ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  54,  comma
3, della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), promosso dal Tribunale di  sorveglianza  di  Bologna
nel  procedimento  di  sorveglianza  nei  confronti  di  M.  F.,  con
ordinanza del 22  ottobre  2019,  iscritta  al  n.  26  del  registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 13 gennaio  2021  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    deliberato nella camera di consiglio del 14 gennaio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 ottobre 2019 (r.o. n. 26  del  2020)  il
Tribunale di sorveglianza di Bologna  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3 e 27, terzo  comma,  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 54, comma  3,  della  legge  26
luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella
parte in cui non prevede che la revoca della  liberazione  anticipata
possa essere disposta, oltre che per la sopravvenuta condanna per  un
delitto   non   colposo   commesso   nel    corso    dell'esecuzione,
successivamente alla concessione del beneficio,  anche  nei  casi  di
sopravvenuta assoluzione e di contestuale applicazione di una  misura
di sicurezza per un fatto qualificato ex art. 115 del codice penale. 
    1.1.- Il Collegio rimettente e' chiamato a valutare una richiesta
del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Bologna,  volta
ad ottenere la revoca  del  beneficio  della  liberazione  anticipata
applicato nei confronti  di  M.  F.,  avuto  riguardo  a  periodi  di
detenzione sofferti tra il marzo del 2010 e l'ottobre del  2018,  con
esecuzione della pena conseguentemente cessata al 29 luglio 2019. 
    Nel corso  dell'esecuzione  della  condanna  per  un  delitto  di
tentato omicidio, una nuova ed analoga imputazione era stata  elevata
nei  confronti  dell'interessato.  Questi,  secondo  l'accusa,  aveva
attentato per una seconda  volta  alla  vita  della  stessa  persona,
commettendo il fatto, in epoca antecedente e  prossima  al  18  marzo
2016, mediante l'istigazione rivolta a un  altro  detenuto  affinche'
provvedesse all'esecuzione materiale del delitto. 
    Nondimeno, con sentenza di primo  grado  del  22  dicembre  2017,
confermata in appello con sentenza  del  7  febbraio  2019  (divenuta
irrevocabile il 23 giugno  2019),  l'interessato  era  stato  assolto
dalla nuova imputazione perche' il fatto non costituisce  reato,  sul
presupposto che la  sua  istigazione  ad  uccidere  non  fosse  stata
accolta dal  compagno  di  detenzione.  I  giudici  avevano  comunque
applicato nei suoi confronti, secondo il disposto dell'art. 115  cod.
pen., la misura di sicurezza della liberta' vigilata. 
    Al momento della condotta di istigazione, M. F.  aveva  gia'  due
volte ottenuto, dal competente giudice di sorveglianza, riduzioni  di
pena per 300 giorni complessivi (provvedimenti del 3 settembre e  del
19 novembre 2015, riguardo all'esecuzione maturata fino al 17 ottobre
2015). Due provvedimenti analoghi sono poi  stati  adottati  dopo  il
"quasi reato", cosi' da portare  a  570  il  numero  complessivo  dei
giorni di liberazione anticipata (in particolare,  ordinanze  del  29
agosto e del 7 dicembre 2018). 
    1.2.- Il  Procuratore  generale  presso  la  Corte  d'appello  di
Bologna ha sollecitato la revoca con riguardo all'intera riduzione di
pena, invocando il disposto del comma 3 dell'art. 54 ordin. penit., a
mente del quale «[l]a condanna per delitto non colposo  commesso  nel
corso dell'esecuzione successivamente alla concessione del  beneficio
ne comporta la revoca». 
    Il Tribunale, considerato che la legge prevede la revoca solo con
riguardo a fatti commessi dopo la concessione del beneficio,  osserva
che la richiesta potrebbe in astratto essere accolta solo per i  piu'
risalenti tra i provvedimenti in  favore  del  condannato  (e  dunque
relativamente ai primi  300  giorni  di  liberazione  anticipata).  E
tuttavia, anche per tali  provvedimenti,  osterebbe  alla  revoca  la
mancanza dell'ulteriore condizione posta dalla norma censurata, cioe'
l'intervenuta condanna per un delitto non  colposo.  Nella  specie  -
osserva  ancora  il  rimettente  -   e'   intervenuta   infatti   una
assoluzione, sia pure pronunciata a norma dell'art. 115 cod. pen.,  e
dunque sul presupposto della commissione di un fatto  sintomatico  di
pericolosita' sociale. 
    La nozione di "condanna",  nella  disciplina  in  questione,  non
potrebbe  che  essere  intesa  in  termini   letterali,   e   percio'
restrittivamente, trattandosi fra l'altro di disposizione derogatoria
-  a  parere  del  rimettente  -  al  principio  di  stabilita'   dei
provvedimenti applicativi  di  benefici  penitenziari.  Il  Tribunale
richiama altresi' un prolungato contrasto di giurisprudenza  riguardo
all'idoneita' della sentenza di applicazione della pena su  richiesta
a supportare la revoca della liberazione anticipata: un  contrasto  a
suo dire risolto positivamente, ma solo per l'espressa  equiparazione
tra la sentenza  di  "patteggiamento"  e  quella  di  condanna,  come
stabilita al comma  1-bis  dell'art.  445  del  codice  di  procedura
penale; equiparazione  che  manca,  invece,  riguardo  alla  sentenza
assolutoria ex art. 115 cod. pen. 
    1.3.- La chiara lettera della norma censurata non potrebbe essere
superata,  secondo  il  rimettente,  mediante  un  riferimento   alla
sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1995,  come  suggerito
dal Procuratore generale che ha promosso il procedimento  di  revoca.
Con detta sentenza, il comma 3 dell'art. 54 ordin. penit.  era  stato
dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  nella   parte   in   cui
prevedeva la revoca della liberazione anticipata nel caso di condanna
per delitto non colposo commesso nel corso dell'esecuzione,  anziche'
stabilire che il beneficio dovesse essere revocato quando la condanna
subita risultasse incompatibile con il relativo mantenimento. Secondo
il Tribunale di sorveglianza, l'intervento della Corte  era  valso  a
superare l'automatismo insito nella norma, subordinando la revoca  ai
casi di concreta  ed  effettiva  incompatibilita'  della  liberazione
anticipata con il delitto medio tempore commesso, con effetto  dunque
di restrizione, e  non  di  ampliamento,  del  potere  giudiziale  in
proposito. 
    1.4.-  Ferma  restando  dunque  la  rilevanza   delle   questioni
sollevate,  il  Tribunale  rimettente   dubita   della   legittimita'
costituzionale di una  disciplina  che  non  equipari,  ai  fini  che
interessano,  la  sentenza  per  il  cosiddetto  "quasi  reato"  alla
sentenza di condanna. L'art. 115 cod. pen.  avrebbe  la  funzione  di
delimitare la figura tipica del tentativo, escludendo la  punibilita'
dei  fatti  inidonei  o  non  univoci,  e  tuttavia  tali  fatti  non
potrebbero dirsi penalmente irrilevanti. Alle condotte in  questione,
infatti, puo' far seguito l'applicazione di una misura  di  sicurezza
ove ricorra una situazione di pericolosita' sociale, che il giudice -
sempre secondo il rimettente - e' chiamato a  valutare  mediante  gli
stessi criteri stabiliti per la determinazione della pena  (art.  133
cod. pen.), e deve fronteggiare con le  stesse  misure  di  sicurezza
previste per gli imputati condannati. In caso di  applicazione  della
liberazione anticipata, le analogie  con  la  condanna  si  farebbero
dunque particolarmente  stringenti,  anche  alla  luce  dell'asserita
contiguita' dei modelli di condotta. 
    Il rimettente osserva, a tale ultimo proposito,  che  il  confine
tra tentativo punibile e istigazione non accolta  puo'  essere  assai
labile (nella specie vi erano  gia'  stati  versamenti  di  denaro  e
sopralluoghi   sul   luogo   del   programmato   omicidio),   e   che
l'intenzionalita' della condotta di istigazione e' identica a  quella
espressa  commettendo  quel  «delitto  non  colposo»  per  il  quale,
nell'eventualita'  della  condanna,  la  liberazione  anticipata   e'
suscettibile di revoca.  Nei  casi  in  questione  -  si  aggiunge  -
l'evento antigiuridico non si verifica «unicamente a causa di fattori
indipendenti dalla volonta' del soggetto». 
    Di qui,  secondo  il  Tribunale,  il  dubbio  non  manifestamente
infondato di violazione dell'art. 3 Cost. 
    La disciplina censurata contrasterebbe poi con  il  principio  di
finalizzazione rieducativa della pena,  presidiato  dal  terzo  comma
dell'art. 27 Cost. L'attuazione di tale principio, a fronte di  fatti
espressivi dell'attuale ricorrenza d'una condizione di  pericolosita'
sociale, «non puo' prescindere, in generale, dalla  possibilita'  per
la Magistratura di Sorveglianza di valutare eventuali sopravvenienze,
sintomatiche, in misura significativa, della  mancata  adesione,  del
condannato, al trattamento o al progetto risocializzante avviato  nei
suoi confronti». 
    2.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato il  17  marzo  2020,  chiedendo  che  le
questioni siano dichiarate inammissibili. 
    Richiamato il principio per il quale  possono  essere  dichiarate
costituzionalmente illegittime solo norme  delle  quali  non  risulti
possibile   una   interpretazione    costituzionalmente    orientata,
l'Avvocatura generale assume che il Tribunale rimettente non  avrebbe
verificato, come invece  avrebbe  dovuto,  la  possibilita'  di  dare
applicazione alla norma  censurata  facendone  discendere  la  revoca
(almeno parziale) della liberazione anticipata a suo  tempo  disposta
in favore del condannato. 
    Non basterebbe infatti  il  mero  argomento  letterale  -  sempre
secondo l'Avvocatura generale -  ad  escludere  che  il  terzo  comma
dell'art. 54 ordin. penit. possa essere  applicato  alle  ipotesi  di
"quasi reato". 
    Il dato veramente rilevante, nella sostanza, consisterebbe  nella
manifestazione di pericolosita'  quale  sintomo  dell'insuccesso  del
condannato nel percorso  di  risocializzazione  durante  l'esecuzione
della pena. Cio' che si  desumerebbe,  tra  l'altro,  dalla  sentenza
della Corte  costituzionale  n.  186  del  1995,  che  ha  fortemente
valorizzato  l'elemento  della  pericolosita'   sociale,   tanto   da
eliminare il pregresso automatismo e da subordinare la  revoca  della
liberazione anticipata ad una verifica, appunto, dell'attualita'  del
rischio di nuovi comportamenti antisociali. 
    L'inammissibilita'  delle  questioni  sollevate  dovrebbe  dunque
conseguire alla circostanza che il rimettente avrebbe eluso il dovere
di sperimentare la ricordata soluzione adeguatrice. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Bologna  ha   sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 54, comma 3, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. 
    La disposizione censurata disciplina la revoca della misura della
liberazione anticipata, stabilendo che tale revoca  sia  disposta  in
seguito a condanna per un delitto non  colposo,  commesso  nel  corso
dell'esecuzione, successivamente alla concessione del beneficio. 
    Il Procuratore generale presso  la  Corte  d'appello  di  Bologna
aveva rivolto al  Collegio  rimettente  domanda  di  revoca  di  piu'
provvedimenti di concessione del  beneficio,  in  favore  di  persona
condannata per un reato di tentato omicidio. A quest'ultimo era stato
infatti addebitato un nuovo e analogo tentativo di  omicidio,  sempre
in  danno  della  stessa  vittima,  asseritamente  commesso   durante
l'esecuzione della pena per il primo delitto. Nel nuovo giudizio,  il
fatto era stato qualificato come "quasi reato",  ai  sensi  dell'art.
115 del codice penale, con la conseguente pronuncia di  una  sentenza
assolutoria,  accompagnata  dall'applicazione  di   una   misura   di
sicurezza personale, sul  presupposto  della  ritenuta  pericolosita'
sociale dell'autore. 
    Il giudice  a  quo  lamenta  che  il  tenore  della  disposizione
censurata non consente in simile fattispecie la revoca del beneficio,
poiche' si riferisce testualmente al sopravvenire di una sentenza  di
«condanna». L'art. 54, comma 3, ordin. penit. non sarebbe  del  resto
suscettibile di alcuna applicazione analogica, poiche'  introdurrebbe
una eccezione alla «regola generale, che sancisce  con  carattere  di
definitivita' l'attribuzione del  beneficio  al  condannato  che  dia
prova di partecipazione all'opera rieducativa». 
    Nondimeno, sempre a parere del rimettente,  la  disciplina  della
revoca   del   beneficio,   nell'ipotesi   di   "quasi   reato",    e
particolarmente  nel  caso  dell'applicazione  di   una   misura   di
sicurezza, dovrebbe essere analoga a quella  della  condanna  per  un
delitto non colposo, anche tentato, data l'identita' dei  fatti,  sia
sotto il profilo dell'intenzione criminale  che  della  pericolosita'
criminale rispettivamente espresse dagli autori. L'impossibilita'  di
procedere in tal senso determinerebbe la lesione dell'art. 3 Cost. 
    Risulterebbe   violato   anche   il   principio   di   necessaria
finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma,  Cost.).
L'attuazione di  tale  principio  dovrebbe  infatti  consentire  alla
magistratura di  sorveglianza  di  valutare  -  anche  riconsiderando
l'applicazione del beneficio accordato  -  eventuali  sopravvenienze,
sintomatiche in  misura  significativa  della  mancata  adesione  del
condannato al trattamento o  al  progetto  di  risocializzazione,  ed
espressive, al pari di un delitto tentato, dell'intenzione  criminosa
e della pericolosita' sociale dell'autore. 
    Per queste ragioni, il rimettente dubita che l'art. 54, comma  3,
ordin. penit. sia costituzionalmente illegittimo, nella parte in  cui
non prevede che la revoca della liberazione anticipata  possa  essere
disposta - oltre che per la sopravvenuta condanna per un delitto  non
colposo  commesso  nel  corso  dell'esecuzione  successivamente  alla
concessione  del  beneficio  -  anche  nei   casi   di   sopravvenuta
assoluzione e di contestuale applicazione di una misura di  sicurezza
per un fatto qualificato ex art. 115 cod. pen. 
    2.-  Ricompreso  tra  le  misure  alternative  alla   detenzione,
l'istituto della liberazione anticipata e' regolato  nell'ambito  del
Capo VI del Titolo II  della  legge  sull'ordinamento  penitenziario,
stabilendo, in particolare, che in favore del condannato sia disposta
la detrazione di quarantacinque giorni  per  ogni  semestre  di  pena
detentiva  eseguita.  Cio'  non  implica  soltanto  che  l'esecuzione
intramuraria cessi  con  un  corrispondente  anticipo  rispetto  alla
durata della pena stabilita in fase di cognizione. In linea generale,
l'applicazione del beneficio  comporta  anche  che  i  quarantacinque
giorni in parola si considerino scontati, il che rileva, ad  esempio,
quando si debba stabilire se il condannato abbia superato le quote di
pena necessarie per accedere a benefici ulteriori (comma 4  dell'art.
54 ordin. penit.),  e  spiega  la  ragione  per  cui  la  liberazione
anticipata puo' essere concessa anche ai condannati all'ergastolo,  i
quali se ne avvalgono  per  l'accesso  alla  semiliberta'  (che  puo'
avvenire, ai sensi del comma 5  dell'art.  50,  ordin.  penit.,  dopo
venti  anni   dall'inizio   dell'esecuzione)   o   alla   liberazione
condizionale (possibile dopo una detenzione per ventisei  anni,  come
disposto al terzo comma dell'art. 176 cod. pen.). 
    Il presupposto sostanziale per l'applicazione del beneficio e' la
comprovata «partecipazione  all'opera  di  rieducazione»,  cui  viene
appunto dato un «riconoscimento» «ai fini  del  [...]  piu'  efficace
reinserimento nella societa'»  del  condannato  (art.  54,  comma  1,
ordin. penit.). 
    La giurisprudenza di legittimita' ha da tempo chiarito,  mettendo
in  luce  la  ratio  del  frazionamento  semestrale  introdotto   dal
legislatore, che la detrazione non esige il comprovato  conseguimento
dell'obiettivo di rieducazione, ma solo  la  prova  di  una  seria  e
costante partecipazione al relativo percorso, che va incentivata  fin
dalle fasi iniziali di esecuzione della pena  (ex  multis,  Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio 2013, n.  5877;
da ultimo, in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 20 maggio
2019, n. 27573). 
    Anche questa Corte ha posto in luce l'importanza d'una tempestiva
valutazione del comportamento tenuto dal condannato, fin dai  periodi
iniziali della  sua  detenzione,  affinche'  si  consolidino  stabili
atteggiamenti di partecipazione all'offerta rieducativa,  in  termini
di vera e propria abitudine,  immediatamente  produttiva  di  effetti
favorevoli  (sentenza  n.  276  del  1990).  Ancora  di   recente   -
richiamando nell'occasione i rilievi gia' svolti (sentenza n. 274 del
1983) affinche' fosse estesa  agli  ergastolani  la  possibilita'  di
accedere alla liberazione anticipata,  estensione  poi  ribadita  dal
legislatore in sede di riforma dell'art. 54 ordin.  penit.  (art.  18
della legge 10 ottobre 1986, n. 663, recante  «Modifiche  alla  legge
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della  liberta'»)  -  si  e'  sottolineata  la
centralita' del beneficio in questione lungo  tutto  il  percorso  di
rieducazione dei condannati: e anche da tale premessa sono  scaturite
le   dichiarazioni   di   illegittimita'   costituzionale   dell'art.
58-quater,  comma  4,  ordin.  penit.,  norma   che   precludeva   la
considerazione della liberazione anticipata nel computo della  soglia
minima di pena scontata per l'accesso ai  benefici  penitenziari  dei
condannati, a pena perpetua o temporanea, per i delitti di  cui  agli
artt. 289-bis e 630 cod. pen., con morte conseguente del  sequestrato
(sentenze n. 229 del 2019 e n. 149 del 2018). 
    Della logica qui richiamata  e'  partecipe  anche  la  disciplina
della  revoca  della  liberazione  anticipata,   che   il   Tribunale
rimettente vorrebbe estendere al caso del "quasi reato"  commesso  da
soggetto pericoloso. Infatti, come  accennato,  la  revoca  interessa
solo detrazioni disposte prima  del  «delitto  non  colposo»  che  la
legittima, restando impregiudicati  gli  effetti,  pur  eventualmente
negativi,  che  l'episodio  puo'  determinare  nella  valutazione  di
meritevolezza del beneficio per i periodi successivi. 
    3.- A proposito della revoca del  beneficio,  e'  da  considerare
l'incidenza esercitata dalla sentenza  n.  186  del  1995  di  questa
Corte,  al  cui  dispositivo  e  alla  cui  motivazione  l'Avvocatura
generale  dello  Stato  -  nonche',  nel  giudizio   principale,   il
Procuratore generale della Repubblica - attribuiscono  una  sorta  di
portata estensiva. 
    L'Avvocatura generale  dello  Stato,  in  particolare,  eccepisce
l'inammissibilita'  delle   questioni   sollevate,   per   l'asserita
omissione del tentativo di  interpretare  la  disposizione  censurata
sulla base di una lettura costituzionalmente  conforme,  ispirata  al
contenuto e al dispositivo della appena citata sentenza. 
    Non sarebbe sufficiente, infatti, il solo argomento letterale  ad
escludere che il comma 3 dell'art.  54  ordin.  penit.  possa  essere
applicato alle ipotesi di "quasi reato" (cui consegue un  dispositivo
assolutorio, e non la decisione di  condanna  testualmente  richiesta
dalla  disposizione   censurata).   Il   dato   realmente   rilevante
consisterebbe, invece, nella manifestazione di pericolosita'  sociale
connessa al fatto, pur qualificato  ex  art.  115  cod.  pen.,  quale
sintomo   dell'insuccesso   del   percorso    di    risocializzazione
nell'esecuzione della pena. Cio'  dovrebbe  dedursi,  appunto,  dalla
ratio ispiratrice della sentenza n. 186 del 1995, che  ha  dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 54, comma 3, ordin. penit. 
    In  realta',  dalla  motivazione  come  dal   dispositivo   della
decisione, emerge con chiarezza che l'intervento di questa Corte  era
mirato a neutralizzare l'automatismo che costringeva  il  giudice,  a
fronte di una  condanna  sopravvenuta  per  delitto  non  colposo,  a
disporre comunque la revoca. Essa doveva seguire a prescindere  dalla
qualificazione e dalla  concreta  gravita'  dell'episodio  delittuoso
(anche se, in ipotesi, punito mediante la sola  pena  pecuniaria),  e
dal  suo  reale  valore  sintomatico,  nel  caso  concreto,  di   non
meritevolezza della detrazione in precedenza accordata.  Per  questo,
la disposizione, oggi nuovamente sottoposta a censura, fu  dichiarata
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non stabiliva  «che
la liberazione anticipata e' revocata se la condotta del soggetto, in
relazione  alla  condanna  subita,  appare   incompatibile   con   il
mantenimento del beneficio». 
    L'intervento di questa Corte, dunque, non e' valso  ad  espungere
dalla fattispecie la condizione necessaria  per  l'attivazione  della
procedura di revoca - cioe' una sentenza di  condanna  -  ma  solo  a
stabilirne l'insufficienza, dovendosi anche valutare le  implicazioni
del fatto nel caso concreto. Permane, percio', l'indice legale di non
meritevolezza  del  beneficio,  gia'  selezionato  ab   origine   dal
legislatore, e cioe'  la  commissione  di  un  delitto  non  colposo,
appunto accertata con sentenza irrevocabile di condanna. 
    In altre  parole  -  cosi'  come  correttamente  ha  rilevato  il
Collegio rimettente - la sentenza n. 186 del 1995 non ha prodotto  un
effetto di allargamento, bensi' una restrizione dei casi  di  revoca.
Se pur sussista una rilevanza in concreto del fatto commesso  durante
l'esecuzione della pena, quale manifestazione dell'inefficacia  della
pratica rieducativa gia' intervenuta, parimenti dovra' sussistere  la
condizione ulteriore, e cioe' che il  fatto  stesso  consista  di  un
delitto non colposo per il quale  sia  intervenuta  una  sentenza  di
«condanna». 
    3.1.- Alla luce  dei  rilievi  fin  qui  svolti,  l'eccezione  di
inammissibilita' proposta dall'Avvocatura generale dello  Stato  deve
essere respinta. 
    Il  Tribunale  di   sorveglianza   ha   in   effetti   esaminato,
escludendone  la  praticabilita',  la  soluzione  interpretativa  che
dovrebbe legittimare l'applicazione della disposizione censurata alle
ipotesi di "quasi reato" con accertata  condizione  di  pericolosita'
sociale dell'interessato. 
    Non rileva tanto, a questo  fine,  la  tesi  (pure  espressa  dal
rimettente) secondo cui la disposizione censurata non potrebbe essere
applicata estensivamente per il suo carattere eccezionale, in  quanto
«derogatrice» di  un'asserita  «regola  generale,  che  sancisce  con
carattere di definitivita' l'attribuzione del beneficio al condannato
che dia prova di partecipazione all'opera  rieducativa»:  giacche'  -
fermo restando il sistema delle preclusioni  endoprocedimentali,  che
subordina l'attivazione di nuove procedure sul medesimo oggetto  alla
sopravvenienza di fattori non gia' valutati in precedenza - le misure
di modifica o attenuazione del regime  carcerario  sono  generalmente
suscettibili di revoca, quando ricorrono le condizioni  di  volta  in
volta stabilite dal legislatore (si  vedano  l'art.  177  cod.  pen.,
nonche' gli artt. 47, comma 11, 47-ter, comma 6, 47-quater, comma  6,
47-quinquies, comma 6, 47-sexies, comma 1, e 51, primo comma,  ordin.
penit.). 
    Conta, invece, che il rimettente abbia espresso e sottolineato la
corretta portata della sentenza n. 186  del  1995  di  questa  Corte:
quella cioe' di consentire una valutazione discrezionale del  giudice
di sorveglianza, in precedenza preclusa,  cosi'  da  evitare  che  il
beneficio debba  essere  revocato  anche  quando  l'interruzione  del
percorso rieducativo avviato con la liberazione anticipata non appaia
giustificata nel caso concreto; non, invece, quella di  allargare  le
ipotesi di revoca a casi  nei  quali  manchi  l'ulteriore  condizione
della sentenza di «condanna» (in assenza tra l'altro di una  norma  -
come  l'art.  445,   comma   1-bis,   cod.   proc.   pen.,   relativo
all'applicazione di pena su richiesta -  che  valga  ad  "equiparare"
espressamente  il  relativo  provvedimento  «a   una   pronuncia   di
condanna»). 
    L'esperimento del tentativo di  interpretazione  adeguatrice,  di
cui  l'Avvocatura  generale  lamenta  l'omissione,  e'  stato  quindi
puntualmente   operato,   con   esito   negativo.   E   la   costante
giurisprudenza di questa Corte chiarisce che, laddove  il  rimettente
abbia considerato la possibilita' di  una  interpretazione  idonea  a
eliminare  il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale   e   l'abbia
motivatamente scartata, la valutazione  sulla  correttezza,  o  meno,
dell'opzione ermeneutica prescelta riguarda non gia' l'ammissibilita'
della questione sollevata, bensi'  il  merito  di  essa  (ex  multis,
sentenze n. 50 del 2020, n. 241 e n. 189 del 2019, n. 135 del 2018  e
n. 255 del 2017). 
    3.2.- Quanto alla  non  manifesta  infondatezza  delle  questioni
sollevate, l'ordinanza da' sufficiente conto, come s'e' visto,  delle
ragioni di asserito contrasto  tra  la  disposizione  censurata  e  i
parametri costituzionali invocati. 
    Con riferimento, infine alla  rilevanza,  il  rimettente  precisa
opportunamente che - prevedendo la disposizione censurata  la  revoca
per i soli fatti commessi dopo la  concessione  del  beneficio  -  la
richiesta di revoca avanzata nel giudizio a quo potrebbe  in  ipotesi
essere   accolta,   all'esito   dell'eventuale    dichiarazione    di
illegittimita' costituzionale della disposizione censurata,  solo  in
relazione ai  piu'  risalenti  tra  i  provvedimenti  in  favore  del
condannato, quindi relativamente ai primi 300 giorni  di  liberazione
anticipata (provvedimenti del 3 settembre e  del  19  novembre  2015,
riguardo all'esecuzione maturata fino al 17 ottobre 2015). 
    4.- Le questioni sollevate devono, nondimeno,  essere  dichiarate
inammissibili, a causa del  "verso"  della  richiesta  addizione.  E'
d'immediata evidenza che l'ordinanza di rimessione  sollecita  questa
Corte a operare sulla disposizione censurata un intervento  additivo,
affinche' una nuova causa di revoca della liberazione  anticipata  si
aggiunga a quella gia'  stabilita  dal  legislatore,  con  un  tipico
effetto in malam partem. 
    Infatti,  data  la  specifica  natura  del   beneficio   qui   in
discussione, risulta chiara l'incidenza sfavorevole del provvedimento
adottabile  in  caso  di  accoglimento  della  questione   sollevata:
l'esecuzione della  pena  detentiva  potrebbe  durare  ben  oltre  il
termine  finale  computato  a   seguito   della   concessione   della
liberazione anticipata, o potrebbe addirittura determinarsi una nuova
carcerazione dell'interessato, ove nel frattempo fosse effettivamente
intervenuta la liberazione "anticipata" (come, parrebbe, nel caso  di
specie). 
    L'accoglimento delle  questioni  determinerebbe,  in  definitiva,
l'ampliamento dei casi in cui puo' essere compresso  il  diritto  del
singolo alla propria liberta' personale. 
    Il rimettente non ha svolto, in proposito, alcuna osservazione. 
    4.1.- Per  quanto  in  epoca  non  recente,  e  con  formulazioni
sintetiche, questa Corte ha gia' stabilito che non  sono  ammissibili
questioni di legittimita' costituzionale che  sollecitino  interventi
additivi come quello proposto nel caso di specie. 
    In questo senso, negli  anni  successivi  all'entrata  in  vigore
della legge n. 354 del 1975, devono essere ricordate alcune pronunce,
in risposta a questioni di  legittimita'  costituzionale  miranti  ad
allargare l'elenco dei reati ostativi all'applicazione  dell'istituto
della semiliberta'. Trattando, in particolare,  di  censure  relative
agli artt. 48, comma terzo, e 47, comma 2, ordin. penit.  (nel  testo
allora vigente), questa Corte aveva infatti affermato e ribadito  «la
propria incompetenza  ad  "emettere  sentenze  additive  che  rendano
deteriore la posizione del condannato in ordine all'esecuzione  della
pena"  [...]»,  traendone  la  conclusione   della   inammissibilita'
(manifesta) delle questioni cosi' sollevate  (ordinanza  n.  167  del
1983, ripresa e citata nella sentenza n. 29 del 1984). 
    E' bensi' vero  che,  in  epoca  successiva,  nelle  (non  molte)
occasioni in cui  sono  state  sollevate  questioni  di  legittimita'
costituzionale dall'analoga struttura,  il  principio  non  e'  stato
ripreso,   essendosi   data   prevalenza   ad   altre   ragioni    di
inammissibilita' (ordinanze n. 300 del 2002  e  n.  9  del  1994),  o
essendosi preferita una soluzione di non fondatezza nel merito  delle
questioni sollevate (sentenza n. 352 del 1991 e ordinanza n. 367  del
1995). Non e' mancata neppure - a fronte di una fattispecie  peraltro
assai particolare, che introduceva un automatismo favorevole in punto
di sospensione dell'esecuzione della pena (art.  1,  comma  1,  della
legge 1° agosto  2003,  n.  207,  recante  «Sospensione  condizionata
dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni»)
- una decisione di  accoglimento  della  questione,  con  effetto  di
restrizione delle possibilita' di accesso  al  beneficio  considerato
(sentenza n. 255 del 2006, seguita dalle  ordinanze  di  restituzione
degli atti n. 443 e n. 326 del 2006). 
    Ritiene,  tuttavia,  questa  Corte  di  conformarsi   ai   (soli)
precedenti puntualmente espressi  sull'inammissibilita'  di  sentenze
additive in malam partem nel  campo  dell'ordinamento  penitenziario,
soprattutto alla luce dell'evoluzione della propria giurisprudenza in
materia, per le ragioni e nei limiti che saranno appresso chiariti. 
    4.2.- Cosi' come ha rilevato di recente la  sentenza  n.  32  del
2020,  e'  «ricco  di  sfumature»  il  quadro  della   giurisprudenza
costituzionale concernente i rapporti tra i  principi  stabiliti  nel
secondo comma  dell'art.  25  Cost.  e  la  disciplina  delle  misure
concernenti l'esecuzione delle pene detentive. 
    L'attenzione   si   e'   concentrata   soprattutto   sul   regime
intertemporale di applicazione delle  norme  di  nuova  introduzione.
Piu'  volte,  essenzialmente  in  ragione  della  natura  processuale
attribuita  alle  disposizioni  dell'ordinamento  penitenziario  (con
connessa applicazione  del  principio  tempus  regit  actum),  si  e'
ritenuto che l'applicazione  di  esse  fosse  consentita,  anche  con
riguardo a fatti commessi prima della loro entrata in vigore, benche'
si trattasse di norme con effetti  sfavorevoli  sul  trattamento  dei
destinatari (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 108 del 2004 e n.
10 del 1981). Il principio si era radicato anche nel diritto vivente,
grazie  ad  uno  stabile   orientamento   della   giurisprudenza   di
legittimita' (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza  17
luglio 2006, n. 24561, nonche',  da  ultimo,  sezione  prima  penale,
sentenza 30 settembre 2019, n. 39984). 
    L'incidenza   negativa   sui   percorsi   di    risocializzazione
potenzialmente interrotti da modifiche di segno restrittivo era stata
comunque  prevenuta,  facendo  leva  sul  primo  e  sul  terzo  comma
dell'art. 27 Cost., deducendone  l'illegittimita'  costituzionale  di
nuove norme restrittive  qualora  non  fosse  esclusa,  dal  relativo
ambito di applicazione, la posizione  di  coloro  che  avessero  gia'
raggiunto un livello di rieducazione adeguato ai  benefici  richiesti
(sentenze n. 32 del 2020, n. 79 del 2007, n. 257 del 2006, n. 137 del
1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995 e n. 306 del 1993). 
    Nondimeno, nella stessa giurisprudenza costituzionale, sempre  in
riferimento agli eventuali limiti all'applicazione retroattiva  delle
modifiche in peius, si era gia' manifestata l'esigenza di distinguere
tra  interventi  normativi  di  carattere  procedurale  in  tema   di
esecuzione e variazioni relative invece ai profili sostanziali  delle
misure di ordinamento penitenziario. 
    Questa Corte, ad esempio, aveva  bensi'  dichiarato  non  fondata
(sentenza  n.  273  del   2001)   una   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo  comma,
Cost., su una disposizione che  limitava  ai  soli  collaboratori  di
giustizia, con effetti  retroattivi,  l'accesso  al  beneficio  della
liberazione condizionale. Ma in tale pronuncia aveva  dato  esplicito
spazio alla distinzione  tra  dimensione  processuale  e  sostanziale
delle regole concernenti l'esecuzione delle pene detentive, tanto  da
specificare  che  la  questione  era  da  rigettare  in  quanto   «la
disciplina censurata non comporta una  modificazione  degli  elementi
costitutivi della liberazione condizionale e, quindi, rimane estranea
alla sfera di applicazione del principio  di  irretroattivita'  della
legge penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.». La  questione
era stata dichiarata non fondata, insomma, perche' la  disciplina  in
esame si limitava a interessare l'accertamento dei presupposti  utili
per l'accesso alla misura. 
    La stessa logica era stata seguita in  ulteriori  occasioni,  con
riguardo alle  preclusioni  in  materia  di  permessi  premio  per  i
detenuti non collaboranti (sentenza n. 273 del 2001  e  ordinanza  n.
280 del 2001, richiamate  e  confermate  nell'ordinanza  n.  108  del
2004). 
    4.3.-  In  epoca  piu'  recente,  la  riflessione  sul  tema   e'
proseguita alla luce della dimensione che il principio costituzionale
di legalita' penale ha assunto in virtu' del raffronto tra l'art. 25,
secondo  comma,  Cost.,  e  l'art.   7   della   Convenzione per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,  come  interpretato  dalla
giurisprudenza sovranazionale. 
    Per un verso, infatti, la Corte europea dei diritti dell'uomo  ha
fatto   ampio   ricorso,   come   noto,   alla   nozione   di   norma
"sostanzialmente penale",  soggetta  in  quanto  tale  alla  garanzia
convenzionale del divieto di applicazione retroattiva, a  prescindere
dalla qualificazione che del relativo oggetto sia fatta  nel  singolo
ordinamento nazionale (grande camera, sentenza 8 giugno 1976, Engel e
altri contro Paesi Bassi, successivamente confermata e ribadita, fino
alla recente sentenza della grande camera 8  luglio  2019,  Mihalache
contro Romania). 
    Per altro verso, sullo specifico terreno dell'esecuzione  penale,
si   e'   manifestata   l'esigenza   di   assicurare   le    garanzie
tradizionalmente inerenti al principio di non  retroattivita',  cioe'
quelle della prevedibilita' delle conseguenze sanzionatorie  a  monte
della  condotta  programmata  dall'agente,  della   possibilita'   di
esercitare la difesa in vista degli esiti  prevedibili  del  processo
penale (anche nella sua fase esecutiva), di prevenire possibili abusi
del potere legislativo, volti a modificare in peius gli effetti delle
statuizioni  espresse  da  decisioni   giurisdizionali.   Basti   qui
menzionare la sentenza della Corte  EDU,  grande  camera  21  ottobre
2013, Del Rio Prada  contro  Spagna:  nel  confermare  che  la  norma
convenzionale non osta  all'applicazione  "retroattiva"  delle  norme
sull'esecuzione, la Corte europea ha pero'  fatto  eccezione  per  le
disposizioni che implichino una «ridefinizione o modificazione  della
portata applicativa della "pena" imposta dal giudice».  Eccezione  in
mancanza della quale «gli Stati  resterebbero  liberi  -  ad  esempio
modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti  -  di
adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la  portata  della
pena  inflitta,  a  svantaggio  della  persona   condannata,   quando
quest'ultima non avrebbe potuto immaginare tale sviluppo  al  momento
in cui e' stato commesso il reato o e' stata  inflitta  la  pena.  In
tali condizioni l'articolo 7 § 1 sarebbe privo di  qualsiasi  effetto
utile  per  le  persone  condannate  a  pene  delle  quali  e'  stata
modificata la portata ex post facto a loro svantaggio». 
    4.4.-  In  un  contesto  siffatto,  questa  Corte,  con  la  gia'
menzionata  sentenza  n.   32   del   2020,   ha   sottolineato   che
l'applicazione  generalizzata  delle  disposizioni   di   ordinamento
penitenziario  che  contengano  «mere   modifiche   delle   modalita'
esecutive della pena prevista  dalla  legge  al  momento  del  reato»
risponde al principio tempus regit actum ed e'  talvolta  addirittura
necessaria, anche  al  fine  di  tutelare  l'eguale  trattamento  dei
detenuti e di mantenere  la  loro  pacifica  convivenza  in  carcere.
Devono  essere   invece   valutate   diversamente   le   disposizioni
sopravvenute che non comportino mere modifiche  di  quelle  modalita'
esecutive, bensi' implichino «una trasformazione della  natura  della
pena, e della sua concreta incidenza  sulla  liberta'  personale  del
condannato»: per esse sussistono le esigenze di  garanzia  assicurate
dal secondo comma dell'art. 25 Cost. e,  percio',  il  divieto  della
loro applicazione retroattiva. 
    Questo, paradigmaticamente, si verifica  -  come  rilevato  nella
sentenza n. 32 del 2020  -  allorche'  al  momento  del  fatto  fosse
prevista una pena suscettibile di essere eseguita  (in  tutto  od  in
parte) "fuori" del carcere, ed essa risulti pero' trasformata  -  per
effetto di una modifica normativa sopravvenuta  al  fatto  -  in  una
sanzione da eseguire di norma,  e  pur  non  mutando  formalmente  il
proprio nomen juris, "dentro" il carcere. 
    In base a tale criterio, questa Corte  ha  potuto  riferire  alla
dimensione procedimentale la disciplina dei  permessi  premio  e  del
lavoro  all'esterno,  ed  affermare  nel   contempo   la   necessaria
esclusione dell'efficacia retroattiva per il «regime di accesso  alle
misure alternative alla detenzione disciplinate dal  Titolo  I,  Capo
VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare all'affidamento  in
prova al servizio sociale,  alla  detenzione  domiciliare  nelle  sue
varie forme e alla semiliberta'». 
    L'omessa menzione della liberazione  anticipata  -  istituto  che
pure e' compreso nel Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975
- non e' certo dipesa dalla volonta' di differenziarne la natura o il
trattamento rispetto alle altre misure alternative. Semplicemente, in
quel caso,  era  in  valutazione  la  compatibilita'  costituzionale,
rispetto a fatti  antecedenti,  degli  effetti  preclusivi  derivanti
dall'inserimento di nuove fattispecie nell'elenco dei reati  ostativi
alla concessione delle «misure alternative alla detenzione»,  attuato
mediante l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9  gennaio  2019,
n.  3  (Misure  per  il  contrasto  dei  reati  contro  la   pubblica
amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del  reato  e  in
materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), di modifica
dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., cioe'  di  una  disposizione
che espressamente esclude la liberazione anticipata  dal  novero  dei
benefici interessati dal regime preclusivo. 
    E' certo vero che, nell'ambito della stessa sentenza  n.  32  del
2020, questa Corte ha valutato misure ulteriori, non  comprese  nella
disciplina preclusiva posta dal comma 1 dell'art. 4-bis ordin. penit.
Ma si trattava, non a caso, di istituti espressamente parificati  nel
trattamento a quelli elencati nella norma appena citata. E' cosi' per
la  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  della  pena  detentiva,
disciplinata dal comma  5  dell'art.  656  del  codice  di  procedura
penale, che non puo' essere disposta in favore dei condannati  per  i
delitti di cui all'art. 4-bis ordin.  penit.  (comma  9,  lettera  a,
dello  stesso  articolo).  Ed  e'  cosi'  quanto   alla   liberazione
condizionale, per la cui applicazione sono disposti gli stessi limiti
fissati  -  sempre  dall'art.  4-bis  -  con  riguardo  alle   misure
alternative regolate dalla legge di ordinamento  penitenziario  (art.
2, comma 1,  del  decreto-legge  13  maggio  1991,  n.  152,  recante
«Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
e di trasparenza e  buon  andamento  dell'attivita'  amministrativa»,
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203). 
    E' palese, peraltro, la comunanza di natura, sotto il profilo che
qui rileva, tra la liberazione anticipata e gli istituti che  valgono
a evitare l'ingresso in carcere o da esso comportano un'uscita  prima
del momento previsto  dalla  pena  inflitta  in  sede  di  cognizione
(com'e' proprio, in particolare, della liberazione condizionale).  In
tutti questi casi, eventuali modifiche normative in peius, successive
alla commissione del fatto di reato,  comportano,  per  ciascuno  dei
destinatari,  il  rischio  di   un   prolungamento   della   sanzione
"carceraria" rispetto alle prospettive valutabili  sulla  base  della
legge vigente al momento della condotta  criminosa:  con  conseguente
impossibilita',  alla  luce  dell'art.  25,  secondo  comma,   Cost.,
dell'applicazione retroattiva della relativa disciplina. 
    Nella sentenza n. 32 del 2020, dalle premesse indicate, e'  cosi'
derivata la dichiarazione di illegittimita' costituzionale  dell'art.
1, comma 6, lettera  b),  della  legge  n.  3  del  2019,  in  quanto
interpretato nel  senso  che  le  modificazioni  introdotte  all'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. si applichino anche ai  condannati  che
abbiano commesso il fatto prima della novella, in  «riferimento  alla
disciplina delle misure  alternative  alla  detenzione  previste  dal
Titolo I, Capo VI, della legge n. 354  del  1975,  della  liberazione
condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale  e  del
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione  previsto  dall'art.
656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale». 
    Giova infine osservare, ai fini qui rilevanti, che il dispositivo
di tale sentenza, nell'operare un rinvio omnicomprensivo al  Capo  VI
della  legge  sull'ordinamento  penitenziario,  non   indica   alcuna
eccezione, utile a dedurre che la liberazione anticipata debba essere
esclusa dalla ratio decidendi che regge la pronuncia. 
    5.- Quale istituto che  rientra  tra  le  misure  di  ordinamento
penitenziario suscettibili  di  provocare  una  trasformazione  della
natura della pena, e della  sua  concreta  incidenza  sulla  liberta'
personale  del  condannato,  la  liberazione  anticipata  e'   dunque
soggetta alla disciplina consacrata nel secondo  comma  dell'art.  25
Cost. 
    Ne  consegue  che,  nel  caso  di  specie,  all'adozione  di  una
pronuncia di accoglimento da parte di questa Corte osta non gia'  una
ragione meramente processuale - l'irrilevanza  della  questione,  nel
senso  che  una  tale  pronuncia  non   potrebbe   comunque   trovare
applicazione nel  giudizio  a  quo  -  ma  una  ragione  sostanziale,
strettamente connessa al principio della riserva di legge sancito dal
medesimo art. 25, secondo comma, Cost. 
    La disposizione costituzionale in parola  demanda  il  potere  di
normazione  in  materia  penale,  in  quanto  incidente  sui  diritti
fondamentali  dell'individuo  (e,  in  particolare,  sulla   liberta'
personale), a una legge di diretta matrice parlamentare, oppure a  un
atto  avente  forza  di  legge,  comunque   connesso   all'intervento
parlamentare, giacche' proprio al «soggetto-Parlamento» (sentenze  n.
5 del 2014, n. 394 del 2006), che incarna la rappresentanza  politica
della Nazione (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989),  spettano
le  scelte  di  politica   criminale,   con   i   relativi   delicati
bilanciamenti tra diritti e interessi contrapposti. 
    Come   del   resto   chiarisce   una   costante    giurisprudenza
costituzionale (tra le molte, sentenze n. 46 del 2014 e,  ancora,  n.
394 del 2006), questo principio impedisce alla  Corte  costituzionale
sia di creare nuove  fattispecie  criminose  o  di  estendere  quelle
esistenti a casi  non  previsti,  sia  di  incidere  in  peius  sulla
risposta punitiva o su aspetti comunque  attinenti  alla  punibilita'
(di recente, ex multis, sentenza n. 37 del 2019; ordinanze n. 219 del
2020, n. 282 e n. 59  del  2019),  salve  specifiche  eccezioni,  che
assicurano  la  dovuta  ampiezza  del   controllo   di   legittimita'
costituzionale, ma non vulnerano il  principio  costituzionale  della
riserva di legge (tra le piu' recenti, sentenze n. 189 e n.  155  del
2019). 
    Sicche', una volta  stabilito  che  anche  le  norme  concernenti
variazioni in peius del trattamento in fase di esecuzione della  pena
possono  attenere  alla  "sostanza"  della  sanzione   penale,   deve
riconoscersi che tali norme - senza  effetto  retroattivo  -  possono
essere adottate unicamente mediante il ricorso alla  legge  in  senso
formale, o agli  atti  aventi  forza  di  legge.  Per  quel  che  qui
direttamente rileva, non possono percio' derivare  da  interventi  di
questa Corte. 
    Saranno naturalmente riferibili anche alla materia  in  esame  le
eccezioni  al  divieto  di  interventi  in  malam  partem,   che   la
giurisprudenza costituzionale ha progressivamente individuato,  nella
prospettiva  di  superare  l'esistenza,  nell'ordinamento,  di  "zone
franche" dal controllo di legittimita' costituzionale. Percio', anche
in quanto sollevate in relazione  alle  disposizioni  di  ordinamento
penitenziario dotate delle specifiche qualita' ora in esame, non sono
in principio inammissibili questioni di  legittimita'  costituzionale
incentrate  sull'asserita  irregolarita'  del  loro  procedimento  di
produzione (in relazione alle norme penali, ex  multis,  sentenze  n.
189 e n. 37 del  2019),  cosi'  come  non  sussistono  ostacoli  alla
sindacabilita', anche nel settore dell'ordinamento penitenziario,  di
"norme di favore" (analogamente, ex multis, sentenze n. 155 e  n.  40
del 2019) e di  norme  che  contravvengono  ad  obblighi  di  matrice
sovranazionale (sentenza n. n. 37 del 2019 e  ordinanza  n.  219  del
2020). 
    L'ammissibilita' di questioni del genere,  sotto  il  particolare
profilo della rilevanza, deriverebbe, anche riguardo alla materia  in
esame, dai rilievi che questa Corte ha da tempo sviluppato, a partire
dalla sentenza n.  148  del  1983,  nel  trattare  dei  rapporti  tra
decisioni in malam partem e concreta applicabilita' della  disciplina
di risulta nell'ambito del giudizio principale. 
    6.- Alla luce di tutto  quanto  detto,  emerge  con  nettezza  la
soluzione delle questioni sollevate nel presente caso. 
    La  disciplina  della  liberazione  anticipata  e'  istituto  del
diritto penitenziario riconducibile alla dimensione  sostanziale  del
trattamento punitivo, poiche' incide direttamente sulla durata  della
pena  detentiva,  e  la  riduce  in  misura  rilevante,   comportando
un'anticipata scarcerazione del condannato ammesso ad avvalersene. La
stessa conclusione vale con riferimento alla disciplina della  revoca
del beneficio,  che,  finanche  dopo  l'effettiva  liberazione,  puo'
trasformare  in  un  prolungamento  dell'esecuzione   carceraria   la
condizione  di  liberta'  conseguita,  in  precedenza,  mediante   la
concessione del beneficio stesso. 
    Mentre sarebbe concepibile un  intervento  legislativo  volto  ad
ampliare il novero dei casi di revoca della liberazione anticipata  -
salvi i  limiti  imposti  allo  stesso  legislatore  dal  divieto  di
applicazione retroattiva di una disposizione  con  effetti  deteriori
sul  trattamento  punitivo  -  altrettanto   non   puo'   dirsi   per
l'intervento additivo di questa Corte, che l'ordinanza di  rimessione
in esame sollecita.