TRIBUNALE ORDINARIO DI MODENA Il giudice sciolta la riserva assunta all'udienza del 2 aprile 2019, ha pronunciato la seguente: ordinanza con l'atto introduttivo del presente giudizio per convalida di sfratto, Palazzo Foresti Srl ha allegato: 1) contratto di locazione ad uso abitativo dal 1° ottobre 2008, registrato 23 ottobre 2008, stipulato con Riccardo Girardini; 2) l'inadempimento del conduttore in relazione ai canoni da settembre 2018, fino alla notifica dell'atto di citazione. All'udienza del 29 gennaio 2019, Riccardo Girardini ha chiesto il termine ex art. 55, legge n. 392/1978 per il pagamento di euro 1.702,00 per canoni scaduti, piu' canoni da scadere, ed euro 604,10 oltre accessori a titolo di spese legali. All'udienza del 2 aprile 2019 l'intimante ha dato atto che la morosita' e' stata sanata ad eccezione delle spese processuali e ha inserito per la convalida dello sfratto. La norma che il Tribunale e' chiamato ad applicare e' l'art. 55 legge n. 392/1978, ove si prevede: la morosita' del conduttore nel pagamento de canoni o degli oneri di cui all'articolo 5 puo' essere sanata in sede giudiziale per non piu di tre volte nel corso di un quadriennio se il conduttore alla prima udienza versa l'importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati, sino a tale data, maggirato dagli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice. Ove il pagamento non avvenga in udienza, il giudice, dinanzi a compravate condizioni di difficolta' del conduttore, puo' assegnare un termine non superiore a giorni novanta. In tal caso rinvia l'udienza a non oltre dieci giorni dalla scadenza del termine assegnato. La morosita' puo' essere sanata, per non piu' di quattro volte complessivamente nel corso di un quadriennio, ed il termine di cui al secondo comma e' di centoventi giorni, se l'inadempienza, protrattasi per non oltre due mesi, e' conseguente alle precarie condizioni economiche del conduttore, insorte dopo la stipulazione del contratto e dipendenti da disoccupazione, malattie o gravi, comprovate condizioni di difficolta'. II pagamento, nei termini di cui ai commi precedenti, esclude la risoluzione del contratto. La giurisprudenza di legittimita' e' costante nell'interpretare la norma nel senso per cui «il comportamento del conduttore sanante la morosita' deve consistere nell'estinzione di tutto quanto dovuto per canoni, oneri accessori, interessi e spese fino alla scadenza del termine di grazia, senza che l'inadempimento residuo sia suscettibile di nuova verifica sotto il profilo della gravita'. Il giudice non ha infatti il potere di valutare se il superamento, ancorche' esiguo, del suddetto termine di grazia concesso al conduttore per sanare la morosita' costituisca inadempimento grave, ne' se il ritardo dipenda dal debitore o da un terzo di cui egli si sia avvalso per adempiere [...] perche' il giudice ha soltanto la possibilita' di fissare il termine entro il limite minimo e massimo stabilito dal legislatore» (tra le tante, Cassazione, sent. n. 5540/2012). Tale interpretazione e' confortata dal tenore letterale della nonna, in particolare nell'inciso secondo cui la risoluzione del contratto e' esclusa solo in caso di «pagamento», parola il cui significato allude in maniera univoca all'atto solutorio, volto a estinguere il debito in base al valore nominale espresso nell'atto di intimazione (o comunque nell'ordinanza di concessione del cd termine di grazia). Sgombra ogni dubbio la precisazione successiva «nei termini di cui ai commi precedenti»; solo la prova di aver versato «l'importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati sino a tale data, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice [...] esclude la risoluzione del contratto». Il Tribunale e' consapevole che: 1) l'art. 663 comma III cpc subordina la convalida, quando lo sfratto e' stato intimato per mancato pagamento del canone, all'attestazione in giudizio dei locatore o del suo procuratore che la morosita' persiste; 2) l'art. 5 legge n. 392/1978 indica quale motivo di risoluzione del contratto di locazione ad uso abitativo il mancato pagamento del canone decorsi venti giorni dalla scadenza; 3) l'art. 55 della medesima legge costituisce una norma eccezionale che neutralizza le conseguenze del principio per cui, una volta che il creditore abbia chiesto la risoluzione del contratto, il debitore inadempiente «non puo' piu' adempiere la propria obbligazione» (art. 1453 comma III cc). La rigidita' del meccanismo introdotto dalla concessione del termine ex art. 55, ben descritto dalla giurisprudenza di legittimita', pare costituire una sorta di compensazione per il sacrificio, normalmente non contemplato, dell'interesse del creditore, che abbia chiesto la risoluzione, al venir meno del rapporto contrattuale. Non puo' sottacersi, pero', che il gia' menzionato art. 5 introduce una qualificazione legale della «non scarsa importanza» dell'adempimento, precludendo la valutazione ex art 1455 del codice civile del giudice in senso obiettivamente favorevole al locatore, se si considera che e' sufficiente il ritardo di venti giorni nel pagamento di un solo canone. Questa definizione dell'equilibrio tra gli interessi contrapposti si prolunga inalterata dal 1978 al giorno d'oggi. Nei quaranta anni di vigenza delle due norme menzionate il contesto sociale ed economico ha subito mutamenti che difficilmente il legislatore del 1978 avrebbe potuto immaginare. La crisi del settore produttivo e i tentativi di porre rimedio a questa crisi hanno determinato una maggiore instabilita' dei rapporti di lavoro, la cui remunerazione appare, per chi non sia titolare di altre fonti di reddito, l'unica via per ottenere la provvista per pagare i canoni di locazione. I fenomeni migratori hanno ampliato le categorie di persone bisognose di alloggio e, al tempo stesso, esposte alla difficolta' di trovare le risorse economiche per adempiere alle proprie obbligazioni. Sotto questo profilo, l'impermeabilita' letterale e semantica dell'art. 55 l. cit. confligge con la riflessione giuridica, ormai giunta a compimento, in ordine alla clausola di buona fede in senso obiettivo quale fonte di obblighi di considerazione dell'interesse della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, in ogni fase, anche quella patologica, del rapporto obbligatorio. Sul punto, anche per l'autorevolezza dell'estensore, basti menzionare, in termini generali, la pronuncia n. 21255/2013 della Corte di Cassazione, in cui si chiarisce che «il rapporto obbligatorio precede e segue l'integrazione della vicenda negoziale - intesa nella sua duplice dimensione di fatto storico e di fattispecie programmatica - ed e' integrato nella sua piu' intima essenza da doveri di comportamento che [...] appaiono piuttosto funzionati a governare secondo buona fede i differenti aspetti della complessa vicenda interpersonale dipanatasi tra le parti, cosi' operando nella (diversa e piu' ampia) logica del rapporto e della (complessita' della) fattispecie». Questi doveri di comportamento condizionano, piu' in particolare, anche l'esercizio dei diritti potestativi, dal momento che «anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l'uno gli interessi dell'altro. E potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, e' necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativa (art. 1175, 1375, 1356, 1366, 1371, c.c., ecc.) come direttiva fondamentale per valutare l'agire dei privati e come concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto). Il principio di buona fede si pone allora, nell'ambito della fattispecie dell'art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell'esistenza dell'inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l'abuso ed impedendone l'esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall'ordinamento)» (Cassazione, sent. n. 23868/2015). Gia' da tempo, la S.C. aveva peraltro affermato che «il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volonta' dipende (in parte) l'avveramento della condizione», in quanto e' «proprio l'elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha piu' ragion d'essere, perche' e' con riguardo a quell'elemento che la discrezionalita' contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza» (SS.UU., sent. n. 18450/2005). Dal punto di vista processuale, la Corte di Cassazione, a partire da SS.UU. n. 23726/2007, e' costante nell'affermare due principi: «a) la regola di correttezza e buona fede, che specifica all'interno del rapporto obbligatorio la necessita' di soddisfare gli «inderogabili doveri di solidarieta'», il cui adempimento e' richiesto dall'art. 2 Cost., regola che viene violata quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore; b) la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole di cui al novellato art. 111 Cost., la quale esclude, innanzi tutto, che possa ritenersi «giusto» il processo che costituisca esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreche' la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendf» (Cassazione, sent. n. 4228/2015, ove pure si scrive che l'art. 24 Cost. «tutelando il diritto di azione non esclude certamente che la legge possa richiedere, nelle controversie meramente patrimoniali, che per giustificare l'accesso al giudice il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, innanzi tutto economica e, quindi, anche giuridica»). Se e' vero che (solo) il pagamento nei termini indicati dall'art. 55 comma I 1. cit. esclude la risoluzione, cio' significa che, in sede di' udienza successiva alla concessione del termine cd «di grazia», il giudice non potra' valutare se e in che misura: 1) per il peculiare atteggiarsi del caso concreto, anche nella fase patologica del rapporto, sussista un dovere dei locatore di considerare l'interesse del conduttore nei limiti dell'apprezzabile sacrificio del proprio; 2) l'inadempimento del conduttore, per come allegato in atto di intimazione e per come risultante all'udienza successiva alla concessione del termine ex art. 55 comma Il 1. cit., abbia inciso e incida nella sfera giuridica del locatore; 3) il pagamento del conduttore, in ipotesi incompleto, a seguito della concessione del termine, abbia eroso il debito complessivo; 4) l'esistenza di pregresse morosita', in ipotesi sanate, anche tramite il necessario ricorso del locatore all'assistenza di un legale, abbia contraddistinto la vita del rapporto; 5) conclusivamente, il persistere della richiesta di convalida di sfratto all'udienza successiva alla concessione del cd termine di grazia integri una modalita' di esercizio del diritto di azione eccedente o deviante rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, o, peggio, in assenza di qualsiasi interesse sostanziale da tutelare. Se i doveri sostanziali di comportamento e la cd «buona fede processuale», delineati dalla giurisprudenza di legittimita', si fondano sul principio di solidarieta' espresso dall'art. 2 della Costituzione, non vi e' ragione di ritenere che l'eccezionalita' del cd «sub procedimento di sanatoria» di cui all'art. 55 legge n. 392/1978 lo renda immune dal vaglio di compatibilita' con questo e altri valori espressi dalla Carta Costituzionale. I nodi critici sono due: 1) il conduttore non paga le spese processuali; 2) il conduttore paga quasi del tutto la somma dovuta per canoni (oppure oneri accessori). Per quanto riguarda il primo aspetto, il Tribunale ritiene che sia astrattamente configurabile un dovere «di solidarieta'» del locatore di considerare l'interesse del conduttore alla prosecuzione del rapporto contrattuale ove il debito per canoni/oneri sia stato colmato a seguito della concessione del termine ex art. 55 comma II 1. cit., ma residui il pagamento delle spese legali. I presupposti di questo dovere sono evidenti: le condizioni di difficolta' economica del conduttore, nel caso di specie da ritenersi implicite nella mancata adduzione di altre ragioni/eccezioni che giustifichino l'inadempimento dell'obbligo di pagare i canoni, tenuto conto, altresi', che parte intimata in udienza non si e' opposta alla richiesta del termine; la natura del suo interesse abitativo, il cui fondamento costituzionale (delineato da Corte Costituzionale, sent. n. 404/1988) non puo' passare in secondo piano. Per altro verso, anche ammettendo che la mancata rifusione delle spese processuali integri un sacrificio apprezzabile (infatti, se dovessero rimanere a carico del locatore, i costi del processo «giusto», cioe' sorretto dall'esistenza di un interesse sostanziale da tutelare, rimarrebbero a carico della parte che aveva ragione), tale sacrificio non e' mai attuale all'udienza successiva alla concessione del termine ex art. 55 comma. II 1. cit., perche' le spese ben potrebbero essere rifuse una volta definitasi la procedura (come accade, per esempio, in caso di pagamento della somma ingiunta in corso di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui le spese di lite, a fronte di una pronuncia di revoca del decreto ingiuntivo, di regola sono poste a carico dell'opponente, nei cui confronti potranno essere recuperate in seguito). Si tratta, a ben vedere, dell'unica ipotesi in cui l'obbligo di pagare le spese processuali per la parte virtualmente soccombente sorge prima delle definizione del processo, dal momento che, per l'inosservanza di tale obbligo, e' prevista una sanzione che consiste, con un notevole salto logico, nella reale soccombenza. Del resto, la norma non consente, in caso di mancato pagamento delle spese processuali a seguito della concessione del termine ex art. 55 comma II 1. cit,, ne' di «escludere la risoluzione», con condanna dell'intimante al loro pagamento, ne' di mutare il rito per verificare in che misura il mancato pagamento, se protrattosi, abbia inciso sull'economia complessiva del rapporto. L'apprezzabile sforzo di evitare una pronuncia che obblighi il conduttore al rilascio dell'immobile per il mancato pagamento di una somma (a tutto voler concedere) solo indirettamente collegata al rapporto di locazione e' stato di recente tradotto in termini operativi dal Protocollo del Tribunale di Bologna per il procedimento per convalida di sfratto (aggiornamento 2017, punto 14), ove e' stato previsto che, se il conduttore intimato, in prima udienza, paga o dimostra di aver pagato, dopo la notifica dell'atto introduttivo, l'intero debito per canoni/oneri, ma non le spese, il giudice, se richiesto, «dichiarera' cessata la materia del contendere e condannera' l'intimato al pagamento delle spese processuali con ordinanza avente valore di sentenza». Ad avviso del Tribunale, una pronuncia che obblighi al rilascio diventa tanto piu' aspra ove il conduttore, nonostante le sue condizioni di difficolta' economica, abbia recuperato le somme (spesso ingenti, tenuto conto della situazione reddituale) per pagare i canoni dopo la concessione del termine ex art. 55 comma II I. cit., ripristinando, seppure faticosamente, l'equilibrio contrattuale, mediante la soddisfazione, seppure tardiva, dell'interesse economico che aveva mosso il locatore alla stipula del contratto. La differenza tra cio' che e' necessario per soddisfare l'interesse del locatore (estinguere il debito per canoni/oneri) e cio' che e' necessario per «escludere la risoluzione», per quanto in origine spiegabile con la forzata abdicazione all'interesse alla caducazione del rapporto, appare oggi, per le motivazioni sopra esposte, nella misura in cui consente al locatore di chiedere e ottenere, comunque e in ogni caso, la convalida: 1) eccedente l'interesse sostanziale del locatore dedotto in contratto, che dovrebbe costituire l'oggetto della tutela giurisdizionale; 2) connotata da un'ingiustificabile valenza di emenda per il conduttore, che contraddice il riconoscimento della condizione di difficolta' economica da cui ha avuto origine il mancato pagamento dei canoni; 3) mortificante lo sforzo del conduttore che, pur essendo riuscito, nonostante le sue condizioni di difficolta' economica, a recuperare la somma necessaria per pagare il debito per canoni/oneri (per esempio, destinando i primi stipendi di un nuovo lavoro, oppure vendendo beni di proprieta'), sarebbe destinatario di una pronuncia identica a quella che' ci sarebbe stata qualora tale sforzo non fosse stato profuso; 4) decisiva ai fini di una pronuncia che incide sul diritto all'abitazione di persone per cui e' facile immaginare l'assenza di alternative valide. Si potrebbe obiettare che queste considerazioni tengono conto dell'interesse solo di una delle parti e che, specie per chi tragga dal rapporto di locazione la propria unica fonte di reddito, la non fisiologica esecuzione del contratto, unita al pericolo di dover sostenere il costo delle spese processuali, costituisca di per se' un sacrificio apprezzabile. A tale obiezione potrebbe replicarsi che la norma impedisce di valutare ogni aspetto della specifica situazione all'esame del Tribunale, perche' e' evidente che la valutazione dell'interesse del conduttore dovrebbe essere necessariamente compiuta in chiave comparativa con l'interesse del locatore. La valutazione comparativa potrebbe avere esito diverso a seconda, per esempio, che il locatore abbia o non abbia fonti di reddito alternative. Il Tribunale e' consapevole che la Consulta si e' gia' pronunciata sulla legittimita' costituzionale dell'art. 551. cit.: 1) con ordinanza n. 315/1986, in cui la questione posta, in epoca risalente, riguardava aspetti diversi, afferenti all'impossibilita' per il conduttore di chiedere il termine ex art. 55 comma II I.cit. anche nell'ulteriore corso del procedimento ovvero per il giudice di concederlo in sede di ordinanza di rilascio ex art. 665 cpc; 2) con sentenza n. 2/1992, in cui la Consulta ha escluso l'irragionevolezza dell'art. 55 nell'interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione, secondo cui la richiesta del cd termine ex art. 55 comma II 1. cit. puo' essere formulata solo in sede di procedimento speciale di convalida di sfratto e non in un ordinario giudizio a cognizione piena instaurato dal locatore per ottenere la risoluzione del contratto; 3) con ordinanza n. 410/2001, in cui e' stata affrontata la non irragionevole discriminazione di disciplina tra locazioni ad uso abitativo e locazioni ad uso non abitativo circa la possibilita' di chiedere il termine ex art. 55 comma II 1. cit.. Nondimeno, il Tribunale ritiene che il profilo qui sollevato sia diverso, anche alla luce del mutamento della cornice storica, economica e sociale, per cui ha ragione di porsi il dubbio in ordine al se la contropartita alla deroga all'art. 1453 comma III cc, che consiste nella possibilita' per il locatore di utilizzare, in sede di procedimento per convalida di sfratto, un meccanismo rigido sia dal punto di vista dell'onere imposto al conduttore (pagamento di tutto il debito per canoni e oneri), sia dal punto di vista temporale (un pagamento effettuato all'ottantanovesimo giorno escluderebbe la risoluzione, un pagamento effettuato al novantunesimo giorno no, senza verificare se cio' sia dipeso meno da comportamenti del conduttore ispirati a buona fede), sia dal punto di vista della regolazione delle spese processuali, singolarmente da pagare prima della definizione del processo, resista: 1) all'esame del tempo; 2) alle, ormai compiute, riflessioni giurisprudenziali che, per un verso, muovono dal dovere di solidarieta' per integrare il contenuto del rapporto obbligatorio evitando che la tutela giurisdizionale consenta di approdare a un equilibrio inaccettabile degli interessi in gioco e, per un altro, attribuiscono rilievo centrale al concreto modo di atteggiarsi del rapporto tra le parti, anche nei suoi risvolti patologici, per individuare risposte di giustizia calibrate sulla diversita' delle situazioni. Se, come e' stato osservato dalla Consulta nella sentenza n. 2/1992, la ratio della legge n. 392/1978 e' di «conservare continuita' al rapporto di locazione», appare difficilmente giustificabile, nel presente contesto storico, alla luce dei menzionati principi costituzionali, che tale continuita' sia pregiudicata in tutte le ipotesi in cui non sia accertata, se del caso tramite un processo a cognizione piena, la reale incidenza dell'inosservanza, quantitativa e/o temporale, del cd termine di «grazia» sull'equilibrio del rapporto. Tanto premesso, occorre sospendere la causa promossa da Palazzo Faresti S.r.l., promuovendo, nell'ambito della stessa, questione incidentale di legittimita' costituzionale. Tale questione, stante quanto fin qui esposto, ha per oggetto l'art. 55 legge n. 392/1978 nella parte in cui, prevedendo che «il pagamento, nei termini di cui ai commi precedenti, esclude la risoluzione del contratto», non comprende, tra i casi di esclusione della risoluzione in sede di procedimento per convalida di sfratto, ove al conduttore sia stato concesso il termine previsto dal medesimo articolo per le sue condizioni di difficolta' economica, l'ipotesi in cui residui il pagamento delle spese processuali. Rispetto a tale norma, non essendo praticabile, per i motivi suesposti, un'interpretazione adeguatrice o estensiva, si pone un dubbio - a parere del Tribunale, non manifestamente infondato - di conformita' rispetto: 1) al parametro costituito dal dovere di solidarieta' politica, economica e sociale ex art. 2 Cost., che costituisce, come la giurisprudenza di legittimita' ha ripetutamente argomentato, il fondamento della clausola generale di buona fede in senso obiettivo, che impone alla parte del rapporto obbligatorio, in ogni sua fase, di considerare l'interesse della controparte nei limiti dell'apprezzabile sacrificio del proprio, in quanto non consente al giudice di valutare l'entita' di questi interessi e di questi sacrifici, imponendogli la pronuncia di risoluzione in sede sommaria anche nelle ipotesi in cui, a fronte della (sicura e attuale, salvo prova contraria) compromissione dell'interesse abitativo del conduttore, il mancato pagamento delle spese processuali, che il locatore potrebbe comunque ottenere in seguito in forza del provvedimento definitorio del giudizio, rappresenti una mera eventualita'; 2) al parametro costituito dall'art. 3, comma 2 Cost., inteso come ragionevolezza, che esclude il trattamento analogo di situazioni differenti, quali, nella specie, devono essere ritenute: 2.1) la condizione del conduttore cui sia stato concesso il termine ex art. 55 comma II 1. cit. e che non abbia pagato il debito per canoni e le spese processuali; 2.2) la condizione del conduttore cui sia stato concesso il termine ex art. 55 comma II 1. cit. e che abbia pagato il debito per canoni e oneri ma non le spese processuali; infatti, in entrambi i casi, l'art. 55 comma V 1. cit. impone la risoluzione del contratto; 3) al parametro costituito dal principio del «giusto processo» di cui all'art. 111 Cost., inteso come presidio contro l'esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimita', in quanto la norma impone la risoluzione del contratto, cioe' la compromissione dell'interesse abitativo del conduttore, anche nei casi in cui, a fronte di un suo obiettivo sforzo, date le condizioni di difficolta', la lesione dell'interesse economico del locatore, identificata dalla differenza tra quanto determinato in sede di concessione del termine ex art. 55 comma II 1. cit. e quanto pagato dal conduttore, sia tollerabile nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, avuto riguardo alle condizioni delle parti, oppure soltanto eventuale, come nel caso delle spese processuali. La questione, oltreche' non manifestamente infondata, per quanto fin qui esposto, appare anche dotata di rilevanza rispetto alla fattispecie in esame: dall'applicazione della norma, dalla cui costituzionalita' si dubita, il Tribunale non puo' prescindere per la definizione della controversia sottoposta al suo esame, in cui la risoluzione del contratto dovrebbe essere pronunciata - a fronte di un totale recupero dell'esposizione debitoria derivante dal contratto e in assenza di approfondimenti meritevoli di cognizione piena sulla reale incidenza dell'inosservanza del cd termine di grazia nella sfera patrimoniale del locatore, qui una persona giuridica - per il sol fatto del mancato pagamento delle spese processuali liquidate all'udienza del 29 gennaio 2019. Se alla logica asimmetrica e perentoria della grazia si sostituisce la logica mite, paritetica e costituzionalmente fondata della solidarieta', il risultato cui si perviene, nel caso di specie, attraverso la pronuncia di risoluzione imposta dalla norma appare tale da incidere in misura ingiustificata sull'interesse, di natura personale, all'abitazione dell'intimato. Ad avviso del Tribunale, l'auspicata scissione tra «sanatoria della morosita'» (dovendosi ritenere compreso nella «morosita'» anche il debito per spese processuali) ed «esclusione della risoluzione del contratto» non dovrebbe avere ricadute sul tenore letterale dell'art. 55 comma I 1. cit., nel senso che, ferma restando la spettanza di tutti i crediti - se ancora esistenti - il cui titolo e' costituito dal contratto di locazione a uso abitativo, la liquidazione «anticipata» delle spese processuali in sede di concessione del termine di cui all'art. 55 comma II I. cit. potrebbe comunque essere opportuna per agevolare l'estinzione del giudizio prevenendo ragioni ulteriori di contenzioso. Infine, nessuna preclusione alla proponibilita' della questione incidentale puo' derivare dalla natura sommaria del rito esperito dalla ricorrente, comunque annoverabile tra i possibili giudizi a quibus, stante l'idoneita' ad assumere efficacia omogenea a quella del giudicato ex art. 2909 cc del provvedimento definitorio del presente giudizio.