ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6,  secondo
comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604  (Norme  sui  licenziamenti
individuali), come modificato dall'art. 1, comma 38, della  legge  28
giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di  riforma  del  mercato
del lavoro in una prospettiva di crescita),  promosso  dal  Tribunale
ordinario di Catania, sezione lavoro, nel procedimento  vertente  tra
S. S. e la Auchan spa, con ordinanza del 17 maggio 2019, iscritta  al
n. 155 del  registro  ordinanze  2019  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 41,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2019. 
    Visti l'atto di costituzione della Auchan spa nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del  22  settembre  2020  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    udito  l'avvocato  dello  Stato  Massimo  Salvatorelli   per   il
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 22 settembre 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il  Tribunale  ordinario  di  Catania,  sezione  lavoro,  con
ordinanza del 17 maggio 2019, ha sollevato questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 6, secondo  comma,  della  legge  15  luglio
1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali),  nella  parte  in
cui non prevede che l'impugnazione stragiudiziale  di  cui  al  primo
comma della stessa disposizione e'  inefficace  se  non  e'  seguita,
entro il successivo termine di centottanta giorni,  oltre  che  dagli
adempimenti ivi indicati, anche dal deposito  del  ricorso  cautelare
ante causam ex artt. 669-bis, 669-ter e 700 del codice  di  procedura
civile, per violazione degli artt. 3,  24,  111,  117,  primo  comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  6  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    2.- Il giudice rimettente riferisce che  un  lavoratore  disabile
aveva impugnato, con ricorso d'urgenza ex art. 700 cod.  proc.  civ.,
anteriore alla causa, il provvedimento con  il  quale  il  datore  di
lavoro ne aveva disposto il trasferimento presso  un'altra  sede  (in
una diversa regione isolana) e che, nel costituirsi nel  procedimento
cautelare, la societa' resistente aveva formulato  due  eccezioni  di
decadenza, fondate, l'una, sulla mancata impugnazione  stragiudiziale
della comunicazione di trasferimento entro  il  termine  di  sessanta
giorni previsto dal primo comma dell'art. 6 della legge  n.  604  del
1966 e, l'altra, sull'omessa impugnazione giudiziale, nel termine  di
decadenza di centottanta giorni contemplato dal secondo  comma  della
stessa disposizione, mediante la proposizione di un ricorso di merito
ex art. 414 cod. proc. civ. ovvero la comunicazione  della  richiesta
di tentativo di conciliazione o di arbitrato. In particolare, per  la
difesa della parte datoriale, la proposizione,  prima  dello  spirare
del termine in questione, di un ricorso d'urgenza ex  art.  700  cod.
proc. civ. non potrebbe  ritenersi  idonea  a  impedire  la  predetta
decadenza. 
    Il Tribunale di Catania, cio'  premesso  in  fatto,  ritenuto  di
poter superare la prima eccezione di decadenza perche' l'impugnazione
stragiudiziale era stata in realta' tempestivamente proposta,  assume
che, al fine  della  statuizione  sulla  domanda  di  tutela  in  via
d'urgenza del lavoratore - il quale  non  aveva  proposto,  entro  il
termine previsto a pena di  decadenza  dall'impugnazione  degli  atti
datoriali ivi contemplati dall'art. 6, secondo comma, della legge  n.
604 del 1966, come sostituito dall'art. 32, comma 1,  della  legge  4
novembre 2010, n. 183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di  lavori
usuranti, di riorganizzazione di  enti,  di  congedi,  aspettative  e
permessi, di ammortizzatori sociali, di  servizi  per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), il  ricorso  di
merito, ne' formulato richiesta di conciliazione o di arbitrato -  e'
rilevante la decisione  sulle  sollevate  questioni  di  legittimita'
costituzionale, stante il  costante  indirizzo  interpretativo  della
Corte di cassazione, costituente ormai diritto vivente,  secondo  cui
il ricorso  cautelare  ante  causam  non  e'  idoneo  a  impedire  la
decadenza da tale impugnazione. 
    In punto di non manifesta infondatezza, il  Tribunale  rimettente
sottolinea che la norma denunciata determina il risultato paradossale
di precludere al  giudice  della  cautela,  adito  con  ricorso  ante
causam, di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, ove il  termine
di decadenza di cui all'art. 6, secondo comma, della legge n. 604 del
1966 spiri nelle more del processo, per intervenuta  inoppugnabilita'
dell'atto. 
    Il Tribunale ritiene,  quindi,  che  la  disposizione  censurata,
comporti  una  sanzione  eccessivamente   grave,   sproporzionata   e
irragionevole  rispetto  agli  obiettivi  perseguiti   con   la   sua
introduzione,  nella  misura  in  cui  impedisce  definitivamente  al
lavoratore, per motivi meramente formali e  di  rito,  di  avere  una
decisione sulla  sua  impugnazione,  ancorche'  abbia  attivamente  e
tempestivamente contestato l'atto datoriale con la proposizione di un
mezzo idoneo, come il ricorso cautelare, ad  anticipare  gli  effetti
del giudizio di merito. 
    La sproporzione della sanzione rispetto alle esigenze di certezza
del datore di lavoro deriva -  sottolinea  il  giudice  rimettente  -
dalla circostanza che le stesse potrebbero  essere  perseguite  anche
riconoscendo  l'idoneita'  del  ricorso  cautelare  a   impedire   il
verificarsi della decadenza, sia in quanto il procedimento introdotto
dallo  stesso  e'  destinato  a   concludersi   con   una   decisione
anticipatoria degli effetti della sentenza  di  merito,  sia  per  la
possibilita' riconosciuta a entrambe le  parti  in  causa,  e  quindi
anche al datore di lavoro, di instaurare il giudizio di merito ove ne
abbiano interesse. 
    Osserva il giudice  rimettente  che  la  disposizione  denunciata
renderebbe  inutiliter  data  un'eventuale  ordinanza  cautelare   di
accoglimento pronunciata prima dello spirare del termine di decadenza
nell'ipotesi in cui, entro lo  stesso  termine,  non  venga  proposto
ricorso di merito o comunicato il tentativo  di  conciliazione  o  la
richiesta di arbitrato. 
    Assume, dunque, il Tribunale che la preclusione all'accesso  alla
tutela  giurisdizionale  finisce  per  gravare  -  con  una  sanzione
eccessiva rispetto allo scopo perseguito -  sulla  parte  debole  del
rapporto, violando  tanto  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost., quanto gli artt. 24 e 111 Cost. in tema  di  giusto
processo e l'art. 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in  relazione
all'art. 6, primo comma, CEDU, poiche' la Corte europea  dei  diritti
dell'uomo  ha  piu'  volte  ritenuto   illegittime   le   limitazioni
all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali, prive  di
uno  scopo  legittimo  ovvero  in  caso  di  sproporzione  tra  mezzo
impiegato e scopo, pur legittimo, perseguito. 
    Nella prospettazione del giudice  a  quo,  inoltre,  i  dubbi  di
legittimita' sollevati sono ulteriormente corroborati, in ordine alla
dedotta irragionevolezza (ex art. 3  Cost.)  della  norma  censurata,
dalla circostanza che quest'ultima, interpretata dal diritto  vivente
nel senso di non attribuire alcuna rilevanza al ricorso cautelare, la
assegna invece espressamente ad atti di  natura  stragiudiziale,  che
possono  concludersi  anche  senza  la  definitiva  regolazione   dei
rapporti  tra  le  parti,  come  la   richiesta   di   tentativo   di
conciliazione e di arbitrato, neppure prevedendo,  come  avviene  per
l'ipotesi del mancato accordo per l'espletamento di tali  mezzi,  che
dopo la  conclusione  del  giudizio  cautelare  il  lavoratore  possa
incardinare il giudizio di merito entro un determinato termine. 
    Secondo il giudice rimettente, tale complessivo assetto normativo
deve ritenersi  irragionevole,  poiche'  la  domanda  cautelare  ante
causam e' atto almeno equipollente al tentativo  di  conciliazione  o
alla richiesta di arbitrato rispetto alla manifestazione al datore di
lavoro  dell'interesse  del  lavoratore  a  ottenere   la   rimozione
dell'atto impugnato. L'incoerenza  del  sistema  sarebbe  tanto  piu'
evidente per il sostanziale impedimento  della  tutela  cautelare  in
relazione ad atti  fortemente  incisivi  sulla  sfera  giuridica  del
lavoratore, come il licenziamento e il trasferimento, in relazione ai
quali il dipendente  avrebbe  maggiore  esigenza  di  ricorrere  alla
tutela d'urgenza. 
    Sottolinea, inoltre, il Tribunale di  Catania  che  il  contrasto
della  disposizione  denunciata   con   i   parametri   invocati   si
disvelerebbe  anche  per  la  ragione  che,  sul   piano   letterale,
nell'espressione «ricorso» utilizzata  dall'art.  6,  secondo  comma,
della legge n. 604 del 1966, si  presterebbe  a  rientrare  anche  il
ricorso cautelare, con conseguente incertezza della parte  in  ordine
ai mezzi di difesa di cui puo' disporre. 
    3.-  Nel  giudizio  incidentale  di  legittimita'  costituzionale
promosso dal rimettente, si e' costituita la parte  datoriale  Auchan
spa. 
    Nelle proprie deduzioni scritte, la societa' ha eccepito, in  via
pregiudiziale,  l'inammissibilita'  delle  questioni  sollevate   dal
giudice a quo  per  erronea  identificazione  della  norma  di  legge
oggetto di censura, costituita, piuttosto che  dall'art.  6,  secondo
comma, della legge n. 604 del 1966,  dall'art.  32,  comma  3,  della
legge n. 183 del 2010, che ha esteso  la  decadenza  ivi  contemplata
anche ad altri atti, tra i quali il trasferimento del lavoratore. 
    Nel merito, la societa' deduce la  manifesta  infondatezza  delle
questioni, in relazione a ciascuno dei parametri  invocati.  Osserva,
per un verso, che non e' precluso al lavoratore l'accesso alla tutela
cautelare, ben potendo lo stesso, entro il termine di  decadenza,  da
ritenersi a tal fine congruo, di centottanta giorni contemplato dalla
norma, una volta  proposto  il  ricorso  cautelare,  dare  inizio  al
giudizio di merito. La societa' sottolinea, per altro verso, rispetto
alla denunciata irragionevolezza della norma per  aver  previsto  una
disciplina  "piu'  favorevole"  con  riferimento  alla  richiesta  di
tentativo di conciliazione o di arbitrato, l'inidoneita' del  tertium
comparationis, costituito dal  ricorso  cautelare,  in  virtu'  della
possibilita', mediante i predetti  strumenti,  di  addivenire  a  una
risoluzione della  controversia  con  mezzi  alternativi  rispetto  a
quello giudiziario. 
    La difesa di  Auchan  spa  esclude  infine  che  possa  ritenersi
sussistente, in virtu' del costante orientamento della giurisprudenza
di legittimita', un'incertezza per il lavoratore circa la nozione  di
«ricorso», cui fa riferimento la disposizione censurata. 
    4.- Con atto del 29 ottobre 2019, e' intervenuto nel giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  il  rigetto  delle
questioni  sollevate  dall'ordinanza  di  rimessione  per   manifesta
infondatezza. 
    In particolare, premesso  lo  scopo  delle  modifiche  introdotte
dall'art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010 all'art. 6,  primo
e secondo comma, della  legge  n.  604  del  1966,  e  richiamata  la
costante giurisprudenza costituzionale circa l'ampia discrezionalita'
del  legislatore  ordinario  nella   conformazione   degli   istituti
processuali, la difesa dello  Stato  evidenzia  che,  nel  non  breve
termine  complessivo  di  «duecentoquaranta  giorni»  previsto  dalla
predetta disposizione normativa, il lavoratore, che si avvale  di  un
difensore tecnico, ben puo' depositare tempestivamente il ricorso  di
merito dopo aver proposto la domanda cautelare ante causam. 
    La difesa  erariale  osserva,  inoltre,  che  i  provvedimenti  a
strumentalita' cosiddetta attenuata, come quelli  d'urgenza  ex  art.
700 cod. proc. civ., determinano, in contrasto con le finalita' della
decadenza contemplata dall'art. 6 della legge n. 604  del  1966,  una
permanente instabilita'  nella  regolamentazione  del  rapporto,  non
essendo  previsto  un  termine  perentorio  per  l'instaurazione  del
giudizio di merito. 
    Rileva, per altro verso, la difesa statale  che  la  proposizione
del ricorso cautelare non sarebbe comparabile con la possibilita' per
la parte di avvalersi di strumenti alternativi di  risoluzione  delle
controversie, quali la conciliazione e l'arbitrato. 
    Infine, l'obbligo della difesa tecnica  del  lavoratore,  in  uno
alla consolidata  giurisprudenza  di  legittimita'  sulla  questione,
renderebbero infondata, secondo l'Avvocatura,  la  censura  circa  la
lesione dell'affidamento della parte rispetto all'interpretazione del
termine «ricorso» da parte della giurisprudenza di legittimita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il  Tribunale  ordinario  di  Catania,  sezione  lavoro,  con
ordinanza del 17 maggio 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 24, 111 e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione all'art.  6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 6, secondo
comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604  (Norme  sui  licenziamenti
individuali), nella parte  in  cui  non  prevede  che  l'impugnazione
stragiudiziale di cui al primo comma  della  stessa  disposizione  e'
inefficace  se  non  e'  seguita,  entro  il  successivo  termine  di
centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti ivi  indicati,  anche
dal deposito del ricorso cautelare  ante  causam  proposto  ai  sensi
degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 del codice di procedura civile. 
    In particolare, il giudice rimettente dubita  della  legittimita'
costituzionale della predetta norma, nel  testo  novellato  dall'art.
32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al  Governo
in materia di  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di  enti,  di
congedi,  aspettative  e  permessi,  di  ammortizzatori  sociali,  di
servizi   per   l'impiego,   di   incentivi    all'occupazione,    di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie di lavoro), come interpretato  dalla  giurisprudenza  di
legittimita', ossia nel senso di ritenere non ricompreso nel  termine
«ricorso» idoneo a impedire il maturare della decadenza,  contemplata
dalla stessa norma, anche il ricorso per provvedimento d'urgenza ante
causam,  in  quanto  finisce  con  il  precludere,  nella   sostanza,
l'accesso del lavoratore, a fronte di incisivi atti  datoriali,  alla
tutela cautelare, pur costituzionalmente necessaria ex art. 24 Cost. 
    Il Tribunale rimettente obietta che la disposizione censurata, da
un lato, finisce per impedire al giudice  della  cautela,  adito  con
ricorso ante causam, di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente ove
il termine di decadenza, di cui  all'art.  6,  secondo  comma,  della
legge n. 604 del 1966, spiri nelle  more  dello  stesso  procedimento
cautelare, per intervenuta inoppugnabilita' dell'atto e,  dall'altro,
ha  l'effetto  di  rendere  inutiliter  data   persino   un'eventuale
ordinanza di accoglimento della  domanda  cautelare  nell'ipotesi  in
cui, entro il previsto termine di decadenza, non  venga  proposto  il
ricorso di merito o  comunicata  alla  controparte  la  richiesta  di
tentativo di conciliazione o di arbitrato. 
    Inoltre, il giudice a quo rileva che  la  disposizione  censurata
contempla  una  sanzione  irragionevole,  in  quanto   sproporzionata
rispetto agli obiettivi perseguiti con la sua introduzione, impedendo
al lavoratore, per motivi meramente formali e di rito, l'impugnazione
di un atto che pure abbia attivamente  e  tempestivamente  contestato
con la proposizione di un mezzo idoneo ad anticipare gli effetti  del
giudizio di  merito,  come  il  ricorso  cautelare.  In  particolare,
osserva che lo scopo perseguito dalla  norma,  ovvero  l'esigenza  di
certezza del datore di lavoro rispetto all'emersione del  contenzioso
giudiziario sull'atto  datoriale,  ben  potrebbe  essere  soddisfatto
riconoscendo  l'idoneita'  del  ricorso  cautelare  a   impedire   il
verificarsi della decadenza, sia in quanto  destinato  a  concludersi
con una decisione  anticipatoria  degli  effetti  della  sentenza  di
merito, sia per la possibilita' riconosciuta a entrambe le  parti  in
causa, e quindi anche al datore di lavoro, di instaurare il  giudizio
di merito ove ne abbiano interesse. 
    Pertanto il Tribunale ritiene che l'art. 6, secondo comma,  della
legge n. 604 del 1966, nella parte in cui non ricomprende il  ricorso
per provvedimento d'urgenza ante causam tra quelli idonei a  impedire
la decadenza dallo stesso  prevista,  violi  tanto  il  principio  di
eguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,  quanto  gli
artt. 24 e 111 Cost. in tema di giusto processo, nonche' l'art.  117,
primo comma, Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  6,  primo
comma, CEDU, poiche' la Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  piu'
volte ritenuto illegittime le  limitazioni  all'accesso  alla  tutela
giurisdizionale per motivi formali,  prive  di  uno  scopo  legittimo
ovvero sproporzionate rispetto allo scopo, pur legittimo, perseguito. 
    Sotto un distinto, ma correlato profilo,  il  giudice  rimettente
sottolinea, in relazione allo stesso  parametro  di  cui  all'art.  3
Cost., che la  disposizione  censurata  risulta  irragionevole  anche
perche', pur non assegnando alcuna rilevanza, al fine di impedire  la
decadenza, alla proposizione di un ricorso cautelare, ritiene  invece
idonei, oltre al ricorso introduttivo del giudizio di  merito,  anche
atti di natura  stragiudiziale,  che  possono  concludersi  senza  la
definitiva regolazione dei rapporti tra le parti, come  la  richiesta
di tentativo di conciliazione e di arbitrato. 
    Sarebbe  ingiustificatamente  deteriore  -  secondo  il   giudice
rimettente - il trattamento  processuale  riservato  al  ricorso  per
provvedimento d'urgenza ante causam, con cui il lavoratore ricorrente
riversa direttamente in una sede giudiziaria - quale non  e'  ne'  il
procedimento di conciliazione, ne' quello arbitrale -  l'impugnazione
stragiudiziale gia' comunicata al datore di lavoro. 
    2.- In via pregiudiziale, deve essere dichiarata inammissibile la
costituzione in giudizio della societa' Auchan spa  in  quanto  nella
procura speciale a margine delle deduzioni depositate non e' indicato
il nominativo dell'avvocato al quale la procura stessa e' conferita. 
    L'attribuzione del potere  rappresentativo  al  legale  non  puo'
ritenersi desumibile,  peraltro,  dalla  circostanza  che  l'avvocato
indicato nell'epigrafe dell'atto sia lo stesso che abbia  certificato
l'autenticita' della sottoscrizione in calce alla procura del  legale
rappresentante della societa', trattandosi di un soggetto cui non era
stato conferito alcun mandato. 
    3.-  Va  inoltre  preliminarmente  affermato  che  sussistono  le
condizioni di ammissibilita'  delle  questioni  di  costituzionalita'
sollevate. 
    Quanto alla loro rilevanza, deve considerarsi che nel giudizio  a
quo il  lavoratore  ha  impugnato  stragiudizialmente,  nel  previsto
termine di decadenza di sessanta giorni,  il  trasferimento  disposto
dal datore di lavoro da un'unita'  produttiva  a  un'altra  (sita  in
altra regione  isolana)  e,  nell'ulteriore  termine  di  centottanta
giorni, ha proposto ricorso al giudice ai sensi degli artt.  669-bis,
669-ter e 700 cod. proc. civ. per  ottenere  in  via  d'urgenza  ante
causam   l'annullamento   del   trasferimento,    contestandone    la
legittimita' e facendo valere anche la sua  condizione  di  disabile,
cosi' invocando la disciplina speciale - e di maggior  favore  -  del
trasferimento. 
    Dopo  l'instaurazione  del  contradditorio,  il  giudice   adito,
sentite le parti, e' chiamato a decidere se puo'  proseguire  con  il
compimento degli «atti di istruzione necessari» (ex  art.  669-sexies
cod.  proc.  civ.)  per  poi  pronunciare,  o  no,  il  provvedimento
d'urgenza richiesto dal ricorrente, oppure deve arrestarsi per essere
sopravvenuta  l'inefficacia  dell'impugnazione   del   trasferimento,
atteso che nel suddetto termine di centottanta giorni  il  lavoratore
ha si' proposto il ricorso per provvedimento d'urgenza, ma non  anche
il ricorso ordinario ai sensi dell'art. 414 cod. proc. civ. 
    E' quindi rilevante, al fine dell'adozione di tale decisione,  il
dubbio  di  legittimita'   costituzionale   sollevato   dal   giudice
rimettente in riferimento ai plurimi parametri sopra richiamati. 
    La disposizione censurata e'  stata  correttamente  indicata  dal
giudice a quo nell'art. 6, secondo comma,  della  legge  n.  604  del
1966, come novellato dall'art. 32, comma 1, della legge  n.  183  del
2010, che prevede  appunto  il  regime  della  perdita  di  efficacia
dell'impugnazione stragiudiziale comunicata dal lavoratore  ai  sensi
del primo comma della stessa norma, applicabile a una serie  di  atti
datoriali e negoziali riguardanti il  rapporto  di  lavoro,  tra  cui
proprio il trasferimento comunicato dal datore di lavoro  e  adottato
ai sensi dell'art. 2103 del codice civile, come atto  unilaterale  di
gestione del rapporto, condizionato alla sussistenza  di  «comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive». 
    4.-  Passando  al  merito   delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate  dal  Tribunale  di  Catania,  e'  opportuno
premettere  una  sintetica  ricostruzione  del  quadro  normativo  di
riferimento, nel quale si colloca la disposizione censurata. 
    L'art. 6, primo comma, della legge n. 604  del  1966,  nella  sua
formulazione originaria, contemplava l'onere  per  il  lavoratore  di
impugnare, a pena di decadenza, il solo licenziamento entro  sessanta
giorni dalla ricezione della sua comunicazione ovvero da  quella  dei
relativi motivi (se non contestuale a quella del licenziamento),  con
qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a  rendere  nota
la volonta' dello stesso di impugnare il recesso datoriale. 
    Una volta assolto tempestivamente il predetto onere,  operava  il
regime  ordinario  dell'azione  diretta  all'accertamento  del  vizio
dell'atto di recesso datoriale. In particolare, il lavoratore  poteva
proporre  l'azione  giudiziaria  di  annullamento  del  licenziamento
illegittimo per mancanza di giusta causa o  di  giustificato  motivo,
previsti rispettivamente dagli artt. 1 e 3 della stessa legge n.  604
del 1966, entro  il  termine  quinquennale  di  prescrizione  di  cui
all'art. 1442 cod. civ. 
    L'introduzione del  regime  della  reintegrazione  nel  posto  di
lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, previsto dall'art.
18 della legge 20 maggio 1970,  n.  300  (Norme  sulla  tutela  della
liberta' e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'  sindacale  e
dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
collocamento),  ha   comportato   che   l'eventuale   ritardo   nella
proposizione dell'azione di annullamento  del  licenziamento  rendeva
piu' gravose per il datore di lavoro le conseguenze dell'accoglimento
della domanda, essendo  quest'ultimo  tenuto  a  risarcire  il  danno
patito dal lavoratore nella misura di un'indennita' commisurata  alla
retribuzione globale di fatto dal giorno  del  licenziamento  sino  a
quello dell'effettiva reintegrazione ordinata dal giudice, nel regime
poi novellato  dall'art.  1  della  legge  11  maggio  1990,  n.  108
(Disciplina dei licenziamenti individuali). 
    Una situazione analoga - e anzi ancor piu'  accentuata  -  poteva
verificarsi  in   caso   di   ritardo   da   parte   del   lavoratore
nell'esercitare l'azione di nullita' - questa invece non  soggetta  a
prescrizione  ai  sensi  dell'art.  1422   cod.   civ.   -   riferita
all'apposizione del termine al contratto di lavoro in mancanza  delle
condizioni di legge che consentivano l'instaurazione di  un  rapporto
di lavoro a tempo determinato. 
    Questo assetto normativo, rimasto per  lungo  tempo  vigente,  e'
stato modificato dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010. 
    L'intervento del legislatore ha seguito una duplice direttrice. 
    Da una parte, la prescrizione  della  previa  impugnativa,  anche
stragiudiziale, entro il termine di decadenza di sessanta giorni,  di
cui e' onerato il lavoratore che intenda contestare l'atto  datoriale
(art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966), e' stata estesa -
ad opera del suddetto art. 32, commi 3 e 4 - dal licenziamento a  una
serie di atti negoziali (quale la clausola di apposizione del termine
al contratto di lavoro) e datoriali di gestione del rapporto, tra cui
in particolare il trasferimento del lavoratore, oggetto del  giudizio
promosso   innanzi   al   giudice   rimettente.   La    contestazione
stragiudiziale della validita' dell'atto, da parte del lavoratore che
ne assume la illegittimita', e' stata  assoggettata  all'onere  della
previa impugnazione stragiudiziale nel medesimo termine di  decadenza
(di  sessanta  giorni),  originariamente   previsto   per   la   sola
fattispecie del licenziamento. L'art. 32, comma 2, della legge n. 183
del 2010, ha poi precisato che tale onere  della  previa  impugnativa
stragiudiziale riguarda tutti i casi di invalidita' del licenziamento
e quindi non solo l'annullabilita', ma anche la nullita' dell'atto. 
    Dall'altra parte,  e'  stato  introdotto  (nell'art.  6,  secondo
comma, censurato)  un  nuovo  e  ulteriore  termine,  ritenuto  dalla
giurisprudenza  essere   anch'esso   di   decadenza,   sollecitatorio
dell'iniziativa giudiziaria del lavoratore, il cui  mancato  rispetto
e'  sanzionato  con  l'inefficacia  sopravvenuta   della   precedente
impugnativa  stragiudiziale  e  quindi  con  il  venir  meno  di   un
presupposto per l'esercizio dell'azione, sia essa di annullamento che
di nullita'. 
    In particolare, l'art. 32, comma 1, della legge n. 183  del  2010
ha riformulato i primi due commi dell'art. 6 della legge n.  604  del
1966. 
    Ha stabilito, al primo comma, che «[i]l licenziamento deve essere
impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni  dalla  ricezione
della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione,
anch'essa in forma scritta, dei  motivi,  ove  non  contestuale,  con
qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere  nota
la   volonta'   del   lavoratore   anche   attraverso    l'intervento
dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare  il  licenziamento
stesso». 
    Ha poi  prescritto,  al  secondo  comma,  che  l'impugnazione  e'
inefficace se, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni
- poi ridotto a centottanta giorni dall'art. 1, comma 38, della legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato
del lavoro in una prospettiva di crescita),  ma  comunque  di  durata
sufficiente ad assicurare l'accesso alla tutela giurisdizionale (cio'
di cui, in realta', non dubita il giudice rimettente) - essa  non  e'
seguita dal deposito del ricorso nella cancelleria del  tribunale  in
funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte
della richiesta di tentativo  di  conciliazione  o  arbitrato,  ferma
restando la possibilita' di produrre nuovi documenti  formatisi  dopo
il  deposito  del  ricorso.  Ha  aggiunto   poi   che,   qualora   la
conciliazione o l'arbitrato  richiesti  siano  rifiutati  o  non  sia
raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento,  il  ricorso
al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro  sessanta
giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. 
    Inoltre, il medesimo art. 32, ai commi 3  e  4,  ha  contemplato,
come evidenziato, l'estensione della disciplina del novellato art. 6,
primo e secondo comma, a una serie di ulteriori fattispecie, tra  cui
quella del trasferimento del lavoratore. 
    Ha infatti previsto (al comma 3), nella  formulazione  originaria
(poi modificata, ma in termini che non rilevano  ai  fini  dell'esame
delle presenti questioni  di  legittimita'  costituzionale),  che  le
disposizioni di cui all'art. 6 della legge  n.  604  del  1966,  come
modificato dal comma 1 dell'art. 32 della legge n. 183 del 2010,  «si
applicano  inoltre:  a)  ai  licenziamenti   che   presuppongono   la
risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di
lavoro ovvero alla legittimita' del termine apposto al contratto;  b)
al recesso del committente nei rapporti di collaborazione  coordinata
e continuativa, anche nella modalita' a progetto, di cui all'articolo
409, numero 3), del codice di procedura civile; c)  al  trasferimento
ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, con termine decorrente
dalla data di ricezione  della  comunicazione  di  trasferimento;  d)
all'azione di nullita' del termine apposto al contratto di lavoro, ai
sensi degli articoli 1, 2 e 4 del  decreto  legislativo  6  settembre
2001, n. 368, e  successive  modificazioni,  con  termine  decorrente
dalla scadenza del medesimo». 
    Lo stesso art. 32 ha altresi'  stabilito  (al  comma  4)  che  le
medesime disposizioni si applicano anche: «a) ai contratti di  lavoro
a termine stipulati ai sensi degli articoli 1,  2  e  4  del  decreto
legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in  corso  di  esecuzione  alla
data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza  dalla
scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine,  stipulati
anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al  decreto
legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e gia' conclusi  alla  data  di
entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima
data di entrata in vigore della presente legge; c) alla  cessione  di
contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112  del  codice
civile con termine decorrente dalla data  del  trasferimento;  d)  in
ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo  27
del decreto legislativo 10 settembre  2003,  n.  276,  si  chieda  la
costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo  a  un
soggetto diverso dal titolare del contratto». 
    Con la modifica dell'art.  6  della  legge  n.  604  del  1966  e
l'estensione della sua operativita', prevista dall'art. 32, commi 3 e
4, della legge n. 183 del 2010, il legislatore ha  quindi  perseguito
l'intento di evitare che un  possibile  contenzioso,  attivabile  dal
lavoratore, possa rimanere latente per tutto il tempo di prescrizione
dell'azione di annullamento ovvero per un tempo lungo e indefinito in
caso di azione di nullita'. 
    Il  legislatore,  in  vero,   non   ha   modificato   il   regime
dell'imprescrittibilita'   di   quest'ultima,   ne'   quello    della
prescrizione quinquennale della prima, con la previsione di un unico,
uniforme, termine di decadenza. Il legislatore e' invece  intervenuto
in modo indiretto, introducendo, proprio nel censurato secondo  comma
dell'art.  6,  un  meccanismo  sollecitatorio   dell'iniziativa   del
lavoratore che intenda  esercitare  l'azione  di  annullamento  o  di
nullita' dell'atto datoriale, quale nella specie il trasferimento  (o
altre fattispecie negoziali elencate nei commi 3  e  4  dell'art.  32
citato). 
    Anche il trasferimento del lavoratore da un'unita'  produttiva  a
un'altra, oggetto del giudizio a quo, puo' essere sia  annullabile  -
ove,  in  ipotesi,  non  ricorrano  «comprovate   ragioni   tecniche,
organizzative e produttive», come prescrive l'art. 2103 cod.  civ.  -
sia nullo, ove, ad esempio, risulti essere discriminatorio ex art. 15
della legge n. 300 del 1970. Ancorche' rimanga diverso - perche'  non
derogato - l'ordinario regime della prescrizione, e' invece  uniforme
il   regime   della   decadenza   dell'efficacia    dell'impugnazione
stragiudiziale, quale previsto dalla disposizione censurata. Nell'una
e  nell'altra  fattispecie  -  quella   della   nullita'   e   quella
dell'annullabilita' dell'atto - il legislatore del 2010 ha voluto che
il  lavoratore  dia  apertamente  seguito  alla   sua   contestazione
dell'atto datoriale e  coltivi  l'impugnazione  stragiudiziale  nella
sede giudiziaria,  portandola  innanzitutto  alla  cognizione  di  un
giudice,  oppure  la  faccia  valere  in  una  sede  conciliativa   o
arbitrale. 
    Pertanto, la ratio dell'attuale formulazione del  censurato  art.
6,  secondo  comma,  della  legge  n.  604  del  1966,  puo'   essere
individuata nell'esigenza, ritenuta  dal  legislatore  meritevole  di
tutela, di far emergere  in  tempi  brevi  il  contenzioso  sull'atto
datoriale. 
    Questa  Corte,  proprio  con  riferimento  all'estensione   delle
decadenze contemplate dai primi due commi dell'art. 6 della legge  n.
604 del 1966 a una nuova fattispecie (ossia a quella dei contratti  e
rapporti di lavoro a tempo determinato), ha  gia'  precisato  che  la
finalita' della norma e' «quella di contrastare la prassi  di  azioni
giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante  dalla
scadenza del termine apposto  al  contratto»  (sentenza  n.  155  del
2014). 
    La direttrice lungo la  quale  va  condotto  lo  scrutinio  delle
prospettate  censure  di  legittimita'  costituzionale  e',   dunque,
l'indicata  finalita'  acceleratoria  dei  tempi  di  emersione   del
contenzioso  relativo  alla  contestata  validita'   -   sub   specie
dell'annullabilita' o della nullita' - di una serie di atti negoziali
riguardanti il rapporto di lavoro,  quale,  nel  caso  in  esame,  il
trasferimento contro cui ricorre il lavoratore nel giudizio a quo. 
    Nell'ottica di questa finalita' va anche considerato che le norme
contenute nell'art. 6, primo e secondo comma, della legge n. 604  del
1966 sono disposizioni di natura eccezionale ex art. 14  delle  disp.
prel. cod. civ. - e quindi di stretta  interpretazione  -  in  quanto
derogatorie della disciplina generale  delle  impugnative  negoziali,
nella misura in cui l'azione di nullita'  e  quella  di  annullamento
risultano entrambe condizionate  dalla  previa  proposizione  di  una
tempestiva  impugnativa  stragiudiziale,  poi  coltivata  nella  sede
giudiziaria (o analoga) entro un termine di decadenza. 
    5.- Cio' premesso, puo' ora esaminarsi innanzitutto la denunciata
violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza  (art.  3
Cost.). 
    Sotto questo profilo, la questione e'  fondata,  con  conseguente
assorbimento degli altri parametri. 
    6.- Per conservare l'efficacia  dell'impugnazione  stragiudiziale
prevista dal primo comma dell'art. 6 - evitando cosi' che nel termine
di decadenza di  cui  al  secondo  comma  della  stessa  disposizione
sopravvenga l'inefficacia della stessa con il conseguente venir  meno
di  un  presupposto  dell'azione  di  annullabilita'  o  di  nullita'
dell'atto - il lavoratore puo' percorrere tre strade alternative. 
    Quella  principale  e'  costituita  dalla  possibilita',  per  il
lavoratore che ha proposto l'impugnativa stragiudiziale, di riversare
quest'ultima nella sede contenziosa mediante il «deposito del ricorso
nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice  del  lavoro».
Benche' il riferimento testuale della disposizione sia  al  «ricorso»
tout court, la specificazione che segue,  secondo  cui  resta  «ferma
[...] la possibilita' di produrre nuovi documenti formatisi  dopo  il
deposito del ricorso», mostra  che  in  realta'  e'  (indirettamente)
richiamato il ricorso ordinario, il quale appunto deve contenere  fin
dalla sua proposizione l'indicazione specifica dei documenti  offerti
in comunicazione (art. 414, numero 5, cod. proc. civ.). In tal  senso
e'  la  giurisprudenza  di  legittimita'  (ex  plurimis,   Corte   di
cassazione, sezione lavoro, ordinanza 9 dicembre 2019, n. 32073)  che
ha pertanto negato che l'inefficacia  sopravvenuta  dell'impugnazione
stragiudiziale sia esclusa anche dalla proposizione  del  ricorso  al
giudice del lavoro per ottenere la tutela  cautelare  d'urgenza  ante
causam ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 cod.  proc.  civ.;
il quale appunto, quanto alla forma della domanda,  non  e'  soggetto
alle preclusioni tipiche  del  ricorso  ordinario  nel  processo  del
lavoro. 
    La giurisprudenza ha poi  riconosciuto  che  costituisce  ricorso
ordinario, ai fini della disposizione censurata,  anche  quello  che,
dopo la legge n. 183 del 2010, e' stato introdotto dall'art. 1, comma
48, della legge n. 92 del 2012 per la domanda avente ad  oggetto,  in
particolare, l'impugnativa di quei licenziamenti che  ricadono  nella
fattispecie di cui al precedente comma 47, benche' il  suo  contenuto
sia quello piu' essenziale prescritto dall'art. 125 cod. proc. civ. e
non sia invece richiesta  inizialmente  l'indicazione  specifica  dei
documenti offerti in comunicazione. 
    Anche  se  questo  rito  speciale  e  quello   uniforme   per   i
procedimenti cautelari  sono  entrambi  connotati  da  un'istruttoria
semplificata deformalizzata - essendo  previsto,  sia  per  il  primo
(art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012), sia  per  il  secondo
(art. 669-sexies cod. proc. civ.), che il giudice, sentite le parti e
omessa ogni formalita' non essenziale al contraddittorio, procede nel
modo  che  ritiene   piu'   opportuno   agli   atti   di   istruzione
indispensabili  -  la  giurisprudenza  (in  particolare,   Corte   di
cassazione, sezione lavoro, ordinanza 15 novembre 2018, n. 29429)  ha
sottolineato la differenza tra un  giudizio  (quello  ordinario)  che
puo' concludersi con la formazione della cosa giudicata formale (art.
324 cod. proc. civ.) e un giudizio  (quello  cautelare  anticipatorio
del  merito)  che  si  conclude  invece  con  un  provvedimento   non
pienamente stabile, la cui autorita' non e' invocabile in un  diverso
procedimento (art. 669-octies, nono comma, cod. proc. civ.), ma che -
pur rimanendo efficace senza che  le  parti  debbano  necessariamente
iniziare il giudizio di merito (art. 669-octies,  sesto  comma,  cod.
proc.  civ.)  -  puo'  comunque  essere  travolto   dalla   pronuncia
eventualmente resa in quest'ultimo  giudizio,  ove  una  parte  abbia
esercitato la facolta' di promuoverlo. 
    7.-  La  disposizione  censurata  prevede,  poi,  due   ulteriori
possibilita' per il  lavoratore  che  abbia  proposto  l'impugnazione
stragiudiziale: la «comunicazione alla controparte della richiesta di
tentativo di conciliazione o arbitrato». 
    E' la stessa legge n. 183 del 2010 che, all'art. 31, ha  altresi'
dettato nuove  norme  in  tema  sia  di  tentativo  (facoltativo)  di
conciliazione, sia di arbitrato. Da  una  parte,  ha  sostituito  gli
artt. 410 e 411 cod. proc. civ.  sul  procedimento  di  conciliazione
innanzi alla relativa commissione individuata secondo  i  criteri  di
cui  all'art.  413  cod.   proc.   civ.;   dall'altra,   ha   dettato
un'articolata  disciplina  per  la  risoluzione  della   controversia
innanzi al collegio arbitrale, intervenendo sugli artt. 412,  412-ter
e 412-quater cod. proc. civ. 
    Esercitando  una  di  queste  due   facolta'   alternative   alla
proposizione di un ricorso  al  giudice  con  l'instaurazione  di  un
giudizio contenzioso - ossia la domanda volta  all'attivazione  della
procedura di conciliazione oppure la richiesta di costituzione di  un
collegio arbitrale - non si  verifica  la  decadenza  prevista  dalla
disposizione  censurata.  E'  esclusa   la   perdita   di   efficacia
dell'impugnazione sempre che la conciliazione o l'arbitrato richiesti
non siano rifiutati dalla controparte datoriale o non  sia  raggiunto
l'accordo necessario al relativo espletamento. 
    Il dato testuale della disposizione censurata e'  inequivocabile,
come ha chiarito la  giurisprudenza  (Corte  di  cassazione,  sezione
lavoro, sentenza 1° giugno 2018, n. 14108): il rifiuto o  il  mancato
accordo riguardano l'attivazione - non gia' la  conclusione  -  della
procedura conciliativa o arbitrale. Cio', peraltro, conferma  che  la
finalita' della disposizione censurata e' - come gia' sopra  rilevato
- l'emersione del contenzioso potenzialmente recato dall'impugnazione
stragiudiziale. 
    Nell'evenienza in cui il lavoratore veda sbarrata  la  strada  di
questi due canali alternativi, in ragione  del  difetto  di  consenso
della  controparte   datoriale   all'espletamento   della   procedura
conciliativa o arbitrale, lo stesso censurato art. 6, secondo  comma,
della legge n. 604 del 1966 recupera la via giudiziaria ordinaria: il
ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro
sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. 
    Se invece la procedura conciliativa si conclude positivamente con
un accordo delle  parti,  questo,  quantunque  versato  nel  relativo
verbale reso  esecutivo  dal  giudice,  non  costituisce  certo  cosa
giudicata formale (art. 324 cod. proc. civ.), ne'  sostanziale  (art.
2909 cod. civ.). 
    Parimenti,   l'art.   412-quater   cod.   proc.   civ.    prevede
espressamente  che   il   lodo   aggiudicativo   del   merito   della
controversia,  emanato  a  conclusione  dell'arbitrato   (irrituale),
sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra  le  parti  gli
effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, quarto comma, cod. civ., ed e'
impugnabile ai sensi dell'art. 808-ter cod. proc. civ. Anche  in  tal
caso,  non  c'e'  la  prospettiva  della  cosa   giudicata,   ma   un
accertamento di tipo negoziale. 
    8.-  Orbene,  in  questo  complesso  meccanismo  processuale,  la
mancata previsione anche del ricorso per provvedimento  d'urgenza  ai
sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 cod. proc. civ., quale  atto
idoneo  a  impedire,  se   proposto   nel   termine   di   decadenza,
l'inefficacia  dell'impugnazione  stragiudiziale  del   primo   comma
dell'art. 6 della legge n. 604 del 1966, e a dare accesso alla tutela
giurisdizionale, e' contraria al principio  di  eguaglianza  (art.  3
Cost.),  se  posta  in  comparazione  con  l'idoneita'  riconosciuta,
invece,  dalla  stessa  disposizione  censurata  alla  richiesta   di
attivazione della procedura conciliativa o arbitrale. 
    Ed  e',  altresi',  contraria  al  principio  di   ragionevolezza
(riconducibile anch'esso  all'art.  3  Cost.),  in  riferimento  alla
finalita' sottesa alla previsione del termine di decadenza in  esame,
essendo la domanda di tutela  cautelare  idonea  a  far  emergere  il
contenzioso insito nell'impugnazione dell'atto datoriale. 
    9.- Occorre infatti premettere che la  giurisprudenza  di  questa
Corte  ha  piu'  volte  riconosciuto  che  la  tutela  cautelare   e'
strumentale all'effettivita'  della  tutela  giurisdizionale  e,  pur
potendo venire variamente configurata e modulata, essa e'  necessaria
e deve essere effettiva (sentenze n. 236 del 2010, n. 403  del  2007;
n. 165 del 2000, n. 437 e n. 318 del 1995, n. 190 del 1985; ordinanza
n. 225 del 2017), costituendo espressione paradigmatica del principio
per il quale  «la  durata  del  processo  non  deve  andare  a  danno
dell'attore che  ha  ragione»  (sentenza  n.  253  del  1994).  Essa,
infatti, in quanto preordinata  ad  assicurare  l'effettivita'  della
tutela giurisdizionale, e in particolare a  non  lasciare  vanificato
l'accertamento del diritto, costituisce uno strumento fondamentale  e
inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente  da
una previsione espressa (sentenza n. 403 del 2007). 
    Con la riforma contenuta  nella  legge  14  maggio  2005,  n.  80
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14  marzo
2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito  del  Piano  di
azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe  al
Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia  di
processo di cassazione e di arbitrato nonche' per la riforma organica
della disciplina delle  procedure  concorsuali),  il  legislatore  ha
accentuato, seguendo il modello  di  altri  sistemi  processuali,  la
natura autonoma della  tutela  cautelare  (e  quindi  della  relativa
azione) rispetto a quella di merito,  rendendo  soltanto  funzionale,
almeno per i provvedimenti cautelari anticipatori  e  per  quelli  di
urgenza  ex  art.  700  cod.  proc.  civ.,  il  relativo   nesso   di
strumentalita', stante l'idoneita' di detti provvedimenti  a  restare
efficaci indipendentemente dall'instaurazione del giudizio di merito,
divenuta per gli stessi solo eventuale. 
    In  sostanza,  i  provvedimenti   cautelari   "a   strumentalita'
attenuata" - ossia quelli previsti dall'art. 669-octies, sesto comma,
cod. proc. civ. - sono caratterizzati da una sorta di "definitivita'"
condizionata in modo risolutivo a una  differente  decisione  assunta
nel giudizio di merito,  eventualmente  incardinato  dalla  parte  in
causa che  non  si  ritenga  soddisfatta  dall'assetto  di  interessi
provvisorio, ma  potenzialmente  stabile,  recato  dal  provvedimento
cautelare, e che voglia ottenere una pronuncia sul merito del diritto
controverso, idonea al giudicato sostanziale, sempre che  nelle  more
essa non abbia posto in essere, anche in ipotesi  con  la  prolungata
inerzia,  atti  incompatibili  con  la  volonta'  di   rimuovere   il
provvedimento d'urgenza di accoglimento o di  rigetto  della  domanda
cautelare. 
    Il legislatore ha cosi' introdotto un nuovo modello di tutela che
puo' esitare in un provvedimento celere, reso,  sul  presupposto  del
periculum  in  mora,  a  cognizione  sommaria  e  a  seguito  di   un
procedimento deformalizzato, che si iscrive nell'ambito di  una  piu'
ampia tendenza normativa, espressa  anche  mediante  riti  di  natura
diversa (semplificati, sommari, camerali), a svincolare la  decisione
concreta  della  lite  dalla  necessita'  dell'accertamento  con   il
"crisma" del giudicato sostanziale. 
    Un  segno  dell'evoluzione   del   procedimento   cautelare   per
provvedimento d'urgenza e' costituito dal mutamento di giurisprudenza
in tema di opposizione contro  la  deliberazione  di  esclusione  del
socio dalla societa' ai sensi dell'art. 2533 cod.  civ.;  opposizione
che il socio puo' proporre al tribunale nel termine, ritenuto  essere
di decadenza,  di  sessanta  giorni  dalla  sua  comunicazione.  Tale
termine - come evidenziato dal rimettente - e'  rispettato  non  solo
con la notifica di un ordinario atto di citazione, ma  anche  con  il
ricorso per  provvedimento  d'urgenza  ante  causam  atteso  che  «il
rimedio  cautelare  anticipatorio   presenta   nell'attuale   sistema
ordinamentale  le  caratteristiche   di   una   azione,   in   quanto
potenzialmente   idoneo   a   soddisfare   attraverso    l'intervento
giudiziario  l'interesse  sostanziale  della  parte,  anche  in   via
definitiva» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 25  maggio
2016, n. 10840). 
    10.- Vi e', altresi', che  nel  processo  del  lavoro  la  tutela
cautelare riveste un'importanza peculiare in quanto il ritardo  della
risposta di giustizia comporta un pregiudizio particolarmente  grave,
atteso che le controversie regolate dagli artt. 409 cod. proc. civ. e
seguenti hanno spesso ad oggetto situazioni  sostanziali  di  rilievo
costituzionale in quanto attinenti alla dignita' del lavoro. 
    La cruciale importanza della tutela d'urgenza  nell'ambito  delle
controversie  di  lavoro  ha  avuto  da  tempo  riconoscimento  nella
giurisprudenza  di  questa  Corte  con  l'affermazione  -  fatta  con
riferimento  ai  diritti  dei  lavoratori   del   settore   pubblico,
assoggettati, all'epoca, alla  giurisdizione  esclusiva  del  giudice
amministrativo in un processo che non  prevedeva  ancora  una  tutela
cautelare  diversa   dalla   sospensione   dell'efficacia   dell'atto
impugnato - del principio per il quale dall'art. 700 cod. proc.  civ.
e' lecito enucleare la direttiva secondo cui, quante volte il diritto
assistito da  fumus  boni  iuris  e'  minacciato  da  un  pregiudizio
imminente e irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi  necessari
per farlo valere in via ordinaria, spetta al  giudice  il  potere  di
emanare  i  provvedimenti  d'urgenza   che   appaiono,   secondo   le
circostanze, piu' idonei ad assicurare provvisoriamente  gli  effetti
della decisione sul merito (sentenza n. 190 del 1985). 
    11.- Deve poi considerarsi, sotto altro  profilo,  che  lo  scopo
perseguito  dal  legislatore  ordinario,  nell'ambito  della  propria
discrezionalita',  mediante  la  legge  n.  183  del  2010   con   la
riformulazione del secondo comma dell'art. 6 della legge n.  604  del
1966 - ossia quello di far emergere  tempestivamente  il  contenzioso
avente ad oggetto l'impugnativa dell'atto datoriale -  si  giustifica
senz'altro perche' e' funzionale a  superare  l'incertezza,  gravante
sul datore di lavoro e suscettibile di incidere in modo significativo
sull'organizzazione e sulla gestione dell'impresa. E' a tal fine  che
e'  stata  introdotta  la  perdita  di   efficacia   dell'impugnativa
stragiudiziale dell'atto datoriale, se non coltivata  tempestivamente
nella sede giudiziaria o in  altra  analoga  (quella  conciliativa  o
arbitrale). 
    Ma,  rispetto   a   tale   legittimo   scopo   del   legislatore,
l'inidoneita' del ricorso per provvedimento d'urgenza ante  causam  a
impedire la decadenza di cui al secondo comma dell'art. 6 della legge
n. 604 del 1966 costituisce una conseguenza  sproporzionata,  nonche'
irragionevole. 
    Infatti,  con  la   proposizione   del   ricorso   cautelare   la
controversia sull'atto impugnato e' portata dinanzi al giudice ed  e'
quindi raggiunto lo scopo di far  emergere  il  contenzioso  su  tale
atto, affinche' il datore  di  lavoro  non  resti  in  uno  stato  di
perdurante incertezza circa la sorte dello stesso. 
    A fronte della proposizione di un  ricorso  cautelare  d'urgenza,
non sussiste piu' il rischio che il regime della decadenza  in  esame
vuole evitare - ovvero quello di una contestazione della legittimita'
del trasferimento (o di un altro atto datoriale,  quale  innanzitutto
il licenziamento) che rimanga  silente  per  lungo  tempo,  nel  solo
rispetto del termine prescrizionale  dell'azione  di  annullamento  o
addirittura senza  questo  limite  nel  caso  di  imprescrittibilita'
dell'azione di nullita' - perche' il lavoratore e' gia'  uscito  allo
scoperto nel momento in cui ha adito il giudice della cautela. 
    Ne'  l'emersione  del  contenzioso  puo'  dirsi  svalutata  dalla
circostanza che i provvedimenti di urgenza  ante  causam  -  come  in
genere quelli cautelari anticipatori del contenuto della decisione di
merito - sono assoggettati al regime della  strumentalita'  attenuata
introdotto dalla legge n. 80 del 2005 e hanno dunque, sul piano degli
effetti, una definitivita' "condizionata" alla  mancata  introduzione
del giudizio  di  merito.  Invero,  una  volta  definita  la  vicenda
cautelare, ben puo' il datore di lavoro assumere l'iniziativa per far
venir meno ogni incertezza  sul  rapporto  giuridico  sostanziale  in
essere - ove ne residui alcuna - promuovendo egli stesso il  giudizio
di merito. 
    Pertanto, la sanzione della perdita di efficacia dell'impugnativa
del trasferimento, ovvero di un altro atto datoriale assoggettato  al
regime di cui al secondo comma dell'art. 6 della  legge  n.  604  del
1966, nonostante il tempestivo deposito di un ricorso  cautelare,  e'
sproporzionata rispetto al fine perseguito dal legislatore e si pone,
altresi', in contrasto con il principio di ragionevolezza. 
    E' costante l'orientamento di questa Corte nel senso che, sebbene
in materia di conformazione degli istituti processuali il legislatore
goda di ampia discrezionalita', e il controllo  di  costituzionalita'
deve limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato  il  limite
della  manifesta  irragionevolezza  o  arbitrarieta'   delle   scelte
compiute, nel  relativo  sindacato  deve  essere  verificato  che  il
bilanciamento degli interessi costituzionalmente  rilevanti  non  sia
stato realizzato con modalita' tali da determinare il sacrificio o la
compressione  di  uno  di  essi  in  misura  eccessiva   e   pertanto
incompatibile con  il  dettato  costituzionale.  Tale  giudizio  deve
svolgersi   proprio    attraverso    ponderazioni    relative    alla
proporzionalita'  dei  mezzi  prescelti  dal  legislatore  nella  sua
insindacabile discrezionalita' rispetto alle  esigenze  obiettive  da
soddisfare o alle finalita'  che  intende  perseguire,  tenuto  conto
delle circostanze e delle limitazioni concretamente  sussistenti  (ex
plurimis, sentenze n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del
2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2001). 
    12.- In conclusione e in sintesi, se l'effetto di  precludere  la
perdita di efficacia dell'impugnazione dell'atto  datoriale  consegue
alla  circostanza   che   la   doglianza   del   lavoratore,   recata
dall'impugnazione dell'atto  datoriale,  e'  portata  innanzi  a  una
commissione di conciliazione o a un collegio arbitrale, ove il datore
di lavoro accetti l'espletamento della procedura, analogo effetto non
puo' disconoscersi, senza che sia leso il  principio  di  eguaglianza
(art. 3 Cost.), alla piu' pregnante  iniziativa  del  lavoratore  che
proponga la sua  impugnazione  direttamente  alla  cognizione  di  un
giudice, sia esso anche il giudice della tutela cautelare, iniziativa
alla  quale  -  diversamente  dal  procedimento  di  conciliazione  e
arbitrato - il  datore  di  lavoro  non  puo'  sottrarsi.  La  tutela
cautelare, essendo riconducibile  all'esercizio  della  giurisdizione
(art. 24, primo comma, Cost.) e alla  garanzia  del  giusto  processo
(art. 111,  primo  comma,  Cost.),  non  puo'  avere  un  trattamento
deteriore rispetto ai sistemi alternativi di composizione della lite,
qual  e'  l'inidoneita',  prevista  dalla  disposizione  censurata  -
secondo la giurisprudenza, che nella fattispecie costituisce  diritto
vivente -  a  precludere  l'inefficacia  dell'impugnazione  dell'atto
datoriale. 
    Inoltre, con il promovimento dell'azione cautelare da  parte  del
lavoratore, il  contenzioso  conseguente  all'impugnazione  dell'atto
datoriale  emerge  in  piena  luce  e  si  avvia  sul  binario  della
composizione giudiziale senza che ci sia piu' il rischio  di  pretese
del lavoratore  latenti  per  lungo  tempo.  La  realizzazione  della
finalita' sottesa alla norma censurata rende sproporzionata, e quindi
irragionevole (ancora ex art. 3 Cost.), la sanzione della perdita  di
efficacia dell'impugnazione per la  mancata  proposizione  anche  del
ricorso ordinario; attivita' processuale ulteriore, priva di concreta
utilita' fin quando non e' definito il procedimento cautelare  e  che
ridonda in un ingiustificato onere per il lavoratore. 
    La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6,  secondo
comma, della legge n. 604 del 1966 e' quindi fondata  in  riferimento
all'art. 3 Cost., con assorbimento degli altri parametri. 
    Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
6, secondo comma, della  legge  n.  604  del  1966,  come  sostituito
dall'art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010,  nella  parte  in
cui non prevede che l'impugnazione e' inefficace se non  e'  seguita,
entro il successivo termine di  centottanta  giorni,  oltre  che  dal
deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in  funzione  di
giudice del lavoro  o  dalla  comunicazione  alla  controparte  della
richiesta di  tentativo  di  conciliazione  o  arbitrato,  anche  dal
deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa  ai  sensi  degli
artt. 669-bis, 669-ter e 700 cod. proc. civ.