ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  76,  comma
4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia  (Testo  A)»,  promosso  dal  Giudice   per   le   indagini
preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli  sull'istanza  proposta
da A. C., con ordinanza del 13 dicembre 2019, iscritta la n.  48  del
registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.  22,
prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 2 dicembre  2020  il  Giudice
relatore Giancarlo Coraggio; 
    deliberato nella camera di consiglio del 3 dicembre 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza  del  13  dicembre  2019,  il  Giudice  per  le
indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 76,  comma  4-ter,
del d.P.R. 30  maggio  2002,  n.  115,  recante  «Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia (Testo A)», nella parte in  cui,  come  interpretato  dalla
Corte di cassazione, determina l'automatica ammissione al  patrocinio
a spese dello Stato della persona offesa dai  reati,  indicati  nella
norma medesima, di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis,  609-quater,
609-octies e 612-bis, nonche', ove commessi in danno di  minori,  dai
reati di cui agli artt. 600, 600-bis,  600-ter,  600-quinquies,  601,
602, 609-quinquies e 609-undecies del codice  penale,  a  prescindere
dai limiti di reddito di cui al precedente comma l e senza  riservare
alcuno spazio  di  apprezzamento  e  discrezionalita'  valutativa  al
giudice. 
    2.-  Il  rimettente  premette  che,  in  data  20  maggio   2019,
nell'ambito di un giudizio per il reato di cui all'art. 609-bis  cod.
pen., veniva depositata istanza di ammissione al patrocinio  a  spese
dello Stato  da  parte  della  persona  offesa,  senza  la  corredata
dichiarazione - prevista dall'art.  79,  comma  1,  lettera  c),  del
d.P.R. n. 115 del 2002, a pena  di  inammissibilita'  dell'istanza  -
attestante la sussistenza delle condizioni di reddito stabilite  come
requisito per l'ammissione stessa. 
    Il GIP del Tribunale  di  Tivoli,  con  ordinanza  interlocutoria
notificata  al  difensore,  sospendeva  l'esame  della   domanda   di
ammissione al beneficio, invitando ad  integrarla  con  l'indicazione
delle condizioni reddituali e patrimoniali dell'istante. Il difensore
depositava una nota in cui osservava che il  reato  di  cui  all'art.
609-bis cod. pen. e' «tra quelli per i quali il  patrocinio  a  spese
dello Stato e' sempre concesso alla parte offesa  prescindendo  dalle
condizioni reddituali» e  che,  di  conseguenza,  «le  richieste  del
giudice [...] non  appaiono  motivate  rispetto  al  procedimento  in
quanto nessuna analisi delle condizioni reddituali dell'istante  deve
compiere il giudice,  a  differenza  dei  procedimenti  ordinari,  in
quanto il requisito non e' richiesto  nella  particolare  fattispecie
della vittima del reato di violenza sessuale». 
    3.- Tanto premesso in punto di rilevanza - assumendo  il  giudice
rimettente che la procedura instaurata con il  deposito  dell'istanza
di ammissione al patrocinio a spese  dello  Stato  non  possa  essere
definita  indipendentemente  dalla  risoluzione   della   prospettata
questione di legittimita' costituzionale -, in punto di non manifesta
infondatezza, viene affermato che l'art. 76, comma 4-ter, del  d.P.R.
n. 115 del 2002, per come interpretato  dalla  Corte  di  cassazione,
contrasta con gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost. 
    4.- La Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa
da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese
dello Stato  per  il  solo  fatto  di  rivestire  tale  qualifica,  a
prescindere dalle proprie condizioni di  reddito,  che,  dunque,  non
devono neanche essere oggetto  di  dichiarazione  o  attestazione  ai
sensi del successivo art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n.  115
del 2002. Tale lettura  sarebbe  imposta  dalla  ratio  della  norma,
«posto che la finalita' della norma in questione appare essere quella
di assicurare alle vittime di quei reati un  accesso  alla  giustizia
favorito  dalla   gratuita'   dell'assistenza   legale»   (Corte   di
cassazione, sezione quarta penale, sentenza 20 marzo 2017, n.  13497,
successivamente recepita anche dalla  Corte  di  cassazione,  sezione
quarta penale, sentenza 23 novembre 2018, n. 52822). 
    Siffatte ripetute affermazioni del giudice  di  legittimita',  in
assenza di decisioni di segno diverso, - a parere  del  rimettente  -
rendono "diritto vivente" la descritta interpretazione dell'art.  76,
comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del 2002, ponendo il  giudice  dinanzi
all'alternativa  di  uniformarvisi  o  di  rendere  un  provvedimento
difforme   e   di   segno    negativo,    verosimilmente    destinato
all'annullamento o alla riforma. 
    Ricorda,  dunque,  il  giudice  a  quo,  che,   per   consolidato
orientamento   della    giurisprudenza    costituzionale,    invocare
l'intervento del giudice delle leggi e' possibile  anche  allorquando
il   giudice   remittente   ha   l'alternativa   di   «adeguarsi   ad
un'interpretazione che non condivide  o  assumere  una  pronuncia  in
contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza  n.
240 del 2016). Ed infatti, «[p]ur essendo indubbio  che  nel  vigente
sistema  non  sussiste  un  obbligo  per  il  giudice  di  merito  di
conformarsi agli orientamenti della Corte di  cassazione  (salvo  che
nel giudizio di  rinvio),  e'  altrettanto  vero  che  quando  questi
orientamenti sono stabilmente consolidati nella giurisprudenza  -  al
punto da acquisire  i  connotati  del  "diritto  vivente"  -  e'  ben
possibile che la norma, come interpretata dalla Corte di legittimita'
dai  giudici   di   merito,   venga   sottoposta   a   scrutinio   di
costituzionalita', poiche' la norma vive  ormai  nell'ordinamento  in
modo cosi radicato che e' difficilmente ipotizzabile una modifica del
sistema  senza  l'intervento  del  legislatore  o  di  questa  Corte»
(sentenza n. 350 del 1997). 
    5.- Tale interpretazione  -  che  esclude  qualsiasi  margine  di
valutazione  giudiziale,   imponendo   l'ammissione   automatica   al
beneficio  e   qualificando   come   superflua   l'autocertificazione
reddituale pur tuttora richiesta  dal  combinato  delle  disposizioni
vigenti - istituisce un  automatismo  legislativo  poiche',  al  solo
verificarsi del suo presupposto (e cioe' assumere l'istante la  veste
di persona offesa di uno dei reati indicati  dalla  norma)  determina
una conseguenza inderogabile, ossia l'ammissione al beneficio. 
    Ne deriverebbero pertanto, a parere  del  GIP  del  Tribunale  di
Tivoli, come per ogni forma di  automatismo,  ricadute  negative  sul
principio di uguaglianza, poiche' verrebbero assimilate tra  di  loro
situazioni diverse e non equiparabili. 
    L'ammissione indiscriminata al  beneficio  de  quo  di  qualsiasi
persona offesa non consente alcun margine di valutazione  al  giudice
in ordine alle condizioni reddituali  e  patrimoniali  (al  punto  da
vietargli di richiedere  la  relativa  dichiarazione  pur  prescritta
dall'art. 79, comma 1, lettera c, del  d.P.R.  n.  115  del  2002)  e
preclude ogni verifica giudiziale circa il possibile ricorrere, o  la
sicura assenza, di ostacoli e remore di indole economica che la norma
intende rimuovere  trasferendo  sulla  collettivita'  i  costi  della
difesa tecnica. 
    Rammenta il rimettente che, nella  giurisprudenza  costituzionale
al riguardo, e' frequente il riferimento al  generale  obbiettivo  di
limitare  le  spese  giudiziali,  ritenendo  cruciale,  in  tema   di
patrocinio a spese dello  Stato,  l'individuazione  di  un  punto  di
equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i  non  abbienti  e
necessita'  di  contenimento  della  spesa  pubblica  in  materia  di
giustizia. 
    6.- In tale prospettiva di salvaguardia dell'equilibrio dei conti
pubblici e di contenimento della  spesa  in  tema  di  giustizia,  il
giudice rimettente evoca anche l'art.  24,  terzo  comma,  Cost.,  il
quale si porrebbe «non solo come primario strumento di  garanzia  per
assicurare ai non abbienti l'effettivo  esercizio  del  diritto  alla
tutela giurisdizionale, ma anche quale presidio  diretto  ad  evitare
che gli oneri che  ne  conseguono  siano  aggravati  da  improprie  e
ingiustificate estensioni dei benefici a soggetti non ragionevolmente
definibili "non abbienti"  e  pertanto  non  bisognosi  del  sostegno
economico della collettivita'». 
    7.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
infondata. 
    7.1.- La questione sarebbe inammissibile in quanto il  giudice  a
quo non considererebbe la ratio e l'ambito  applicativo  della  norma
censurata,  al  fine  di   valutarne   la   ragionevolezza;   inoltre
richiederebbe "il sindacato nel merito di una scelta  legislativa  di
promozione di  valori  costituzionalmente  tutelati  in  mancanza  di
un'irragionevolezza delle modalita' individuate". 
    Il primo profilo  di  inammissibilita'  investe  la  mancanza  di
un'analisi sulle ragioni  del  trattamento  differenziato  introdotto
dalla norma ai fini della valutazione dell'asserita  irragionevolezza
della  previsione.  A  parere  dell'Avvocatura,   nell'ordinanza   di
rimessione non verrebbe in alcun modo valutato se  la  tipologia  dei
reati (sotto il profilo oggettivo) e delle persone istanti (sotto  il
profilo soggettivo) per i quali il beneficio e' accordato giustifichi
un trattamento differenziato. Il giudice a quo, pur  invocando  quale
parametro di costituzionalita' l'art. 3 Cost., non svolgerebbe alcuna
valutazione sulla ragionevolezza della  previsione  censurata,  anche
nell'interpretazione fatta propria dalla Corte di  cassazione,  cosi'
omettendo  altresi'  di  dare  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata della norma. 
    Il    secondo    profilo    di    inammissibilita'    deriverebbe
dall'insindacabilita'  delle   scelte   discrezionali   affidate   al
legislatore,  il  quale  deve  essere  libero  -  salvo   il   limite
dell'irragionevolezza, in questo caso  non  superato  -  di  tutelare
valori costituzionali, quali  la  liberta'  personale,  la  salute  e
l'obbligatorieta' dell'azione penale, attraverso norme  incentivanti,
idonee a far emergere episodi di  criminalita'  odiosi  in  danno  di
vittime fisiologicamente vulnerabili o divenute tali  in  conseguenza
del crimine. 
    7.2.-  Secondo  l'Avvocatura  generale,  la   questione   sarebbe
comunque infondata. 
    7.2.1.- Innanzitutto, la prospettata violazione del principio  di
uguaglianza  non  sarebbe  dal  giudice  rimettente  rinvenuta  nella
limitazione del beneficio solo alle persone offese dai reati indicati
nella norma, ma nella mancata considerazione della diversa situazione
reddituale sussistente all'interno di tale categoria. 
    Posto che la regola e' che il beneficio competa ai non  abbienti,
cioe' ai soggetti che percepiscano un  reddito  inferiore  al  limite
posto dal comma 1 del censurato art. 76, occorrerebbe valutare se sia
possibile  prevedere  che  vi  accedano  anche   soggetti   -   senza
difficolta' reddituali - che  siano  persone  offese  di  determinati
reati indicati nella disposizione medesima. 
    Ed invero, l'eccezione introdotta dal legislatore  non  solo  non
sarebbe irragionevole, ma avrebbe una precisa motivazione, valutabile
positivamente, e cioe' quella  di  tutela  di  soggetti  vulnerabili,
prima o in dipendenza del crimine, che potrebbero,  per  tale  stato,
avere delle remore a  denunciare  e  a  difendersi  nei  procedimenti
penali nei confronti dei loro aggressori. 
    Alla tutela di persone deboli si  aggiungerebbe,  in  senso  piu'
ampio, una finalita' di  prevenzione  di  crimini  odiosi,  dato  che
vengono in rilievo reati abituali o facilmente ripetibili in  ragione
dell'attitudine di alcuni soggetti a ricreare  in  futuro  situazioni
analoghe. 
    Quanto, poi, al profilo specificamente legato alla sussistenza di
un automatismo nel riconoscimento del beneficio, che precluderebbe al
giudice di  valutare  la  peculiarita'  della  fattispecie  concreta,
l'Avvocatura generale esclude la prospettata violazione  dell'art.  3
Cost. 
    E cio' in quanto l'automatismo si regge su una  presunzione,  che
puo' ritenersi immune da  censure  di  irragionevolezza  se  risponde
all'id quod plerumque accidit.  Pertanto,  fermo  restando  che  ogni
automatismo, proprio perche' regola meccanica che attinge la  propria
ratio alla sussistenza di un fatto presunto sulla base di una massima
di esperienza,  porta  inevitabilmente  con  se'  l'assimilazione  di
situazioni che nella realta' possono invece non  corrispondere,  deve
essere considerato irragionevole solo se smentita a livello empirico,
cosa che in questo caso non avverrebbe. 
    7.2.2.- A parere dell'Avvocatura generale sarebbe infondata anche
la censura relativa all'art. 24, terzo comma, Cost. 
    Rileva quest'ultima che se e' ben vero che, in tema di patrocinio
a spese dello Stato, e' cruciale  l'individuazione  di  un  punto  di
equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i  non  abbienti  e
necessita'  di  contenimento  della  spesa  pubblica  in  materia  di
giustizia, la ricerca  di  tale  punto  di  equilibrio  competerebbe,
comunque, al legislatore e rientrerebbe nella  sua  discrezionalita',
nel delicato contemperamento con la tutela  delle  vittime  di  reati
particolarmente  odiosi,  efferati  e  frequenti,  e  con  la  tutela
dell'effettivita' della risposta sanzionatoria e  di  prevenzione  di
determinati reati. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata  in  epigrafe,  il  Giudice  per  le
indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di  Tivoli  solleva
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 76,  comma  4-ter,
del d.P.R. 30  maggio  2002,  n.  115,  recante  «Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia (Testo A)», nella parte in cui,  secondo  l'interpretazione
della Corte  di  cassazione  assurta  a  "diritto  vivente",  dispone
l'ammissione automatica - a prescindere dai limiti di reddito di  cui
al precedente comma l - al  patrocinio  a  spese  dello  Stato  delle
persone offese dai reati di cui agli  artt.  572,  583-bis,  609-bis,
609-quater, 609-octies e 612-bis, nonche', ove commessi in  danno  di
minori,  dai  reati  di  cui  agli  artt.  600,   600-bis,   600-ter,
600-quinquies, 601, 602,  609-quinquies  e  609-undecies  del  codice
penale. 
    Il rimettente assume il contrasto  della  disposizione  censurata
con l'art. 3 della Costituzione in quanto istituisce  un  automatismo
legislativo di  ammissione  al  beneficio  al  solo  verificarsi  del
presupposto di assumere la veste di persona offesa di uno  dei  reati
indicati dalla medesima norma, con esclusione di qualsiasi spazio  di
apprezzamento   e   discrezionalita'    valutativa    del    giudice,
disciplinando in modo identico situazioni del tutto eterogenee  sotto
il profilo economico; nonche' con l'art. 24, terzo comma,  Cost.,  in
quanto l'ammissione  indiscriminata  e  automatica  al  beneficio  di
qualsiasi persona offesa da uno dei reati indicati porta a  includere
anche soggetti di eccezionali capacita' economiche, a discapito della
necessaria salvaguardia  dell'equilibrio  dei  conti  pubblici  e  di
contenimento della spesa in tema di giustizia. 
    2.-   Preliminarmente,   vanno   esaminate   le   eccezioni    di
inammissibilita', formulate dall'Avvocatura generale dello Stato, per
carenza, nell'ordinanza di rimessione, di una adeguata considerazione
della ratio e dell'ambito applicativo  della  norma  censurata,  come
sarebbe stato invece necessario per valutare la ragionevolezza  della
scelta ivi introdotta rispetto  alla  regola  del  limite  reddituale
posta dal comma 1, e per la richiesta di un «sindacato nel merito  di
una scelta legislativa di  promozione  di  valori  costituzionalmente
tutelati  in  mancanza   di   un'irragionevolezza   delle   modalita'
individuate». 
    2.1.- Quanto al primo profilo,  non  sussiste  alcun  difetto  di
motivazione, posto che il giudice a quo  argomenta  adeguatamente  le
proprie censure, senza, peraltro,  incorrere  -  come  sembra  invece
adombrare  l'Avvocatura  generale  -  nel  mancato  esperimento   del
tentativo di  un'interpretazione  costituzionalmente  conforme  della
disposizione censurata. 
    Infatti, il rimettente ricostruisce adeguatamente la lettura  che
ne offre la Corte  di  cassazione  e  ricorda  che,  per  consolidato
orientamento   della    giurisprudenza    costituzionale,    invocare
l'intervento del giudice delle leggi e' possibile  anche  allorquando
il giudice a quo abbia  unicamente  l'alternativa  «di  adeguarsi  ad
un'interpretazione che non condivide  o  assumere  una  pronuncia  in
contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza  n.
240 del 2016). 
    Effettivamente, questa Corte ha chiarito che, anche  in  «difetto
di un vero e proprio diritto vivente,  si  deve  tenere  conto  della
circostanza che un'eventuale pronuncia  di  dissenso»  da  parte  del
rimettente lo espone ad una assai  probabile  riforma  della  propria
decisione da parte del giudice di ultimo grado: «[i]n  tale  ipotesi,
quindi, la via della proposizione  della  questione  di  legittimita'
costituzionale costituisce l'unica idonea ad impedire che continui  a
trovare applicazione  una  disposizione  ritenuta  costituzionalmente
illegittima»  in  quanto,  «se  il  giudice  non  si  determinasse  a
sollevare la questione di legittimita' costituzionale,  l'alternativa
sarebbe dunque solo adeguarsi  ad  una  interpretazione  che  non  si
condivide  o  assumere  una  pronuncia  in  contrasto,  probabilmente
destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016). 
    Queste considerazioni inducono a escludere  anche  un'ipotesi  di
inammissibilita' della questione per la richiesta a questa  Corte  di
un avallo interpretativo. In sostanza, riprendendo le  argomentazioni
della gia' citata sentenza n. 240 del 2016,  la  soluzione  prescelta
dal rimettente - cioe' di ritenere l'interpretazione data dalla Corte
di cassazione "non altrimenti superabile" (tanto piu', allo stato, in
assenza di pronunce contrarie) - non pare implausibile e  non  lascia
spazio in concreto alla sperimentazione di altre opzioni, dato che in
ogni caso tutte verrebbero a confliggere con quella fatta propria dal
giudice di ultimo grado. 
    2.2.- Quanto al secondo profilo di inammissibilita', esso  sembra
investire la presunta  insindacabilita'  delle  scelte  discrezionali
affidate al legislatore. 
    Tale profilo, pero', tocca il merito della  questione,  alla  cui
trattazione si rimanda. 
    3.- La questione non e' fondata. 
    4.- Come da ultimo ribadito da questa Corte, «"la  giurisprudenza
costituzionale  ha  in  piu'  occasioni  ricondotto  l'istituto   del
patrocinio  a  spese  dello   Stato   nell'alveo   della   disciplina
processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e  n.
270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode  di  ampia
discrezionalita', con il solo limite della manifesta irragionevolezza
o arbitrarieta' delle scelte adottate (ex plurimis,  sentenza  n.  97
del 2019)"» (sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n.  47
del 2020 e l'ordinanza n. 3 del 2020). 
    5.- La scelta effettuata con la disposizione in esame -  che  va,
appunto, ricondotta nell'alveo della disciplina processuale - rientra
nella  piena  discrezionalita'  del  legislatore  e  non  appare  ne'
irragionevole ne' lesiva del principio  di  parita'  di  trattamento,
considerata la vulnerabilita' delle vittime dei reati indicati  dalla
norma medesima oltre che le  esigenze  di  garantire  al  massimo  il
venire alla luce di tali reati. 
    Nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni,
e' stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire
una risposta piu'  efficace  verso  i  reati  contro  la  liberta'  e
l'autodeterminazione  sessuale,  considerati  di  crescente   allarme
sociale, anche alla luce  della  maggiore  sensibilita'  culturale  e
giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori.  Di  qui
la volonta' di approntare un sistema piu' efficace per  sostenere  le
vittime,   agevolandone   il    coinvolgimento    nell'emersione    e
nell'accertamento delle condotte penalmente rilevanti. 
    Ed infatti, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009,  n.
11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica  e  di  contrasto
alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti  persecutori),
convertito, con modificazioni, nella legge n. 38  del  2009,  che  ha
introdotto la disposizione in esame, si  richiama  «la  straordinaria
necessita'  ed  urgenza  di  introdurre  misure  per  assicurare  una
maggiore  tutela  della  sicurezza  della  collettivita',  a   fronte
dell'allarmante  crescita  degli  episodi  collegati  alla   violenza
sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto  di
tali fenomeni e  ad  una  piu'  concreta  tutela  delle  vittime  dei
suddetti reati». Non diverse sono le  considerazioni  sviluppate  nel
preambolo del decreto-legge  14  agosto  2013,  n.  93  (Disposizioni
urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza  di
genere, nonche' in tema di protezione civile  e  di  commissariamento
delle province), convertito, con modificazioni, nella  legge  n.  119
del 2013. 
    E' evidente, dunque, che la ratio della disciplina  in  esame  e'
rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che
ha l'obiettivo di offrire un concreto sostegno alla  persona  offesa,
la cui vulnerabilita' e'  accentuata  dalla  particolare  natura  dei
reati di  cui  e'  vittima,  e  a  incoraggiarla  a  denunciare  e  a
partecipare attivamente  al  percorso  di  emersione  della  verita'.
Valutazione che appare del tutto  ragionevole  e  frutto  di  un  non
arbitrario esercizio della  propria  discrezionalita'  da  parte  del
legislatore. 
    6.- A queste  argomentazioni  sulla  non  irragionevolezza  della
scelta del legislatore di accordare il  beneficio  del  patrocinio  a
spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va
aggiunta la considerazione che nel nostro ordinamento  sono  presenti
altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l'ammissione  a  tale
beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza. 
    Questa Corte ha affermato in proposito che «tale scelta [di porre
a carico dell'erario l'onorario e le spese spettanti  all'avvocato  e
all'ausiliario del magistrato] rientra nella  piena  discrezionalita'
del legislatore  e  non  appare  ne'  irragionevole  ne'  lesiva  del
principio di parita' di trattamento, considerata la peculiarita'  del
procedimento di espulsione dello straniero e  la  necessita'  di  non
frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine»  (ordinanza
n. 439 del 2004). 
    Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi  per  la
disciplina di cui al censurato comma 4-ter. 
    7.- Quanto,  specificamente,  al  profilo  di  censura  calibrato
sull'automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione
assoluta, il giudice a quo segnala  che,  secondo  la  giurisprudenza
costituzionale, la presunzione legislativa e' immune  da  censure  di
legittimita' costituzionale e resiste  al  vaglio  di  ragionevolezza
solo quando vi sia «solida rispondenza all'id quod plerumque accidit»
(cosi' tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti
da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020); e che «"le presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di uguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit" (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza,  sentenze  n.  185
del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del
2010,  n.  41  del  1999  e  n.  139  del  1982).   In   particolare,
l'irragionevolezza di una presunzione assoluta  si  coglie  tutte  le
volte in cui sia possibile formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base  della   presunzione
stessa.» (sentenza n. 253 del 2019). 
    E pero', il rimettente non coglie nel  segno  richiamando  questa
giurisprudenza, posto che, per quanto sin qui esposto,  il  beneficio
non e' legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese
dai  reati  indicati  dalla   norma   censurata   e   ha   tutt'altre
giustificazioni. 
    La verifica della regola dell'id quod plerumque accidit dovrebbe,
piuttosto, concernere la  vulnerabilita'  delle  persone  offese  dai
reati presi in considerazione dal censurato comma  4-ter,  in  ordine
alla cui sussistenza convergono significativi dati  di  esperienza  e
innumerevoli studi vittimologici. 
    8.- Per quel che  concerne,  infine,  la  prospettata  violazione
dell'art. 24, terzo comma, Cost., ci si limita a evidenziare  che  il
parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti  i  mezzi  per
agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. 
    Esso  non  puo',  dunque,  essere  distorto  nella  sua  portata,
leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere  strumenti
per  assicurare  l'accesso  alla  giustizia,  pur  in  difetto  della
situazione  di   non   abbienza,   a   presidio   di   altri   valori
costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.