142, ultimo comma, della  legge  n.  89  del
1913, nella parte in cui prevedeva la  destituzione  di  diritto  del
notaio  che  fosse  stato  condannato  per  determinati  delitti,  in
relazione  alla  «automatica  ed  indifferenziata  previsione  [della
sanzione massima] per  l'infinita  serie  di  situazioni  che  stanno
nell'area della commissione di uno stesso, pur grave, reato». 
    Analogamente, la disposizione ora censurata non consentirebbe  al
giudice disciplinare  di  graduare  la  sanzione  in  relazione  alla
gravita' del caso concreto; cio' che, invece, apparirebbe  necessario
dal punto di vista dell'art. 3 Cost.,  dal  momento  che  l'art.  147
della  legge  n.  89  del  1913  abbraccia  fattispecie  di  illecito
disciplinare «che possono  avere,  nei  diversi  casi  concreti,  una
gravita' molto diversa tra loro». La disposizione censurata, insomma,
darebbe vita ad «una sorta di "automatismo  sanzionatorio"  correlato
ad una presunzione iuris et de  iure  di  gravita'  del  fatto  e  di
pericolosita'  del  recidivo  reiterato,  che  preclude  al   giudice
disciplinare di pervenire - nella fattispecie concreta  -  a  diverse
conclusioni mediante il giudizio di bilanciamento con le  circostanze
attenuanti (anche generiche) eventualmente concorrenti».  Una  simile
presunzione iuris  et  de  iure  dovrebbe  considerarsi  illegittima,
secondo la giurisprudenza di questa Corte richiamata dal  rimettente,
ogniqualvolta sia agevole  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione  stessa
(sono citate le sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213  del  2013,
n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). 
    «Elevato» sarebbe,  dunque,  il  rischio  che,  nel  procedimento
disciplinare notarile, il giudice della disciplina si trovi costretto
a infliggere una sanzione di entita' eccessiva, e non ragionevole  in
rapporto al concreto disvalore della condotta. 
    La disciplina censurata, in definitiva, contrasterebbe con l'art.
3 Cost. «sia sotto il  profilo  della  violazione  del  principio  di
eguaglianza per il fatto di assimilare situazioni che - di  volta  in
volta - possono avere un disvalore molto  diverso  l'una  dall'altra,
sia  sotto   il   profilo   della   violazione   del   principio   di
ragionevolezza, impedendo al giudice disciplinare l'adeguamento della
sanzione alla gravita' in concreto dell'illecito commesso». 
    1.3.2.- Ad avviso del giudice a quo,  la  disposizione  censurata
confliggerebbe, altresi', con l'art.  24  Cost.,  «per  il  fatto  di
precludere all'incolpato la possibilita' di chiedere  al  giudice  di
apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all'irrogazione
della sanzione piu' adeguata al caso». 
    1.4.- Le questioni prospettate sarebbero infine rilevanti, avendo
la Corte  d'appello  rifiutato  di  considerare  la  possibilita'  di
riconoscere al notaio incolpato le circostanze attenuanti  generiche,
sul presupposto che le stesse  non  avrebbero  potuto  in  ogni  caso
escludere l'irrogazione della destituzione, quale  sanzione  prevista
inderogabilmente dalla legge. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni prospettate siano dichiarate inammissibili
o, in subordine, infondate. 
    Eccepisce l'Avvocatura generale che il giudice a quo  si  sarebbe
sottratto    al    dovere    di    sperimentare    un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata. 
    Ritiene infatti l'Avvocatura generale che l'art. 144 della  legge
n. 89 del 1913 preveda «in via generale e senza alcuna esclusione  di
tipo soggettivo od oggettivo - riferita cioe'  al  tipo  di  illecito
commesso -, la possibilita' di "convertire" e sostituire la  sanzione
disciplinare  piu'  grave  astrattamente  prevista   e   l'infrazione
accertata» in presenza di una serie di  circostanze  suscettibili  di
attenuare la gravita'  dell'infrazione  commessa,  ponendo  cosi'  in
condizioni  l'autorita'  disciplinare  di  adeguare  la  sanzione  in
funzione dell'effettiva gravita' del fatto accertato, con  esclusione
di ogni automatismo sanzionatorio. La disciplina  prevista  dall'art.
144 si applicherebbe, dunque, anche nel  caso  previsto  dal  secondo
comma dell'art. 147 della legge  n.  89  del  1913,  in  questa  sede
censurato; di talche' la sanzione della  destituzione,  prevista  per
l'ipotesi in cui il notaio sia gia' stato condannato  per  due  volte
alla sanzione della sospensione del decennio anteriore  in  relazione
agli illeciti  disciplinari  previsti  dal  primo  comma,  resterebbe
applicabile nella sola ipotesi in cui non siano ravvisabili nel  caso
concreto le circostanze attenuanti di cui all'art. 144. 
    La correttezza di tale interpretazione  sarebbe,  d'altra  parte,
«confermata dalla considerazione che sarebbe assolutamente illogico e
veramente irragionevole ritenere che il  legislatore  del  2006,  nel
riformare  organicamente  il  sistema  disciplinare  e  sanzionatorio
notarile, abbia volutamente ignorato i principi chiaramente affermati
in materia  [da  questa  Corte]  sin  dal  1990  (sent.  n.  40/1990)
riproducendo nelle nuove norme quell'automatismo espulsivo  che  gia'
piu' di 15 anni prima era stato dichiarato contrario a Costituzione». 
    Tali  considerazioni  renderebbero   le   questioni   prospettate
inammissibili e, comunque, infondate. 
    3.- Si  e'  costituita  in  giudizio  la  parte  privata  B.  B.,
concludendo  per  l'accoglimento  delle  questioni  di   legittimita'
costituzionale prospettate. 
    Rilevato come, a suo giudizio, nel caso concreto sussistessero le
circostanze attenuanti ai sensi dell'art. 144 della legge n.  89  del
1913, contrariamente a quanto  ritenuto  dalla  CO.RE.DI.,  la  parte
privata sottolinea come la Corte  d'appello  non  abbia  ritenuto  di
esaminare  la  relativa  doglianza  difensiva  proprio   in   ragione
dell'inapplicabilita'  dell'art.  144  alla  peculiare   ipotesi   di
recidiva prevista dalla disposizione censurata. Dal che la  rilevanza
delle questioni prospettate. 
    Nel merito,  le  questioni  sarebbero  fondate,  sulla  base  dei
medesimi  argomenti  sviluppati  nell'ordinanza  di  rimessione.   In
particolare, la parte privata sottolinea  come  le  ragioni,  che  la
menzionata sentenza n. 40 del 1990 di questa Corte aveva posto a base
della declaratoria di illegittimita' costituzionale  dell'automatismo
sanzionatorio allora censurato, valgano a  maggior  ragione  rispetto
alla disposizione in esame, dal momento che l'automatismo  scrutinato
nella  sentenza  n.  40  del  1990  era  pur  sempre  connesso   alla
sopravvenienza di una condanna in sede  penale,  che  non  e'  invece
necessaria a integrare gli illeciti disciplinari di cui all'art. 147,
i  quali  abbracciano  condotte  di  disvalore  assai  diverso  l'una
dall'altra. 
    4.- Si e' costituito in giudizio anche il Consiglio  notarile  di
Milano, controricorrente nel giudizio a quo, chiedendo invece che  le
questioni siano dichiarate infondate. 
    Sottolineata la gravita' delle condotte per le quali  B.  B.  era
stata sanzionata con la sospensione, il Consiglio notarile di  Milano
rileva come la delibazione compiuta dal giudice disciplinare in forza
della disposizione censurata non  sia  «espressione  di  un  acritico
automatismo di giudizio», bensi' costituisca «la  conclusione  di  un
procedimento analitico disciplinare che tiene  conto  della  gravita'
della  condotta  e  dei  precedenti  esistenti»,  profilandosi   come
«conseguenza  adeguata  e  proporzionata  a  comportamenti  pregressi
contenuti nell'ambito temporale di 10 anni, particolarmente  gravi  e
antitetici alla correttezza e alle qualita' professionali». 
    La  sanzione  della   destituzione   non   sarebbe,   d'altronde,
definitiva, ben potendo il notaio,  di  regola,  chiedere  di  essere
riabilitato una volta decorsi tre anni dalla destituzione. 
    Infine, il Consiglio notarile di Milano richiama la  sentenza  n.
234 del 2014, con la quale questa Corte  ha  ritenuto  infondata  una
questione di legittimita' costituzionale di altra disposizione  della
legge n. 89 del 1913, che escludeva la possibilita' di riabilitazione
in favore del notaio condannato per alcuni gravi reati, sottolineando
in particolare come tale  conseguenza  automatica  fosse  pur  sempre
subordinata a un «motivato  apprezzamento  dell'organo  disciplinare,
censurabile  in  sede  giurisdizionale  e  circoscritto  a  peculiari
condotte». 
    5.-  La  parte  privata  B.  B.  ha  depositato,  in  prossimita'
dell'udienza, memoria  nella  quale  ha,  in  particolare,  sostenuto
l'infondatezza   dell'eccezione   di    inammissibilita'    formulata
dall'Avvocatura generale dello Stato, rilevando come il giudice a quo
abbia puntualmente motivato la  premessa  interpretativa  da  cui  ha
preso  le  mosse,  relativa  all'impossibilita'   di   applicare   le
circostanze attenuanti di cui all'art. 144 della legge n. 89 del 1913
all'ipotesi di recidiva disciplinata dalla disposizione censurata. 
    Replicando poi agli argomenti spesi  dal  Consiglio  notarile  di
Milano nel proprio atto di costituzione, la parte privata  B.  B.  ha
osservato come - nel caso concreto oggetto del procedimento a  quo  -
la sanzione della destituzione sia  stata  inflitta  in  relazione  a
condotte  per  le  quali  la  stessa   CO.RE.DI.   avrebbe   ritenuto
«virtualmente adeguata» la sanzione della «sospensione di mesi  sei»;
sanzione che la stessa CO.RE.DI. non aveva  pero'  potuto  applicare,
proprio  in  ragione  dell'automatismo  previsto  dalla  disposizione
censurata, che imponeva l'irrogazione della piu' grave sanzione della
destituzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione,
sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e
24  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 147, secondo comma, della legge 16  febbraio  1913,  n.  89
(Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito
dall'art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249,  recante
«Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in
attuazione dell'articolo 7, comma  1,  lettera  e),  della  legge  28
novembre 2005, n. 246». 
    L'art. 147 della legge n. 89 del 1913 prevede,  al  primo  comma,
che sia «punito con la censura o con la sospensione fino ad  un  anno
o, nei casi piu' gravi, con la destituzione» il notaio  che  pone  in
essere una serie di condotte di rilievo disciplinare, descritte dallo
stesso primo comma. Il  secondo  comma,  in  questa  sede  censurato,
dispone che «[l]a destituzione e' sempre applicata se il notaio, dopo
essere stato  condannato  per  due  volte  alla  sospensione  per  la
violazione del presente  articolo,  vi  contravviene  nuovamente  nei
dieci anni successivi dall'ultima violazione». 
    Il giudice a quo dubita che tale disposizione confligga  con  gli
artt.  3  e  24  Cost.,  introducendo  un  automatismo  sanzionatorio
correlato a una presunzione iuris et de iure di gravita' del fatto  e
di pericolosita'  del  recidivo  reiterato,  che  impone  al  giudice
disciplinare di applicare la sanzione piu' grave della  destituzione,
senza  consentirgli  di  tenere  conto   di   eventuali   circostanze
attenuanti, o comunque della concreta gravita' della violazione. 
    2.- L'eccezione di omessa sperimentazione  di  un'interpretazione
conforme  a  Costituzione  della  disposizione  censurata,  formulata
dall'Avvocatura generale dello Stato, non e' fondata. 
    2.1.- L'ordinanza di  rimessione  esclude  espressamente  che  la
sanzione della destituzione  prevista  dalla  disposizione  censurata
possa essere sostituita dalla meno grave sanzione  della  sospensione
in presenza di circostanze attenuanti, ai sensi dell'art.  144  della
legge n. 89 del 1913. Secondo il giudice a quo, infatti, tale  ultima
disposizione generale non potrebbe trovare applicazione  nell'ipotesi
prevista dall'art. 147, secondo comma, in questa sede censurato,  che
opererebbe rispetto all'art. 144 quale lex specialis, prevedendo  che
- in caso di recidiva reiterata nell'illecito disciplinato dal  primo
comma dello stesso art. 147 - sia «sempre» applicata la destituzione. 
    2.2.-   Secondo   l'Avvocatura   dello   Stato,   invece,    tale
interpretazione non sarebbe corretta, dal momento che l'art. 144  ben
potrebbe trovare applicazione in tutte  le  fattispecie  di  illecito
disciplinate dalla legge n. 89 del 1913, ivi compresa quella prevista
dalla  disposizione  censurata.  In  tale  prospettiva   ermeneutica,
dunque, l'avverbio «sempre» presente nell'art.  147,  secondo  comma,
della legge  n.  89  del  1913  varrebbe  semplicemente  a  escludere
l'alternativita', prevista dal primo  comma  dell'art.  147,  tra  le
sanzioni della  censura,  della  sospensione  e  della  destituzione,
imponendo al giudice disciplinare l'applicazione  della  destituzione
in presenza dei presupposti del secondo comma; senza pero'  escludere
che, laddove sussista in concreto taluna delle circostanze attenuanti
previste dall'art. 144, la destituzione possa essere  sostituita  con
la sanzione della sospensione, ai sensi appunto dell'art. 144. 
    Tale interpretazione eviterebbe, dunque, l'automatismo denunciato
dal rimettente, consentendo al giudice disciplinare di  irrogare  una
sanzione meno grave della destituzione ogniqualvolta  -  per  effetto
della presenza di circostanze attenuanti - essa appaia sproporzionata
rispetto  alla  concreta  gravita'  dell'illecito  della   quale   il
professionista sia ritenuto responsabile. 
    2.3.- In conformita' alla recente giurisprudenza di questa Corte,
si  deve  tuttavia  rilevare  che  l'astratta   prospettabilita'   di
un'interpretazione alternativa della disposizione censurata  rispetto
a quella fatta propria dal giudice a quo non inficia l'ammissibilita'
della questione, risultando a tal fine «sufficiente che il giudice  a
quo esplori la possibilita' di un'interpretazione conforme alla Carta
fondamentale e [...] la escluda consapevolmente» (sentenza n. 262 del
2015; nello stesso senso, sentenze n. 254 e n. 69 del  2017,  n.  111
del 2016 e n. 221 del 2015). E invero, il  fatto  che  il  rimettente
abbia consapevolmente  reputato  che  il  tenore  della  disposizione
censurata imponga una  determinata  interpretazione  e  ne  impedisca
altre, eventualmente conformi a Costituzione, non rileva ai fini  del
rispetto delle regole del processo costituzionale, dal momento che la
verifica  dell'esistenza  e  della  correttezza  di   interpretazioni
alternative, che il rimettente  abbia  ritenuto  di  non  poter  fare
proprie, e' questione che attiene al merito del giudizio e  non  alla
sua ammissibilita' (ex plurimis, sentenze n. 194, n. 180, n.  69,  n.
53 e n. 42 del 2017, e n. 95 del 2016). 
    Poiche'  l'ordinanza  di  rimessione  ha  motivatamente   e   non
implausibilmente  escluso  l'applicabilita'  nel   caso   di   specie
dell'art. 144 della legge n. 89 del 1913, in  ragione  dell'affermata
specialita'  della  disposizione  censurata,  le  questioni  da  essa
sollevate devono ritenersi ammissibili ed essere esaminate nel merito
sulla base dell'interpretazione fatta propria dal giudice rimettente. 
    3.- Nel merito, la questione sollevata con riferimento all'art. 3
Cost. non e' fondata. 
    3.1.- Il giudice a quo richiama, anzitutto, la giurisprudenza  di
questa Corte in materia  di  proporzionalita'  e  individualizzazione
delle pene, che considera con sfavore gli  automatismi  sanzionatori,
in  quanto  normalmente  inidonei  ad  assicurare  che  la  pena  sia
commisurata dal giudice tenendo conto  della  concreta  gravita'  del
fatto del  quale  l'imputato  sia  stato  ritenuto  responsabile  (da
ultimo, sentenza n. 222 del 2018). 
    Al  riguardo,  e'  necessario  tuttavia   rammentare   che   tale
giurisprudenza si fonda sul combinato disposto degli artt.  3  e  27,
primo e terzo comma, Cost., e ha dunque come necessario referente  il
principio   della   funzione   rieducativa   della   pena,   che   la
giurisprudenza di questa Corte ritiene non estensibile  al  di  fuori
della materia penale in senso stretto (sentenza n. 197 del 2018 e, in
materia di sanzioni  amministrative,  sentenza  n.  281  del  2013  e
ordinanza n. 169 del 2013), ben potendo in  particolare  le  sanzioni
disciplinari essere orientate, oltre che agli  scopi  di  prevenzione
generale  e  speciale,  insiti  in  ogni  tipo  di  sanzione,   anche
all'obiettivo di preservare l'integrita' etica e l'onorabilita' della
professione, nonche'  a  quello  di  assicurare  la  rimozione  dalle
funzioni di persone dimostratesi  non  idonee,  o  non  piu'  idonee,
all'assolvimento dei propri doveri (sentenze n. 197 del 2018 e n. 161
del 2018), senza dover essere necessariamente finalizzate anche  alla
"rieducazione" della persona colpita dalla sanzione. 
    Ne consegue che i principi  sviluppati  dalla  giurisprudenza  di
questa Corte in materia  di  proporzionalita'  e  individualizzazione
della pena non  possono  essere  sic  et  simpliciter  traslati  alla
materia delle sanzioni disciplinari, ma devono essere  adattati  alle
peculiarita' di  un  sistema  sanzionatorio  che  persegue  obiettivi
diversi rispetto  a  quelli  cui  il  diritto  penale  e'  orientato,
restando  fermo,  peraltro,  il  principio  generale   che   sanzioni
manifestamente sproporzionate  alla  gravita'  dell'illecito  violano
l'art. 3 Cost. (nonche' i diritti fondamentali su cui  tali  sanzioni
di volta in volta incidono), in quanto eccedenti gli scopi  legittimi
che le giustificano. 
    3.2.- In materia di sanzioni disciplinari, in numerose  occasioni
questa Corte ha ritenuto illegittime,  per  contrasto  con  l'art.  3
Cost., disposizioni che comportavano  l'automatica  destituzione  del
pubblico dipendente in conseguenza della sua condanna in sede  penale
per determinati reati (sentenze n. 268 del 2016, n. 2  del  1999,  n.
363 del 1996, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 971 del  1988;  ma,
in  senso  contrario,  sentenza  n.  112  del  2014,  relativa   alla
destituzione    di    diritto    degli    appartenenti    ai    ruoli
dell'Amministrazione  della   pubblica   sicurezza   in   conseguenza
dell'applicazione di una misura di sicurezza  personale).  Un  simile
automatismo e' stato, in particolare, ritenuto illegittimo  al  metro
dell'art. 3 Cost. nella sentenza n.  40  del  1990,  relativa  a  una
disposizione che prevedeva la destituzione di diritto del notaio  che
avesse riportato una condanna  in  sede  penale  per  uno  dei  reati
indicati nell'art. 5, numero 3, della legge n. 89 del 1913. 
    La  questione  ora  all'esame  -   cosi'   come   quella   decisa
recentemente da questa Corte con la sentenza n. 197 del  2018  -  non
concerne,  pero',  un  automatismo  legato  al  sopravvenire  di  una
condanna in sede penale per determinati reati che comportino  di  per
se stessi la destituzione, bensi' la previsione di un'unica  sanzione
fissa  a  carico  di  chi  sia  ritenuto  dal  giudice   disciplinare
responsabile di un preciso illecito, anch'esso  di  natura  meramente
disciplinare. L'elemento differenziale rispetto alle questioni decise
con le sentenze menzionate risiede, dunque, nella circostanza che  la
sanzione disciplinare e' qui  irrogata  dal  giudice  disciplinare  a
conclusione di un procedimento nel quale egli stesso ha accertato  la
responsabilita' dell'incolpato. 
    In simili situazioni, la valutazione che questa Corte e' chiamata
a compiere e' se  la  previsione  in  termini  indefettibili  di  una
determinata sanzione sia suscettibile di condurre, nel caso concreto,
a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati alla  gravita'
dell'illecito del quale l'interessato sia ritenuto responsabile: cio'
che renderebbe la relativa previsione normativa contraria all'art.  3
Cost. 
    Nella sentenza n. 170 del  2015,  questa  Corte  ha  ritenuto  in
effetti illegittimo l'automatismo insito nella previsione  automatica
della sanzione del trasferimento del magistrato  ad  altra  sede  nel
caso  in  cui  questi  fosse  stato  giudicato  responsabile  di   un
determinato illecito disciplinare, rimarcando  in  sostanza  come  la
configurazione di tale illecito fosse tale da abbracciare condotte di
disvalore  assai  differenziato,  si'  da  creare  il   rischio   che
l'irrogazione  indefettibile   della   sanzione   del   trasferimento
conducesse a  risultati  sanzionatori  sproporzionati  rispetto  alla
concreta gravita' dell'illecito. 
    Nella sentenza n. 197 del  2018,  per  contro,  questa  Corte  ha
ritenuto non manifestamente sproporzionata la  sanzione  fissa  della
rimozione   a   carico   del   magistrato   giudicato    responsabile
dell'illecito disciplinare di cui all'art. 3, comma  1,  lettera  e),
del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina
degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e
della procedura per la loro applicabilita',  nonche'  modifica  della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati,  a  norma  dell'articolo  1,
comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», in  ragione
dell'elevata  gravita'  di  tutte  le  condotte  riconducibili   alla
fattispecie astratta dell'illecito in questione. 
    Parimenti,  nella   specifica   materia   della   responsabilita'
disciplinare dei notai, la  sentenza  n.  234  del  2015  ha  escluso
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  159,  terzo  comma,  della
legge n. 89 del  1913,  nella  parte  in  cui  preclude  la  speciale
riabilitazione ivi prevista al notaio destituito  nell'ambito  di  un
procedimento disciplinare avviato in seguito  alla  sua  condanna  in
sede  penale  per  i  delitti  di  «falso,  frode,  abuso  d'ufficio,
concussione, corruzione, furto,  appropriazione  indebita  aggravata,
peculato, truffa e calunnia». In tale sentenza si e'  in  particolare
rilevato  come  la  preclusione  censurata  congiunga  «il   motivato
giudizio  dell'organo  disciplinare»,  competente   a   disporre   la
destituzione, «con una  tassativa  predeterminazione,  da  parte  del
legislatore, del catalogo dei reati che ostano alla  riabilitazione»;
reati questi ultimi «selezionati, nell'ambito della  vasta  area  del
diritto  penale,  individuando  fatti  che  in  linea  astratta  sono
suscettibili di spezzare la fiducia che la collettivita'  ripone  nel
corretto esercizio delle pubbliche funzioni attribuite al notaio». 
    3.3.- Alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza  ora
richiamata, la sanzione  fissa  della  destituzione  nella  peculiare
ipotesi prevista dall'art. 147, secondo comma, della legge n. 89  del
1913 non puo' ritenersi incompatibile con l'art. 3 Cost. 
    E' bensi' vero che, come osserva  la  parte  privata  B.  B.,  le
fattispecie astratte descritte - in termini peraltro assai lati - nel
primo comma dell'art. 147 della legge  n.  89  del  1913  abbracciano
condotte di disvalore non necessariamente omogeneo,  comprendendo  in
particolare  qualsiasi  condotta,  attinente  alla  vita  pubblica  o
privata,  che  comprometta,  «in  qualunque  modo»,  la  «dignita'  e
reputazione» del notaio nonche' «il decoro e prestigio  della  classe
notarile», oltre che qualsiasi  violazione  «non  occasionale»  delle
norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del  notariato.
Tuttavia, l'obbligatoria applicazione della  massima  sanzione  della
destituzione scatta,  a  norma  del  secondo  comma  in  questa  sede
censurato, soltanto quando il notaio sia stato ritenuto responsabile,
per la terza volta nell'arco di un decennio, di  uno  degli  illeciti
previsti dal primo comma, e alla specifica condizione che per i primi
due  illeciti  egli  sia  stato  condannato   alla   sanzione   della
sospensione. Questa sanzione di per se'  presuppone  che  il  giudice
disciplinare a suo tempo investito di tali  illeciti  abbia  ritenuto
gli stessi sufficientemente gravi da giustificare  l'irrogazione  non
gia'  di  una  mera  censura,  ma  di  una   sospensione   temporanea
dall'esercizio della professione. 
    E  allora,  e'  proprio  la  constatazione  che  le   sospensioni
precedentemente inflitte, per illeciti essi stessi  di  significativa
gravita', si siano rivelate  inidonee  a  dissuadere  il  notaio  dal
compimento di illeciti disciplinari,  a  rendere  non  manifestamente
sproporzionata  -  in  un'ottica  di   gradualita'   della   risposta
sanzionatoria - la destituzione di colui che, rendendosi responsabile
per la terza volta della medesima  violazione  -  quale  che  sia,  a
questo punto, la concreta gravita' della nuova condotta addebitatagli
-, si dimostri inadeguato rispetto agli  standard  richiesti  da  una
professione  «destinata  a  garantire  la  sicurezza   dei   traffici
giuridici, a  propria  volta  preminente  interesse  dello  Stato  di
diritto», e  nella  quale  i  consociati  debbono  poter  riporre  un
«particolare ed elevato grado di fiducia» (sentenza n. 234 del 2015).
Cio' tanto piu' in quanto, nelle ipotesi ora all'esame - a differenza
di quelle cui si riferisce l'art. 159, terzo comma, della legge n. 89
del 1913, scrutinato nella menzionata sentenza n. 234 del 2015 -,  al
notaio  destituito  non  e'  precluso  ottenere   la   riabilitazione
all'esercizio della professione ai sensi dello stesso art. 159, primo
comma, lettera b), una volta  che  siano  trascorsi  tre  anni  dalla
destituzione. 
    4. - Neppure risultano fondati i dubbi di costituzionalita' della
disciplina censurata sollevati con riferimento all'art. 24 Cost. 
    L'allegata  compressione  del  diritto  di  difesa   del   notaio
incolpato,    che     discenderebbe     secondo     il     rimettente
dall'impossibilita' a carico dello stesso «di chiedere al giudice  di
apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all'irrogazione
della sanzione piu' adeguata al caso», costituisce  infatti  il  mero
riflesso della preclusione  stabilita  sul  piano  sostanziale  dalla
disposizione  censurata,  che  vieta   per   l'appunto   al   giudice
(disciplinare) di irrogare una sanzione diversa  dalla  destituzione,
in presenza dei requisiti indicati dalla disposizione  medesima.  Una
volta escluso che la disciplina sostanziale incorra essa stessa in un
vizio di illegittimita' costituzionale  nel  prevedere  l'automatismo
sanzionatorio  in  parola,  anche  questa  ulteriore   censura   deve
necessariamente ritenersi non fondata.