IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE 
                        Sezione prima penale 
 
    In composizione monocratica in persona del giudice dott.  Stefano
Sernia. 
    Sciogliendo la riserva formulata all'udienza  dibattimentale  del
giorno 12 dicembre 2018 nel processo nei confronti di M. A.,  nato  a
... il ... letti gli atti e  sentite  le  parti,  ha  pronunziato  la
seguente ordinanza. 
    Si procede con rito ordinario,  ma  con  acquisizione  concordata
dell'informativa di polizia giudiziaria ed altri atti  del  fascicolo
del pubblico ministero, a seguito di rinvio a giudizio  dell'imputato
davanti a questo Tribunale, con  l'accusa  di  aver  coltivato  delle
piante di marijuana, scoperte presso la sua abitazione a  seguito  di
perquisizione domiciliare  eseguita  ex  art.  103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 ed autorizzata oralmente  dal
pubblico ministero, sebbene, come si legge nell'informativa di reato,
gli elementi posti  a  fondamento  della  richiesta  risiedessero  in
quanto riferito da una fonte confidenziale. 
    L'imputato non veniva arrestato, non e'  stato  interrogato,  ne'
risulta in alcun modo aver ammesso la detenzione o coltivazione delle
piante contenenti - come da ct in atti  -  principio  attivo  THC  in
percentuale utile ad avere efficacia stupefacente tale da consentire,
da un campione di soli 3 grammi consegnato al CT, di  ricavare  circa
sei dosi. 
    La  prova  della  responsabilita'  dell'imputato  poggia   quindi
esclusivamente sugli esiti della perquisizione eseguita presso la sua
abitazione. 
    Occorre  quindi  interrogarsi  sulla  liceita'  -  e  conseguente
utilizzabilita' - degli elementi  probatori  acquisiti  mediante  una
perquisizione disposta sulla base di elementi  inutilizzabili,  quali
sono, pacificamente, ed a causa della non verificabilita' della  loro
attendibilita' per esserne ignota la fonte, le  fonti  confidenziali,
gli anonimi e le voci correnti nel pubblico, per espressa  previsione
normativa (cfr. articoli 194, comma 3, 195, comma 7,  203,  comma  1,
234, comma 3, 240 del codice di procedura penale). 
    Premesso che dall'art. 382 del  codice  di  procedura  penale  si
evince che la situazione di  flagranza  e'  quella  che  si  presenta
allorche' la consumazione del reato cade sotto  la  percezione  degli
organi di polizia giudiziaria, ovvero  questi  rilevano  direttamente
sulla persona del reo tracce altamente significative che  egli  abbia
appena commesso un delitto, e non gia' ne abbiano notizia da parte di
terzi (cfr. ad esempio quanto  statuito  dalla  nota  sentenza  della
Corte di cassazione - Sezioni unite n. 39131 del  24  novembre  2015,
che ha precisato che «E' illegittimo l'arresto in  flagranza  operato
dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla
vittima o da terzi nell'immediatezza  del  fatto,  poiche',  in  tale
ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi  flagranza",  la  quale
presuppone la immediata ed  autonoma  percezione,  da  parte  di  chi
proceda all'arresto, delle tracce del reato e del  loro  collegamento
inequivocabile  con  l'indiziato»),  va  in   primo   luogo   escluso
senz'altro che quella eseguita dalla polizia  giudiziaria  sia  stata
una perquisizione in flagranza di reato. 
    La  perquisizione,  come  peraltro  espressamente   indicato   in
informativa, e'  stata  quindi  autorizzata  oralmente  dal  pubblico
ministero sulla base di quanto dalla polizia giudiziaria  riferito  a
quel  magistrato  circa   circostanze   comunicate   da   una   fonte
confidenziale. 
    Poiche' l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n.
309/1990 non ne prevede espressamente la necessita' per  il  caso  in
cui il pubblico ministero abbia rilasciato  un'autorizzazione  orale,
il pubblico ministero non ha emesso provvedimento di convalida  della
perquisizione,  ed  ha  convalidato  solo  il  conseguente  sequestro
probatorio eseguito dalla polizia giudiziaria. 
    Si pone quindi il problema della liceita' della  perquisizione  e
della utilizzabilita' dei suoi esiti, laddove  la  perquisizione  sia
stata autorizzata o eseguita al di fuori dei  limiti  e  delle  forme
previste dalla Carta costituzionale; ed  il  connesso  e  conseguente
problema della costituzionalita' della disciplina di legge  ordinaria
vigente,  quale  risultante  del  diritto  vivente   nascente   dalla
monolitica giurisprudenza di  legittimita'  -  stabilmente  applicata
anche in sede locale dal competente Tribunale  del  riesame  e  dalla
Corte  di  appello  -  che  vuole  utilizzabili  gli  esiti  di  tali
perquisizioni, pur nei casi in cui se ne riconosca l'illegittimita'. 
    La questione e' gia' stata  sollevata,  anche  se  sotto  diversi
profili, da questo stesso magistrato quale GUP con  ordinanza  emessa
in  data  5  ottobre  2017,  e  successivamente  nuovamente  e   piu'
approfonditamente articolata con ordinanza emessa, sempre in veste di
GUP, ed ulteriormente articolata alle udienze del 12  dicembre  2017,
13 settembre 2018 (in due distinti processi)  e  27  settembre  2018,
quale giudice del dibattimento; di tali ordinanze si  riproducono  in
questa sede le argomentazioni, con le ulteriori  specificazioni  date
dal caso concreto, in cui la perquisizione e' stata  autorizzata  dal
pubblico  ministero  in  forza  di  elementi  di   cui   e'   vietata
l'utilizzazione,  quali  le   fonti   confidenziali,   ritenendo   il
giudicante di dover trarre ulteriori argomentazioni alla  luce  della
sentenza emessa in data 27 settembre 2018 dalla  Prima  sezione  CEDU
nel caso Brazzi contro Italia. 
    Invero, la situazione di flagranza di reato, che evidentemente si
e' manifestata solo dopo  la  perquisizione,  non  puo'  aver  quindi
svolto la funzione di  preventiva  legittimazione  di  tale  atto  di
ricerca della prova, che la legge ordinaria (articoli 354 e  356  del
codice di procedura penale) e costituzionale (articoli 13 e 14  della
Costituzione) assegnano solo in via eccezionale all'ambito dei poteri
della polizia giudiziaria, in deroga al principio  generale  per  cui
simili atti, limitando la liberta' personale (e della  inviolabilita'
del domicilio per quel che attiene alla  perquisizione  domiciliare),
possono essere disposti solo dall'Autorita' giudiziaria e nei casi  e
modi previsti dalla legge. 
    Cio'  premesso,  va  sottolineata  la  cautela  del   legislatore
costituzionale, che ha assegnato solo  all'Autorita'  giudiziaria  il
potere di disporre atti di perquisizione ed  ispezione,  purche'  con
provvedimento motivato (il che appare implicare la  necessita'  della
forma scritta o comunque una forma di  documentazione  dell'eventuale
autorizzazione  orale,   rimanendo   altrimenti   inverificabile   ed
insondabile la sussistenza o meno  del  requisito  motivazionale),  a
garanzia  della  verificabilita'  della  effettiva   ricorrenza   dei
presupposti  e  della  necessita'  di  procedere  a  tali  atti;   ed
attribuendo  tale  potere  alla  polizia  giudiziaria  solo  in  casi
eccezionali ed entro ambiti ben delimitati, fissati  dalla  legge,  e
con rispetto delle garanzie di liberta' della persona. 
    I limiti fissati dalla legge si atteggiano,  invero,  in  ragione
della previsione costituzionale che li assiste, come  invalicabili  e
di  stretta  interpretazione;  e   qualsiasi   interpretazione   che,
comunque, si risolva in una vanificazione dei limiti  posti  al  loro
esercizio ad opera della polizia giudiziaria o della stessa Autorita'
giudiziaria (ad esempio, impedendo la verifica circa il  rispetto  di
tali limiti, ivi compreso quello della motivazione del  provvedimento
giurisdizionale;  o  stabilendo  l'irrilevanza  processuale  di  tali
violazioni), o nella lesione - sia  pure  mediata  -  della  liberta'
personale, appare da rigettarsi. 
    Invero,  l'art.  13  della  Costituzione  (richiamato,  quanto  a
garanzie e forme ivi previste, dall'art.  14  della  Costituzione  in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri eseguite nel  domicilio)
prescrive che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra
i quali  annovera  non  solo  l'arresto  o  il  fermo,  ma  anche  le
perquisizioni e le ispezioni  personali  -  sia  riservato  ad  «atto
motivato dell'Autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
dalla  legge»;  riserva  di  legge  e  di  provvedimento   (motivato)
dell'Autorita' giudiziaria, quindi, cui puo' derogarsi solo per  casi
eccezionali previsti  dalla  legge,  atteso  che  la  norma  prosegue
prevedendo che solo «in casi eccezionali di  necessita'  ed  urgenza,
indicati  tassativamente  dalla  legge,   l'autorita'   di   pubblica
sicurezza puo' adottare provvedimenti provvisori, che  devono  essere
comunicati entro quarantotto  ore  all'Autorita'  giudiziaria  e,  se
questa  non  li  convalida  nelle  successive  quarantotto  ore,   si
intendono revocati e restano privi di ogni efficacia». 
    L'art. 14 della Costituzione estende agli atti  di  perquisizione
domiciliare le garanzie dettate per le  perquisizioni  personali,  in
considerazione   della   primaria   importanza    che    la    tutela
dell'inviolabilita'  del  domicilio   assume   quale   strumento   di
protezione della sfera spaziale in cui si svolge l'abituale esercizio
di fondamentali diritti della  persona;  tutela  costituzionalizzata,
per il tramite dell'art. 117 della Costituzione (cfr. sentenze  della
Corte costituzionale numeri: 348 e 349/2007), anche dall'art. 8 della
Carta europea dei diritti dell'uomo, che sancisce  il  diritto  della
persona al rispetto del proprio domicilio - oltre che  della  propria
vita  privata  e  famigliare  -  anche  dalle  ingerenze   pubbliche,
legittime solo se previste dalla legge e necessitate da  esigenze  di
(per quel che qui interessa) difesa  dell'ordine  e  prevenzione  dei
reati. 
    I suddetti  diritti  sono  quindi  assistiti  -  a  sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico  dell'ordinamento  repubblicano
voluto dal legislatore costituzionale come fondato  sulla  tutela  di
quelle  liberta'  individuali  tendenzialmente  negate  o  fortemente
compresse dal precedente regime  - da  un  corredo  di  significative
cautele date  dalla  riserva  di  legge,  dalla  riserva  del  potere
giudiziario, dall'obbligo che questo provveda con atto motivato. 
    Solo in casi eccezionali di necessita'  ed  urgenza,  che  spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle Forze di polizia, che di  tali  compiti  sono  titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito  un  potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in  caso
di  mancata  convalida  da  parte  dell'Autorita'   giudiziaria   con
provvedimento che, sebbene cio' non sia espressamente previsto  dalla
norma, deve ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato  che  non
vi e' ragione di ritenere  che  il  legislatore  costituzionale,  per
l'ipotesi  di  particolare  delicatezza  costituzionale  data   della
convalida (la cui funzione e' verificare che la  polizia  giudiziaria
non abbia agito in tali delicatissime  materie  abusando  dei  propri
poteri, fuori dei casi in cui essi  sono  loro  riconosciuti),  abbia
voluto esonerare l'Autorita' giudiziaria dalla necessita' di motivare
i propri provvedimenti (come peraltro previsto gia' in  via  generale
dall'art. 111, comma 6, della Costituzione). 
    Come si e' accennato, tali  garanzie  sono  estese  dall'art.  14
della Costituzione anche al caso  delle  perquisizioni,  ispezioni  e
sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma  opera  alle
garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per  la  tutela
della liberta' personale. 
    La presente vicenda processuale si qualifica per  la  circostanza
che la polizia giudiziaria abbia agito in forza di  un'autorizzazione
resa dall'Autorita' giudiziaria, ma che tuttavia tale  autorizzazione
sia stata rilasciata in base a richiesta  della  polizia  giudiziaria
fondata su di una fonte confidenziale (e quindi  su  di  un  elemento
inutilizzabile), sia stata resa oralmente  (e  quindi  senza  che  ne
risulti una motivazione), ne' l'attivita' di perquisizione sia  stata
altrimenti successivamente  «sanata»,  risultando  l'assenza  di  una
convalida scritta e motivata. 
    Puo' qui tralasciarsi la considerazione di tutti i  casi  in  cui
norme speciali hanno ampliato i casi in cui alla polizia  giudiziaria
e' consentito procedere ad atti di ispezione e perquisizione, e ci si
puo' limitare ad osservare che i casi maggiormente  ricorrenti,  dati
dalle ipotesi di cui all'art. 4 della legge n. 152/1975, all'art.  41
TULPS, ed all'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n.
309/1990,  pongono,  a   fondamento   dei   poteri   eccezionali   di
perquisizione di polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza,  la
necessaria ricorrenza di situazioni oggettive («specifiche o concrete
circostanze di tempo o di luogo»; «fondato motivo»;  «indizio»  ecc.)
atte  a  significare  la  probabilita'  di  attuale  commissione   di
specifici delitti (tra i quali quelli  relativi  alla  detenzione  di
stupefacenti). 
    Fuori  delle  ipotesi  speciali  appena  richiamate,  la  polizia
giudiziaria puo' procedere a perquisizione domiciliare (o  personale)
solo in caso di flagranza di reato; e  l'Autorita'  giudiziaria  deve
operare un controllo effettivo sulla legalita' di tali perquisizioni,
emettendo quindi un decreto motivato. 
    Ed invero, sviluppando ulteriormente l'argomento gia' svolto  con
le precedenti ordinanze di rimessione, va ritenuto  che  nel  disegno
costituzionale - che intende fondare  uno  stato  di  pieno  diritto,
retto dal principio di legalita', con limiti ai poteri  della  stessa
Autorita' giudiziaria e  previsione  di  garanzie  giurisdizionali  a
verifica e controllo del modo e dei casi in cui le Forze  di  polizia
usino dei loro poteri, al fine di  evitarne  l'abuso  -  non  possano
essere tollerate deroghe ai  presupposti  di  fatto  e  requisiti  di
forma, richiesti dalla Costituzione, dei provvedimenti dell'Autorita'
giudiziaria, ne'  sussistere  limiti  alla  verifica  giurisdizionale
suddetta. 
    Ammettere quindi che la polizia  giudiziaria  possa  procedere  a
perquisizione  fuori  dei  casi   di   flagranza,   o   su   asserita
autorizzazione orale e non documentata del pubblico  ministero  (che,
si noti, ha successivamente  convalidato  sia  il  sequestro  che  la
perquisizione,  pur  senza  nulla  specificare  sui  presupposti   di
legittimita' di quest'ultima), equivale ad aggirare le cautele che la
Costituzione ha preposto a garanzia del corretto esercizio dei poteri
dell'Autorita' giudiziaria, e dell'effettivita'  del  suo  potere  di
controllo e verifica sugli atti di polizia  giudiziaria  interferenti
con liberta' costituzionalmente garantite. 
    Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto  conseguente,  che,  a
fondamento   della   legittimita'    di    una    perquisizione,    e
dell'utilizzabilita' dei suoi  esiti,  debba  essere  necessario  che
l'Autorita' giudiziaria abbia effettivamente  preventivamente  e  con
atto motivato autorizzato la  perquisizione,  o,  successivamente,  e
sempre con atto motivato, verificato la ricorrenza  della  condizione
di flagranza (o altra situazione prevista  da  norma  speciale),  che
legittimi  l'esercizio  dei   poteri   di   accesso   domiciliare   o
perquisizione personale in capo alla  polizia  giudiziaria;  in  caso
contrario si avrebbe -  oltre  che  degli  articoli  13  e  14  della
Costituzione  -  una  violazione  degli  articoli  111  e  117  della
Costituzione (con riferimento all'art. 6  della  Convenzione  europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo) essendo solo apparente  la
possibilita'  di  godere  dell'esame  di  un  giudice  imparziale  ed
indipendente, laddove questo giudice non abbia un adeguato potere  di
verifica   delle   circostanze   costituenti   elementi   a    carico
dell'imputato. 
    E' bene sottolineare che questo giudice ha sottolineato i profili
di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano,  a
presupposto  degli  atti   di   perquisizione,   elementi   probatori
particolarmente  deboli  o  inutilizzabili,  al  solo  fine  di   far
risaltare l'importanza da riconoscersi  alla  tutela  della  liberta'
personale e dell'inviolabilita' del domicilio  e  come  tali  materie
siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di  uno  stato  di
diritto, come disegnato dalla Costituzione e dalla CEDU,  in  cui  il
riconoscimento   di   diritti   fondamentali   della    persona    e'
necessariamente accompagnato dalla previsione di un giudice non  solo
imparziale ed  indipendente,  ma  anche  dotato  degli  strumenti  di
verifica  e  controllo  atti  ad  assicurarne   l'effettiva   tutela;
peraltro, in uno stato di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono per
primi vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur  pretendono
l'osservanza da parte  dei  consociati,  e  cio'  comporta  non  solo
l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire  l'effettivo
rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono. 
    Nella giurisprudenza della  Corte  di  cassazione  si  rinvengono
pronunzie che statuiscono la nullita' del  decreto  di  perquisizione
emesso dal pubblico ministero  in  base  a  notizie  confidenziali  o
denunzie anonime: 
        Sez. 6, sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016, che ha statuito
che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere  a
perquisizioni, sequestri e intercettazioni  telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.  Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce  anonime
possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico ministero  e
della polizia giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati  conoscitivi,
diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi  utili
per l'individuazione di una "notitia criminis". (In  applicazione  di
tale  principio,  la  Corte  ha  ritenuto  legittimi  l'attivita'  di
perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale
informatico eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata
sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era  emersa
la pubblicazione in rete di numerosi post  a  contenuto  diffamatorio
pubblicati mediante l'account creato sul social  network  facebook  a
nome dell'imputato, indagato  in  relazione  ai  reati  di  cui  agli
articoli 278, 291 e 214 del codice penale).». 
        Sez. 6, sentenza n. 36003  del  21  settembre  2006,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di reita'. Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del  pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione di  una  "notitia  criminis".  (In
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che  la  polizia
giudiziaria aveva  legittimamente  proceduto  alla  perquisizione  di
un'autovettura e al conseguente sequestro di  sostanza  stupefacente,
dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul
posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato).». 
        Sez. 5, ordinanza  n.  37941  del  13  maggio  2004,  che  ha
statuito che: «Il decreto  di  perquisizione  e  sequestro  emesso  a
seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione
di una "notitia criminis" e non come mezzo di ricerca della prova, e'
nullo. Infatti la  denuncia  confidenziale  o  anonima,  che  non  e'
inseribile  agli  atti  e  non  e'  utilizzabile,  non  puo'   essere
qualificata come una notizia di  reato  idonea  a  dare  inizio  alle
indagini  preliminari,  cosicche'  l'accusa  non  puo'  procedere   a
perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.». 
    La Suprema  Corte  ha  altresi'  avuto  modo  di  osservare  che,
ovviamente, anche la polizia giudiziaria - laddove norme di legge  le
attribuiscano il potere di eseguire perquisizioni fuori dei  casi  di
flagranza - e' tenuta al preciso rispetto dei  presupposti  posti  da
tali norme, e non puo' operare sulla base di meri sospetti: 
        Sez. 6, sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito
che: «E' configurabile l'esimente della reazione  ad  atti  arbitrari
del pubblico ufficiale qualora il privato opponga  resistenza  ad  un
pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il  suo  domicilio
una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art. 4  della  legge  22
marzo 1975, n. 152, alla ricerca di armi e munizioni fondata su  meri
sospetti e  non  su  dati  oggettivi  certi,  anche  solo  a  livello
indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel  luogo  in  cui
viene eseguito l'atto. (Fattispecie  in  cui  la  Corte  ha  ritenuto
immune da  vizi  la  mancata  convalida  dell'arresto  per  il  reato
previsto dall'art. 337 del codice  penale  all'imputato  per  essersi
opposto alla perquisizione disposta  dopo  la  contestazione  di  una
contravvenzione al codice stradale, senza che fossero  emersi  indizi
significativi circa  il  possesso  di  armi  o  di  oggetti  atti  ad
offendere). 
    Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema  Corte,
che a parere di questo giudicante rispondono pienamente  ai  principi
costituzionali  e  convenzionali  nella  individuazione  del  minimum
probatorio  necessario  a  rendere   legittima   una   perquisizione;
tuttavia, non se  ne  traggono  le  dovute  conseguenze  in  tema  di
utilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni operate al  di  fuori
dei presupposti di legge. 
    Il caso presente  differisce  poi  da  quelli  considerati  dalle
richiamate pronunzie della Suprema  Corte,  riguardando  il  caso  di
perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria  fuori  dei  casi  di
flagranza, ma su autorizzazione orale del  pubblico  ministero  o  da
questi convalidate fuori dei casi previsti dalla legge e comunque  in
assenza  di  motivazione  specifica   sugli   specifici   presupposti
legittimanti della perquisizione.  Infatti,  poiche'  all'atto  della
perquisizione cui venne  sottoposta  l'abitazione  dell'imputato  non
risultava  gia'  evincibile  una  situazione  di  flagranza,  ne'  al
pubblico  ministero  risultano  essere  stati   comunicati   elementi
legittimamente   utilizzabili   ai   fini   dell'emissione   di    un
provvedimento  di  perquisizione,  quella  compiuta   dalla   polizia
giudiziaria risulta  essere  una  perquisizione  domiciliare  abusiva
perche' assolutamente ingiustificata per l'assenza di un valido  atto
autorizzativo e compiuta al di fuori di una situazione di flagranza. 
    Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state
convalidate dal  pubblico  ministero  con  un  provvedimento  la  cui
motivazione,  sostanzialmente  apparente,  non  attesta  la  concreta
ricorrenza  di   alcuna   delle   situazioni   che,   normativamente,
legittimano a procedere  ad  atti  di  perquisizione  domiciliare  (o
personale): leggendo il provvedimento di convalida, ad  esempio,  non
e'  dato  comprendere  su  che  basi  la  perquisizione   sia   stata
convalidata, se non in forza della sua fruttuosita': come a dire che,
purche' abbia riportato  ad  un  risultato,  la  perquisizione  debba
sempre  essere  convalidata,  in  quello   che   appare   essere   un
capovolgimento concettuale della nozione di flagranza, trasformata in
un «posterius» rispetto all'atto che da essa invece dovrebbe derivare
la propria legittima eseguibilita'. 
    Stante l'inutilizzabilita' della fonte confidenziale, e l'assenza
di un provvedimento adeguatamente  motivato  ed  atto  a  significare
l'effettivo  esercizio  di  un   potere   di   controllo   da   parte
dell'Autorita' giudiziaria circa la ricorrenza  dei  presupposti  per
potersi procedere a perquisizione, e non ricorrendo le ipotesi  della
flagranza o le altre ipotesi previste da leggi speciali che  a  tanto
facultizzino le Forze di polizia, deve  ritenersi  che  gli  atti  di
perquisizione, ispezione e sequestro da queste eseguiti  siano  stati
compiuti in  violazione  di  un  divieto,  derivante  dalla  generale
riserva di tali atti alla sola Autorita' giudiziaria; la conseguenza,
in base a quanto previsto  dall'art.  191  del  codice  di  procedura
penale, che sancisce la inutilizzabilita' delle prove  vietate  dalla
legge, dovrebbe quindi essere la  inutilizzabilita'  degli  esiti  di
detta perquisizione; ma la giurisprudenza della Suprema  Corte,  come
meglio  oltre  si  dira',  e'  assolutamente  di   segno   contrario,
nonostante la sanzione dell'inutilizzabilita'  sembri  emergere  gia'
direttamente a livello di previsione costituzionale. 
    Come si e' detto, gli articoli 13 e 14  della  Costituzione  (che
infatti  richiama  le  garanzie  dell'art.  13  della   Costituzione)
prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto  ore  all'Autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere  di  questo
giudice,  che  gli  atti  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro
abusivamente compiuti dalla polizia giudiziaria o  non  motivatamente
convalidati dall'Autorita' giudiziaria rimangano senza effetto  anche
sul piano probatorio; la legge ordinaria ha  quindi  dato  attuazione
alla  previsione  costituzionale,  prevedendo  casi   tassativi   per
l'esercizio dei poteri di arresto, fermo, perquisizione, ispezione  e
sequestro da parte delle Forze di polizia, ed ha  introdotto  in  via
generale,  con  l'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   la
previsione  della  inutilizzabilita'   delle   prove   acquisite   in
violazione di un divieto di legge. 
    Invero, anche  a  prescindersi  poi  dalla  gia'  chiara  lettera
dell'art.  13,  comma  3,  della  Costituzione,  gia'  le   ordinarie
disposizioni   processuali   dovrebbero   condurre    al    risultato
interpretativo   della   inutilizzabilita'    degli    esiti    della
perquisizione illegittima, in presenza di una norma, come l'art.  191
del codice di procedura penale, che sanziona con  l'inutilizzabilita'
le prove acquisite in violazione di un divieto di legge. 
    Va tuttavia rilevato che il diritto  vivente,  quale  discendente
dalla monolitica interpretazione che  la  giurisprudenza  ha  offerto
delle norme di legge  (in  particolare,  proprio  dell'art.  191  del
codice di procedura penale) dettate a sanzione  di  inutilizzabilita'
dell'assunzione di prove vietate dalla legge, non assegna conseguenze
di inutilizzabilita' agli  esiti  delle  perquisizioni  ed  ispezioni
compiute dalle Forze di polizia fuori dei casi in cui la legge glielo
consente, o in esecuzione di un atto giurisdizionale illegittimo. 
    Affermando anzi l'utilizzabilita' probatoria del corpo di reato e
delle cose pertinenti al reato acquisite grazie a tali  perquisizioni
ed ispezioni, anche se avvenute  in  violazione  di  un  divieto,  la
giurisprudenza della Suprema  Corte,  a  parere  di  questo  giudice,
vanifica le  garanzie  costituzionali,  dando  luogo  ad  un  diritto
vivente che si pone in contrasto  con  esse,  come  meglio  oltre  si
dira'. 
    Come si e' osservato, l'esecuzione di una perquisizione fuori dei
casi o delle forme imposte dalla Costituzione e dalla  legge  che  ne
sia attuazione, dovrebbe  condurre  all'inutilizzabilita'  probatoria
degli esiti della perquisizione e del sequestro, in forza  di  quanto
previsto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, che espressamente
statuiscono che detti atti, nei casi suddetti, «si intendono revocati
e restano privi di ogni efficacia»: con linguaggio la  cui  chiarezza
non e' stata forse finora adeguatamente  apprezzata,  il  legislatore
costituzionale  aveva  cioe'  chiaramente  introdotto   la   sanzione
dell'inutilizzabilita' degli esiti degli atti di polizia  giudiziaria
illegittimamente invadenti la sfera della liberta' personale. 
    Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata  non  solo  alla  illegittima
esecuzione di  atti  di  arresto  o  di  fermo,  ma  genericamente  e
complessivamente  al  caso  dell'adozione  dei   «provvedimenti»   di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori  dei  casi  previsti
dalla legge; e -  a  meno  di  voler  affermare  che  il  legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e  scarsa  padronanza
la lingua italiana - i provvedimenti in  questione  non  possono  non
essere che tutti quelli contemplati  dalla  norma  stessa,  e  quindi
anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13  della
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione  che
voglia  limitare  la  previsione  costituzionale  della  «perdita  di
efficacia»  ai  soli   provvedimenti   soppressivi   della   liberta'
personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che  l'art.  13  della
Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva  (i  «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla  polizia  giudiziaria)  che  a  tutti  i
provvedimenti da detta  norma  contemplati  risulta  riferirsi,  come
evincibile  anche  dalla  disciplina  adottata  dall'art.  14   della
Costituzione, che espressamente li richiama «nominatim»  («ispezioni,
perquisizioni o sequestri»)  prevedendone  l'adottabilita'  da  parte
della polizia giudiziaria «secondo  le  garanzie  prescritte  per  la
tutela della liberta' personale». 
    Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e  di  cui  la  norma  costituzionale  si  e'  preoccupata  di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto  ad  atti  di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti  e  terminati
nella loro esecuzione  (come  e'  necessariamente,  dato  che  ne  e'
prevista la convalida entro novantasei  ore  al  massimo  dalla  loro
esecuzione),  e'  solo  quella  che  attiene  alla   loro   capacita'
probatoria; la sanzione di perdita dell'efficacia equivale  quindi  a
quella - nel linguaggio che il codice di  procedura  repubblicano  ha
adottato quarant'anni dopo l'approvazione della Costituzione -  della
inutilizzabilita' introdotta dall'art. 191 del  codice  di  procedura
penale per le prove assunte in violazione di un divieto di legge. 
    E' bene poi precisare che l'art. 13 della Costituzione riconnette
la conseguenza della perdita di efficacia degli atti di polizia, alla
circostanza  che  essi   non   vengano   convalidati   dall'Autorita'
giudiziaria  in  un  termine  dato;   ma   la   ratio   della   norma
costituzionale  sarebbe  senz'altro  frustrata  se  la  convalida  si
risolvesse in una pura forma non esprimente  un  effettivo  controllo
circa la legalita'  dell'atto  di  polizia  giudiziaria;  di  qui  la
prescrizione (a parere di questo  giudice  evincibile  dal  comma  2,
dell'art. 13 della Costituzione,  come  si  e'  gia'  osservato)  che
l'atto di convalida debba essere motivato, poiche'  e'  solo  con  un
atto avente tali caratteristiche che  l'art.  13  della  Costituzione
consente che l'Autorita' giudiziaria incida sulla liberta' personale:
e non  avrebbe  senso  prevedere  la  necessita'  dell'atto  motivato
allorche' l'Autorita' giudiziaria, titolare in via ordinaria di  tale
potere, proceda  di  sua  iniziativa,  e  non  gia'  allorche'  debba
verificare che la polizia giudiziaria non abbia  esorbitato  dai  (od
addirittura abusato dei) casi del tutto eccezionali in cui  la  legge
le concede di intervenire in materia di liberta' personale. 
    E' quindi ovvio che, nel sistema  delineato  dall'art.  13  della
Costituzione,  la  convalida  operi  in  quanto  espressione  di   un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta  ricorrenza  dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione  personale  (non
e' un caso, ad esempio, che  lo  stesso  art.  103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990  prevede,  come  peraltro  e'
ovvio, che l'Autorita' giudiziaria convalidera' la perquisizione «ove
ne  ricorrano  i  presupposti»),  e  non  sia  sufficiente  un   mero
provvedimento   di   convalida   assolutamente    immotivato    sulla
ravvisabilita'  della  situazione  legittimante   la   perquisizione,
personale o domiciliare: situazione che, nel vigente sistema, e' data
fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato  o  dalla
ricorrenza di fondate ragioni che inducano  a  ritenere  che  sia  in
corso l'esecuzione di un delitto in materia di  stupefacenti  o  armi
(con riferimento alle due norme - gli articoli 103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 TULPS - legittimanti  la
perquisizione fuori dei casi  di  flagranza,  di  maggiore  rilevanza
statistica). 
    Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di  legge
ordinaria,  impongono  che   la   polizia   giudiziaria   proceda   a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla  legge,  e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria. 
    Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta
e  condivisibile  da  parte  dell'Autorita'  giudiziaria,  circa   la
ricorrenza di ragioni  adeguatamente  giustificatrici  dell'esercizio
del potere di perquisizione,  va  anche  richiamata,  per  l'assoluta
importanza  della  fonte,  che   assegna   alla   decisione   rilievo
costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza  16  marzo
2017, Modestou contro Grecia, con  la  quale  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo (d'ora  in  poi  per  brevita'  CEDU)  ha  ritenuto
essersi verificata violazione dell'art. 8 CEDU, in un caso in cui era
stata  eseguita  perquisizione  presso  il  domicilio   personale   e
professionale del ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex
ante e sulla scorta di un mandato di perquisizione generico; ne'  era
stato  previsto  un  immediato  controllo  giurisdizionale  ex  post,
considerato che la  Corte  d'appello,  adita  dal  ricorrente,  aveva
respinto la doglianza non solo piu' di due anni dopo la perquisizione
in questione, ma nemmeno indicando  neppure  i  motivi  «rilevanti  e
sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale
si trae quindi conferma che,  secondo  le  norme  della  CEDU,  nella
vincolante  interpretazione   offertane   dalla   CEDU,   l'Autorita'
giudiziaria   debba   operare   una   illustrazione    motivata    (e
condivisibile) delle ragioni della perquisizione, al fine di  rendere
verificabile la  legittimita'  dell'esercizio  del  relativo  potere;
statuizione  che,  se   vale   per   le   perquisizioni   autorizzate
dall'Autorita' giudiziaria, deve a maggior ragione valere per  quelle
operate direttamente  dalla  polizia  giudiziaria  e  successivamente
convalidate dalla Autorita' giudiziaria. 
    Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato  che
l'art. 13 della Costituzione  ricollega  la  salvezza  degli  effetti
dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che,  sebbene  le
nullita' degli atti per difetto  di  motivazione  siano  generalmente
rilevabili solo su eccezione di parte, in questo  caso  debba  invece
ritenersi che la ricorrenza di un  atto  di  convalida  adeguatamente
motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti
dell'atto di polizia giudiziaria, sia un elemento  della  fattispecie
«sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio;  cosi'
come dovra' verificarsi che, a prescindere  da  quanto  eventualmente
affermato col provvedimento di convalida (si pensi ad esempio al caso
di una motivazione non aderente  ai  dati  fattuali  emergenti  dagli
atti; o che da questi tragga conclusioni  assolutamente  illogiche  o
non giustificate), ricorressero effettivamente i presupposti  perche'
la polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri previsti in via  del
tutto eccezionale. 
    Tanto  premesso,  va  peraltro  preso   atto   che   tali   esiti
epistemologici  sono  estranei  alla  interpretazione  accolta  dalla
giurisprudenza   assolutamente   dominante   che,    a    far    data
dall'insegnamento  espresso  dalle  Sezioni  unite  della  Corte   di
cassazione con la sentenza n. 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto  la
piena utilizzabilita' probatoria degli esiti  delle  perquisizioni  e
sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria al  di  fuori  dei  casi
previsti dalla legge,  pur  prendendo  le  mosse  da  statuizioni  di
principio di segno apparentemente opposto alle conclusioni finali. 
    In realta', con la suddetta  sentenza,  le  Sezioni  unite  della
Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato  a  chiare
lettere che la conseguenza di un'attivita' di  illecita  acquisizione
della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non  puo'
limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o  penali  nei
confronti   dell'autore    dell'illecito,    ma    deve    comportare
l'inutilizzabilita'  della  prova  stessa,  statuendo  che:  «non  e'
certamente difficile riconoscere che  allorquando  una  perquisizione
sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non  nei
"casi" e nei  "modi"  stabiliti  dalla  legge,  cosi'  come  disposto
dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza  di  un  mezzo  di
ricerca della prova che non e' piu' compatibile  con  la  tutela  del
diritto di  liberta'  del  cittadino,  estrinsecabile  attraverso  il
riconoscimento dell'inviolabilita'  del  domicilio.  L'illegittimita'
della ricerca di una prova,  pur  quando  non  assuma  le  dimensioni
dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 del codice  penale),  non  puo'
esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione  del
diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione  di
sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che  ne  sono
stati gli autori. La  perquisizione,  oltre  ad  essere  un  atto  di
investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una
prova  preesistente  e,  quindi,  diviene  partecipe  del   complesso
procedimento  acquisitivo  della  prova,   a   causa   del   rapporto
strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo'
essere necessario o utile ai  fini  della  indagine:  nessuna  prova,
diversa da  quelle  che  possono  formarsi  soltanto  nel  corso  del
procedimento, potrebbe  essere  acquisita  al  processo  se  una  sua
ricerca non sia  stata  compiuta  e  questa  non  abbia  avuto  esito
positivo. 
    Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca  di  una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se'  stessa  sottratta  alla   materiale   possibilita'   di   essere
suscettibile di una diretta utilizzazione  nel  processo  penale,  e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che  avvince  la  ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. 
    Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non  e'
esauribile  nell'area  riduttiva  di   una   mera   consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in  numerose  pronunce  di  questa
Corte prima dell'entrata in vigore  del  nuovo  codice  di  procedura
penale, e com'e' stato, anche in  epoca  successiva,  qualche  volta,
ribadito (cfr. Sez. 1 - 17 febbraio 1976 ric. Cavicchia; Sez. VI - 23
gennaio 1973 ric. Ferraro; Sez. V - 24 novembre 1977 ric. Manussardi;
Sez. 1 - 15 marzo 1984 ric. Zoccoli; Sez. VI - 24  aprile  1991  ric.
Lione;  Sez.  V  -  12  gennaio  1994  ric.   Vetralla,   etc.):   la
perquisizione  non  e'   soltanto   l'antecedente   cronologico   del
sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende  possibile
il ricorso al sequestro.». 
    Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero  che  esista
una distinzione concettuale tra  la  perquisizione,  quale  mezzo  di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di  acquisizione
della  prova,  cio'  non  ha   alcuna   rilevanza   ai   fini   della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che: 
        «la  stessa  utilizzabilita'  della  prova  e'   pur   sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento  acquisitivo
che si sottragga, in ogni  sua  fase,  a  quei  vizi  che,  incidendo
negativamente sull'esercizio di  diritti  soggettivi  irrinunciabili,
non  possono  non  diffondere  i  loro  effetti  sul  risultato  che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito.  Del  resto,  non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso  ordinamento  processuale  ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra  perquisizione
e sequestro: l'art. 252 del codice  di  procedura  penale  impone  il
sequestro delle "cose rinvenute  a  seguito  della  perquisizione"  e
l'art. 103, comma VII°, dello stesso  codice  espressamente  sancisce
l'inutilizzabilita' dei  risultati  delle  perquisizioni  allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle  particolari  garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter  esercitare  congruamente
il diritto di difesa. E non si vede  perche'  a  diverse  ed  opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una  perquisizione  sia  stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano,  in  concreto,  l'attuazione  di  quella  ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13, comma 2° della Costituzione: si tratta pur sempre di un
procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta  ineludibile
della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto  che,  per  la
sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la  piu'  radicale
sanzione  di  cui  l'ordinamento   processuale   dispone,   e   cioe'
l'inutilizzabilita' della prova cosi'  acquisita  in  ogni  fase  del
procedimento.». 
    Il prosieguo della statuizione della Suprema Corte  si  risolveva
peraltro, ed alquanto sorprendentemente,  nella  vanificazione  della
portata pratica di tali principi appena enunciati; continuava infatti
detta sentenza affermando comunque valido il sequestro, perche'  atto
dovuto, allorche' avesse  ad  oggetto  il  corpo  del  reato  o  cose
pertinenti al  reato;  pertanto,  di  fatto,  l'unico  sequestro  che
sarebbe stato inutilizzabile a fini probatori, sarebbe  stato  quello
gia' di per se' inutile e che  non  avrebbe  quindi  comunque  dovuto
essere disposto, perche' non relativo ne' al corpo del reato,  ne'  a
cose pertinenti al  reato;  affermava  infatti  la  Suprema  Corte  a
Sezioni unite: 
        «Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca  della
prova  del  commesso  reato,   allorquando   assume   le   dimensioni
conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a  tutela  dei
diritti  soggettivi  oggetto  di  specifica  tutela  da  parte  della
Costituzione, non puo', in linea  generale,  non  diffondere  i  suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire,  e'  altrettanto  vero  che  allorquando  quella  ricerca,
comunque effettuata, si  sia  conclusa  con  il  rinvenimento  ed  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a  quel  sequestro  si  sia  pervenuti:  in  questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto  di  una  situazione  non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un "atto dovuto",  la
cui omissione esporrebbe  gli  autori  a  specifiche  responsabilita'
penali,  quali  che  siano   state,   in   concreto,   le   modalita'
propedeutiche e funzionali  che  hanno  consentito  l'esito  positivo
della ricerca compiuta. 
        Con cio' non si intende affatto affermare che  l'oggetto  del
sequestro, a causa della sua intrinseca  illiceita',  ovvero  per  il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in  relazione  al  reato
commesso,  possa,  per  cio'  solo,  dissolvere  quella   connessione
funzionale   che   lega   la   perquisizione   alla    scoperta    ed
all'acquisizione di  cio'  che  si  cercava,  ma  si  vuole  soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste  dall'art.
253, comma 1° del codice di procedura penale, gli aspetti strumentali
della ricerca, pur rimanendo partecipi del  procedimento  acquisitivo
della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un  obbligo
giuridico che trova la  sua  fonte  di  legittimazione  nello  stesso
ordinamento  processuale  ed  ha  una  sua  razionale  ed   appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia  giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente  legati
al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o  no  -  in
cui egli si trovi ad operare». 
    Tali  statuizioni  avrebbero  potuto,  in   verita',   risolversi
nell'asserzione della legittimita' del sequestro, ferma  restando  la
inutilizzabilita' probatoria del suo oggetto; ma  le  Sezioni  unite,
invece, concludevano osservando che gli agenti di polizia giudiziaria
avrebbero poi potuto testimoniare sugli  esiti  della  perquisizione,
ferma restano l'inutilizzabilita' di essa in quanti  tale  (e  cioe',
par di capire, del verbale che ne documenta modalita', tempo,  luoghi
e risultato). 
    Da tale arresto delle Sezioni unite ha tratto origine e  sviluppo
una giurisprudenza che si e'  ancorata  unicamente  alle  statuizioni
circa  la  legittimita'  ed  utilizzabilita'  a  fini  probatori  del
sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei
principi affermati dalle stesse Sezioni unite nella prima parte della
propria statuizione,  e  che  probabilmente  avrebbero  meritato  una
riflessione e  sviluppo  ulteriori:  come,  ad  esempio,  quella  che
volesse limitare l'utilizzabilita' probatoria del sequestro alla  res
in quanto tale, cioe' nella sua  materiale  idoneita'  a  provare  la
sussistenza del fatto (si pensi  al  rinvenimento  di  un'arma  o  di
sostanza  stupefacenti,  idonei  a  provare  i  reati  di  detenzione
illecita di tali oggetti) ed  a  fungere  da  eventuale  supporto  di
tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico  suscettibile
di  comparazione  del  DNA)   aventi   carattere   individualizzante:
interpretazione, questa, sostenuta da questo  giudice  in  precedenti
procedimenti,  ma  non  condivisa  dai  giudici  competenti   per   i
successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza  che
si  e'  richiamata  e  che  delle  citate  Sezioni  unite   coglieva,
sostanzialmente, solo  quanto  risultante  dal  dispositivo  e  dalla
massima. 
    Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di
e'  monoliticamente   assestata   su   tali   esiti   interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro  conseguente
ad una perquisizione illegittima,  e  la  sua  piena  utilizzabilita'
probatoria; si citano, ad esempio, ed  in  assenza  di  pronunzie  di
segno contrario, che  lo  scrivente  magistrato  non  e'  riuscito  a
rinvenire: 
        Sez. 3, ordinanza n. 3879  del  14  novembre  1997;  Sez.  1,
sentenza n. 2791 del 27 gennaio 1998, Sez. 5, sentenza n. 6712 del  7
dicembre 1998, Sez. 3, sentenza n. 1228 del 17 marzo  2000,  Sez.  4,
sentenza n. 8052 del 2 giugno 2000, Sez. 6, sentenza n.  3048  del  3
luglio 2000, Sez. 2, sentenza n. 12393 del 10 agosto  2000,  Sez.  1,
sentenza n. 45487 del 28 settembre 2001, Sez. 1,  sentenza  n.  41449
del 2 ottobre 2001, Sez. 1, sentenza n. 497 del 5 dicembre 2002, Sez.
5, sentenza n. 1276 del 17 dicembre 2002, Sez. 2, sentenza  n.  26685
del 14 maggio 2003, Sez. 2, sentenza n. 26683  del  14  maggio  2003,
Sez. 1, sentenza n. 18438 del 28 aprile 2006,  Sez.  2,  sentenza  n.
40833 del 10 ottobre 2007, Sez. 6, sentenza n. 37800  del  23  giugno
2010, Sez. 1, sentenza n. 42010 del 28 ottobre 2010, Sez. 2, sentenza
n. 31225 del 25 giugno  2014,  Sez.  3,  sentenza  n.  19365  del  17
febbraio 2016 (quest'ultima addirittura nel senso della  legittimita'
di  perquisizioni  ordinate  od  eseguite  in  forza  di  sole  fonti
confidenziali); 
        Sez. 2, sentenza n. 15784  del  23  dicembre  2016,  Sez.  5,
sentenza n. 32009 dell'8 marzo 2018. 
    Anche  le  sentenze  gia'  richiamate  in  precedenza,  che   pur
affermavano l'illegittimita' del sequestro o della  perquisizione  (o
intercettazione) operate in forza di fonti confidenziali  o  anonimi,
sembrano in realta' essersi arrestate (tranne che per il  caso  delle
intercettazioni, e verosimilmente in quanto gia'  esiste  un  sistema
codificato di inutilizzabilita' delle stesse, che funge da ancoraggio
giuridico-culturale  all'accettazione   di   ulteriori   ipotesi   di
inutilizzabilita') al mero rilievo dell'illegittimita'  dell'atto  (e
dell'obbligo di restituzione della res), senza trarne sino  in  fondo
le conseguenze relative al regime di inutilizzabilita' probatoria. 
    Alla luce di richiamati principi espressi dagli articoli 13 e  14
della Costituzione, questo giudicante ritiene che le  norme  vigenti,
per come interpretate dalla giurisprudenza  assolutamente  prevalente
(e tale da dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente), non siano
rispettose  del  dettato  costituzionale,  ed  in  particolare  degli
articoli  3,  13,  14  e  117  (con  riferimento  all'art.  8   della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo) della Costituzione,  nella
parte   in   cui   le   norme   di   diritto   ordinario   consentono
l'utilizzabilita' processuale - mediante deposizione testimoniale  di
chi abbia operato la perquisizione od  ispezione  illegittima,  o  la
lettura od  altra  forma  di  utilizzazione  del  verbale  di  quanto
risultante dalla  perquisizione  e  dal  sequestro  -  della  valenza
probatoria degli esiti di una perquisizione o ispezione e  di  quanto
eventualmente sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali  atti,
allorche' tali atti di  ricerca  della  prova  siano  stati  disposti
dall'Autorita' giudiziaria senza il rispetto dei presupposti e  delle
forme dettati dalla legge, o eseguiti dalla polizia giudiziaria fuori
dei casi in  cui  la  legge  costituzionale  e  quella  ordinaria  le
attribuiscono il relativo potere; tra tali casi, deve farsi rientrare
quello dell'autorizzazione data verbalmente  dal  pubblico  ministero
senza che ne risultino le ragioni, o in forza di elementi che gli era
vietato utilizzare (a tutela di diritti costituzionali), e quella  in
cui  il  pubblico  ministero  abbia  successivamente  convalidato  la
perquisizione senza concreta motivazione in  ordine  alla  ricorrenza
dei casi in cui la legge assegnava in  via  eccezionale  il  relativo
potere alla polizia giudiziaria. 
    L'interpretazione   maggioritaria   circa   l'irrilevanza   della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti  si  risolverebbe  quindi,  del  tutto  paradossalmente,  nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
(e  sempre  che  la  Corte   costituzionale   ne   abbia   dichiarato
l'incostituzionalita') le leggi  incostituzionali,  ma  efficacissimi
gli atti di polizia giudiziaria compiuti in  violazione  dei  diritti
costituzionali del cittadino. 
    Tale giurisprudenza, inoltre: 
        a) sembra operare una confusione di piani  tra  il  sequestro
inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di
fatto,  e  data  l'estensione  concettuale  della  nozione  di   cose
pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso  di
perquisizione illegittima - solo del sequestro  inutile:  il  che  e'
assolutamente inconferente rispetto alle  tematiche  e  problematiche
poste dall'art. 191 del codice di procedura penale; 
        b) non considera che il sequestro non e'  una  prova,  ma  il
mezzo che serve ad assicurare al processo  la  res  che  puo'  essere
fonte di prova; 
        c) non considera che la valenza probatoria di una determinata
res e' generalmente data non dalla sola cosa in se'  (la  quale  puo'
generalmente provare la sussistenza del fatto ma non  necessariamente
chi lo abbia commesso, se  non  nel  caso  in  cui  sulla  res  siano
rinvenibili tracce biologiche, papillari o di  altro  genere  che  ne
permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma  anche
dalle circostanze del suo rinvenimento, specie  allorche'  si  tratti
appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso  (svelato  dalla
perquisizione) ad essere  indizio  grave  di  commissione  del  reato
stesso; 
        d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva  non
e'  tanto  la  legittimita'  del  sequestro,  quanto   quella   della
perquisizione tramite la quale  si  e'  rinvenuta  la  res  (con  suo
successivo  sequestro),  atteso   che   e'   la   perquisizione   che
generalmente  comprova  quella  relazione  personale  tra   la   cosa
indiziante di delitto e l'autore dello stesso; 
        e) non avverte che la ratio della norma di cui  all'art.  191
del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle
prove acquisite in violazione di un divieto di legge,  e'  quella  di
offrire un valido presidio ai diritti  costituzionalmente  garantiti,
disincentivandone le violazioni  finalizzate  all'acquisizione  della
prova, rendendone inutilizzabili gli  esiti  probatori  (si  veda  ad
esempio la disciplina della inutilizzabilita'  delle  intercettazioni
illegittime ex art. 271 del codice  di  procedura  penale;  si  pensi
all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura  penale  di
una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che
possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della  persona
dichiarante; si considerino  le  conseguenze  di  un'acquisizione  di
tabulati del traffico telefonico eseguita dalla  polizia  giudiziaria
in assenza di provvedimento motivato dell'Autorita' giudiziaria); 
        f) non assegna  adeguato  valore  alla  circostanza  che  una
perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne  ha  il
potere, e' un  caso  tipico  di  prova  vietata  dalla  legge  ed  in
violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli  13
e 14  della  Costituzione;  art.  8  CEDU),  e  la  conseguenza  deve
necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati  (come
previsto dall'art. 13, comma 3, della Costituzione), conformemente  a
quella che e' la ratio dell'art. 191 del codice di  procedura  penale
che, inibendo  l'utilizzabilita'  degli  esiti  delle  prove  vietate
perche' assunte in  violazione  di  diritti  costituzionali,  intende
appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; 
        g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la
possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata  agli  esiti
della perquisizione, equivale a negare la tutela  del  cittadino  dai
possibili abusi della polizia giudiziaria: tutela assicurata  in  via
generale ed astratta dagli articoli 13 e 14  della  Costituzione,  ma
che verrebbe vanificata dall'incentivazione agli abusi  per  mancanza
di conseguenze processuali relative alla inutilizzabilita'  dei  loro
risultati; ed i drammatici fatti di Genova e  di  Bolzaneto  appaiono
esserne storica conferma e dimostrazione. 
    Quella discendente dalla citata sentenza delle Sezioni  unite  n.
5021 del 27 marzo 1996 appare quindi essere un'interpretazione  dalla
scarsa tenuta logica, idonea a fungere da  vera  e  propria  mina  di
irrazionalita', che si presta ad introdurre trattamenti  irrispettosi
del   principio   di   eguaglianza   delle   situazioni   processuali
equiparabili:  si  pensi  alla  gia'  richiamata  giurisprudenza  che
riconosce la non utilizzabilita' di altre prove  vietate,  quali  gli
anonimi  e  le   fonti   confidenziali,   nemmeno   ai   fini   della
legittimazione di una perquisizione. 
    Tali considerazioni devono invece condurre  a  ritenere  che  una
perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza
che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non
solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi  utilizzabili  ai
fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo  e'
imposto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma  anche  da  una
piana lettura dell'art. 191 del codice di procedura penale rispettosa
dei  principi  costituzionali,  ma  allo  stato  negata  dal  diritto
vivente, il quale ultimo si pone pertanto in contrasto con i principi
costituzionali di cui agli articoli 13, 14 e 3 della Costituzione. 
    Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere  di  questo
giudice, i presupposti  di  applicabilita'  della  conseguenza  della
inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191  del  codice  di
procedura penale, in base ad una piana lettura della  norma  ed  alla
ratio della stessa, come colta al punto f) che precede;  ed  infatti,
appare evidente che - l'Autorita' giudiziaria allorche' autorizza una
perquisizione  in  forza  di  elementi  inutilizzabili  o  senza   il
provvedimento formale imposto  dalla  Costituzione  -  o  la  polizia
giudiziaria, allorche' proceda ad un atto di perquisizione fuori  dei
casi a lei consentiti, compiano un atto che e' loro vietato -  e  non
semplicemente un atto irrituale o  nullo,  come  pure  talora  si  e'
sostenuto in talune pronunzie della Corte di cassazione - atteso  che
sia la  legge  ordinaria  che  quella  costituzionale  prevedono  una
riserva del potere di perquisizione all'Autorita' giudiziaria, a  sua
volta subordinato al rispetto dei limiti  posti  dalla  legge,  nella
delineazione di una serie di garanzie  a  tutela  della  effettivita'
dello stato di diritto (e delle liberta' individuali che questo  deve
garantire),  in  cui   i   poteri   della   polizia,   degli   organi
amministrativi e della stessa Autorita' giudiziaria  sono  sottoposti
al principio di legalita', nei casi che  coinvolgono  l'esercizio  di
diritti costituzionali fondamentali dei privati  (quali  la  liberta'
personale e quella domiciliare,  che  ex  art.  14,  comma  2,  della
Costituzione  e'  «aggredibile»  solo  «negli  stessi  casi  e   modi
stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte  per  la  tutela
della liberta' personale»). 
    L'interpretazione dominante che,  invece,  comunque  consente  di
«recuperare» ed utilizzare gli esiti delle perquisizioni illegittime,
negando l'applicabilita' del divieto posto dall'art. 191  del  codice
di procedura penale  all'utilizzabilita'  probatoria  del  corpo  del
reato  o  di  cosa  pertinente  al  reato  e  degli  altri   elementi
conoscitivi acquisiti a seguito di perquisizione illegittima,  appare
pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli  articoli
13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia  della
perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse  conseguenti,
allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191  del  codice
di procedura penale,  come  esistente  nel  diritto  vivente,  appare
quindi  in  contrasto  con  i  predetti  articoli  13  e   14   della
Costituzione. 
    Non e' peraltro fuori luogo osservare,  come  peraltro  da  tempo
rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema  Corte,  che
la  ragione  d'essere  della   disciplina   delle   inutilizzabilita'
stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non  e'  tanto
di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore  di  riconoscere
valore   probatorio   ad   atti   illeciti),   quanto    di    ordine
politico-costituzionale, essendosi rilevato che l'effettivita'  della
tutela dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi  in
caso di assunzione di prova in violazione di un divieto,  riposa  nel
negare ogni utilizzabilita' a quanto cosi'  venga  acquisito:  atteso
che, grazie a tale divieto di  utilizzabilita',  si  scoraggeranno  e
disincentiveranno quelle pratiche di  acquisizione  della  prova  con
modalita' illegali (e talora francamente  illecite),  che  violano  i
diritti costituzionali a cui presidio sono appunto  posti  i  divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. 
    La giurisprudenza formatasi sulla scorta della  citata  Corte  di
cassazione - Sezioni unite n. 5021/1996 realizza, pertanto, anche una
violazione dell'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  del  tutto
irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio,  nega
la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del  codice
di procedura penale a casi del tutto  sovrapponibili  ad  altri  (per
certi  versi  addirittura  meno  gravi)  per   i   quali   la   legge
espressamente la prevede: basti pensare, ad esempio,  non  solo  alle
ipotesi  di  intercettazioni  eseguite  d'iniziativa  dalla   polizia
giudiziaria e quindi in assenza di  decreto  motivato  dell'Autorita'
giudiziaria (caso sanzionato di inutilizzabilita' dall'art.  271  del
codice di procedura penale, avente la medesima  ratio  dell'art.  191
del codice di procedura penale), ma anche al  caso  dell'acquisizione
dei tabulati del traffico  telefonico  eseguito  senza  provvedimento
motivato del pubblico ministero, ipotesi che le stesse Sezioni  unite
della Suprema  Corte  di  cassazione  hanno  ritenuto  dar  luogo  ad
un'ipotesi di  inutilizzabilita'  della  prova  perche'  acquista  in
violazione di un divieto di legge (cfr. Sez. U, sentenza n. 21 del 13
luglio 1998). 
    L'interpretazione stabilizzatasi  dell'art.  191  del  codice  di
procedura  penale,  in  tema  di  conseguenza  di  una  perquisizione
illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro,
si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di
trattamento tra  indagati  in  situazioni  del  tutto  analoghe,  con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Sempre in tema di  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione,
appare necessario rilevare come tale norma si atteggi  a  scrigno  in
cui e' racchiuso e riassunto il principio di necessaria  razionalita'
dell'ordinamento dello stato di diritto disegnato dalla Costituzione;
razionalita'  che   risulta   gravemente   violata   dalla   corrente
interpretazione  circa   la   utilizzabilita'   degli   esiti   delle
perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: 
        a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza  della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
le leggi  incostituzionali  (argomenta  ex  art.  30,  commi  3  e  4
della legge n. 87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal giudice
ordinario  che  ne  ravvisi  un  possibile  contrasto  con  le  norme
costituzionali, ma efficacissimi, anche sotto il profilo  probatorio,
gli  atti  di  polizia  giudiziaria  -  e  non   disapplicabili   ne'
discutibili  dal  giudice  -  compiuti  in  violazione  dei   diritti
costituzionali del cittadino; 
        b)  la  suddetta  interpretazione   appare   realizzare   una
negazione  radicale  dei  principi  dello  stato  di  diritto   quale
tratteggiato dalla Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della
Costituzione (come gia' si  e'  osservato),  e  piu'  in  particolare
sviluppato dall'art. 2 della  Costituzione,  in  quanto  finisce  per
risolversi nell'assenza di effettive garanzie contro  violazioni  dei
diritti  inviolabili  dell'uomo,  tra  i  quali   appare   senz'altro
rientrare quello alla liberta' personale, laddove invece il  suddetto
art.  2  della  Costituzione  impone  alla  Repubblica  non  solo  di
riconoscere tali  diritti,  ma  di  garantirli:  il  che  implica  la
necessaria adozione di tutte le cautele necessarie non solo a punire,
ma prima di tutto a scoraggiare la violazione di tali diritti;  e  la
sanzione   dell'inutilizzabilita'   probatoria   che    discenderebbe
dall'art. 191 del codice  di  procedura  penale  (nella  lettura  che
risulterebbe dall'operazione di ortopedia costituzionale  che  questo
giudicante ritiene necessaria), nel deprivare di effetti  processuali
il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce la prima  e
piu' efficace forma di  garanzia  che  uno  stato  di  diritto  possa
assicurare ai diritti della persona; 
        c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega  lo  stato
di  diritto  quale  configurato  dall'art.   97,   comma   3,   della
Costituzione, che vuole - con norma generale che  appare  applicabile
anche alla definizione dei poteri dell'Autorita' giudiziaria e  degli
organi di polizia  -  l'azione  dei  pubblici  poteri  sottomessa  al
principio di legalita'; se, come gia' si e' osservato, in  uno  stato
di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono  per  primi  vincolati  al
rispetto delle leggi di cui pur pretendono l'osservanza da parte  dei
consociati, e se cio' comporta non solo l'impegno a non violare  tali
leggi, ma anche a garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali
leggi prevedono ed attribuiscono,  appare  innegabile  che  ammettere
l'efficacia - e per di piu' nel processo penale ed in aggressione  ai
diritti di liberta' - degli atti  compiuti  dai  pubblici  poteri  in
violazione di  un  divieto,  appare  negare  anche  il  principio  di
legalita' di cui all'art. 97 della Costituzione, oltre ad  attribuire
all'azione illegale degli organi statuali una prevalenza sui  diritti
costituzionali dei consociati, che appare  realizzare,  sotto  questo
profilo,  una  ulteriore  palese   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione,  in  un  ordinamento  che  vuole  centrali  i   diritti
inviolabili della persona - e quindi quanto  meno  gli  stessi  sullo
stesso piano di quelli della collettivita' e dello Stato - ma finisce
invece per violare tale condizione di pari importanza  per  assegnare
prevalenza all'interesse alla repressione dei reati; 
        d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di prove che la legge vieta  gia'  solo  in  virtu'  della  loro  non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi  che  hanno   spinto   la   polizia
giudiziaria alla perquisizione (come detto, una ignota ed insondabile
fonte confidenziale) non consenta di verificare la  genuinita'  della
«catena indiziaria» e di escludere che possano essere stati proprio i
terzi  autori  della  propalazione   confidenziale   o   anonima,   o
addirittura - come talora e' purtroppo accaduto - le stesse Forze  di
polizia, ad introdurre nell'abitazione la «res illicita»  costituente
supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi, sotto  tale  profilo,
anche un contrasto con l'art. 24 della Costituzione,  per  l'evidente
limite che la tesi  dell'utilizzabilita'  pone  all'esplicazione  del
diritto di difesa, introducendo nell'ambito delle prove  utilizzabili
elementi di cui sia di fatto impossibile verificare approfonditamente
la genuinita'. 
    L'interpretazione consolidatasi si pone infine in  contrasto  con
l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e quindi in
contrasto con l'art. 117 della Costituzione  che  impone  allo  Stato
italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in  quanto  si
risolve nel non adottare efficaci disencentivi agli abusi delle Forze
di polizia, e  di  qualsiasi  organo  dello  Stato  in  genere,  che,
limitando  la  liberta'  della  persona,  si  risolvano  in  indebite
interferenze  nella  sua  vita  privata  o  nel  suo  domicilio,  non
giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o  repressione  dei
reati; e sull'importanza internazionale del rispetto di tali  diritti
fondamentali, ai sensi dell'art. 8 della CEDU, si  richiama  la  gia'
menzionata sentenza 16 marzo  2017,  Modestou  contro  Grecia,  della
Corte europea dei diritti dell'uomo nonche', come si era  anticipato,
la piu' recente sentenza emessa in data 27 settembre 2018 dalla Prima
sezione CEDU nel caso Brazzi contro Italia. 
    Con tale ultima sentenza, in particolare, la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo ha osservato che la Convenzione europea dei diritti
dell'uomo impone che, nell'ambito  delle  perquisizioni  «il  diritto
interno offra  garanzie  adeguate  e  sufficienti  contro  l'abuso  e
l'arbitrarieta' (Heino,  sopra  citata,  §  40,  e  Gutsanovi  contro
Bulgaria, n. 34529/10, §  220,  CEDU  2013»,  garantendo  «"controllo
effettivo"  delle  misure  contrarie  all'art.  8  della  Convenzione
(Lambert contro Francia, 24 agosto 1998, § 34, Recueil des arrêts  et
decisions 1998-V)», pur osservando che «il fatto che una richiesta di
mandato sia  stata  oggetto  di  un  controllo  giurisdizionale,  non
costituisce necessariamente, di per  se',  una  garanzia  sufficiente
contro gli abusi», di talche' la Corte europea dei diritti  dell'uomo
ha ritenuto essenziale «esaminare le circostanze particolari del caso
di specie e valutare se il quadro giuridico e i limiti  applicati  ai
poteri esercitati costituissero una  protezione  adeguata  contro  il
rischio di ingerenze arbitrarie delle autorita' (K.S. e  M.S.  contro
Germania, n. 33696/11, § 45, 6 ottobre 2016)». 
    Sulla base di tali premesse concettuali,  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo giungeva a ritenere che,  allorche'  (come  e'  nel
caso oggetto del presente processo) la perquisizione  venga  ordinata
dalla Procura in una fase precoce del procedimento  penale  (si  noti
che la fonte confidenziale risulta essere  l'unico  elemento  che  la
polizia giudiziaria abbia avuto a propria disposizione), il  rispetto
dell'art. 8 della CEDU comporta «che una perquisizione effettuata  in
questa fase deve offrire garanzie adeguate e sufficienti per  evitare
che venga usata per fornire alle autorita' incaricate  dell'inchiesta
elementi compromettenti  su  persone  non  ancora  identificate  come
sospettate di aver commesso un  reato  (Modestou  contro  Grecia,  n.
51693/13, § 44, 16 marzo 2017)». 
    In tale ordine di idee, la Corte europea dei diritti dell'uomo e'
pervenuta ad affermare che  lo  stesso  pubblico  ministero  dovrebbe
richiedere un'autorizzazione ad un  giudice  prima  di  ordinare  una
perquisizione, o quanto  meno  l'ordinamento  dovrebbe  garantire  la
possibilita' di un controllo post factum, in ordine alla legittimita'
della  perquisizione;  rilevato  che   l'ordinamento   italiano   non
prevedeva l'autonoma impugnabilita' del decreto di  perquisizione  in
quanto tale (e che, nel concreto, non essendo stato  rinvenuto  alcun
elemento di prova ed adottato alcun provvedimento di sequestro,  tale
controllo non era stato neanche possibile per via mediata  attraverso
il riesame di tale genere  di  provvedimento),  la  Corte  ha  quindi
ritenuto  esservi  stata  una  violazione  dei  diritti  della  parte
istante. 
    Proseguiva poi la Corte osservando che «l'assenza di un controllo
giurisdizionale ex ante puo' essere compensata dalla realizzazione di
un controllo giurisdizionale ex post facto della legittimita' e della
necessita' della misura», rammentando, a  tal  proposito,  «di  avere
ammesso  che,  in  alcune  circostanze,  il  controllo  della  misura
contraria all'art. 8  effettuato  dai  giudici  penali  fornisce  una
riparazione adeguata per l'interessato, dal momento  che  il  giudice
procede  a  un  controllo  effettivo  della  legittimita'   e   della
necessita' della misura  contestata  e,  se  del  caso,  esclude  dal
processo penale gli  elementi  di  prova  raccolti  (Panarisi  contro
Italia, n. 46794/99,  §§  76  e  77,  10  aprile  2007,  Uzun  contro
Germania, n. 35623/05, §§ 71 e 72, CEDU 2010  (estratti),  e  Trabajo
Rueda contro Spagna, n. 32600/12, § 37, 30 maggio 2017).». 
    [...] omissis paragrafi 46-51 [...] 
    52. Vi e' stata dunque violazione dell'art. 8 della Convenzione. 
    La lettura della sentenza permette quindi di rilevare che,  nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo: 
        a)  la  perquisizione  costituisce  un'ingerenza  nella  vita
privata e nella liberta' domiciliare della persona; 
        b) tale ingerenza e' legittima  solo  se  giustificata  dalla
ricorrenza di preesistenti  elementi  indiziari  o  di  sospetto  che
indichino, nel destinatario della perquisizione, l'autore di un reato
le  cui  tracce  possano  essere  reperite   mediante   perquisizione
domiciliare; 
        c) l'ordinamento interno deve assicurare validi ed  effettivi
strumenti di controllo che garantiscano almeno una verifica  ex  post
in ordine alla effettiva  ricorrenza  delle  condizioni  legittimanti
l'ingerenza suddetta; 
        d) tra tali strumenti di controllo ex  post,  ove  altri  non
siano stati attivabili od abbiano concretamente operato, deve  essere
ricompresa l'esclusione degli esiti della perquisizione dal materiale
probatorio utilizzabile. 
    Ne consegue che: 
        1) se il pubblico ministero rilascia un'autorizzazione orale,
o emette un decreto di convalida privo di effettiva motivazione, tali
atti, non costituendo cio' garanzia dell'effettivo  esercizio  di  un
potere di controllo circa la ricorrenza dei presupposti  legittimanti
la perquisizione, non valgono a renderla legittima; 
        2) le fonti  confidenziali,  in  quanto  non  verificabili  e
quindi insuscettibili  di  controllo  ex  ante,  non  possono  essere
utilizzate per disporre perquisizioni; 
        3) laddove una perquisizione sia stata eseguita in virtu'  di
elementi non verificabili o insufficienti a giustificarla, il giudice
penale  debba  escludere  dal   novero   degli   elementi   probatori
utilizzabili quelli acquisiti mediante la suddetta perquisizione. 
    Pertanto, anche alla luce dei principi di cui  all'art.  8  CEDU,
«costituzionalizzati» per il tramite della disposizione dell'art. 117
della  Costituzione,  la   perquisizione   eseguita   dalla   polizia
giudiziaria in forza  dell'autorizzazione  orale  data  dal  pubblico
ministero, in virtu' di quanto riferito da fonte confidenziale ed  in
assenza, peraltro, di provvedimento di convalida  motivato,  non  era
consentita, e gli esiti dovrebbero essere ritenuti inutilizzabili; la
lettura dell'art. 191 del codice  di  procedura  penale  offerta  dal
diritto vivente, come cristallizzato nelle sentenze gia'  richiamate,
lo esclude, e cio'  la  rende  incostituzionale;  allo  stesso  modo,
risulta contrario agli articoli 13, 14 e 117 della Costituzione  (con
riferimento, quanto a quest'ultima norma costituzionale,  all'art.  8
della Convenzione europea dei  diritti  dell'uomo),  l'art.  103  del
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, nella  parte  in
cui prevede che il pubblico ministero possa  consentire  l'esecuzione
di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessita' di
una successiva documentazione formale  delle  ragioni  per  cui  l'ha
rilasciata: questione di ovvia rilevanza, atteso che e' in  forza  di
tale disposizione che e'  stata  eseguita  la  perquisizione  che  ha
portato al rinvenimento del corpo del reato ascritto all'imputato. 
    A parere di  questo  giudicante,  la  conseguenza  della  dedotta
incostituzionalita' e' anche il divieto  di  testimonianza,  per  gli
operatori di  polizia  giudiziaria,  in  ordine  al  risultato  delle
attivita'  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro  indebitamente
eseguite; tale divieto, invero, appare  conseguire  alla  perdita  di
ogni  efficacia  di  tali  attivita';  ammettere  tali   deposizioni,
peraltro,  equivarrebbe  a  vanificare  tale  divieto  e   la   ratio
sottostante ai divieti di utilizzabilita' di  cui  all'art.  191  del
codice di procedura penale. 
    Ne consegue che la questione e' rilevante nel  presente  giudizio
anche   laddove   si   volesse   ipotizzare,   per    ovviare    alla
inutilizzabilita' che dovrebbe essere ravvisata nelle  perquisizioni,
l'assoluta necessita'  di  procedere,  ex  art.  507  del  codice  di
procedura penale, all'ascolto dei verbalizzanti in  ordine  a  quanto
rinvenuto nell'abitazione dell'imputato ed in spazi a  lui  assegnati
all'interno  di  essa:  ed  invero,  come  osservato,   la   sanzione
dell'inutilizzabilita'  dovrebbe  investire,  in   un'interpretazione
corretta  dell'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   anche
l'eventuale deposizione in  ordine  agli  esiti  della  perquisizione
illegittima.