ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 192,  comma
2, del  decreto  legislativo  18  aprile  2016,  n.  50  (Codice  dei
contratti pubblici), promosso dal Tribunale amministrativo  regionale
per la Liguria nel procedimento vertente  tra  la  S.C.T.  Group  srl
(gia' S.C.T. Sistemi di  Controllo  Traffico  srl)  e  il  Comune  di
Alassio e altri, con ordinanza del 15 novembre 2018, iscritta  al  n.
77 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visti l'atto di costituzione della S.C.T. Group srl (gia'  S.C.T.
Sistemi di Controllo Traffico srl); 
    udito  il  Giudice  relatore  Giancarlo   Coraggio   secondo   le
prescrizioni del decreto della Presidente della Corte del  20  aprile
2020, punto 1) lettere a) e c),  in  collegamento  da  remoto,  senza
discussione orale, in data 5 maggio 2020; 
    deliberato nella camera di consiglio del 5 maggio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Liguria  ha
sollevato, in riferimento all'art. 76  della  Costituzione  -  ed  in
relazione all'art. 1, comma 1, lettere a) ed  eee),  della  legge  28
gennaio 2016, n.  11  (Deleghe  al  Governo  per  l'attuazione  delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento  europeo
e del  Consiglio,  del  26  febbraio  2014,  sull'aggiudicazione  dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici  e  sulle  procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,  dell'energia,
dei trasporti e dei servizi postali, nonche' per  il  riordino  della
disciplina vigente  in  materia  di  contratti  pubblici  relativi  a
lavori,  servizi   e   forniture)   -   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 192, comma 2,  del  decreto  legislativo  18
aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici),  nella  parte  in
cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione
del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del  mancato
ricorso al mercato. 
    1.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che: 
    - la societa' ricorrente, S.C.T. Sistemi  di  Controllo  Traffico
srl, gestiva, in esito a procedura aperta bandita nell'anno 2011,  il
servizio di parcheggio a pagamento nel Comune di Alassio; 
    - quest'ultimo, nel corso del 2017, in prossimita' della scadenza
del contratto stipulato con la ricorrente,  aveva  bandito  una  gara
pubblica  per  l'affidamento  di  diversi  servizi  nel  campo  della
mobilita', tra cui quello di gestione della sosta a pagamento; 
    - la gara era andata deserta e l'amministrazione, anziche' indire
una  nuova  procedura  con  diversi  parametri  economici  e   minori
investimenti a  carico  del  concessionario,  aveva  prorogato,  alle
medesime condizioni, il contratto di affidamento a S.C.T.; 
    - il Comune di Alassio aveva in seguito affidato, senza gara,  il
servizio di gestione dei parcheggi alla societa'  in  house  GE.S.CO.
srl; 
    - la  ricorrente  ha  impugnato  la  deliberazione  della  Giunta
comunale 7 maggio 2018, n. 154, di affidamento del servizio,  per  il
periodo 11 giugno 2018-31  dicembre  2023,  alla  societa'  in  house
GE.S.CO. srl, nonche'  la  presupposta  deliberazione  del  Consiglio
comunale 5 aprile  2018,  n.  25,  di  approvazione  della  relazione
illustrativa delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti
dall'ordinamento europeo  per  l'affidamento  in  house  dei  servizi
pubblici locali di rilevanza economica, richiesta dall'art. 34, comma
20, del decreto-legge 18  ottobre  2012,  n.  179  (Ulteriori  misure
urgenti per la crescita del Paese),  convertito,  con  modificazioni,
nella legge 17 dicembre 2012, n. 221; 
    -  a  sostegno  del  ricorso,  la  S.C.T.  ha  proposto  un'unica
articolata censura, rubricata «violazione dell'art. 106 del  trattato
sul funzionamento dell'Unione Europea e dei  principi  comunitari  in
materia di in house providing - violazione dell'articolo 1  della  L.
n. 241/1990 e del principio di trasparenza - violazione dell'articolo
3 della legge 241/1990 e del principio della motivazione - violazione
dell'articolo 192, comma 2, del d.lgs. 50/2016 - violazione dell'art.
34, comma 20, decreto-legge 179/2012 - violazione  degli  articoli  3
bis commi 1 bis e 6 bis del d.l. 138/2011 - eccesso di  potere  sotto
il profilo dello sviamento e della carenza di istruttoria»; 
    - sotto un primo profilo, la ricorrente lamenta la violazione dei
principi comunitari in materia di  in  house  providing,  non  avendo
l'amministrazione dato adeguatamente conto della preferenza per  tale
modello rispetto alle altre possibili  forme  di  affidamento,  delle
valutazioni  economico-qualitative  dei  servizi  offerti   e   della
verifica   dell'effettiva   capacita'   del   gestore   di   svolgere
correttamente il servizio affidato; nonche' la  violazione  dell'art.
192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d'ora in avanti: codice  dei
contratti  pubblici),  ai  sensi  del  quale  l'affidamento   diretto
dovrebbe essere necessariamente preceduto da una valutazione che  dia
conto delle ragioni  che  fanno  propendere  per  una  delle  diverse
tipologie, «motivando, secondo  una  logica  di  preferenza  via  via
decrescente, in ordine all'impossibilita' di utilizzare: 1) in  prima
battuta,   lo   strumento   -   altrimenti   sempre   preferibile   -
dell'affidamento mediante  procedura  di  evidenza  pubblica;  2)  in
subordine, quello dell'affidamento a societa' mista, che in ogni caso
presuppone la gara per la scelta del socio  privato;  3)  in  via  di
ulteriore subordine, quello dell'affidamento in house e senza gara»; 
    -  sotto  un  secondo  profilo,  incentrato  sull'inesistenza  di
qualsiasi comparazione tra le forme di gestione e  sulla  carenza  di
motivazione e istruttoria, la ricorrente deduce  che  sarebbe  quanto
meno «sospetto» il comportamento del Comune, che, dopo avere  bandito
una   procedura   andata   deserta    a    causa    di    valutazioni
tecnico-economiche sugli investimenti necessari palesemente  erronee,
anziche' «aggiustare il tiro», con l'indizione di una nuova procedura
strutturata su  un  progetto  tecnico-economico  sostenibile  per  il
mercato, avrebbe sottratto ad ogni possibile confronto concorrenziale
soltanto una parte dei servizi  precedentemente  posti  in  gara  (la
gestione  dei  parcheggi  a  pagamento);  «[l]a  stessa  progressione
temporale degli atti impugnati  costituirebbe  spia  dell'eccesso  di
potere per  sviamento,  apparendo  verosimile  che  la  decisione  di
affidare il servizio in house fosse antecedente, e  prescindesse  del
tutto dalle  valutazioni  contenute  nella  relazione  illustrativa»,
predisposta dal Comune ai sensi dell'art. 34, comma 20, del  d.l.  n.
179 del 2012; 
    - oltre alla domanda di annullamento la  ricorrente  ha  spiegato
anche domanda risarcitoria; 
    - il Comune di Alassio, costituitosi in giudizio, ha eccepito, in
via  preliminare,  l'inammissibilita'  del  ricorso  per  carenza  di
interesse, essendo il contratto con la ricorrente scaduto l'11 giugno
2018, e, nel merito, ne ha chiesto il rigetto. 
    1.2.-  Cio'  premesso,  il  rimettente  afferma,  in   punto   di
rilevanza,  che  l'eccezione  di  inammissibilita'  del  ricorso   e'
infondata,  dal  momento  che,  secondo  la  pacifica  giurisprudenza
amministrativa,  la  semplice  qualita'  di  operatore  del   settore
legittimerebbe senz'altro la  ricorrente  a  impugnare  l'affidamento
diretto. 
    Il TAR Liguria deduce, poi, che il contratto per cui e' causa  ha
ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza e
rientra, in ragione dell'importo  del  canone  di  concessione  (euro
200.000,00 annui, dall'11 gennaio 2018 al 31  dicembre  2023),  nella
soglia di rilevanza comunitaria di cui all'art. 4, lettera c),  della
direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,  del  26
febbraio 2014, sugli appalti  pubblici  e  che  abroga  la  direttiva
2004/18/CE. 
    Osserva  ancora  il  rimettente  che  la  norma   sospettata   di
illegittimita' costituzionale  impone  alle  stazioni  appaltanti  di
valutare  l'opportunita'  e  la  convenienza  dei  provvedimenti   di
affidamento in house, alla luce,  innanzitutto,  «delle  ragioni  del
mancato  ricorso  al  mercato»,  di  cui  occorre   dare   conto   in
motivazione. 
    Essa  costituirebbe,  dunque,  alla  luce  dell'unico  motivo  di
ricorso,  il  parametro  legislativo  alla  stregua  del   quale   il
rimettente e' chiamato a valutare la legittimita'  dei  provvedimenti
impugnati, sotto il profilo dell'indicazione espressa  delle  ragioni
del mancato ricorso al mercato e  della  congruita'  e/o  adeguatezza
delle stesse, e cio' perche' la  societa'  S.C.T.  non  contesterebbe
affatto la sussistenza, in capo alla controinteressata GE.S.CO.  srl,
delle condizioni stabilite dall'art. 5, comma 1, lettere a), b) e c),
del codice dei contratti pubblici per  il  legittimo  ricorso  all'in
house  providing   (controllo   dell'amministrazione   aggiudicatrice
analogo  a  quello  esercitato  sui  propri  servizi,  80  per  cento
dell'attivita' della controllata  effettuato  nello  svolgimento  dei
compiti affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante,  e
assenza di partecipazione diretta di capitali privati). 
    1.3.- In  relazione  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  TAR
Liguria  afferma  che  e'  noto  l'ampio   dibattito   dottrinale   e
giurisprudenziale  sull'in  house  providing,  che  costituisce   una
modalita' di aggiudicazione  di  una  concessione  o  di  un  appalto
pubblici  a  soggetti  formalmente  distinti  ma  sottoposti  ad   un
controllo talmente penetrante di  un'amministrazione  da  costituirne
sostanzialmente un'articolazione organizzativa, e che rappresenta una
modalita' alternativa all'esternalizzazione (cosi' detto outsourcing)
mediante l'avvio di una procedura di evidenza pubblica. 
    L'istituto, di origine pretoria, avrebbe  trovato  la  sua  prima
codificazione  nell'ordinamento  europeo  ad   opera   della   citata
direttiva 2014/24/UE, la quale, al quinto considerando,  afferma  che
«nessuna disposizione della  presente  direttiva  obbliga  gli  Stati
membri ad affidare a terzi  o  a  esternalizzare  la  prestazione  di
servizi  che  desiderano  prestare  essi  stessi  o  organizzare  con
strumenti diversi dagli appalti  pubblici  ai  sensi  della  presente
direttiva». 
    Si tratterebbe di una specifica  applicazione  del  principio  di
autorganizzazione  o  di  libera  amministrazione   delle   autorita'
pubbliche, piu' efficacemente scolpito dall'art. 2,  comma  1,  della
direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,  del  26
febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti  di  concessione,  a
mente del quale la medesima direttiva «riconosce il principio per cui
le  autorita'  nazionali,  regionali  e  locali  possono  liberamente
organizzare l'esecuzione dei  propri  lavori  o  la  prestazione  dei
propri servizi in conformita' del diritto  nazionale  e  dell'Unione.
Tali autorita' sono libere di decidere il modo migliore  per  gestire
l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in
particolare   un   elevato   livello   di   qualita',   sicurezza   e
accessibilita',  la  parita'   di   trattamento   e   la   promozione
dell'accesso  universale  e  dei  diritti  dell'utenza  nei   servizi
pubblici. Dette  autorita'  possono  decidere  di  espletare  i  loro
compiti d'interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse  o  in
cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli
a operatori economici esterni». 
    Coerentemente con  tale  principio,  l'art.  12  della  direttiva
2014/24/UE  escluderebbe  espressamente   dal   proprio   ambito   di
applicazione   gli   appalti   aggiudicati   da    un'amministrazione
aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o privato,
quando siano soddisfatte le  tre  condizioni  proprie  dell'in  house
(quelle recepite dall'art. 5 del codice dei contratti pubblici). 
    Secondo   il   rimettente,   dunque,   potrebbe   definitivamente
considerarsi acquisito, quantomeno in ambito europeo, che l'in  house
providing non  configura  un'ipotesi  eccezionale  e  derogatoria  di
gestione dei servizi pubblici rispetto all'ordinario espletamento  di
una  procedura  di  evidenza  pubblica,  ma  costituisce  una   delle
ordinarie forme organizzative di conferimento della  titolarita'  del
servizio,  la  cui  individuazione  in  concreto  e'   rimessa   alle
amministrazioni, sulla base di un mero  giudizio  di  opportunita'  e
convenienza economica. 
    Tale principio potrebbe ritenersi operante anche nell'ordinamento
nazionale, posto che, ai sensi del citato art. 34, comma 20, del d.l.
n. 179 del 2012,  «[p]er  i  servizi  pubblici  locali  di  rilevanza
economica [...] l'affidamento del servizio e' effettuato  sulla  base
di  apposita  relazione,  pubblicata  sul  sito  internet   dell'ente
affidante, che da'  conto  delle  ragioni  e  della  sussistenza  dei
requisiti  previsti  dall'ordinamento  europeo  per   la   forma   di
affidamento prescelta e che definisce  i  contenuti  specifici  degli
obblighi di servizio pubblico e  servizio  universale,  indicando  le
compensazioni economiche se previste». 
    1.4.- Questo essendo il quadro normativo di riferimento,  il  TAR
Liguria ritiene che l'art. 192, comma 2,  del  codice  dei  contratti
pubblici, nell'imporre un onere motivazionale supplementare circa  le
ragioni del mancato ricorso al mercato,  abbia  palesemente  ecceduto
rispetto ai principi e ai criteri  direttivi  contenuti  nella  legge
delega n. 11 del 2016, in violazione dell'art. 76 Cost. 
    L'art. 1, comma 1, della legge delega - prosegue il rimettente  -
ha infatti fissato, tra gli altri,  i  seguenti  principi  e  criteri
direttivi: 1) alla lettera a), il cosiddetto divieto di gold plating,
ossia di  introduzione  o  mantenimento  di  livelli  di  regolazione
superiori a quelli minimi richiesti dalle  direttive,  come  definiti
dall'art. 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005,
n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per  l'anno  2005);  2)
alla lettera eee), la garanzia di adeguati livelli di  pubblicita'  e
trasparenza delle procedure  anche  per  gli  appalti  pubblici  e  i
contratti di concessione tra enti nell'ambito  del  settore  pubblico
(cosiddetti affidamenti in house), prevedendo, anche per questi enti,
l'obbligo   di   pubblicazione   di   tutti   gli    atti    connessi
all'affidamento, la  valutazione  sulla  congruita'  economica  delle
offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione,  e
l'istituzione, a cura dell'Autorita' nazionale anticorruzione (ANAC),
di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti  in  house  (ovvero
che esercitano funzioni di controllo o di  collegamento  rispetto  ad
altri enti, tali da consentire affidamenti diretti). 
    Secondo  il  rimettente,  la  norma  sospettata  d'illegittimita'
costituzionale avrebbe innanzitutto violato il criterio direttivo  di
cui  alla  lettera  a),  in  quanto  avrebbe  introdotto   un   onere
amministrativo  di  motivazione  piu'  gravoso  rispetto   a   quello
strettamente necessario per l'attuazione della direttiva  2014/24/UE,
che ammette senz'altro gli affidamenti in house ove ricorrano le  tre
condizioni di cui all'art. 12. 
    In secondo luogo, sarebbe stato violato il criterio direttivo  di
cui alla menzionata lettera eee), poiche' l'introduzione dell'obbligo
di motivazione sulle ragioni  del  mancato  ricorso  al  mercato  non
troverebbe «alcun addentellato» nel citato criterio  e,  soprattutto,
non avrebbe nulla a che vedere con la  valutazione  sulla  congruita'
economica delle offerte o con la pubblicita' e la  trasparenza  degli
affidamenti mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC, di un elenco di
soggetti aggiudicatori di affidamenti in house. 
    2.- Con atto d'intervento depositato nella cancelleria di  questa
Corte il 18 giugno 2019, e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  eccependo  l'inammissibilita'  e  la  non  fondatezza   della
questione sollevata dal rimettente. 
    2.1.- Dopo avere  ricostruito  i  fatti  di  causa  e  il  quadro
normativo  di  riferimento,   l'interveniente   osserva   che   «[a]l
legislatore  delegato,  secondo  la  giurisprudenza   costituzionale,
spettano [...]  margini  di  discrezionalita'  nell'attuazione  della
delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che  l'attivita'  del
delegato  si  inserisca  in  modo  coerente  nel  complessivo  quadro
normativo (sentenze n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015,  n.  119
del 2013). L'art. 76 Cost.  non  riduce,  infatti,  la  funzione  del
legislatore  delegato  ad  una  mera  scansione   linguistica   delle
previsioni stabilite dal legislatore delegante» (sentenza n. 250  del
2016). 
    2.2.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  osserva,  poi,
quanto alla dedotta violazione dell'art.  1,  comma  1,  lettera  a),
della legge delega, che essa prescrive «il divieto di introduzione  o
mantenimento di livelli di  regolazione  superiori  a  quelli  minimi
richiesti dalle direttive, come definiti dell'art. 14, commi 24-ter e
24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246».  Secondo  il  comma
24-ter, «[c]ostituiscono livelli di regolazione  superiori  a  quelli
minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l'introduzione o  il
mantenimento  di  requisiti,   standard,   obblighi   e   oneri   non
strettamente  necessari  per   l'attuazione   delle   direttive;   b)
l'estensione dell'ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle
regole rispetto a  quanto  previsto  dalle  direttive,  ove  comporti
maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l'introduzione  o
il mantenimento di sanzioni, procedure o  meccanismi  operativi  piu'
gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l'attuazione
delle direttive». 
    Lo scopo del criterio direttivo sarebbe quello di scongiurare  il
gold plating, delineato dalla Commissione europea nella comunicazione
dell'8 ottobre 2010 «Smart regulation in the European  Union»,  ossia
la  pratica  delle  istituzioni  nazionali  di  andare  oltre  quanto
richiesto dall'Unione nel recepimento della legislazione europea. 
    L'esatta individuazione di tale fenomeno andrebbe operata tenendo
conto della finalita' di omogeneita' che la legislazione europea mira
a  realizzare  nell'ambito   dell'Unione,   per   garantire   parita'
concorrenziale tra i suoi  cittadini.  Ove  la  legislazione  europea
riconosca ai  singoli  Stati  facolta'  di  autonoma  disciplina,  in
relazione alla individuazione di piu' stringenti sistemi  di  tutela,
non potrebbe ravvisarsi una ipotesi di gold plating. 
    Essa, dunque, non parrebbe  configurabile  nel  caso  di  specie,
poiche' la legislazione nazionale di  recepimento  non  comporta  una
diminuzione della necessaria parita' concorrenziale nell'ambito delle
procedure di gara per l'assegnazione degli appalti. 
    La norma sospetta d'illegittimita'  costituzionale,  per  contro,
muovendo dalla «presunzione di  preferibilita'»  delle  procedure  ad
evidenza pubblica rispetto al modulo  in  house,  si  porrebbe  nella
direzione della  necessaria  realizzazione  di  un  vasto  regime  di
concorrenzialita'. 
    Il criterio di delega in questione, inoltre, andrebbe inteso  nel
senso che il divieto di introduzione di requisiti standard, obblighi,
e oneri opera qualora tali  restrizioni  siano  poste  a  carico  del
cittadino comunitario e non anche dell'amministrazione. 
    2.3.- Nemmeno potrebbe  ritenersi  violato  il  criterio  di  cui
all'art. 1, comma 1, lettera eee), della legge delega, che prescrive,
in ipotesi di affidamento in house, «l'obbligo  di  pubblicazione  di
tutti gli atti connessi  all'affidamento,  assicurando,  anche  nelle
forme di aggiudicazione  diretta,  la  valutazione  sulla  congruita'
economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della
prestazione». 
    Se l'obbligo di motivazione previsto  dalla  norma  censurata  di
certo non costituisce  «valutazione  di  congruita'  delle  offerte»,
ponendosi a monte di tale fase, cio' non significherebbe che  la  sua
previsione sia in contrasto con il criterio di delega indicato. 
    Come gia'  rammentato,  del  resto,  residuerebbero  in  capo  al
legislatore  delegato  margini  di  discrezionalita'  nell'attuazione
della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l'attivita'
del delegato si inserisca in modo  coerente  nel  complessivo  quadro
normativo di riferimento. 
    3.- Con memoria depositata in cancelleria il 17 giugno  2019,  si
e' costituita la Group srl (gia' S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico
srl), ricorrente nel giudizio a quo, instando per la non fondatezza e
l'inammissibilita' delle questioni sollevate dal rimettente. 
    3.1.- Dopo  avere  ripercorso  le  vicende  di  causa,  la  parte
costituita si e' soffermata, in primo luogo, sulla dedotta violazione
del divieto di gold plating. 
    Nel  parere  n.  855  del  1°  aprile  2016  dell'Adunanza  della
commissione speciale del Consiglio di Stato,  avente  ad  oggetto  lo
schema di decreto legislativo recante «Codice degli appalti  pubblici
e dei contratti di concessione, ai sensi dell'articolo  1,  comma  3,
della legge 28 gennaio 2016, n. 11», si  sarebbe  osservato  che  «la
legge delega da un lato impone al Governo il divieto di gold  plating
e il recepimento degli  strumenti  di  flessibilita'  previsti  dalle
direttive, dall'altro consente essa stessa criteri di maggior  rigore
rispetto alle direttive». 
    Tale contraddizione, solo apparente, si spiegherebbe, secondo  il
Consiglio di Stato, con l'esigenza  di  trovare  «un  temperamento  a
tutela  di  interessi  e  obiettivi  ritenuti  dal  Parlamento   piu'
meritevoli, quali sono la prevenzione della  corruzione  e  la  lotta
alla mafia, la trasparenza, una tutela rafforzata della  concorrenza,
la salvaguardia di valori ambientali e sociali». 
    Il  Consiglio  di  Stato  avrebbe  quindi  sottolineato  come  il
«divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di  regolazione
superiori a quelli minimi richiesti  dalle  direttive  va  rettamente
interpretato  in  una  prospettiva  di  riduzione  degli  "oneri  non
necessari", e non  anche  in  una  prospettiva  di  abbassamento  del
livello  di  quelle   garanzie   che   salvaguardano   altri   valori
costituzionali,  in  relazione  ai  quali  le  esigenze  di   massima
semplificazione e efficienza non  possono  che  risultare  recessive.
Cosi', in termini generali, il maggior rigore nel  recepimento  delle
direttive deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in  cui
non si  traduce  in  un  ostacolo  ingiustificato  alla  concorrenza;
dall'altro,  ritenersi  giustificato  (quando  non   imposto)   dalla
salvaguardia di interessi e valori costituzionali». 
    Anche alla luce di tali premesse, sarebbe  significativo  che  il
parere citato abbia individuato le norme  del  decreto  delegato  che
costituiscono  un  recepimento  delle  direttive  piu'  oneroso   del
cosiddetto "minimo comunitario", non includendovi  quella  sospettata
d'illegittimita' costituzionale dal TAR Liguria. 
    Sotto altro e  diverso  profilo,  andrebbe  poi  evidenziato  che
l'art.  1,  comma  1,  lettera   a),   della   legge   delega   vieta
l'introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione  superiori
a  quelli  minimi   richiesti   dalle   direttive,   «come   definiti
dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater della  legge  28  novembre
2005, n. 246». 
    A sua volta il citato comma  24-quater,  nel  chiarire  i  limiti
operativi  e  funzionali  del  gold  plating,  avrebbe  disposto  che
«l'amministrazione da' conto delle circostanze eccezionali,  valutate
nell'analisi d'impatto  della  regolamentazione,  in  relazione  alle
quali si rende  necessario  il  superamento  del  livello  minimo  di
regolazione comunitaria». 
    Sarebbe  quindi  dirimente  l'osservazione  che  nell'analisi  di
impatto della regolamentazione (AIR) relativa allo schema di  decreto
legislativo poi divenuto il codice  dei  contratti  pubblici  tra  le
principali criticita' emerse vi sia proprio «il ricorso  eccessivo  e
ingiustificato all'in house». 
    Ne discenderebbe che il divieto  di  gold  plating,  in  sede  di
attuazione della delega legislativa: 1) e'  destinato  a  trovare  un
necessario contemperamento  nella  tutela  di  valori  costituzionali
preminenti, quali l'efficienza e il  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione, l'ottimale impiego delle risorse pubbliche e  -  non
ultimo - la trasparenza degli  atti  amministrativi;  2)  deve  tener
conto delle concrete esigenze e criticita' dell'ordinamento  interno,
come  evidenziato  nell'AIR;  3)  risulta  comunque   finalizzato   a
garantire l'assenza di ostacoli  ingiustificati  alla  concorrenza  e
alla parita' di trattamento degli operatori presenti nel mercato, non
potendo essere inteso come un «rafforzamento»,  ancorche'  indiretto,
dei limiti posti all'apertura al confronto concorrenziale dei servizi
pubblici. 
    3.2.- Ancora, la norma censurata si porrebbe in  continuita'  con
le scelte compiute dal legislatore a far tempo almeno dal 2008. 
    Ed infatti, l'art. 23-bis, comma 4, del decreto-legge  25  giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti  per  lo  sviluppo  economico,  la
semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della  finanza
pubblica   e   la   perequazione   tributaria),    convertito,    con
modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, prevedeva che,  nel
caso di affidamenti in house, «l'ente affidante deve dare pubblicita'
alla scelta motivandola in base ad un'analisi di mercato». 
    Il successivo e a tutt'oggi vigente art. 34, comma 20,  del  d.l.
n. 179 del 2012, in  materia  di  affidamento  dei  servizi  pubblici
locali di  rilevanza  economica,  in  conformita'  agli  obblighi  di
trasparenza  e  motivazione   degli   atti   amministrativi,   impone
all'amministrazione, quale che sia la  forma  di  gestione  prescelta
(evidenza pubblica o affidamento diretto),  di  dare  conto,  in  una
apposita relazione, delle ragioni che la hanno determinata. 
    Poiche'  la  gestione  in  house  si  contrappone,   come   unica
alternativa, alle diverse ipotesi  di  ricorso  al  mercato,  sarebbe
evidente, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa,  che  la
motivazione dell'affidamento  diretto  non  possa  prescindere  dallo
spiegare perche' si e' deciso di  non  aprire  il  confronto  con  il
mercato. 
    Tali  «canoni   interpretativi»   avrebbero   trovato   «positiva
rispondenza»  nell'art.  192,  comma  2,  del  codice  dei  contratti
pubblici, che, a differenza di quanto sostenuto dal  rimettente,  non
richiederebbe un piu' gravoso onere motivazionale rispetto  a  quello
imposto dall'art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012. 
    La norma censurata, dunque, lungi dal concretizzare un eccesso di
delega, si collocherebbe nel solco delle  scelte  gia'  compiute  dal
legislatore, il che sarebbe logico in un'attivita'  di  codificazione
che deve coordinarsi con il tessuto normativo preesistente. 
    3.3.-  Fermo  quanto  sopra  dedotto,  l'onere  motivazionale  in
questione non concreterebbe alcuna ipotesi di gold plating,  perche',
come si ricaverebbe dalla giurisprudenza costituzionale in materia di
affidamenti interorganici, esso e' posto a tutela della concorrenza. 
    In particolare - aggiunge la parte - questa Corte,  nel  valutare
la legittimita' delle condizioni piu' rigorose  rispetto  al  diritto
comunitario all'epoca poste dall'art. 23-bis  del  d.l.  n.  112  del
2008, per il ricorso all'affidamento in house, ha affermato che  tale
maggior rigore «[non] si  pone  in  contrasto  [...]  con  la  citata
normativa comunitaria, che, in quanto diretta  a  favorire  l'assetto
concorrenziale del mercato, costituisce solo un  minimo  inderogabile
per gli  Stati  membri.  E'  infatti  innegabile  l'esistenza  di  un
"margine di  apprezzamento"  del  legislatore  nazionale  rispetto  a
principi   di   tutela,   minimi    ed    indefettibili,    stabiliti
dall'ordinamento comunitario  con  riguardo  ad  un  valore  ritenuto
meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza
"nel" mercato e "per" il mercato» (si cita la  sentenza  n.  325  del
2010). 
    Tale  orientamento  sarebbe  stato  confermato  dalla  successiva
giurisprudenza   costituzionale,   che    avrebbe    ribadito    come
l'affidamento in regime di delegazione  interorganica  «costituisc[a]
un'eccezione rispetto alla regola generale dell'affidamento  a  terzi
mediante gara ad evidenza pubblica» (sentenza n. 46 del 2013). 
    Queste  considerazioni  non  sarebbero  smentite  neppure   dalle
sopravvenute direttive 2014/23/UE sull'aggiudicazione  dei  contratti
di concessione e 2014/24/UE sugli appalti pubblici. 
    Osserva  la  parte,  infatti,  che  il  primo   considerando   di
quest'ultima  direttiva  ribadisce  che   «[l]'aggiudicazione   degli
appalti pubblici da o per conto di autorita' degli Stati membri  deve
rispettare i principi  del  trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea (TFUE) e in particolare la libera circolazione  delle  merci,
la liberta' di stabilimento  e  la  libera  prestazione  di  servizi,
nonche' i principi che ne derivano, come la parita'  di  trattamento,
la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la  proporzionalita'
e la trasparenza. Tuttavia,  per  gli  appalti  pubblici  con  valore
superiore a una certa soglia e' opportuno elaborare disposizioni  per
coordinare le procedure nazionali di aggiudicazione degli appalti  in
modo da garantire che a tali principi sia dato effetto pratico e  che
gli appalti pubblici siano aperti alla concorrenza». 
    Sarebbe, d'altro canto, principio pacifico  della  giurisprudenza
comunitaria, confermato anche successivamente all'entrata  in  vigore
delle citate direttive, quello  secondo  cui  l'obiettivo  principale
delle norme del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici e'
la libera circolazione delle merci e dei servizi e l'apertura  a  una
concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, sicche'  qualsiasi
deroga all'applicazione di  tale  obbligo  deve  essere  interpretata
restrittivamente. 
    3.4.- Quanto alla presunta violazione del criterio  direttivo  di
cui all'art. 1, comma 1, lettera eee), della legge delega n.  11  del
2016, la S.C.T. Group srl afferma che  la  tesi  del  rimettente  non
considera il dato letterale della disposizione,  che  individua  come
criteri direttivi «[l]a garanzia di adeguati livelli di pubblicita' e
trasparenza delle procedure  anche  per  gli  appalti  pubblici  e  i
contratti di concessione tra enti nell'ambito del  settore  pubblico,
cosiddetti affidamenti in house». 
    Il  criterio  direttivo,  cioe',  prevede,  in  primo  luogo,  il
rispetto del  principio,  di  rango  costituzionale,  di  trasparenza
dell'azione  amministrativa,  che  non  potrebbe  essere   garantito,
contrariamente  a  quanto  dedotto   dal   rimettente,   dalla   mera
istituzione  presso  l'ANAC  dell'elenco  di  enti  aggiudicatori  di
affidamenti in  house  o  dalla  sola  pubblicazione  degli  atti  di
affidamento,  ma  richiederebbe  una  loro  puntule  motivazione,  in
conformita'  alla  tradizione  legislativa  e  giurisprudenziale  del
nostro ordinamento. 
    4.- Con memoria depositata il 14 aprile 2020 la parte  costituita
ha ulteriormente  illustrato  le  argomentazioni  gia'  svolte  e  ha
dedotto che la  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea,  con  due
recenti pronunce (quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019,  in  causa
C-285/18, Irgita, e nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause
da C-89/19 a C-91/19, Rieco  spa),  avrebbe  fugato  ogni  dubbio  in
ordine alla compatibilita' comunitaria della norma indubbiata dal TAR
Liguria. 
    Con  l'ultima  sentenza  citata,  in  particolare,  la  Corte  di
giustizia, su rinvio pregiudiziale del Consiglio  di  Stato,  avrebbe
affermato che l'art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE  non
osta ad una norma nazionale (l'art. 192,  comma  2,  del  codice  dei
contratti pubblici) che subordina  la  conclusione  di  un'operazione
interna  (cosiddetto  affidamento  in  house)  all'impossibilita'  di
procedere all'aggiudicazione di un appalto  e,  in  ogni  caso,  alla
dimostrazione,  da  parte  dell'amministrazione  aggiudicatrice,  dei
vantaggi per la  collettivita'  specificamente  connessi  al  ricorso
all'operazione interna. 
    Alla luce di tale esplicita presa di  posizione  della  Corte  di
giustizia, sarebbe ancora piu' evidente  la  non  contrarieta'  della
norma censurata ai criteri di delega invocati dal rimettente. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Liguria  ha
sollevato questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  192,
comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n.  50  (Codice  dei
contratti pubblici), nella parte  in  cui  prevede  che  le  stazioni
appaltanti  danno  conto,  nella  motivazione  del  provvedimento  di
affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato. 
    La norma censurata violerebbe l'art. 76  della  Costituzione,  in
relazione ai criteri direttivi di cui all'art. 1, comma 1, lettere a)
ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al  Governo  per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE  del
Parlamento  europeo  e  del  Consiglio,   del   26   febbraio   2014,
sull'aggiudicazione  dei  contratti  di  concessione,  sugli  appalti
pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua,  dell'energia,  dei  trasporti  e  dei  servizi  postali,
nonche' per il  riordino  della  disciplina  vigente  in  materia  di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture). 
    Piu' in particolare, l'art. 1, comma 1, lettera a),  della  legge
delega n. 11 del 2016, che pone  il  divieto  di  introduzione  o  di
mantenimento di livelli di  regolazione  superiori  a  quelli  minimi
richiesti dalle  direttive  comunitarie  (cosiddetto  gold  plating),
sarebbe  violato  perche'  l'onere  di  specifica  motivazione  delle
ragioni del mancato ricorso al mercato  non  sarebbe  previsto  dalle
direttive medesime. 
    L'art. 1, comma  1,  lettera  eee),  della  citata  legge  delega
sarebbe invece  violato  poiche'  prescriverebbe,  «per  gli  appalti
pubblici e i  contratti  di  concessione  tra  enti  nell'ambito  del
settore pubblico», la valutazione della  congruita'  economica  delle
offerte degli affidatari, nonche' la  pubblicita'  e  la  trasparenza
degli affidamenti,  mediante  l'istituzione,  a  cura  dell'Autorita'
nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti  aggiudicatori,
ma non l'ulteriore onere, introdotto  dal  legislatore  delegato,  di
specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato. 
    2.- Il rimettente, nel motivare l'ammissibilita' della questione,
afferma che: 1)  l'eccezione  di  inammissibilita'  del  gravame  per
essere la ricorrente non legittimata all'impugnazione  e'  infondata,
dal momento che la semplice qualita' di operatore del  settore  della
gestione  del  servizio  di  parcheggio  a  pagamento  la   legittima
senz'altro a impugnare l'affidamento diretto ad una  concorrente;  2)
il contratto per cui e' causa ha ad oggetto servizi  disponibili  sul
mercato in regime di concorrenza e rientra, in  ragione  dell'importo
del canone di concessione (euro  200.000,00  annui,  dall'11  gennaio
2018 al 31 dicembre 2023), nella soglia di rilevanza  comunitaria  di
cui all'art. 4, lettera c), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici
e che abroga la direttiva 2004/18/CE; 3) la norma  costituisce,  alla
luce dell'unico motivo di  ricorso,  il  parametro  legislativo  alla
stregua del quale il rimettente medesimo e' chiamato  a  valutare  la
legittimita'  dei   provvedimenti   impugnati,   sotto   il   profilo
dell'indicazione  espressa  delle  ragioni  del  mancato  ricorso  al
mercato e della loro congruita' e adeguatezza. 
    2.1.-  La  motivazione  sulla  rilevanza   della   questione   e'
plausibile, ma con la precisazione  che  l'art.  192,  comma  2,  del
d.lgs. n. 50 del 2016 (d'ora in avanti codice dei contratti pubblici)
riguarda tutti i casi di affidamento in house di contratti aventi  ad
oggetto «servizi disponibili sul mercato in regime  di  concorrenza»,
anche ove si tratti di contratti sotto soglia, per i quali, ai  sensi
dell'art. 36 del medesimo  codice,  e'  comunque  prevista  una  gara
semplificata (fatte salve ipotesi minimali di affidamento diretto non
ricorrenti nel caso di specie) in alternativa a quella ordinaria  (in
ogni caso e quindi anche per le cennate ipotesi minimali). 
    Cio'   rende   irrilevante   la   mancata    motivazione    sulla
riconducibilita' dell'affidamento  oggetto  del  giudizio  a  quo  al
modulo dell'appalto di servizi (come sembra ritenere  il  rimettente,
che invoca la direttiva 2014/24/UE), piuttosto  che  a  quello  della
concessione, avente una soglia ben piu'  elevata,  che  nel  caso  di
specie non sarebbe raggiunta. 
    3.- Nel merito, la  questione  -  che  ripropone  sotto  l'angolo
visuale del vizio di delega, il noto dibattito, particolarmente  vivo
nella  giurisprudenza  amministrativa,  sulla   natura   generale   o
eccezionale dell'affidamento in house - non e' fondata  in  relazione
ad entrambi i parametri interposti dedotti. 
    4.- Quanto alla violazione dell'art.  1,  comma  1,  lettera  a),
della legge delega n. 11 del 2016, va in primo luogo precisato che il
divieto di introduzione o di mantenimento di livelli  di  regolazione
superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive  comunitarie  (il
cosiddetto gold plating) e' imposto  da  tale  criterio  direttivo  e
dalle norme da esso richiamate, ma non e'  un  principio  di  diritto
comunitario, il  quale,  come  e'  noto,  vincola  gli  Stati  membri
all'attuazione delle direttive, lasciandoli liberi  di  scegliere  la
forma e i mezzi ritenuti piu' opportuni per raggiungere  i  risultati
prefissati (salvo che per le norme direttamente applicabili). 
    Il termine gold plating, tuttavia,  compare  nella  comunicazione
della Commissione al Parlamento europeo, al  Consiglio,  al  Comitato
economico e sociale europeo  e  al  Comitato  delle  Regioni,  dell'8
ottobre 2010, che reca delle riflessioni  e  delle  proposte  per  il
raggiungimento dell'obiettivo di  una  legiferazione  «intelligente»,
comunitaria e degli Stati membri,  in  grado  di  ridurre  gli  oneri
amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese. 
    Tra le iniziative che la Commissione ha adottato  per  migliorare
la qualita' della legislazione vigente vi  e'  quella  di  richiedere
«una  relazione  sulle  migliori  pratiche  negli  Stati  membri  per
un'attuazione meno onerosa della  legislazione  UE»,  contestualmente
impegnandosi ad approfondire «l'analisi del  fenomeno  delle  "regole
aggiuntive" (il cosiddetto "gold plating")». 
    Nella comunicazione si precisa che «[i]l termine gold-plating  si
riferisce alla prassi  delle  autorita'  nazionali  di  regolamentare
oltre  i  requisiti  imposti  dalla  legislazione  UE,  in  sede   di
recepimento o di attuazione in uno Stato membro». 
    4.1.- Nel nostro ordinamento il divieto di gold plating e'  stato
introdotto dall'art. 15, comma 2, lettera b), della legge 12 novembre
2011, n. 183, recante «Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilita'  2012)»,  con
l'inserimento nell'art. 14 della  legge  28  novembre  2005,  n.  246
(Semplificazione e riassetto normativo per l'anno  2005),  dei  commi
24-bis, ter e quater. 
    Il comma 24-bis recita: «[g]li atti di recepimento  di  direttive
comunitarie non possono prevedere l'introduzione o il mantenimento di
livelli di regolazione superiori  a  quelli  minimi  richiesti  dalle
direttive stesse, salvo quanto previsto al comma 24-quater». 
    Il  comma  24-ter,  poi,  puntualizza  quali  debbano  intendersi
livelli di regolazione superiori  a  quelli  minimi  richiesti  dalle
direttive comunitarie, ovvero: «a) l'introduzione o  il  mantenimento
di requisiti, standard, obblighi e oneri non  strettamente  necessari
per  l'attuazione  delle  direttive;  b)   l'estensione   dell'ambito
soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto
previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri  amministrativi
per i destinatari; c) l'introduzione o il mantenimento  di  sanzioni,
procedure o meccanismi operativi piu' gravosi o complessi  di  quelli
strettamente necessari per l'attuazione delle direttive». 
    Il comma 24-quater, infine, dispone che  [l']amministrazione  da'
conto delle circostanze eccezionali, valutate nell'analisi  d'impatto
della regolamentazione, in relazione alle quali si  rende  necessario
il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli
atti normativi non sottoposti ad AIR, le  Amministrazioni  utilizzano
comunque i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma
6 del presente articolo». 
    5.- Ebbene, da tali disposizioni  emerge  con  chiarezza  che  la
ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n.
11  del  2016,  e'  quella  di  impedire   l'introduzione,   in   via
legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto  a
quelli  previsti  dalla  normativa  comunitaria,  che   riducano   la
concorrenza in  danno  delle  imprese  e  dei  cittadini,  mentre  e'
evidente che la norma  censurata  si  rivolge  all'amministrazione  e
segue  una  direttrice  proconcorrenziale,  in  quanto  e'  volta  ad
allargare il ricorso al mercato. 
    La  rilevanza  di  questa   finalita'   e'   riconosciuta   anche
dall'Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato,  nel
parere n. 855 del 1° aprile 2016, relativo  allo  schema  di  decreto
legislativo recante «Codice degli appalti pubblici e dei contratti di
concessione, ai sensi  dell'articolo  1,  comma  3,  della  legge  28
gennaio 2016,  n.  11»,  in  cui  si  osserva  che  «il  "divieto  di
introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori  a
quelli minimi richiesti dalle direttive" va  rettamente  interpretato
in una prospettiva di riduzione degli "oneri non  necessari",  e  non
anche in una  prospettiva  di  abbassamento  del  livello  di  quelle
garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in  relazione
ai quali le esigenze di  massima  semplificazione  e  efficienza  non
possono che risultare recessive». 
    5.1.- La correttezza  di  tale  linea  interpretativa  trova  poi
conferma nella giurisprudenza della Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea, che, nell'affermare la non  contrarieta'  della  norma  oggi
scrutinata all'art. 12, paragrafo 3, della direttiva  2014/24/UE,  ha
ribadito  che  dal  principio  di  libera   autorganizzazione   delle
autorita' pubbliche (di cui al quinto  considerando  della  direttiva
2014/24/UE e all'art. 2, paragrafo 1,  della  direttiva  2014/23  del
Parlamento  europeo  e  del  Consiglio,   del   26   febbraio   2014,
sull'aggiudicazione  dei  contratti  di  concessione)   discende   la
«liberta' degli Stati membri di scegliere il modo di  prestazione  di
servizi  mediante  il   quale   le   amministrazioni   aggiudicatrici
provvederanno  alle  proprie  esigenze»  e,  conseguentemente,   quel
principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un'operazione
interna all'impossibilita' di indire una gara d'appalto  e,  in  ogni
caso,   alla    dimostrazione,    da    parte    dell'amministrazione
aggiudicatrice, dei  vantaggi  per  la  collettivita'  specificamente
connessi al ricorso all'operazione interna» (Corte di giustizia, nona
sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da  C-89/19  a  C-91/19,
Rieco spa, resa su  rinvio  pregiudiziale  del  Consiglio  di  Stato,
sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n.  138  e  14  gennaio
2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta
sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita). 
    6.- L'obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al
mercato imposto dall'art. 192, comma  2,  del  codice  dei  contratti
pubblici, che risponde  agli  interessi  costituzionalmente  tutelati
della trasparenza amministrativa e della  tutela  della  concorrenza,
non e' dunque in contrasto con il criterio previsto dall'art. 1 comma
1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016. 
    7.- Nemmeno sussiste la violazione dell'art. 1, comma 1,  lettera
eee), della medesima legge delega, che impone, per quanto qui rileva,
di garantire «adeguati livelli di  pubblicita'  e  trasparenza  delle
procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione
tra enti nell'ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti  in
house, prevedendo, anche per questi enti, l'obbligo di  pubblicazione
di tutti gli atti connessi all'affidamento, assicurando, anche  nelle
forme di aggiudicazione  diretta,  la  valutazione  sulla  congruita'
economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della
prestazione». 
    8.- Va evidenziato anzitutto che il criterio direttivo  trova  il
suo epicentro non tanto nel generico obbligo di adeguata  pubblicita'
e trasparenza - che, in  quanto  principio  fondamentale  dell'azione
amministrativa (art. 97 Cost. e art. 1 della legge 7 agosto 1990,  n.
241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e
di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), non richiede una
conferma nelle normative di settore - quanto nel suo essere riferito,
in particolare, agli affidamenti  diretti,  segno  di  una  specifica
attenzione a questo istituto gia' da parte del legislatore delegante. 
    E' dunque alla stregua di questo dato  che  occorre  valutare  la
scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi,  un  onere
di motivazione circa il mancato ricorso al mercato. 
    8.1.- La valutazione, peraltro, va fatta anche  alla  luce  della
costante giurisprudenza di questa Corte, che riconosce al legislatore
delegato margini di discrezionalita' e la necessita' di  tener  conto
del quadro normativo di riferimento (sentenze n. 10 del 2018,  n.  59
del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013), specie  quando
la delega «riguardi interi settori di disciplina o comunque  organici
complessi normativi» (sentenza n. 10 del 2018;  nello  stesso  senso,
sentenze n. 229 del 2014 e n. 162 del 2012). 
    Quest'ultimo criterio interpretativo e' particolarmente  calzante
nel caso in esame, in cui si e' in presenza di un "codice", che, come
e'  tipico  di  tale  corpo  normativo  nell'ambito   amministrativo,
nell'adeguare la  normativa  nazionale  alle  direttive  europee,  si
prefigge anche lo scopo di razionalizzare una disciplina  di  settore
stratificatasi nel tempo. 
    9.- La norma delegata, in effetti, e' espressione  di  una  linea
restrittiva del ricorso all'affidamento diretto che e'  costante  nel
nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta
all'abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e
locali, come emerge  dalla  relazione  AIR  dell'Autorita'  nazionale
anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee  guida  per  l'istituzione
dell'elenco  delle  amministrazioni  aggiudicatrici  e   degli   enti
aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei  confronti
di proprie societa' in house, ai sensi dell'art. 192 del  codice  dei
contratti pubblici. 
    9.1.- Gia' l'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella  legge
6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum, 
    richiedeva, tra  le  altre  condizioni  legittimanti  il  ricorso
all'affidamento in house nella materia dei servizi  pubblici  locali,
la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa  di  peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto territoriale di riferimento, non permettono un  efficace  ed
utile ricorso al mercato». 
    L'onere motivazionale in questione, poi, contrariamente a  quanto
ritenuto dal rimettente, non si discosta, nella sostanza,  da  quello
imposto dall'art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n.
179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito,
con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221. 
    Quest'ultima disposizione, infatti, richiede l'indicazione  delle
«ragioni» dell'affidamento diretto dei  servizi  pubblici  locali  di
rilevanza economica, il rispetto  della  parita'  degli  operatori  e
l'adeguata informazione alla collettivita' di riferimento, e cio' non
puo' che essere letto come necessita' di  rendere  palesi  (anche)  i
motivi che hanno indotto l'amministrazione a ricorrere  all'in  house
invece di rivolgersi al mercato. 
    A  sua  volta,  l'art.  7,  comma  3,  dello  schema  di  decreto
legislativo di riforma  dei  servizi  pubblici  locali  di  interesse
economico generale (adottato ai sensi degli artt. 16 e 19 della legge
7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe  al  Governo  in  materia  di
riorganizzazione delle amministrazioni  pubbliche»),  stabiliva,  tra
l'altro, che, «[n]el caso di  affidamento  in  house  o  di  gestione
mediante  azienda   speciale,   il   provvedimento   da',   altresi',
specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato». 
    Infine, l'art. 5, comma 1,  del  decreto  legislativo  19  agosto
2016, n. 175 (Testo unico in materia  di  societa'  a  partecipazione
pubblica), che reca la rubrica «[o]neri  di  motivazione  analitica»,
manifesta la stessa cautela verso la  costituzione  e  l'acquisto  di
partecipazioni di societa'  pubbliche  (comprese  quelle  in  house),
prevedendo, nella sua versione attuale, che «l'atto  deliberativo  di
costituzione di una societa' a  partecipazione  pubblica  [...]  deve
essere analiticamente  motivato  [...],  evidenziando,  altresi',  le
ragioni e le finalita' che giustificano tale scelta, anche sul  piano
della  convenienza  economica  e  della  sostenibilita'  finanziaria,
nonche' di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato». 
    9.2.- Si tratta di una scelta di fondo gia'  vagliata  da  questa
Corte, che - con specifico riferimento alle condizioni  allora  poste
dall'art. 23-bis del d.l.  n.  112  del  2008,  ma  con  affermazioni
estensibili  anche  al  caso  odierno  -  ha  osservato:  «[s]iffatte
ulteriori condizioni [...] si  risolvono  in  una  restrizione  delle
ipotesi in cui e' consentito il ricorso alla gestione  in  house  del
servizio e,  quindi,  della  possibilita'  di  derogare  alla  regola
comunitaria  concorrenziale  dell'affidamento  del  servizio   stesso
mediante gara pubblica. Cio' comporta, evidentemente, un'applicazione
piu' estesa di detta regola comunitaria,  quale  conseguenza  di  una
precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perche'
reca una disciplina  pro  concorrenziale  piu'  rigorosa  rispetto  a
quanto richiesto dal diritto comunitario, non e' da questo imposta  -
e, dunque, non e' costituzionalmente obbligata, ai  sensi  del  primo
comma dell'art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato -,  ma  neppure
si pone in contrasto [...] con la citata normativa comunitaria,  che,
in quanto diretta a favorire l'assetto  concorrenziale  del  mercato,
costituisce solo un minimo inderogabile  per  gli  Stati  membri.  E'
infatti innegabile l'esistenza di un "margine di  apprezzamento"  del
legislatore nazionale  rispetto  a  principi  di  tutela,  minimi  ed
indefettibili, stabiliti dall'ordinamento comunitario con riguardo ad
un valore ritenuto  meritevole  di  specifica  protezione,  quale  la
tutela della concorrenza "nel" mercato e "per" il mercato»  (sentenza
n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013). 
    10.- Si deve dunque concludere che la  specificazione  introdotta
dal legislatore delegato e' riconducibile all'esercizio  dei  normali
margini di discrezionalita' ad  esso  spettanti  nell'attuazione  del
criterio di delega, ne rispetta la ratio ed e' coerente con il quadro
normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del  2018,  n.
59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013). 
    11.- La questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  192,
comma 2, del codice dei contratti pubblici, sollevata dal TAR Liguria
in riferimento all'art. 76 Cost. ed in relazione all'art. 1, comma 1,
lettere a) ed eee), della legge n. 11 del 2016, va quindi  dichiarata
non fondata.