ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  20  del
decreto del Presidente  della  Repubblica  26  aprile  1986,  n.  131
(Approvazione  del  testo  unico   delle   disposizioni   concernenti
l'imposta di  registro),  come  modificato  dall'art.  1,  comma  87,
lettera a), numeri 1) e 2), della legge  27  dicembre  2017,  n.  205
(Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno  finanziario  2018  e
bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), e dell'art. 1, comma
1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145  (Bilancio  di  previsione
dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il
triennio   2019-2021),   promosso   dalla   Commissione    tributaria
provinciale di Bologna nel procedimento vertente tra la Pag Italy srl
e altri e l'Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Bologna,
con ordinanza del 13 novembre 2019, iscritta al n.  62  del  registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti l'atto di costituzione della Pag Italy srl, nonche'  l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  9  febbraio  2021  il  Giudice
relatore Luca Antonini; 
    uditi l'avvocato Paolo Biavati per la Pag Italy srl e  l'avvocato
dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei
ministri, in collegamento da  remoto,  ai  sensi  del  punto  1)  del
decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Commissione tributaria provinciale di Bologna (di seguito:
CTP), con ordinanza del 13 novembre 2019 (reg. ord. n. 62 del  2020),
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale: 
    a) in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dell'art.
20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione  del  testo  unico
delle  disposizioni  concernenti  l'imposta   di   registro),   «come
risultante dall'intervento apportato» dall'art. 1, comma 87,  lettera
a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2018  e  bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020), «nella parte in  cui  dispone
che, nell'applicare  l'imposta  di  registro  secondo  la  intrinseca
natura  e   gli   effetti   giuridici   dell'atto   presentato   alla
registrazione, anche se non vi  corrisponda  il  titolo  o  la  forma
apparente, si  debbano  prendere  in  considerazione  unicamente  gli
elementi  desumibili  dall'atto  stesso,  "prescindendo   da   quelli
extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo  quanto  disposto
dagli articoli successivi"»; 
    b) in subordine, in riferimento agli «artt. 3,  81  (e  97),  101
(nonche' 102 e 108), 24 Cost.», dell'art. 1, comma 1084, della  legge
30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio  di  previsione  dello  Stato  per
l'anno finanziario  2019  e  bilancio  pluriennale  per  il  triennio
2019-2021), in forza del quale il citato art. 1,  comma  87,  lettera
a),  della  legge  n.  205  del  2017  «costituisce   interpretazione
autentica» del censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986. 
    1.1.- Il rimettente riferisce che le  questioni  sono  sorte  nel
corso di sei giudizi riuniti originati da autonomi ricorsi con cui le
societa' Pag Italy srl, Immobiliare 37  spa,  Immobiliare  36  spa  e
Immobiliare 38 spa hanno impugnato distinti  avvisi  di  liquidazione
per il recupero dell'imposta proporzionale  di  registro,  aventi  ad
oggetto   la   riqualificazione   come   cessione   di   azienda    -
riqualificazione effettuata dall'ente impositore ai  sensi  dell'art.
20 del d.P.R. n. 131 del 1986 - di atti «di conferimento di  ramo  di
azienda  e  successiva  cessione  di   partecipazioni   totalitarie»,
rogitati nel 2016 e registrati con imposta in misura fissa. 
    Il giudice a quo precisa che: a)  le  societa'  ricorrenti  hanno
articolato i medesimi motivi di gravame;  b)  la  costituita  Agenzia
delle entrate ha chiesto  l'integrale  rigetto  dei  ricorsi;  c)  le
suddette  societa',  con  successive  memorie   illustrative,   hanno
invocato,   a   ulteriore    sostegno    dell'illegittimita'    della
riqualificazione operata dall'Ufficio fiscale, lo ius superveniens di
cui al citato art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018. 
    Cio' premesso il rimettente: a) afferma che la pretesa impositiva
in contestazione nel giudizio principale si  fonda  sull'applicazione
dell'art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986; b) ricorda che la previgente
formulazione di tale norma, ai  sensi  della  quale  «[l]'imposta  e'
applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici  degli
atti presentati alla registrazione, anche se non  vi  corrisponda  il
titolo o la forma apparente», e' stata «per lungo  tempo  oggetto  di
dibattito» nella giurisprudenza  di  legittimita',  che  «nell'ultimo
decennio» si e' consolidata nel senso  di  attribuire  prevalenza  al
«dato giuridico reale» anche attraverso la riqualificazione  di  piu'
atti tra loro collegati; c) precisa che, per effetto del citato  art.
1, comma 87, lettera a), della legge n.  205  del  2017,  «l'area  di
operativita' del [menzionato] art. 20 tur [...]  risulta  ristretta»;
d) ribadisce che, quanto al «tema della  decorrenza  temporale  della
novella», il legislatore e' da ultimo intervenuto con il gia'  citato
art. 1, comma 1084, della legge  n.  145  del  2018,  stabilendo  che
«[l]'articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre  2017,
n. 205, costituisce interpretazione autentica dell'articolo 20, comma
1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della  Repubblica
26 aprile 1986, n. 131», cosi' attribuendogli efficacia retroattiva. 
    1.2.- Quanto alla rilevanza, il rimettente, dopo aver  illustrato
le ragioni di infondatezza delle censure diverse da  quelle  relative
all'interpretazione del menzionato  art.  20,  conclude  che  non  e'
possibile decidere la  controversia  senza  fare  applicazione  delle
norme denunciate, in quanto retroattive. 
    1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, la CTP  assume,  in
via principale, che l'art. 20 del d.P.R. n. 131 del  1986  violerebbe
gli artt. 3 e 53 Cost. 
    Dopo aver premesso di prospettare le  questioni  di  legittimita'
costituzionale richiamando i motivi  gia'  indicati  dalla  Corte  di
cassazione, sezione tributaria, nell'ordinanza di rimessione  del  23
settembre 2019, n. 23549 (iscritta al n. 212 del  registro  ordinanze
del 2019), il giudice a quo  osserva  che  «[l]a  riforma  del  2017»
avrebbe ridotto «la possibilita' di interpretare il negozio giuridico
da tassare entro limiti  asfittici».  In  tal  modo,  il  legislatore
avrebbe impedito di tenere conto della  capacita'  contributiva,  che
invece  emergerebbe  dalla  semplice   applicazione   delle   «regole
interpretative civilistiche», idonee ad apprezzare  l'atto-negozio  e
non solo l'atto-documento. 
    Sebbene   al    legislatore    sia    consentito,    nella    sua
discrezionalita',  di  disciplinare  in  maniera  diversa  situazioni
differenti, il suo agire - secondo il rimettente  -  dovrebbe  essere
finalizzato a realizzare una «giustizia fiscale», la quale imporrebbe
«una coerenza interna alla legge tributaria; nonche' una coerenza  di
questa con il sistema giuridico nel suo complesso». 
    Da  cio'  discenderebbe  l'«ormai  consolidato  principio   della
"indisponibilita'   della   qualificazione   contrattuale   ai   fini
fiscali"», per effetto del quale, pur  nel  rispetto  della  liberta'
contrattuale dei privati (art. 1322 del codice civile),  l'attuazione
del canone della capacita' contributiva non potrebbe che «prescindere
da qualsivoglia dichiarazione negoziale,  richiedendo  esclusivamente
la misurazione del reale movimento di ricchezza». 
    1.4.- Ove  le  questioni  sollevate  in  via  principale  fossero
dichiarate non fondate, il rimettente prospetta in  via  subordinata,
in riferimento agli «artt. 3, 81 (e 97), 101 (nonche' 102 e 108),  24
Cost.», l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  1084,
della  legge  n.  145  del  2018,  che  qualifica   come   norma   di
interpretazione autentica l'art. 1, comma 87, lettera a), della legge
n. 205 del 2017. 
    La CTP, dopo aver premesso che «[i]l  fenomeno  di  creazione  di
norme effettivamente innovative mascherate  da  norme  interpretative
con  efficacia  retroattiva  non  e'  questione  decisiva   ai   fini
dell'incostituzionalita' delle stesse», a  condizione  pero'  che  la
retroattivita'  trovi  adeguata  giustificazione  sul   piano   della
ragionevolezza e non  si  ponga  in  contrasto  con  altri  valori  o
interessi costituzionalmente protetti, sostiene che il citato art. 1,
comma 1084, della legge n. 145  del  2018  violerebbe,  innanzitutto,
l'art. 3 Cost. per tre profili di irragionevolezza. 
    Il primo atterrebbe innanzitutto alla mancanza di un «persistente
contrasto  interpretativo»  da  risolvere  «in   nome   del   supremo
principio, nazionale e  sovranazionale,  di  certezza  del  diritto»:
infatti  la  giurisprudenza  di  legittimita'  avrebbe,   «pressoche'
unanimemente», affermato la natura innovativa  e  non  interpretativa
dell'intervento legislativo del 2017 (sono citate le  sentenze  della
Corte di cassazione, sezione quinta civile, 26 gennaio 2018, n. 2007;
23 febbraio 2018, n. 4407; 28 febbraio 2018,  n.  4589;  28  febbraio
2018 n. 4590; 28 marzo 2018, n. 7637; 8  giugno  2018,  n.  14999;  9
gennaio 2019, n. 362). 
    Inoltre,  prima  del  suddetto  intervento,  una  situazione   di
«certezza del diritto [...] poteva dirsi raggiunta  alla  luce  della
uniforme applicazione dell'art. 20 (vecchio  testo)  da  parte  della
giurisprudenza di legittimita'»; anziche' tutelare  detto  principio,
il   legislatore   avrebbe    invece    irragionevolmente    «forzato
l'applicazione» della riformulazione operata dall'art. 1,  comma  87,
lettera a), della legge n. 205 del 2017,  imponendola  a  fattispecie
poste in essere nel vigore del previgente 20 del d.P.R.  n.  131  del
1986. 
    Il secondo profilo di irragionevolezza, strettamente collegato al
precedente, riguarderebbe  la  non  «prevedibilita'  del  significato
precisato» dalla norma indubbiata, stante  -  sempre  ad  avviso  del
rimettente - il «carattere della novita'» dell'appena citato art.  1,
comma 87. 
    Il   terzo,   infine,   discenderebbe   dall'impossibilita'    di
giustificare la retroattivita' disposta dalla  norma  denunciata  con
«"motivi imperativi di interesse  generale"»,  secondo  il  principio
desumibile dall'art. 6 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto  1955,  n.  848,   «che   la   giurisprudenza   costituzionale
tradu[rrebbe] nell'ordinamento italiano  come  "tutela  di  principi,
diritti e beni di rilievo  costituzionale"»:  al  contrario,  proprio
l'intervento normativo del 2017 lederebbe i principi  di  parita'  di
trattamento e di capacita' contributiva di cui  agli  artt.  3  e  53
Cost. 
    La disposizione censurata recherebbe,  inoltre,  un  vulnus  agli
artt. 81 e 97 Cost., sotto il  profilo  del  «fondamentale  principio
dell'equilibrio di bilancio». 
    L'imposizione della retroattivita' priverebbe infatti,  a  parere
del giudice a quo, «l'erario [...] di diritti  che  [sarebbero]  gia'
acquisiti all'erario stesso, sia pure in nuce»,  con  un  conseguente
squilibrio  di  bilancio  e  una  perdita   di   risorse   economiche
«necessarie  ad  assicurare  l'osservanza  dei  vincoli  economici  e
finanziari derivanti dall'Unione Europea». 
    Sarebbero altresi' lesi gli artt. 101, 102 e 108 Cost., in quanto
«[p]ur  se  la  questione  della  sussistenza  di  una   riserva   di
giurisdizione  e'  tema  controvertibile  (e  denso  di  implicazioni
dogmatiche e politiche), non vi e' dubbio che, nel caso di specie, il
legislatore [sarebbe intervenuto] "a pie' pari", per interpretare una
norma, in senso radicalmente difforme rispetto  alla  interpretazione
unanime della giurisprudenza». 
    Risulterebbe, infine, violato l'art. 24 Cost., poiche' l'art.  1,
comma 1084, della legge n. 145 del 2018 menomerebbe  l'Agenzia  delle
entrate nel diritto di difendersi «secondo  la  legislazione  su  cui
aveva impostato la propria costituzione con le controdeduzioni». 
    Successivamente  al  deposito  dell'ordinanza  di  rimessione  il
medesimo Collegio  della  CTP  di  Bologna  ha  emesso  ordinanza  di
correzione «di errore materiale, sia pure per omissione» al  fine  di
precisare che, nel dispositivo, la seconda questione di legittimita',
ivi genericamente indicata, era da riferirsi «all'art. 1, comma 1084,
della legge n. 145 del 2018». 
    2.- Con atto depositato il 12 giugno 2020, si  e'  costituita  la
Pag Italy srl, chiedendo che tutte le questioni siano dichiarate  non
fondate. 
    2.1.- La societa' ritiene che la censura rivolta all'art. 20  del
d.P.R. n. 131 del 1986, come risultante dall'intervento normativo del
2017, si risolverebbe «in realta',  in  una  critica  di  merito  nei
confronti della scelta del legislatore»,  senza  tenere  conto  delle
specifiche finalita' dell'imposta di registro in rapporto alle  quali
tale scelta andrebbe invece valutata. La tesi giurisprudenziale della
"prevalenza   della   sostanza   sulla   forma"   sarebbe,   infatti,
condivisibile solo se rapportata al singolo atto, comportando invece,
ove si sia al cospetto di elementi extratestuali o di atti collegati,
un inammissibile  controllo  dell'amministrazione  finanziaria  sulle
opzioni del contribuente. Del resto,  proprio  la  specialita'  delle
norme tributarie renderebbe legittimo il riferimento unicamente  agli
elementi intrinseci dell'atto, senza che assumano rilievo  le  «norme
civilistiche  che   regolano   l'interpretazione   contrattuale   fra
privati». 
    2.2.- Ad avviso della  Pag  Italy  srl,  anche  le  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1084, della  legge  n.
145 del 2018 sarebbero non fondate. 
    In particolare, quanto alla prospettata violazione delle norme in
tema di riserva di giurisdizione e, in specie, degli artt. 101, 102 e
108 Cost., la societa'  innanzitutto  rileva  che,  contrariamente  a
quanto asserito dal rimettente, prima dell'entrata  in  vigore  della
norma censurata  una  parte  della  giurisprudenza  di  merito  aveva
riconosciuto natura di interpretazione autentica  all'art.  1,  comma
87, lettera a), della legge  n.  205  del  2017  e  che  «neppure  la
Cassazione par[rebbe] totalmente granitica». Cio' premesso, la  parte
privata precisa che «[i]n ogni caso»  sarebbero  legittime  le  norme
dirette  a   smentire   «orientamenti,   anche   consolidati,   dalla
giurisprudenza», poiche', nel quadro costituzionale di un ordinamento
democratico,  «la  volonta'  del  Parlamento,  eletto  dal   popolo»,
dovrebbe prevalere su quella del potere giudiziario, «che e' chiamato
ad applicare e non a porre le norme». 
    In questa prospettiva non sarebbe fondata  neppure  la  doglianza
inerente  alla  lesione   del   principio   di   ragionevolezza:   il
legislatore, «qualora reputi che la giurisprudenza stia svuotando  di
contenuto una norma, limitandone l'applicazione ai casi futuri e  non
anche a quelli pendenti», ben potrebbe  intervenire  richiamando  «il
potere giudiziario ad una lettura della norma, conforme a cio' che il
Parlamento ha voluto». 
    Infine,  non  sarebbe  condivisibile   nemmeno   la   prospettata
violazione  dell'art.   24   Cost.,   in   quanto   «[s]emplicemente»
l'amministrazione finanziaria  avrebbe  errato  nell'interpretare  il
censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986. 
    3.- Con atto depositato il 30  giugno  2020,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili  o  comunque  manifestamente
infondate. 
    3.1.-    La    difesa    statale    eccepisce     preliminarmente
l'inammissibilita' delle questioni aventi a  oggetto  l'art.  20  del
d.P.R. n. 131 del 1986,  perche'  il  rimettente  avrebbe  del  tutto
omesso  di  sperimentare  la   possibilita'   di   un'interpretazione
costituzionalmente conforme della norma censurata. 
    Al riguardo, l'Avvocatura generale osserva  che,  con  l'art.  1,
comma 87, lettera a), della legge n. 205  del  2017,  il  legislatore
avrebbe voluto  «radicalmente  escludere  [...]  che  l'attivita'  di
interpretazione disciplinata dall'art. 20 del D.P.R. 131/1986 venisse
utilizzata per valutare ipotesi di collegamenti  negoziali  rilevanti
in termini di abuso del diritto», confermando tuttavia  il  principio
della prevalenza della sostanza sulla forma insito nella formulazione
originaria. 
    Del resto, proprio il mantenimento inalterato della «proposizione
reggente dell'intera disposizione» (per cui  l'imposta  e'  applicata
secondo la  intrinseca  natura  e  gli  effetti  giuridici  dell'atto
presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il  titolo
o la forma apparente) e l'art. 1, comma 1084, della legge n. 145  del
2018, con cui il legislatore ha precisato  la  natura  interpretativa
della  precedente  modifica,  avvalorerebbero  la   possibilita'   di
un'interpretazione costituzionalmente orientata del citato  art.  20,
conforme agli artt. 3 e 53 Cost. E infatti, in esito a  un  «adeguato
bilanciamento semantico» tra la prima e  la  seconda  parte  di  tale
norma,  il  divieto  di  prendere  in  considerazione  gli   elementi
extratestuali e gli atti collegati  dovrebbe  essere  circoscritto  a
quelli  estranei  «ad   un   programma   negoziale   che   risultasse
obiettivamente unitario, si' da importarne l'esclusione dal  concetto
di "atto"». 
    3.2.-  Nel  merito,  la  difesa  statale  esamina   unitariamente
entrambe le censure e ribadisce che gli interventi normativi del 2017
e del 2018 non avrebbero modificato la ratio originaria dell'art.  20
del d.P.R. n. 131 del 1986. 
    Secondo  l'Avvocatura  generale,  infatti,  nell'intenzione   del
legislatore del 2017  «il  collegamento  negoziale  volontario  [...]
risult[erebbe] rilevante ai fini dell'imposta di registro,  salvo  le
ipotesi espressamente previste,  solo  nell'ambito  dell'accertamento
antielusivo» di cui all'art. 10-bis della legge 27  luglio  2000,  n.
212  (Disposizioni  in   materia   di   statuto   dei   diritti   del
contribuente). Con riferimento  agli  atti  collegati,  pertanto,  il
principio  di  prevalenza  della   sostanza   sulla   forma   sarebbe
salvaguardato non gia' attraverso un'estensiva applicazione dell'art.
20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ma mediante  il  citato  art.  10-bis,
espressamente richiamato dall'art. 53-bis del medesimo d.P.R. n.  131
del 1986, che impone la prova dell'abuso del  diritto  a  prescindere
dalla qualificazione formale dell'atto. 
    Alla luce di questa interpretazione  -  nella  prospettiva  della
difesa statale - l'art. 1, comma 1084, della legge n.  145  del  2018
avrebbe confermato che l'art. 1, comma 87, lettera a), della legge n.
205 del 2017 costituirebbe «interpretazione autentica»  dell'art.  20
del d.P.R. n. 131 del 1986, coerente con la struttura dell'imposta  e
il suo presupposto. La difesa dello Stato da' inoltre conto che sulla
natura interpretativa di queste norme  si  erano  registrate  «talune
incertezze» e che, in particolare, la giurisprudenza della  Corte  di
cassazione -  sulla  base  degli  stessi  presupposti  interpretativi
dell'odierno rimettente - aveva affermato la  natura  innovativa  del
citato art. 1,  comma  87,  lettera  a).  Al  riguardo,  l'Avvocatura
generale   ritiene    che,    conformemente    alla    giurisprudenza
costituzionale, «[a]l  di  la'  dell'auto-qualificazione»,  le  norme
scrutinate avrebbero «realmente l'obiettivo di chiarire il  senso  di
disposizioni preesistenti, ovvero di escludere o di enucleare uno dei
sensi  fra  quelli  ritenuti   ragionevolmente   riconducibili   alla
disposizione». 
    D'altra parte, secondo la difesa  dello  Stato,  i  limiti  della
palese arbitrarieta'  e  della  manifesta  irragionevolezza,  che  la
giurisprudenza di questa Corte ha piu' volte affermato rispetto  alla
discrezionalita' di cui gode il legislatore nella determinazione  dei
singoli fatti espressivi della capacita' contributiva, non  sarebbero
stati,  in  questo  caso,  travalicati.  La  coerenza   del   sistema
impositivo, infatti, sarebbe  «comunque  adeguatamente  tutelata  dal
confermato principio di prevalenza della sostanza sulla forma [...] e
dalla prevista possibilita' di applicare l'art. 10-bis dello  Statuto
del Contribuente» in funzione antiabusiva. 
    4.-  Infine,  l'Associazione  nazionale  tributaristi   italiani,
sezione  Lombardia  (di  seguito:  ANTI  Lombardia)   ha   presentato
un'opinione scritta in qualita' di amicus curiae, ai sensi  dell'art.
4-ter delle Norme  integrative  per  i  giudizi  davanti  alla  Corte
costituzionale,   a   sostegno   dell'inammissibilita'   e   comunque
dell'infondatezza delle questioni. 
    Il Presidente della Corte costituzionale, rilevata la conformita'
dell'opinione ai criteri previsti dal citato art. 4-ter, l'ha ammessa
con decreto del 28 ottobre 2020. 
    In particolare, quanto all'art. 1, comma 1084, della legge n. 145
del   2018,   l'ANTI   Lombardia   ritiene    che    la    denunciata
irragionevolezza,  in  violazione  dell'art.  3  Cost.,  non  sarebbe
fondata poiche',  innanzitutto,  la  giurisprudenza  della  Corte  di
cassazione avrebbe chiarito che  nell'interpretazione  autentica  non
rileva «tanto e soltanto  la  necessita'  di  dipanare  un  contrasto
interpretativo», quanto,  invece,  la  volonta'  del  legislatore  di
attribuire una efficacia retroattiva. Secondo  la  giurisprudenza  di
questa Corte e della medesima Cassazione, tale potere del legislatore
di attribuire a una norma efficacia retroattiva non incontrerebbe  di
per se'  «limiti  di  fonte  costituzionale,  salvo  il  rispetto  di
principi generali»  che  il  rimettente  vorrebbe  individuare  negli
«artt. 24, 81, 101, 102 e 108 Cost.». 
    Tuttavia, ad avviso dell'amicus curiae, la questione  prospettata
in violazione degli artt. 101, 102 e 108 Cost. sarebbe  inammissibile
perche' «solamente menzionata e scarsamente intellegibile». 
    La medesima sorte dovrebbe seguire la  questione  della  presunta
violazione dell'art. 24 Cost., poiche' il rimettente  avrebbe  omesso
di motivare «in quale modo e in  che  proporzione»  tale  diritto  di
difesa  risulti  leso.  Tale  doglianza,  inoltre,  sarebbe  comunque
infondata poiche' le questioni interpretative prospettate dal giudice
a quo non  inciderebbero  sull'espletamento  dei  poteri  processuali
dell'ente impositore, quanto piuttosto di  quelli  amministrativi  di
accertamento del tributo «i quali, come noto, trovano luogo prima del
processo». 
    Infondata sarebbe, poi, la lamentata violazione dell'art. 6  CEDU
per  l'irragionevolezza  di  una  norma  retroattiva  priva   di   un
comprovato interesse generale. Osserva al riguardo  l'ANTI  Lombardia
che  la  tesi  del  rimettente   non   troverebbe   riscontro   nella
giurisprudenza sovranazionale ne' sotto  il  profilo  soggettivo,  in
quanto «le norme della CEDU sono  volte  a  tutelare  i  diritti  del
soggetto privato contro il potere dello Stato», ne' sotto il  profilo
oggettivo, in quanto - nella ricostruzione del rimettente stesso - la
norma denunciata diminuirebbe e non aumenterebbe il carico impositivo
del contribuente «ovvero del soggetto a  cui  favore  sono  poste  le
norme della CEDU». 
    Insussistente sarebbe, infine, il dedotto vulnus agli artt. 81  e
97 Cost., in  riferimento  alla  sostenibilita'  e  al  pareggio  del
bilancio, atteso che entrambe le  disposizioni  denunciate  avrebbero
ottenuto  sia  il  parere  favorevole  preventivo  della   Ragioneria
generale  dello  Stato,  sia  quello  successivo  della   Commissione
europea. 
    5.- In data 18 gennaio  2021  la  Pag  Italy  srl  ha  depositato
memoria. 
    La parte osserva che,  nelle  more  del  presente  giudizio,  con
sentenza n. 158 del 2020 questa Corte ha dichiarato  non  fondate  le
questioni di legittimita' costituzionale, sollevate  dalla  Corte  di
cassazione in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell'art.  20  del
d.P.R. n. 131 del  1986,  come  modificato  dall'art.  1,  comma  87,
lettera a), della legge n. 205 del 2017 e dall'art.  1,  comma  1084,
della legge n. 145  del  2018.  Ad  avviso  della  parte  privata  le
motivazioni  di  tale  pronuncia  deporrebbero   a   sostegno   della
dichiarazione di non  fondatezza  di  tutte  le  questioni  sollevate
dall'odierno rimettente, in quanto l'intervento del  legislatore  del
2018 sarebbe finalizzato a «favorire la certezza dell'ordinamento». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Commissione tributaria provinciale di Bologna (di seguito:
CTP), con ordinanza del 13 novembre 2019 (reg. ord. n. 62 del  2020),
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale: 
    a) in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dell'art.
20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione  del  testo  unico
delle  disposizioni  concernenti  l'imposta   di   registro),   «come
risultante dall'intervento apportato» dall'art. 1, comma 87,  lettera
a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2018  e  bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020), «nella parte in  cui  dispone
che, nell'applicare  l'imposta  di  registro  secondo  la  intrinseca
natura  e   gli   effetti   giuridici   dell'atto   presentato   alla
registrazione, anche se non vi  corrisponda  il  titolo  o  la  forma
apparente, si  debbano  prendere  in  considerazione  unicamente  gli
elementi  desumibili  dall'atto  stesso,  "prescindendo   da   quelli
extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo  quanto  disposto
dagli articoli successivi"»; 
    b) in subordine, in riferimento agli «artt. 3,  81  (e  97),  101
(nonche' 102 e 108), 24 Cost.», dell'art. 1, comma 1084, della  legge
30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio  di  previsione  dello  Stato  per
l'anno finanziario  2019  e  bilancio  pluriennale  per  il  triennio
2019-2021), in forza del quale il citato art. 1,  comma  87,  lettera
a),  della  legge  n.  205  del  2017  «costituisce   interpretazione
autentica» dell'art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986. 
    2.- Il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986  dispone  che
«[l]'imposta e' applicata secondo la intrinseca natura e gli  effetti
giuridici, dell'atto presentato alla registrazione, anche se  non  vi
corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi
desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e
dagli atti ad esso collegati, salvo quanto  disposto  dagli  articoli
successivi». 
    Il giudice a quo, con argomentazioni autonome, ma sostanzialmente
coincidenti con  quelle  a  suo  tempo  prospettate  dalla  Corte  di
cassazione,  sezione  tributaria  -  cui   espressamente   rinvia   -
nell'ordinanza  di  rimessione  del  23  settembre  2019,  n.   23549
(iscritta al n. 212 del registro ordinanze del 2019, le cui questioni
sono state decise, nelle more dell'odierno incidente, con sentenza n.
158 del 2020), ritiene che tale norma violi gli artt. 3 e 53 Cost. 
    Essa, infatti, ridurrebbe «la  possibilita'  di  interpretare  il
negozio giuridico da tassare entro limiti asfittici»,  inidonei  alla
«misurazione del reale movimento di ricchezza»,  ponendosi  cosi'  in
contrasto con il principio di capacita' contributiva, nonche' con  il
principio di uguaglianza,  che  imporrebbero  altresi'  una  coerenza
della legge tributaria «con il sistema giuridico nel suo complesso». 
    2.1.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  eccepito  preliminarmente  l'inammissibilita'  delle
questioni aventi ad oggetto l'art. 20 del d.P.R.  n.  131  del  1986,
perche' il rimettente avrebbe del tutto  omesso  di  sperimentare  la
possibilita' di un'interpretazione costituzionalmente conforme  della
norma censurata. 
    L'eccezione e' manifestamente infondata. 
    L'Avvocatura generale non  considera,  infatti,  che  dal  tenore
complessivo  dell'ordinanza  emerge  un'adeguata  motivazione   circa
l'impraticabilita'    di    un'interpretazione     costituzionalmente
orientata; si tratta, peraltro, di un'eccezione gia'  spiegata  dalla
stessa difesa statale in termini identici a proposito delle questioni
sollevate dalla Corte di cassazione con la sopra citata ordinanza  di
rimessione  e  gia'  dichiarata  manifestamente  infondata  sotto  il
profilo che la verifica dell'esistenza e della legittimita'  di  tale
ulteriore interpretazione e' questione che attiene  al  merito  della
controversia e non alla sua ammissibilita' (sentenza n. 158 del 2020,
punto 4 del Considerato in diritto). 
    2.2.- Nel merito, le questioni  inerenti  alla  violazione  degli
artt. 3 e 53 Cost. sono manifestamente infondate,  poiche'  prive  di
argomenti sostanzialmente nuovi rispetto a quelle gia' sollevate  con
la menzionata ordinanza del giudice di legittimita' e dichiarate  non
fondate con sentenza n. 158 del 2020. 
    In tale  pronuncia  questa  Corte  ha  infatti  concluso  che  il
censurato art. 20 del  d.P.R.  n.  131  del  1986  «non  si  pone  in
contrasto ne' con il principio di  capacita'  contributiva,  ne'  con
quelli di ragionevolezza ed eguaglianza tributaria,  con  conseguente
non fondatezza delle sollevate questioni». In particolare,  al  punto
5.2.3.  del  Considerato  in  diritto,  si  e'  affermato  che  «tali
parametri [...] sul piano della legittimita'  costituzionale  non  si
oppongono in modo assoluto a una diversa  concretizzazione  da  parte
legislatore   dei   principi    di    capacita'    contributiva    e,
conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che  sia  diretta  (come
stabilito  dalla  norma  censurata)  a  identificare  i   presupposti
impositivi  nei  soli  effetti  giuridici  desumibili   dal   negozio
contenuto nell'atto presentato  per  la  registrazione,  senza  alcun
rilievo di elementi tratti  aliunde,  "salvo  quanto  disposto  dagli
articoli successivi" dello stesso  testo  unico.  In  tal  modo,  del
resto,  il  criterio  di  qualificazione  e  di  sussunzione  in  via
interpretativa risulta omogeneo a quello della tipizzazione,  secondo
le regole del testo unico e in ragione degli  effetti  giuridici  dei
singoli atti distintamente individuati dal legislatore nelle relative
voci di tariffa ad esso allegata». 
    3.- Avuto riguardo alle questioni formulate in  via  subordinata,
il rimettente dubita della legittimita' costituzionale  dell'art.  1,
comma 1084, della legge n. 145 del 2018 in quanto il legislatore, nel
disporre che l'art. 1, comma 87, lettera a), della legge n.  205  del
2017 «costituisce interpretazione autentica» dell'art. 20 del  d.P.R.
n. 131 del 1986, avrebbe in  realta'  imposto  la  retroattivita'  di
quest'ultima norma «nella sua nuova ridotta portata»,  in  violazione
di plurimi parametri costituzionali. 
    3.1.- In particolare, il giudice a  quo,  dopo  aver  escluso  in
premessa - sulla scorta della consolidata  giurisprudenza  di  questa
Corte - la decisivita'  della  distinzione  tra  norme  innovative  o
interpretative ai fini del  vaglio  di  legittimita'  costituzionale,
ritiene  tuttavia  che  il  censurato  art.  1,  comma  1084,  violi,
innanzitutto, l'art. 3 Cost. per tre profili di irragionevolezza. 
    Il primo atterrebbe alla mancanza di  un  «persistente  contrasto
interpretativo»  da  risolvere  «in  nome  del   supremo   principio,
nazionale e sovranazionale, di certezza del diritto»,  in  quanto  la
giurisprudenza di legittimita'  avrebbe,  «pressoche'  unanimemente»,
affermato la natura innovativa e non  interpretativa  dell'intervento
legislativo  del  2017  (sono  citate  le  sentenze  della  Corte  di
cassazione, sezione quinta civile,  26  gennaio  2018,  n.  2007;  23
febbraio 2018, n. 4407; 28 febbraio 2018, n. 4589; 28 febbraio  2018,
n. 4590; 28 marzo 2018, n. 7637; 8 giugno 2018, n. 14999;  9  gennaio
2019, n. 362). Inoltre, poiche' prima del  suddetto  intervento,  una
situazione di «certezza del diritto»  «poteva  dirsi  raggiunta  alla
luce della uniforme applicazione dell'art. 20 tur (vecchio testo)  da
parte della giurisprudenza di legittimita'», il legislatore, anziche'
tutelare detto principio, avrebbe in realta' «forzato l'applicazione»
della riformulazione operata dall'art. 1, comma 87, lettera a), della
legge n. 205 del 2017, imponendola a fattispecie poste in essere  nel
vigore del previgente art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986. 
    Il secondo profilo di irragionevolezza, strettamente collegato al
precedente, riguarderebbe  la  non  «prevedibilita'  del  significato
precisato» dalla norma indubbiata, stante - ad avviso del  rimettente
- il «carattere della novita'» dell'appena citato art. 1, comma 87. 
    Il   terzo,   infine,   discenderebbe   dall'impossibilita'    di
giustificare la retroattivita'  disposta  dall'art.  1,  comma  1084,
della legge n. 145 del 2018,  con  «motivi  imperativi  di  interesse
generale»,  secondo  il  principio  desumibile  dall'art.   6   della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, «che  la
giurisprudenza costituzionale tradu[rrebbe] nell'ordinamento italiano
come "tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale"»;
al contrario, proprio l'intervento normativo  del  2017  lederebbe  i
principi di parita' di trattamento e di capacita' contributiva di cui
agli artt. 3 e 53 Cost. 
    La disposizione censurata recherebbe,  inoltre,  un  vulnus  agli
artt. 81 e 97 Cost., sotto il  profilo  del  «fondamentale  principio
dell'equilibrio di bilancio». 
    L'imposizione della retroattivita' priverebbe infatti,  a  parere
del giudice a quo, «l'erario [...] di diritti  che  [sarebbero]  gia'
acquisiti all'erario stesso, sia pure in nuce»,  con  un  conseguente
squilibrio  di  bilancio  e  una  perdita   di   risorse   economiche
«necessarie  ad  assicurare  l'osservanza  dei  vincoli  economici  e
finanziari derivanti dall'Unione Europea». 
    Sarebbero altresi' lesi, secondo il rimettente,  gli  artt.  101,
102 e 108 Cost., in quanto «[p]ur se la questione  della  sussistenza
di una riserva di giurisdizione e' tema controvertibile (e  denso  di
implicazioni dogmatiche e politiche), non vi e' dubbio che, nel  caso
di specie, il legislatore [sarebbe intervenuto] "a  pie'  pari",  per
interpretare una norma, in senso radicalmente difforme rispetto  alla
interpretazione unanime della giurisprudenza». 
    Risulterebbe, infine, violato l'art. 24 Cost., poiche' l'art.  1,
comma 1084, della legge n. 145 del 2018 menomerebbe  l'Agenzia  delle
entrate nel diritto di difendersi «secondo  la  legislazione  su  cui
aveva impostato la propria costituzione con le controdeduzioni». 
    3.2.- Le questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost.  non
sono fondate. 
    3.2.1.-   Al   fine   di   inquadrarle   correttamente,   occorre
innanzitutto soffermarsi sulla natura della norma censurata (art.  1,
comma  1084,  della  legge  n.  145  del   2018),   che   stabilisce:
«[l]'articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre  2017,
n. 205, costituisce interpretazione autentica dell'articolo 20, comma
1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della  Repubblica
26 aprile 1986, n. 131». 
    Si tratta a ben vedere di una  peculiare  vicenda  normativa:  la
suddetta  disposizione,  infatti,  introdotta   nel   2018   con   il
maxiemendamento alla legge di bilancio, non detta direttamente,  come
spesso avviene, un contenuto che viene definito  dalla  stessa  quale
interpretazione autentica  di  una  precedente  disciplina.  Essa  e'
invece rivolta a definire, esplicitandola con la forza  della  legge,
la natura di un pregresso intervento legislativo,  quello  del  2017,
che  non  si  era  auto-qualificato,  affermandone  il  carattere  di
interpretazione autentica e di conseguenza determinandone l'efficacia
retroattiva. 
    Ne discende che,  in  questo  caso,  ai  fini  del  sindacato  di
costituzionalita' e' opportuno preliminarmente misurarsi non  con  la
norma del 2018, ma con quella del 2017. 
    Una volta assunta questa prospettiva, va ulteriormente  precisato
che non diventa pero' dirimente stabilire  se  la  novella  del  2017
abbia carattere innovativo  o  interpretativo:  questione,  peraltro,
sulla  quale  la  dottrina  si  e'  divisa;  la   giurisprudenza   di
legittimita', come ricordato dal rimettente, ha optato (anteriormente
all'intervento del 2018) per la prima soluzione; parte di  quella  di
merito per la seconda (ad esempio, Commissione  tributaria  regionale
di Reggio Emilia, sezione nona, sentenza 22 gennaio 2018, n. 199). 
    E' pur vero che questa Corte, infatti,  in  piu'  occasioni,  con
riguardo a norme che pretendono di avere  natura  interpretativa,  ha
ritenuto che la palese erroneita' di  tale  auto-qualificazione  puo'
costituire  un  indice  della  irragionevolezza  della   disposizione
impugnata (in tal senso, sentenza n. 103 del  2013);  cosi'  come  ha
affermato che la natura realmente interpretativa di  una  determinata
disciplina puo' non risultare indifferente  ai  fini  dell'esito  del
controllo di legittimita' costituzionale (sentenza n. 108 del 2019). 
    Ma sia in un caso che nell'altro ha ritenuto, in ultima  analisi,
non dirimente tale accertamento,  essendosi  «ripetutamente  espressa
nel senso della sostanziale indifferenza, quanto  allo  scrutinio  di
legittimita'  costituzionale»,  della  distinzione   tra   norme   di
interpretazione  autentica   e   norme   innovative   con   efficacia
retroattiva, in quanto cio' che risulta realmente decisivo e' che  la
retroattivita'  trovi  adeguata  giustificazione  sul   piano   della
ragionevolezza - certamente valutata anche, ma non  solo,  alla  luce
dei suddetti indici - e non contrasti con altri  valori  e  interessi
costituzionalmente protetti (sentenza n. 73 del 2017). 
    3.2.2.- Nel caso di specie cio' che viene in  considerazione  non
e' quindi l'indirizzo giurisprudenziale maturato nel brevissimo lasso
temporale intercorrente tra i due interventi normativi e che, secondo
il  rimettente,  «aveva  riconosciuto,  pressoche'  unanimemente,  la
natura innovativa e non interpretativa» della «novella del 2017». 
    Rileva piuttosto l'intera, decennale, vicenda che ha  interessato
la complessa questione dell'applicazione  dell'imposta  di  registro,
caratterizzata, come questa Corte ha evidenziato  nella  sentenza  n.
158 del  2020,  da  uno  stratificarsi  di  interpretazioni,  che  la
giurisprudenza ha sviluppato anche in risposta alle  varie  forme  in
cui l'ordinamento si andava evolvendo per  volonta'  del  legislatore
(che,  dapprima,  ha  introdotto,  nella   disciplina   dell'imposta,
l'esplicito riferimento agli «effetti  giuridici»  dell'atto  e  poi,
piu' in generale, per tutti i tributi, ha  disciplinato  l'abuso  del
diritto). 
    In tale sentenza, questa Corte ha precisato che l'art.  1,  comma
87, lettera a), della legge n. 205 del 2017,  «appare  finalizzato  a
ricondurre il citato art. 20 all'interno del  suo  alveo  originario,
dove l'interpretazione, in linea  con  le  specificita'  del  diritto
tributario, risulta circoscritta  agli  effetti  giuridici  dell'atto
presentato  alla  registrazione  (ovverossia  al  gestum,   rilevante
secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate  nella  tariffa
allegata al testo  unico)»,  concludendo  che  «proprio  la  clausola
finale del censurato art. 20 "salvo quanto  disposto  dagli  articoli
successivi" concorre ad avvalorare la  suddetta  valenza  sistematica
dell'intervento legislativo del 2017  nell'assetto  della  disciplina
del tributo». 
    Tale valenza  sistematica,  nella  medesima  sentenza,  e'  stata
peraltro evidenziata anche nel  raccordo  con  l'abuso  del  diritto,
precisando   «sul   piano   costituzionale,   che   l'interpretazione
evolutiva, patrocinata dal rimettente, di detto art. 20 del d.P.R. n.
131  del  1986,  incentrata   sulla   nozione   di   "causa   reale",
provocherebbe  incoerenze  nell'ordinamento,  quantomeno  a   partire
dall'introduzione dell'art. 10-bis  della  legge  n.  212  del  2000.
Infatti, consentirebbe all'amministrazione finanziaria, da  un  lato,
di operare in funzione antielusiva senza applicare  la  garanzia  del
contraddittorio   endoprocedimentale   stabilita   a    favore    del
contribuente e, dall'altro,  di  svincolarsi  da  ogni  riscontro  di
"indebiti" vantaggi  fiscali  e  di  operazioni  "prive  di  sostanza
economica",  precludendo  di  fatto  al  medesimo  contribuente  ogni
legittima  pianificazione  fiscale  (invece   pacificamente   ammessa
nell'ordinamento tributario nazionale e dell'Unione europea)». 
    3.2.3.-  Alla  luce  di  quanto  appena  chiarito  le   questioni
sollevate in riferimento all'art. 3  Cost.,  sotto  tutti  i  profili
indicati, non sono fondate. 
    3.2.3.1.- Quanto al primo profilo, si deve  escludere  che  possa
essere considerato irragionevole attribuire efficacia  retroattiva  a
un intervento che, come quello descritto, ha assunto un carattere  di
sistema. 
    Senza che sia necessario addentrarsi a stabilire se la  presa  di
posizione del legislatore del 2017 abbia o meno esplicitato una delle
possibili variabili di senso ascrivibili alla precedente formulazione
dell'art. 20, rileva prima di tutto che tale intervento ha certamente
fissato  uno  dei  contenuti  normativi   riconducibili,   piu'   che
all'ambito  semantico  di  una   singola   disposizione,   a   quello
dell'intero «impianto  sistematico  della  disciplina  sostanziale  e
procedimentale dell'imposta di registro», dove la sua origine storica
di "imposta d'atto" «non risulta superata dal  legislatore  positivo»
(sentenza n. 158 del 2020). Solo su un altro  piano  -  che,  essendo
stato  sviluppato  unicamente  nella  prospettiva  delle   possibili,
future,  scelte  legislative,  pero'  non   rileva   nella   presente
valutazione - nella medesima sentenza  e'  stato  poi  precisato  che
«[r]esta ovviamente riservato alla discrezionalita'  del  legislatore
provvedere - compatibilmente con le coordinate stabilite dal  diritto
dell'Unione europea - a un eventuale aggiornamento  della  disciplina
dell'imposta di registro che tenga  conto  della  complessita'  delle
moderne tecniche contrattuali  e  dell'attuale  stato  di  evoluzione
tecnologica,  con  riguardo,  in  particolare,  sia  al  sistema   di
registrazione degli atti notarili, sia a  quello  di  gestione  della
documentazione da parte degli uffici amministrativi finanziari».  Ne'
alla suddetta conclusione puo' opporsi quanto dedotto dal  rimettente
in ordine alla «certezza del diritto» che, prima dell'intervento  del
2017, «poteva dirsi raggiunta alla luce della  uniforme  applicazione
dell'art. 20 tur (vecchio testo) da  parte  della  giurisprudenza  di
legittimita'» (interpretazione in realta' non del tutto unanime nella
stessa giurisprudenza  di  legittimita',  come  gia'  rilevato  nella
sentenza n. 158 del 2020, e fortemente avversata dalla dottrina). 
    Infatti, la legittimita' di un intervento che  attribuisce  forza
retroattiva a una  genuina  norma  di  sistema  non  e'  contestabile
nemmeno quando esso  sia  determinato  dall'intento  di  rimediare  a
un'opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche  di
legittimita') che si e' sviluppata in senso divergente dalla linea di
politica  del  diritto  giudicata  piu'  opportuna  dal   legislatore
(sentenza n. 402 del 1993). 
    3.2.3.2.- Il secondo profilo  di  irragionevolezza,  strettamente
collegato al precedente,  atterrebbe  alla  non  «prevedibilita'  del
significato precisato» dalla norma censurata,  stante  «il  carattere
della  novita'»  dell'intervento  normativo  sull'art.   20   operato
dall'art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017. 
    Anche tale censura, svolta peraltro  in  evidente  contraddizione
con la premessa formulata dallo stesso rimettente circa l'irrilevanza
della  distinzione  tra  norme  innovative   e   interpretative,   e'
infondata:  essa  rimane,  infatti,  integralmente  assorbita   dalle
considerazioni appena svolte. Peraltro, i tre elementi di  novita'  -
evidenziati dal rimettente (utilizzo del singolare "atto"; divieto di
valorizzazione  degli  elementi  extratestuali  e   atti   collegati;
salvezza degli  articoli  successivi  anche  al  fine  di  contestare
l'abuso) allo scopo di dolersi  della  non  prevedibilita'  e  dunque
dell'irragionevolezza - sono in buona parte  quelli  sulla  cui  base
questa  Corte  nella  sentenza  n.  158  del  2020  ha   riconosciuto
«rispettata la coerenza interna della struttura dell'imposta  con  il
suo presupposto economico». 
    3.2.3.3.-  Il  terzo   profilo   di   irragionevolezza,   infine,
discenderebbe,  ad  avviso  del  rimettente,  dall'impossibilita'  di
giustificare la retroattivita' della norma per «motivi imperativi  di
interesse generale» secondo il principio desumibile dall'art. 6 CEDU,
«che  la  giurisprudenza  costituzionale   traduce   nell'ordinamento
italiano  come  "tutela  di  principi,  diritti  e  beni  di  rilievo
costituzionale"»: secondo  il  giudice  a  quo  proprio  l'intervento
normativo del 2017 lederebbe «il principio di parita' di  trattamento
(uguaglianza sostanziale di cui all'art.  3  Cost.)  e  di  capacita'
contributiva (art. 53 Cost.)». 
    Neanche questa censura e' fondata. Non solo la  sentenza  n.  158
del 2020 ha escluso, come detto, che la disciplina del 2017 leda  gli
artt. 3 e 53 Cost., ma soprattutto, come altresi' notato  dall'amicus
curiae  (l'Associazione  nazionale  tributaristi  italiani,   sezione
Lombardia), nella giurisprudenza sovranazionale si riconosce  che  le
norme della CEDU sono  volte  a  tutelare  i  diritti  della  persona
«contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione» e non
viceversa,   come   invece,   paradossalmente,   rappresentato    dal
rimettente. 
    3.3.- Le questioni sollevate in riferimento agli artt.  81  e  97
Cost. sono inammissibili. 
    Il rimettente, infatti, non lamenta un difetto  di  copertura  ai
sensi  dell'art.  81,  terzo  comma,  Cost.,  ma  una   lesione   del
«fondamentale principio dell'equilibrio  di  bilancio»,  evocando  in
modo  meramente  assertivo  un  nesso  di  causalita'  tra  la  norma
censurata e la perdita per  l'erario  delle  risorse  «necessarie  ad
assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari  derivanti
dall'Unione Europea». 
    La censura, da un lato, afferma in modo  contraddittorio  che  si
tratterebbe di «diritti che sono gia' acquisti all'erario stesso, sia
pure in nuce» e, dall'altro, trascura del tutto di considerare che la
«riqualificazione in termini  sostanziali  di  operazioni  economiche
complesse»   di   cui   sarebbe   stata   privata,   a   suo    dire,
l'Amministrazione finanziaria, continua invece a  essere  praticabile
dalla stessa secondo le regole procedurali e  sostanziali  prescritte
per l'accertamento dell'abuso del diritto (art. 10-bis della legge 27
luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto  dei
diritti del contribuente»). 
    La dedotta lesione dell'art. 97 Cost., poi, non e'  sostenuta  da
alcuna argomentazione. 
    Alla luce dei rilievi che precedono e' evidente che il rimettente
non ha assolto l'onere di motivazione in ordine  alla  non  manifesta
infondatezza del prospettato dubbio di  legittimita'  costituzionale,
formulando la doglianza in modo generico e finanche ipotetico. 
    3.4.-  Altresi'  inammissibile  e'  la  questione  inerente  alla
violazione degli artt. 101, 102 e 108 Cost., evocati cumulativamente. 
    Lo   stesso   rimettente   premette,   delimitando   la   propria
prospettazione, che la «sussistenza di una riserva  di  giurisdizione
e'  tema  controvertibile  (e  denso  di  implicazioni  dogmatiche  e
politiche)» senza tuttavia poi esplicitare alcun ulteriore  argomento
giuridico per cui, in confronto con gli stessi,  sarebbe  censurabile
l'intervento del legislatore. 
    La questione e' pertanto inammissibile, in  quanto  formulata  in
modo addirittura perplesso, cosi' da risultare generica e,  comunque,
immotivata. 
    3.5.- Inammissibile, infine, e' anche la questione  sollevata  in
riferimento all'art. 24 Cost. 
    Il rimettente si limita a dolersi della violazione di un asserito
diritto dell'Agenzia delle entrate a  difendersi  sulla  base  di  un
quadro normativo cristallizzato al tempo della predisposizione  delle
proprie difese. Tuttavia, tale assunto, non  ulteriormente  declinato
attraverso adeguate argomentazioni, si risolve in una indimostrata  e
meramente affermata impossibilita'  per  il  legislatore  di  emanare
norme  retroattive   che   incidano   su   giudizi   in   corso:   va
conseguentemente dichiarata l'inammissibilita' della questione.