ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  18-bis,
commi 1 e 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo
unico delle leggi recanti norme per  la  elezione  della  Camera  dei
deputati), promosso dal Tribunale ordinario di Roma nel  procedimento
vertente tra Riccardo Magi ed Associazione «+Europa» e il  Presidente
del Consiglio dei ministri e il Ministero dell'interno, con ordinanza
del 1° settembre 2020, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 2020
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  47,  prima
serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti   gli   atti   di   costituzione   di   Riccardo   Magi   e
dell'Associazione  «+Europa»,  nonche'  l'atto  di   intervento   del
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  23  febbraio  2021  il  giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Beniamino Caravita di Toritto e  Simona  Viola
per Riccardo Magi e Associazione «+Europa» e l'avvocato  dello  Stato
Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di  Roma,  con  ordinanza  del  1°
settembre 2020, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 18-bis, commi 1 e 2, del  d.P.R.  30  marzo  1957,  n.  361
(Approvazione del testo  unico  delle  leggi  recanti  norme  per  la
elezione della Camera dei deputati), per violazione  degli  artt.  1,
secondo comma; 3; 48, secondo comma; 51, primo comma,  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art.  3  del
Protocollo addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi  il
20 marzo 1952. 
    Espone il giudice rimettente che, con ricorso instaurato ai sensi
dell'art. 702-bis del codice di procedura  civile,  Riccardo  Magi  e
l'Associazione  «+Europa»  hanno  chiesto  al  Tribunale   adito   di
accertare, tra le altre cose: 
    a) il diritto di candidarsi e presentare liste di candidati  alle
prossime elezioni politiche raccogliendo un numero di  sottoscrizioni
non superiore ad un quarto di quello - attualmente fissato in 1.500 -
previsto dall'art. 18-bis, comma 1,  del  d.P.R.  n.  361  del  1957,
previa  rimessione  alla   Corte   costituzionale   della   questione
incidentale di legittimita' costituzionale del  citato  art.  18-bis,
nonche' dell'art. l, comma 1123, della legge 27 dicembre 2017, n. 205
(Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno  finanziario  2018  e
bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte  in  cui
prevede l'applicabilita' della riduzione ad un quarto alle sole prime
elezioni successive all'entrata in vigore della norma; 
    b) il diritto di presentare  liste  di  candidati  alle  prossime
elezioni politiche  senza  raccogliere  le  sottoscrizioni  previste,
previa  rimessione  alla   Corte   costituzionale   della   questione
incidentale di legittimita' costituzionale dell'art. 18-bis, comma 2,
del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in  cui  prevede  l'esenzione
dall'onere  in  questione  esclusivamente  per  i  partiti  o  gruppi
politici costituiti in gruppo  parlamentare  in  entrambe  le  Camere
all'inizio della legislatura in corso al momento  della  convocazione
dei comizi elettorali. 
    2.- In via preliminare,  il  giudice  a  quo  si  sofferma  sulla
propria   giurisdizione,   evidenziando   che   e'   in   discussione
l'accertamento del  diritto  di  elettorato  passivo,  per  il  quale
dovrebbe escludersi l'appartenenza  alla  cognizione  riservata  alle
Camere, dovendosi invece ritenersi sussistente la  giurisdizione  del
giudice ordinario, quale «giudice naturale dei diritti fondamentali». 
    In    particolare,    pur    dando     atto     dell'orientamento
giurisprudenziale  che,  «in  passato»,   ha   esteso   l'ambito   di
applicazione  di  cui  all'art.  66  Cost.  anche   al   procedimento
elettorale preparatorio, il rimettente ritiene che vi sia  stata  una
evoluzione di tale orientamento. Dalla piu' recente giurisprudenza di
legittimita'  (e'  citata  l'ordinanza  della  Corte  di  cassazione,
sezione prima civile, 17 maggio  2013,  n.  12060)  e  costituzionale
(sono richiamate le sentenze della Corte  costituzionale  n.  35  del
2017 e n. 1 del 2014) sarebbe stata infatti acclarata la  sussistenza
della giurisdizione del giudice ordinario nei casi in cui «la domanda
di tutela riguarda proprio il fondamentale diritto di  partecipazione
al voto dal lato passivo». Circostanza che ricorrerebbe nel  presente
caso, «essendo in discussione addirittura il diritto  di  partecipare
al procedimento elettorale  preparatorio  con  modalita'  conformi  a
Costituzione», e dunque un «ambito d'indagine  [...]  naturalmente  e
logicamente esterno e preliminare a possibili contestazioni  nascenti
dal suo svolgimento». 
    3.-  Sussisterebbero  altresi'  l'attualita'  e  la   concretezza
dell'interesse dei ricorrenti «ad un accertamento giurisdizionale del
diritto di candidarsi alle elezioni per il rinnovo della  Camera  dei
Deputati  con   le   richieste   modalita',   ritenute   conformi   a
Costituzione». Non essendo mai  stata  attuata  la  delega  contenuta
nell'art. 44, comma 2, lettera d), della legge 18 giugno 2009, n.  69
(Disposizioni per  lo  sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la
competitivita' nonche' in materia di processo civile) - che prevedeva
l'introduzione   della   giurisdizione    esclusiva    del    giudice
amministrativo  nelle   controversie   concernenti   gli   atti   del
procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per  il  rinnovo
di Camera e Senato  -  la  domanda  di  accertamento  del  diritto  a
candidarsi alle elezioni politiche in conformita' alla  Costituzione,
avanzata nel giudizio a  quo,  costituirebbe  «l'unico  strumento  di
immediata ed efficace tutela giurisdizionale», in mancanza del  quale
dovrebbe registrarsi l'esistenza di una «zona franca nel  sistema  di
giustizia costituzionale» (vengono citate  le  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 35 del 2017, n. 165 del 2016, n. 110 del 2015 e  n.
1 del 2014). 
    La  differenza  tra  l'oggetto  del  giudizio  a  quo  (volto  ad
accertare la «"pienezza" costituzionale  del  diritto  di  elettorato
passivo») e l'oggetto del  giudizio  di  costituzionalita'  (relativo
alla conformita' a Costituzione della «legge  elettorale  politica»),
nonche'  il  conseguente  «[m]argine  di  autonoma   decisione»   che
residuerebbe in capo al rimettente  anche  in  caso  di  accoglimento
della questione di legittimita' costituzionale, escluderebbero che si
sia in presenza di un «improprio "visto d'ingresso"  per  un  accesso
sostanzialmente    diretto    alla    giurisdizione    della    Corte
costituzionale». 
    L'interesse  ad  agire  sarebbe  anche  «peculiarmente  connotato
dall'incertezza circa natura, contenuto e modalita' degli  oneri  cui
e' condizionato l'esercizio del diritto» di partecipare alle elezioni
politiche.  A  tal  proposito,  il  rimettente  richiama  i  numerosi
interventi legislativi che, dal 2006 in poi, hanno di volta in  volta
derogato alle norme in  tema  di  sottoscrizione  delle  candidature,
riducendo sistematicamente il numero delle  sottoscrizioni  richieste
«solo in prossimita'  del  decreto  di  scioglimento  delle  Camere».
Secondo  il  rimettente,  il  conseguente  «elevatissimo   tasso   di
incertezza» della disciplina del procedimento elettorale preparatorio
e  della  raccolta  delle  sottoscrizioni,  dovuto  al   «rapidissimo
avvicendamento»   cui   tale   disciplina   e'   stata    sottoposta,
dimostrerebbe le «difficolta' praticamente implicate dalla disciplina
'ordinaria'». Inoltre, le  ripetute  modifiche  testimonierebbero  la
«qualificata portata [...] dell'interesse dei  ricorrenti  all'azione
di accertamento introduttiva [del] giudizio [a quo], risultando  esso
ancor  di  piu'  l'unico   strumento   di   tutela   giurisdizionale,
immediatamente esperibile ex art.  24  Cost.,  per  rimuovere  quella
lesione  del  diritto  di   elettorato   passivo   [...]   che   gia'
un'incertezza  cosi'  oggettiva,  vasta  e   protratta   nel   tempo,
relativamente alle condizioni del suo esercizio, certamente arreca». 
    4.- Sempre in via preliminare, il giudice a quo sottolinea che il
tenore dell'art. 18-bis, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, non
consentirebbe interpretazioni diverse da quella  letterale,  sia  per
quanto riguarda la disciplina relativa al  numero  di  sottoscrizioni
richieste sia per i casi di esenzione dall'onere  di  raccolta  delle
sottoscrizioni stesse. 
    5.- Quanto alla rilevanza, il rimettente afferma che il  giudizio
a quo richiede la necessaria applicazione dell'art. 18-bis, commi 1 e
2 del d.P.R. n. 361 del 1957.  Qualora  non  venissero  sollevate  le
questioni di legittimita'  costituzionale  eccepite  dai  ricorrenti,
infatti, il ricorso dovrebbe essere rigettato. Viceversa, proprio  lo
scrutinio  di  tali  questioni  consentira'  di  «verificare  se   ed
eventualmente in quale misura  la  disciplina  vigente  dei  suddetti
oneri pregiudichi l'esercizio  del  diritto  di  elettorato  passivo»
costituzionalmente garantito. 
    6.-  Per  quanto  concerne  la  non  manifesta  infondatezza,  il
rimettente si sofferma in via preliminare sui principi sanciti  dalla
Corte costituzionale e dalla Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo.
Viene ricordata l'ampia discrezionalita' legislativa che caratterizza
la disciplina elettorale,  ferma  restando  la  possibilita'  per  il
giudice costituzionale di svolgere il controllo di proporzionalita' e
di non  manifesta  irragionevolezza  del  bilanciamento  operato  dal
legislatore (sono evocate le sentenze della Corte  costituzionale  n.
35 del 2017, n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n.  107
del 1996, n. 438 del 1993 e n. 1130 del 1988, nonche' l'ordinanza  n.
260 del 2002). Anche la giurisprudenza della Corte EDU si  muoverebbe
nella stessa direzione: il diritto di voto, attivo e passivo, sancito
dall'art. 3 Prot. addiz. CEDU, puo' essere oggetto di «ampio  margine
di apprezzamento» e di limitazioni  anche  «implicite»,  purche'  non
venga privato della sua effettivita' e purche' le  norme  limitatrici
del diritto al voto perseguano scopi legittimi,  i  mezzi  non  siano
sproporzionati, le regole siano chiare e prevedibili (sono citate  le
sentenze 6 novembre 2012, Ekoglasnost contro Bulgaria; 3 marzo  2012,
Saccomanno ed altri contro Italia;  16  marzo  2006,  Ždanoka  contro
Lettonia; 9 aprile 2002, Podkolzina contro Lettonia;  2  marzo  1987,
Mathieu-Monin e Clerfayt contro Belgio). 
    6.1.-  Per  quanto  concerne  nello  specifico  il   procedimento
elettorale preparatorio, il giudice a quo richiama la sentenza  della
Corte costituzionale n. 83 del 1992,  che  ha  individuato  la  ratio
della necessita' di raccogliere un certo numero di firme  a  sostegno
delle candidature nell'obiettivo di «evitare  la  grande  dispersione
dei voti  e  lo  sfrenarsi  della  lotta  elettorale  per  fini  poco
commendevoli».   Sarebbe   quindi    un    principio    generalizzato
dell'ordinamento quello che richiede, per le elezioni dirette, che le
candidature siano munite di una  «sorta  di  dimostrazione  di  seria
consistenza e di un minimo di consenso». Piu' di recente, la sentenza
della Corte costituzionale n. 394 del 2006 avrebbe evidenziato che la
disciplina in tema di firme contribuisce «a realizzare l'interesse al
regolare svolgimento e al libero ed efficace esercizio del diritto di
voto», evitando «un'abnorme proliferazione di candidature palesemente
prive  di  seguito  o,  peggio,  volte  artatamente  a   disorientare
l'elettorato». 
    Il rimettente, inoltre, insiste sulla citata sentenza Ekoglasnost
della Corte EDU, secondo cui la previsione di un  onere  di  raccolta
delle firme a sostegno delle  candidature  non  sarebbe  di  per  se'
incompatibile con la Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, neppure se sia richiesto un numero  di  firme  «relativamente
elevato» (sono citate le  decisioni  della  Commissione  europea  dei
diritti dell'uomo, 9 maggio 1994, Asensio Serqueda contro  Spagna,  e
12 luglio 1976, X contro Austria). Le sottoscrizioni a sostegno delle
candidature assicurerebbero infatti «la partecipazione alle  elezioni
legislative  di  formazioni   politiche   stabili,   sufficientemente
rappresentative della societa'» e  limiterebbero  altresi'  le  spese
dello scrutinio. Tuttavia, la Corte EDU avrebbe comunque accertato la
violazione dell'art. 3 del Prot. addiz. CEDU,  poiche'  l'obbligo  di
raccolta di circa cinquemila firme in un solo mese di tempo era stato
introdotto tardivamente, con il rischio di determinare la «squalifica
d'ufficio di partiti e coalizioni di opposizione», che pure avrebbero
potuto beneficiare di un  sostegno  popolare  importante,  con  ovvio
vantaggio delle formazioni politiche al potere. 
    Dalla giurisprudenza citata  si  desumerebbe  dunque  che  «anche
aspetti di dettaglio del procedimento elettorale preparatorio possono
incidere in maniera determinante  sull'effettivita'  d'esercizio  del
diritto fondamentale di elettorato  passivo».  Tale  diritto  sarebbe
intrinsecamente correlato con  il  libero  esercizio  dell'elettorato
attivo e, di conseguenza, con l'attuazione del principio  democratico
di rappresentativita' popolare. 
    6.2.- Il dubbio sulla non manifesta infondatezza delle  questioni
di legittimita' costituzionale  emergerebbe  in  particolare  tenendo
conto della «'dimensione temporale' e 'numerica'  e  [de]gli  effetti
che, nell'insieme, il sistema delle norme in esame» produrrebbe. 
    Poiche', in ragione di quanto sancito dal decreto legislativo  12
dicembre 2017, n. 189 (Determinazione dei  collegi  elettorali  della
Camera dei deputati e del  Senato  della  Repubblica,  in  attuazione
dell'articolo  3  della  legge  3  novembre  2017,  n.  165,  recante
modifiche al sistema di elezione della  Camera  dei  deputati  e  del
Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione  dei
collegi  elettorali   uninominali   e   plurinominali),   i   collegi
plurinominali per l'elezione con sistema proporzionale sono  63,  «il
numero  minimo»  di  sottoscrizioni,  pari  a  1.500  per   collegio,
varierebbe «da un massimo di 94.500 su tutto il territorio  nazionale
ad un minimo  di  47.250»  nel  caso  di  scioglimento  delle  Camere
anticipato  di  oltre  centoventi  giorni  rispetto   alla   scadenza
naturale. Tale onere sarebbe  aggravato  dalla  circostanza  che,  ai
sensi dello stesso art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del  1957,
ciascuna  lista  deve  presentare,  a   pena   di   inammissibilita',
candidature in almeno due terzi  dei  collegi  plurinominali  di  una
medesima circoscrizione. Inoltre, poiche', ai sensi dell'art.  3  del
d.P.R. n.  361  del  1957,  l'assegnazione  dei  seggi  alle  singole
circoscrizioni viene determinata con  decreto  del  Presidente  della
Repubblica, emanato contestualmente al decreto  di  convocazione  dei
comizi - pubblicato in Gazzetta Ufficiale «non oltre  il  45°  giorno
antecedente quello della votazione» (art. 11, comma 3 del  d.P.R.  n.
361 del 1957)  -  e  poiche'  le  liste  dei  candidati  nei  collegi
plurinominali e i nomi dei candidati nei collegi  uninominali  devono
essere presentati «dalle ore 8 del trentacinquesimo giorno  alle  ore
20 del trentaquattresimo giorno antecedenti quello  della  votazione»
(art. 20 del  d.P.R.  n.  361  del  1957),  le  formazioni  politiche
intenzionate a presentare  le  candidature  su  tutto  il  territorio
nazionale disporrebbero «di soli 11 giorni» (risultato di 45 meno 34)
per la raccolta delle firme e per il deposito  delle  candidature  in
ogni circoscrizione. Termine che sarebbe ancora piu' ridotto (tra  10
e 8  giorni)  per  le  formazioni  politiche  che  si  presentano  in
coalizione (artt. 14, 14-bis e 15 del d.P.R. n. 361 del 1957). 
    Se e'  vero  che  le  formazioni  politiche  che  non  presentano
candidature  in  coalizione  possono  anticipare  la  raccolta  delle
sottoscrizioni rispetto all'indizione dei comizi elettorali (art. 14,
comma 3, della legge 21 marzo 1990, n. 53,  recante  «Misure  urgenti
atte a garantire maggiore  efficienza  al  procedimento  elettorale»,
secondo cui «[l]e sottoscrizioni e le  relative  autenticazioni  sono
nulle  se   anteriori   al   centottantesimo   giorno   precedente»),
resterebbero in ogni caso margini di incertezza legati: a) alla  data
di indizione dei comizi; b)  alla  data  dell'eventuale  scioglimento
anticipato delle Camere, cui sarebbe «connessa anche la  variabilita'
della durata  del  periodo  a  disposizione  per  la  raccolta  delle
sottoscrizioni e di validita' delle autentiche  delle  sottoscrizioni
gia'  raccolte»;  c)  al  «numero   minimo   di   sottoscrizioni   da
raccogliere» nei casi in cui lo scioglimento anticipato delle  Camere
«si profili a ridosso dei 120 gg. antecedenti rispetto alla  naturale
scadenza della legislatura, e dunque  non  sia  sicura  la  riduzione
della meta' delle sottoscrizioni da raccogliere»; d) al  «numero  dei
seggi da attribuire in ciascuna circoscrizione» (reso noto con d.P.R.
pubblicato  «non  oltre  il  45°  giorno  antecedente  quello   della
votazione»)  per   quelle   formazioni   politiche   che   presentino
candidature soltanto in alcune circoscrizioni elettorali. 
    A sostegno delle proprie argomentazioni, il giudice a quo  svolge
una dettagliata ricognizione diacronica delle norme che, dal 1957  ad
oggi, hanno disciplinato il tema della raccolta delle sottoscrizioni,
illustrandole nel contesto del sistema elettorale di volta  in  volta
vigente.  Tale  ricostruzione   farebbe   emergere   come   l'attuale
disciplina costituisca una «novita' assoluta» rispetto al passato. 
    Inoltre, a partire dal  2006,  sarebbero  state  sistematicamente
adottate,  nell'imminenza  delle  elezioni,  previsioni  dirette   ad
agevolare  l'accesso  alla  competizione  elettorale,   evidentemente
ritenuto eccessivamente  ostacolato  «dalle  norme  ratione  temporis
vigenti». Il sistematico ricorso  a  tali  norme  derogatorie  (anche
queste  dettagliatamente  descritte  nell'ordinanza  di   rimessione)
evidenzierebbe   l'oggettiva   incertezza   in   ordine   al   regime
applicabile. 
    In particolare, proprio l'art. 1, comma 1123, della legge n.  205
del 2017 - approvata poco tempo dopo l'entrata in vigore della  legge
3 novembre 2017, n. 165  (Modifiche  al  sistema  di  elezione  della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al  Governo
per  la  determinazione  dei   collegi   elettorali   uninominali   e
plurinominali) che ha introdotto la  vigente  formulazione  dell'art.
18-bis,  comma  1,  del  d.P.R.  n.  361  del  1957  -  dimostrerebbe
l'irragionevolezza della disciplina attualmente  vigente.  In  virtu'
della legge n. 205 del 2017, infatti, il numero delle  sottoscrizioni
richieste, in via transitoria, solo per  le  elezioni  del  2018,  e'
infatti stato ridotto a  un  quarto.  Il  legislatore  avrebbe  cosi'
manifestato consapevolezza della eccessiva onerosita', nonche' «della
vessatorieta' e concreta impraticabilita',  per  un'ampia  platea  di
formazioni politiche»  della  disciplina  vigente,  che  coniuga  «un
ristretto ambito applicativo dell'esenzione  dall'onere  di  raccolta
delle  sottoscrizioni  ad  un  alto  numero  di   sottoscrizioni   da
raccogliere in un breve arco temporale certo (11 gg.)» 
    6.3.- Alla luce di tutto quanto sopra evidenziato, le  previsioni
in esame - «in assoluto [le] piu' ristrettive» nel corso della storia
repubblicana - violerebbero gli artt. 3 e  51,  primo  comma,  Cost.,
rivelando «una sproporzione non ragionevole, perche'  eccessiva,  tra
il sacrificio imposto  al  diritto  delle  formazioni  politiche  non
esentate dall'onere di raccolta delle sottoscrizioni,  e  dunque  dei
singoli individui che aderiscano al relativo programma, di poter - ex
art. 51, co. 1, Cost. -  anche  solo  partecipare  alla  competizione
elettorale [...] e la  tutela  dell'interesse  generale  al  regolare
svolgimento della competizione elettorale mediante l'esclusione dalla
stessa delle candidature 'palesemente  prive  di  seguito,  o  peggio
volte artatamente a disorientare  l'elettorato'».  Tale  sproporzione
inciderebbe negativamente sul «libero esercizio del diritto di  voto»
di cui all'art. 48, secondo comma, Cost. e  sull'efficace  attuazione
del «principio democratico di  rappresentativita'  popolare»  di  cui
all'art. 1, comma secondo, Cost. 
    Sarebbe  «concretamente  impraticabile  la  partecipazione   alla
competizione elettorale per tutte le formazioni politiche diverse  da
quelle non costituite in gruppi  in  entrambe  le  Camere  all'inizio
della  legislatura».  Le  prime   sarebbero   cosi'   escluse   dalla
competizione  elettorale  «a  beneficio  della  conservazione   della
rappresentanza [...] delle formazioni che non  solo  alle  precedenti
elezioni l'abbiano gia' ottenuta ma l'abbiano ottenuta in entrambe le
Camere, ed in entrambe con una consistenza numerica tale  da  rendere
loro possibile la costituzione in gruppi». 
    Chiarisce  il  rimettente   che   il   dubbio   di   legittimita'
costituzionale  non  investe,  «di  per  se',  ne'  il  numero  delle
sottoscrizioni che attualmente devono essere raccolte [...] e nemmeno
l'esistenza, in se', dell'esenzione dal  relativo  onere  per  alcune
soltanto delle formazioni politiche», bensi' l'effetto congiunto  «di
una pluralita' di limiti all'esercizio del diritto di  candidarsi  ex
art. 51, co. 1, Cost.»: l'effetto moltiplicatore del numero minimo di
sottoscrizioni (1.500) per il numero degli ambiti territoriali in cui
raccoglierle su tutto  il  territorio  nazionale  (63);  il  limitato
intervallo temporale a disposizione per la raccolta (11 giorni),  con
l'eccezione del maggior intervallo consentito  alle  sole  formazioni
politiche che non si candidano in  coalizione;  il  ristretto  ambito
soggettivo dell'esenzione dall'onere  di  raccolta  delle  firme;  il
connesso  margine   d'incertezza   derivante   dall'attribuzione   ai
regolamenti parlamentari, e non ad una fonte di rango  costituzionale
o legislativo,  della  disciplina  circa  la  formazione  dei  gruppi
parlamentari, presupposto determinante per beneficiare dell'esenzione
dall'onere di raccolta; il grado d'incertezza storicamente ingenerato
dalla prassi di attenuare la disciplina dei presupposti  legittimanti
la partecipazione alla competizione  elettorale.  La  limitazione  al
diritto a partecipare alla competizione elettorale sarebbe massima, e
«realisticamente insuperabile», per le formazioni  politiche  che  si
presentano in coalizione. 
    Cio' causerebbe anche la violazione dell'art. 117,  primo  comma,
Cost. «per contrasto con i principi di buona condotta elettorale e di
certezza  delle  regole  elettorali,   ritenuti   dalla   Corte   edu
fondamentali ai fini del rispetto dell'art. 3» Prot. addiz. CEDU. 
    In definitiva, tutti gli elementi descritti determinerebbero  una
«sproporzionata  distorsione  delle  legittime  finalita'  dell'onere
[...]  di  raccolta  delle  sottoscrizioni  degli  elettori  e  della
relativa esenzione per le formazioni politiche gia' rappresentate  in
Parlamento».  Si  tratterebbe  di  oneri   non   piu'   considerabili
«strumenti di salvaguardia, come bene finale,  del  libero  esercizio
del diritto di voto ex art. 48 co. 2 Cost., e con esso del  principio
democratico di rappresentativita' popolare ex art. 1  co.  2  Cost.».
Essi, viceversa, infatti si sarebbero trasformati «in strument[i]  di
relativa surrettizia violazione». La  possibilita'  di  rendere  meno
gravosi tali oneri, come dimostrerebbe  la  prassi  sviluppatasi  nel
corso degli ultimi decenni,  sarebbe  subordinata  ad  una  «speciale
concessione» delle forze di maggioranza, che possono  far  approvare,
di volta in volta,  le  norme  che,  attenuando  il  regime  vigente,
consentano anche alle formazioni non costituite in gruppi in entrambe
le Camere gia' all'inizio della legislatura  la  partecipazione  alle
successive elezioni politiche. 
    6.4.- Per dimostrare la fondatezza delle  censure  sollevate,  il
rimettente richiama altresi' le discipline di  alcuni  Paesi  europei
(Francia, Germania, Spagna), a suo avviso meno restrittive. 
    7.- Nella parte finale dell'ordinanza, il giudice a quo  richiama
la giurisprudenza  costituzionale  piu'  recente,  secondo  la  quale
l'assenza di un'unica soluzione a "rime obbligate" non  costituirebbe
ostacolo  all'esame  nel  merito  delle  questioni  di   legittimita'
costituzionale, quando occorre evitare nell'ordinamento la permanenza
di zone franche dal  sindacato  di  legittimita'  costituzionale.  In
particolare, l'intervento della Corte  costituzionale,  di  fronte  a
scelte  irragionevoli  del  legislatore,  sarebbe  ammissibile  anche
quando, in sostituzione di quelle, sia possibile l'individuazione  di
soluzioni  alternative  tra  loro.  In  tale   prospettiva,   sarebbe
sufficiente che il  «sistema  nel  suo  complesso  offra  alla  Corte
"precisi punti di riferimento" e  soluzioni  "gia'  esistenti"  [...]
ancorche' non "costituzionalmente obbligate", che possano sostituirsi
alla  previsione  sanzionatoria  dichiarata   illegittima»   (vengono
richiamate le sentenze n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e  n.  222  del
2018 e n. 236 del 2016). 
    La circostanza che il citato orientamento si sia  sviluppato  per
lo piu' in decisioni relative alla «dosimetria delle sanzioni penali»
non sarebbe d'ostacolo all'ammissibilita' delle  presenti  questioni,
in quanto le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 2014  e  n.
35 del 2017 avrebbero  evidenziato  la  necessita'  che  anche  nella
materia elettorale, pur caratterizzata da amplissima discrezionalita'
legislativa, «siano evitate 'zone franche' in  ragione  della  natura
fondamentale delle garanzie costituzionali da salvaguardare». 
    Nel  presente  caso,  i  «precisi  punti  di  riferimento»  e  le
«soluzioni gia' esistenti» nell'ordinamento, come  gia'  evidenziato,
sarebbero ravvisabili in alcune scelte che  il  legislatore  ha  gia'
«reiteramente compiuto»: sono cosi' richiamati, quanto alla riduzione
a un quarto del numero  delle  sottoscrizioni  richieste,  l'art.  1,
comma 1123, della legge n. 205 del 2017 e l'art. 1 del  decreto-legge
18 dicembre 2012, n. 223 (Disposizioni  urgenti  per  lo  svolgimento
delle   elezioni   politiche   nell'anno   2013)   convertito,    con
modificazioni,  in  legge  24   dicembre   2012,   n.   232;   quanto
all'estensione dell'ambito  soggettivo  di  esenzione  dall'onere  di
raccolta delle sottoscrizioni anche  alle  formazioni  politiche  che
hanno formato un gruppo in un solo ramo  del  Parlamento,  l'art.  2,
comma 36, della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni  in  materia
di elezioni della Camera dei deputati), come modificato dall'art.  6,
comma 1, della legge n. 165 del 2017. 
    8.- Con atto depositato il 9  dicembre  2020  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate. 
    8.1.- In primo luogo, il giudice a  quo  difetterebbe,  «in  modo
macroscopico e manifesto», di giurisdizione, il che dovrebbe condurre
la Corte costituzionale a riesaminare la valutazione effettuata dallo
stesso rimettente (sono citate le sentenze n. 106 del 2013, n. 41 del
2011, n. 81 e n 34 del 2010). 
    In particolare, l'Avvocatura generale sostiene che l'art. 87  del
d.P.R.  n.  361  del  1957,  in  attuazione   dell'art.   66   Cost.,
riserverebbe  alla  Camera   dei   deputati   ogni   controversia   e
contestazione relativa al procedimento  elettorale,  ivi  incluso  il
procedimento elettorale preparatorio. A fondamento di tale tesi viene
evocata la sentenza n. 259 del 2009 della Corte costituzionale, nella
quale si e' affermato che «[l]a natura giurisdizionale del  controllo
sui titoli di ammissione  dei  suoi  componenti,  attribuito  in  via
esclusiva, con riferimento ai  parlamentari,  a  ciascuna  Camera  ai
sensi  dell'art.  66  Cost.,  e'  pacificamente  riconosciuta,  nelle
ipotesi di contestazioni,  dalla  dottrina  e  dalla  giurisprudenza,
"quale unica eccezione al sistema generale di tutela  giurisdizionale
in materia di elezioni"». 
    Sarebbe poi implausibile il ragionamento del giudice  rimettente,
che ha individuato il fondamento  alla  propria  giurisdizione  nelle
motivazioni  contenute  nell'ordinanza  della  Corte  di  cassazione,
sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060, con la quale e' stata
rimessa la questione di legittimita' costituzionale poi definita  con
la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014. A differenza di
quel caso, nella presente questione non sarebbe infatti in  gioco  il
diritto di elettorato attivo, bensi' quello passivo. 
    Trattandosi di situazioni non equiparabili, non sarebbe possibile
applicare alla presente vicenda il principio applicato dalla Corte di
cassazione nell'ordinanza citata. Il diritto di voto sarebbe  infatti
«espressione della sovranita' popolare, connesso alla  mera  qualita'
di cittadino e al raggiungimento della maggiore eta' (art. 48  Cost.)
e, percio',  soggetto  alla  giurisdizione  del  giudice  ordinario».
Viceversa, il diritto  di  elettorato  passivo  sarebbe  «espressione
della  capacita'  giuridica  di  accedere   alla   carica   elettiva,
esercitabile esclusivamente tramite la candidatura (in assenza  della
quale,  o  del  verificarsi  dei  presupposti   perche'   questa   si
concretizzi,  vale  a   dire   l'indizione   delle   elezioni,   esso
assume[rebbe]  un  carattere  meramente  virtuale),   limitabile   in
determinati   casi   (art.   65   Cost.)   e,   percio',   tutelabile
esclusivamente in sede  di  "verifica  dei  poteri",  alla  quale  fa
riferimento, per quanto riguarda le  elezioni  politiche,  l'art.  66
Cost.». 
    La stessa Corte di cassazione  avrebbe  circoscritto  la  propria
pronuncia all'accertamento della pienezza del diritto  di  elettorato
attivo, affermando che «diversa potrebbe essere  la  conclusione  nel
caso in cui sia invocato nel giudizio  di  merito  il  riconoscimento
preventivo della pienezza del diritto di elettorato passivo», poiche'
la lesione di tale  diritto  si  concretizzerebbe  soltanto  dopo  la
decisione della Giunta per le elezioni, «non potendo  l'interesse  ad
agire desumersi dalla mera "intenzione" di un cittadino di candidarsi
in una competizione elettorale». 
    8.2.- In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili  per
carenza,  in  capo  ai  ricorrenti,  dell'interesse  ad  agire,   con
riferimento  alle  questioni   prospettate   sulla   raccolta   delle
sottoscrizioni  «in  relazione  alla   presentazione   di   liste   e
candidature in coalizione con altre  formazioni  politiche»,  poiche'
tale presentazione richiederebbe  il  necessario  accordo  con  altre
forze politiche. 
    8.3.-  Le  questioni  sollevate  sarebbero  infine  inammissibili
perche' alla Corte  costituzionale  e'  richiesto  di  «emettere  una
pronuncia additiva o manipolativa, a contenuto non costituzionalmente
obbligato». Il giudice a quo - con la richiesta di ridurre  per  ogni
tornata  elettorale  a  un  quarto  il   numero   di   sottoscrizioni
attualmente previste - mirerebbe «a conseguire l'effetto di espandere
l'ambito applicativo di una disciplina speciale  [...];  effetto  del
tutto inammissibile, stante il carattere eminentemente  discrezionale
sotteso alla scelta legislativa [...] di  imporre  in  un  singolo  e
specifico caso una disciplina dettata da esigenze contingenti» (viene
citata la sentenza n. 198 del 2009). 
    Secondo quanto previsto dall'art. 28 della legge 11  marzo  1953,
n. 87 (Norme sulla  costituzione  e  sul  funzionamento  della  Corte
costituzionale),  in  questo  caso  la  decisione  nel  merito  delle
questioni  di  legittimita'  costituzionale  troverebbe  «un   limite
invalicabile» nel rispetto della discrezionalita' del  legislatore  e
nell'assenza  di  un'unica   soluzione   costituzionalmente   imposta
(vengono citate la sentenza n. 110 del 2015 e l'ordinanza n. 270  del
2015). 
    Ne' sarebbe  condivisibile  la  tesi  affermata  dal  rimettente,
secondo cui i recenti indirizzi della Corte costituzionale in materia
penale potrebbero essere applicati anche in materia elettorale,  data
la  non  sovrapponibilita'  delle  due  materie.  Quella  penale   si
collocherebbe «nell'alveo delle peculiari garanzie poste, a  garanzia
del  superiore  valore  della  liberta'   personale,   dallo   stesso
Legislatore costituzionale, con particolare riferimento  ai  principi
del favor rei e della  proporzionalita'  della  pena».  Diversamente,
invece, la disciplina elettorale non  potrebbe  «che  rimanere  nelle
prerogative del Parlamento, che nei diversi momenti, ne ha definito i
contenuti ed i limiti» (viene citata la sentenza n. 35 del 2017). 
    Inoltre, nel  presente  caso  si  tratterebbe  di  sostituire  la
disciplina esistente non con soluzioni normative «gia'  esistenti,  a
"regime" nell'ordinamento», bensi' con norme transitorie o di deroga,
«che per loro natura non dovrebbero essere  assunte  a  parametro  di
compatibilita'  costituzionale»  ai  fini  della   dichiarazione   di
incostituzionalita'. 
    8.4.- In subordine, l'Avvocatura generale eccepisce la  manifesta
infondatezza  delle  questioni  sollevate.  Alla  luce  della  stessa
giurisprudenza costituzionale evocata dal rimettente (sentenze n. 193
del 2015, n. 394 del 2006 e n. 83 del 1992), la raccolta delle  firme
per la  presentazione  delle  candidature  alle  elezioni  eviterebbe
infatti l'«abnorme proliferare di candidature  palesemente  prive  di
seguito o, peggio, volte artatamente  a  disorientare  l'elettorato».
Anche l'esenzione dall'onere della raccolta delle firme perseguirebbe
l'analoga finalita' «di assicurare la  competizione  elettorale  solo
alle  formazioni  politiche  dotate   di   una   sicura   consistenza
rappresentativa» (viene citata anche la  sentenza  Ekoglasnost  della
Corte EDU). 
    Rispetto a cio', sarebbe indimostrata, ed «anzi smentita da  dati
di segno opposto», la  tesi  secondo  cui  l'attuale  disciplina  sia
particolarmente sproporzionata «rispetto a tutti i periodi  pregressi
di   applicazione   delle   norme   sospettate   di    illegittimita'
costituzionale». In particolare, per le elezioni del 1994 e del  1996
sarebbe stato necessario raccogliere un numero di sottoscrizioni «ben
superiore a quello attualmente necessario»,  il  che  «non  [avrebbe]
impedito a diverse formazioni politiche di presentarsi alle  elezioni
nelle suddette tornate elettorali, senza  beneficiare  di  deroghe  o
riduzioni». Anche nel 2005, il  numero  di  sottoscrizioni  richieste
sarebbe stato «molto vicino» a quello attualmente vigente. 
    Infine,  l'Avvocatura  rileva  che  le  deroghe  e  le  eccezioni
succedutesi negli ultimi anni sarebbero  «sempre  state  giustificate
dalla necessita' di consentire l'applicazione di norme  sopravvenute,
soprattutto in concomitanza con scioglimenti anticipati delle Camere,
giustificazione di per se' pienamente  ragionevole  e  dimostrata  da
dati storici, sulla cui inattendibilita', peraltro, il  Tribunale  di
Roma non interloquisce». 
    9. - Con atto del 7 dicembre 2020, Riccardo Magi e l'Associazione
«+Europa» si sono  costituiti  nel  presente  giudizio  per  chiedere
l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale. 
    10.- Con successiva memoria, depositata il 2  febbraio  2021,  le
parti hanno svolto una serie di argomentazioni volte a  sostenere  la
richiesta di accoglimento. 
    In  replica  alle   eccezioni   di   inammissibilita'   sollevate
dall'Avvocatura  generale,  le  parti  affermano  che  il  rimettente
avrebbe plausibilmente motivato in  ordine  ai  profili  processuali.
Alla Corte costituzionale sarebbe pertanto precluso, per  consolidata
giurisprudenza, sovrapporre a tali motivazioni il proprio riesame. 
    Le  argomentazioni  dell'Avvocatura  generale  sarebbero  inoltre
fondate  su  «giurisprudenze  ormai  superate».  In  particolare,  in
ragione di quanto affermato nelle sentenze n. 35 del 2017 e n. 1  del
2014, sarebbe errata la tesi dell'insussistenza  della  giurisdizione
del giudice ordinario che la stessa Avvocatura desume  dalle  diverse
forme di tutela che sarebbero  riservate  al  diritto  di  elettorato
attivo e passivo. Saremmo invece in  presenza  di  «due  facce  della
stessa medaglia, in quanto espressive  del  principio  di  sovranita'
popolare». Sarebbe quindi inesatta l'interpretazione secondo cui solo
il diritto di elettorato attivo dovrebbe  poter  trovare  una  tutela
giurisdizionale piena. 
    Viceversa, come per il diritto di elettorato  attivo,  anche  per
quello passivo sarebbe necessario evitare un intollerabile vulnus  di
tutela,  che  tale  sarebbe  qualora  la  tutela  stessa  non   fosse
effettiva. In questa prospettiva, il  richiamo  alla  sentenza  della
Corte costituzionale n. 259 del 2009 apparirebbe pertanto «obsoleto e
stantio» e le conseguenze  desumibili  da  tale  decisione  sarebbero
«contrarie al principio di espansione della tutela giudiziaria e tali
da  creare  inaccettabili  "zone  franche"».   Infatti,   a   seguire
l'interpretazione dell'Avvocatura generale sulla sentenza n. 259  del
2009, il soggetto  escluso  dalla  competizione  elettorale  dovrebbe
«impugnare l'esclusione davanti all'ufficio elettorale, ricorrere poi
alla   Giunta   delle   elezioni,   che   declinerebbe   la   propria
giurisdizione, sollevare un conflitto di giurisdizione  davanti  alla
Corte di Cassazione, che indicherebbe il giudice competente,  recarsi
dal giudice cosi' individuato, sollevare la questione di legittimita'
costituzionale della normativa in tema di raccolta di firme, giungere
in Corte a sostenere  l'incostituzionalita',  vedere  annullata  tale
normativa,  tornare  dal   giudice   di   competenza   per   chiedere
l'ammissione  alle  elezioni».  Saremmo  dunque  in  presenza  di  un
aggravio   procedurale   che    inciderebbe    in    modo    decisivo
sull'effettivita' (e ovviamente  sulla  tempestivita')  della  tutela
giurisdizionale. 
    Inoltre, occorrerebbe tenere distinte le controversie concernenti
lo status e le prerogative del  singolo  parlamentare  -  rimesse  al
vaglio dei soli organi interni - dalle  indagini  «sull'esistenza  di
indebite  limitazioni  generali  e  astratte  alla  possibilita'   di
accedere, per chiunque ne abbia interesse,  al  novero  dei  soggetti
ammessi alla competizione elettorale». Queste  ultime  non  avrebbero
attinenza  al  regime  di  autodichia,  cosi'  come  delineato  dalla
sentenza  n.  262  del  2017,  e  sarebbero   invece   rimesse   alla
giurisdizione del giudice ordinario. 
    Alla luce delle citate sentenze n. 35 del 2017 e n. 1  del  2014,
anche il diritto di elettorato passivo - riconducibile alla categoria
dei   «diritti   "necessariamente    giustiziabili"»    -    andrebbe
«salvaguardat[o] e  [...]  bilanciat[o],  con  le  pur  comprensibili
prerogative dell'autonomia parlamentare». In particolare, proprio  in
virtu' di quanto previsto dall'art.  66  Cost.,  che  sottrae  alcuni
ambiti  al  controllo  giurisdizionale,  emergerebbe  la   «speculare
esigenza di consentire una verifica  sufficientemente  ampia  in  una
fase  precedente».  A  questo  scopo,  sarebbe  pertanto  «necessario
adottare un criterio esegetico ampliativo nell'interpretazione  delle
condizioni  dell'azione  propedeutiche  all'accesso  a  un  sindacato
giurisdizionale, che, altrimenti, verrebbe negato» (vengono citate le
sentenze della Corte costituzionale n. 387 del 2006 e della Corte  di
cassazione n. 4103 del 1982). 
    10.1.- Quanto all'interesse ad agire, le  parti  ne  motivano  la
sussistenza sia alla luce dell'instabilita' e dell'incertezza che  ha
caratterizzato negli anni la disciplina in  materia  di  procedimento
elettorale preparatorio - instabilita' in tesi idonea e sufficiente a
fondare un'azione di accertamento  (sono  citate  le  sentenze  della
Corte di cassazione n. 2209 del 1966, n. 1952 del 1976, n.  4496  del
2008 e n. 13566 del 2008) - sia in virtu' della citata necessita'  di
interpretare in modo non restrittivo  le  condizioni  dell'azione  in
materia elettorale, al fine di  consentire  di  «rimuovere  eventuali
illegittime barriere all'ingresso». 
    Ancora, viene evidenziato  come  l'effettivita'  del  diritto  di
elettorato   passivo   dipenderebbe   in   modo   importante    dalla
tempestivita' e dalla necessita' di definire le regole «prima  e  non
dopo lo svolgimento della fase di ammissione delle  candidature».  In
questa prospettiva, le parti contestano il tentativo  dell'Avvocatura
dello  Stato  di  effettuare  una  «segmentazione  atomistica   delle
argomentazioni», che impedirebbe di cogliere una corretta visione  di
insieme. Da questo punto di vista, il continuo susseguirsi di deroghe
e  di   novazioni   dimostrerebbe   l'incertezza   della   normativa,
l'insostenibilita' degli oneri imposti ai soggetti non esentati e, in
definitiva,   la   «sussistenza   di   un   interesse   a   ricorrere
tempestivamente, a tutela  del  corretto  espletamento  del  processo
democratico». 
    10.2.- Nel merito, con riferimento all'art. 18-bis, comma 1,  del
d.P.R. n. 361 del 1957, la difesa delle  parti  da'  anzitutto  conto
della circostanza per cui, anche a  seguito  dell'entrata  in  vigore
della legge costituzionale 19 ottobre  2020,  n.  1  (Modifiche  agli
articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di  riduzione  del
numero dei  parlamentari)  e  della  legge  27  maggio  2019,  n.  51
(Disposizioni per assicurare l'applicabilita' delle leggi  elettorali
indipendentemente dal numero dei parlamentari), la  disciplina  della
raccolta delle sottoscrizioni non avrebbe subito  modifiche.  Secondo
la tesi difensiva, anche a seguito della rideterminazione del  numero
dei parlamentari, il numero di firme richieste - pari  ad  un  totale
per le due Camere di 112.500 ridotte a 56.250 con la rideterminazione
del numero dei parlamentari - sarebbe  del  tutto  «irragionevole  ed
esorbitante l'esigenza  costituzionalmente  garantita  di  assicurare
l'ordinato svolgimento delle operazioni elettorali». 
    Considerando che la disciplina elettorale vigente fissa al 3  per
cento la soglia di sbarramento, soglia cui corrisponderebbe circa  un
milione di voti, l'art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del  1957,
produrrebbe l'effetto di pretendere da un  partito  che  tale  soglia
raggiunga  «di   ottenere   -   assumendo   prudenzialmente   che   i
sottoscrittori delle liste per  il  Senato  e  per  la  Camera  siano
perfettamente coincidenti (il che non  e')  -  la  sottoscrizione  di
oltre il 7% (o  5%  in  caso  di  elezioni  anticipate)  del  proprio
elettorato». Si tratterebbe di un «abnorme onere» anche alla luce  di
quanto previsto in altri  Paesi  europei,  ove  il  regime  applicato
sarebbe nettamente di maggior favore. 
    La sproporzione dell'onere previsto  dalla  disciplina  censurata
troverebbe ulteriore conferma nella stessa tendenza  del  legislatore
italiano  ad  intervenire  frequentemente,   in   prossimita'   delle
elezioni, con correttivi finalizzati proprio a renderne meno faticoso
l'assolvimento. 
    Anche le tempistiche dettate dal  legislatore  concorrerebbero  a
rendere eccessivamente onerosa la disciplina censurata. Le formazioni
politiche si vedrebbero infatti costrette a svolgere  l'attivita'  di
raccolta delle sottoscrizioni in soli 11 giorni. 
    La difesa dei ricorrenti del giudizio a quo si sofferma poi sulle
disposizioni relative  ai  collegamenti  tra  le  liste,  illustrando
un'opzione interpretativa, diversa da quella accolta dal  rimettente,
che eviterebbe di individuare nell'art. 18-bis del d.P.R. n. 361  del
1957 un ulteriore elemento di illegittimo aggravio della procedura  a
carico  delle  formazioni  politiche  che  decidano  di  coalizzarsi.
Seguendo la lettura proposta, i moduli per la  raccolta  delle  firme
dovrebbero  recare  i  soli  nomi  dei  candidati   per   i   collegi
plurinominali e non anche i nomi  dei  candidati,  concordati  tra  i
partiti, per i collegi uninominali.  Militerebbe  a  favore  di  tale
soluzione ermeneutica la circostanza che l'art. 18-bis, comma  1-bis,
del d.P.R. n.  361  del  1957  richiede  per  l'indicazione  di  tali
candidati la sottoscrizione per accettazione dei rappresentanti delle
liste collegate. 
    Laddove, al contrario, si ritenesse, con il giudice a quo, che la
disciplina imponga l'inserimento nei  moduli  per  le  sottoscrizioni
tanto dei nomi dei candidati nei  collegi  plurinominali  quanto  dei
candidati ai collegi uninominali,  se  ne  dovrebbe  dedurre  che  la
stessa irragionevolmente imporrebbe alle forze  politiche  coalizzate
«di  (i)  concordare  con  le  altre  liste  i  candidati  comuni  da
presentare nei collegi uninominali; (ii) stampare i relativi nomi sui
moduli  da  destinare  ai  diversi  collegi  plurinominali  e   (iii)
raccogliere e autenticare circa 112.500 firme, e tutto  in  un  lasso
temporale che va da 8 a 10 giorni». Cio' in quanto  la  dichiarazione
di collegamento, ai sensi dell'art. 14-bis  del  d.P.R.  n.  361  del
1957, dovendo avvenire contestualmente al deposito  del  contrassegno
di cui all'art. 14, deve essere effettuata non prima delle ore 8  del
quarantaquattresimo giorno antecedente le elezioni.  Se  si  sposasse
tale interpretazione, emergerebbe dunque un  ulteriore  elemento  per
l'accoglimento  della  questione   di   legittimita'   costituzionale
inerente l'art. 18-bis. 
    10.3.- Con riferimento all'art. 18-bis, comma 2,  del  d.P.R.  n.
361 del 1957, la difesa delle parti segnala che il regime di  esonero
ivi previsto rischierebbe di «cristallizzare  di  fatto  le  presenze
parlamentari a quelle attuali, prevedendo  l'esonero  dalla  raccolta
solamente a quelle  formazioni  politiche  che  siano  costituite  in
gruppo parlamentare addirittura in entrambi i rami  del  parlamento».
La  conseguenza  e'  che,   in   vista   delle   prossime   elezioni,
beneficerebbero del regime di esonero  totale  solo  cinque  partiti,
mentre l'Associazione «+Europa»  dovrebbe  adempiere  agli  oneri  di
raccolta delle firme pur essendo risultata la sesta lista piu' votata
alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. 
    A  conferma  del   carattere   irragionevole   della   disciplina
legislativa censurata,  le  parti  ripercorrono  tutte  le  modifiche
normative intervenute in materia, le  quali  attesterebbero,  da  una
parte  la  «massima  incertezza»  delle   regole   preparatorie   del
procedimento elettorale, dall'altro, la «storica consapevolezza della
loro concreta impraticabilita'». 
    10.4.- Le parti contestano poi le tesi dell'Avvocatura  generale,
secondo cui nel 1994 e nel 1996 i partiti sarebbero stati costretti a
presentare un  numero  ben  superiore  di  firme  rispetto  a  quelle
richieste dalla disciplina vigente:  non  sarebbe  infatti  possibile
procedere a un tale paragone alla luce  del  carattere  completamente
diverso della  disciplina  allora  applicabile.  Oltretutto,  proprio
l'esempio delle elezioni del 1994 dimostrerebbe l'irragionevolezza di
discipline  normative  tanto  rigide.  In  quell'occasione,  infatti,
alcune forze politiche che rappresentavano milioni  di  elettori  non
sarebbero  riuscite  a  presentare  propri  candidati  in  un  numero
considerevole di circoscrizioni. 
    Anche il confronto con le elezioni del 2006 sarebbe inconferente.
All'opposto, sarebbe invece  significativo  che,  proprio  dal  2006,
abbia avuto inizio la sequenza  di  interventi  normativi  correttivi
volti ad  ampliare,  sia  pur  in  regime  transitorio,  l'ambito  di
applicazione degli esoneri. 
    10.5.- Da  ultimo,  le  parti  si  soffermano  sull'eccezione  di
inammissibilita' sollevata dall'Avvocatura generale in relazione alla
richiesta di  una  pronuncia  «a  contenuto  "non  costituzionalmente
obbligato"».   Secondo   la   tesi   difensiva,   la   giurisprudenza
costituzionale  piu'  recente  tenderebbe  a  «superare   il   rigido
principio delle c.d. "rime obbligate", il quale presta  il  fianco  a
zone   d'ombra   della   legislazione,   sottratte    al    sindacato
costituzionale sotto lo scudo  della  discrezionalita'  legislativa».
Vengono a tal proposito citate l'ordinanza  n.  207  del  2018  e  la
sentenza n. 242 del 2019, sul cosiddetto  caso  Cappato,  nonche'  la
sentenza n.  40  del  2019:  da  tali  pronunce  si  desumerebbe  che
l'intervento della Corte costituzionale non richiede l'esistenza, nel
sistema, di un'unica soluzione costituzionalmente vincolata,  essendo
viceversa sufficiente che il «sistema nel suo  complesso  offra  alla
Corte "precisi punti di riferimento"  e  soluzioni  "gia'  esistenti"
(sentenza  n.  236  del  2016)»,  ancorche'  non  "costituzionalmente
obbligate", «che possano sostituirsi  alla  previsione  sanzionatoria
dichiarata   illegittima».   A   differenza   di    quanto    assunto
dall'Avvocatura generale, questa prospettiva, elaborata nella materia
del diritto penale, ove pure vige una rigorosa riserva di  legge  per
la  peculiare  rilevanza  che  riveste  il  valore   della   liberta'
personale, troverebbe ancora piu' spazio nella disciplina elettorale,
«particolarmente  incline  a  sfuggire  alle  maglie  del   sindacato
costituzionale». 
    A tal  proposito,  le  parti  sottolineano  come  l'ordinanza  di
rimessione si sia fatta carico di individuare un  «preciso  punto  di
riferimento gia' esistente» nella disciplina derogatoria  intervenuta
a  temperare   la   rigidita'   degli   oneri   di   raccolta   delle
sottoscrizioni. Le  previsioni  derogatorie  susseguitesi  nel  tempo
sarebbero  connotate  da  una  «ripetitivita'  dei  modelli  e  delle
soluzioni» e sarebbero pertanto suscettibili di assurgere  a  modello
cui fare riferimento, ben potendo comunque il legislatore intervenire
in un momento successivo a bilanciare in modo diverso  e  secondo  la
propria discrezionalita' gli interessi in gioco. 
    Cosi', con riferimento alle questioni di legittimita' relative al
numero  delle  firme  da  raccogliere,   la   disciplina   dichiarata
costituzionalmente illegittima potrebbe essere sostituita  da  quanto
previsto dall'art. 1, comma 1123, della legge n. 205 del 2017, che ha
ridotto a un quarto il numero delle sottoscrizioni  per  le  elezioni
del  2018,  a  nulla  rilevando  la  circostanza  che  si  tratti  di
disciplina derogatoria. 
    Con riferimento alla questione  di  legittimita'  concernente  il
regime di esonero, la  difesa  dei  ricorrenti  del  giudizio  a  quo
richiama le regole applicabili per l'elezione del Parlamento  europeo
e per alcuni Consigli regionali, che prevedono una deroga a beneficio
dei soggetti politici che abbiano anche un solo rappresentante eletto
in una delle due Camere o del Parlamento  europeo.  Anche  in  questo
caso, la  natura  derogatoria  di  tale  previsione  non  sarebbe  di
ostacolo alla decisione della Corte costituzionale, restando ferma la
possibilita'  per  il  legislatore  di  un   intervento   successivo.
Discrezionalita' legislativa che permarrebbe anche nel caso in cui la
Corte costituzionale si determinasse ad una pronuncia di accoglimento
«secca» della questione di legittimita'  costituzionale  relativa  al
numero  delle  firme,  che  determinerebbe  l'eliminazione   radicale
dell'onere di raccolta delle  sottoscrizioni  e,  per  l'effetto,  la
stessa necessita' del regime di esonero.  Una  simile  pronuncia  non
determinerebbe  infatti  alcuna  conseguenza  sul  funzionamento  del
meccanismo elettorale, ne' rischierebbe di costituire un «blocco  del
circuito rappresentativo». 
    11.- Con memoria depositata  il  2  febbraio  2021,  l'Avvocatura
generale dello Stato  ha  integrato  gli  argomenti  gia'  sviluppati
nell'atto di intervento. 
    11.1.-  Essa  ha  in  particolare  dato  conto  delle   modifiche
normative sopravvenute per effetto dell'entrata in vigore del decreto
legislativo 23 dicembre 2020,  n.  177  (Determinazione  dei  collegi
elettorali uninominali e plurinominali per  l'elezione  della  Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma  dell'articolo  3
della  legge  27  maggio  2019,  n.  51),  assumendo  che  le  stesse
dovrebbero indurre la Corte costituzionale a restituire gli  atti  al
giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza e  sulla  non
manifesta infondatezza delle questioni. 
    L'Avvocatura generale giunge a tale conclusione evidenziando  che
il giudice a  quo  avrebbe  fondato  la  tesi  della  «sproporzionata
distorsione delle legittime finalita'» della disciplina in esame  sul
carattere  particolarmente  restrittivo  della  stessa,  se  posta  a
confronto con le regole susseguitesi nel corso degli anni.  Le  norme
vigenti, imponendo di raccogliere  almeno  1.500  sottoscrizioni  per
ciascun collegio, obbligherebbero i partiti, secondo il rimettente, a
procurarsi, tenuto conto dei 63 collegi plurinominali, un  totale  di
94.500 firme, che si abbasserebbero a 47.250 in caso di  scioglimento
anticipato. Di conseguenza, secondo l'Avvocatura dello Stato, sarebbe
proprio «la stigmatizzazione dell'elevatezza»  di  tale  risultato  a
costituire  il  «punto  centrale  della  motivazione   che   sorregge
l'ordinanza di rimessione». 
    In tale contesto, dovrebbero allora essere considerate le novita'
introdotte dal d.lgs.  n.  177  del  2020  che,  dando  seguito  alla
riduzione del numero di parlamentari stabilita con legge cost.  n.  1
del 2020, ha determinato una «consistente diminuzione del numero  dei
collegi plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e  del
Senato della Repubblica». La Tabella A2 allegata al predetto  decreto
legislativo,  infatti,  ha  portato  a  49  il  numero  dei   collegi
plurinominali per l'elezione della  Camera,  con  la  conseguenza  di
ridurre a 73.500 il numero delle firme che ogni partito non esonerato
dovra'  raccogliere  su  tutto  il   territorio   nazionale;   36.750
nell'ipotesi  di  scioglimento  anticipato.  Proprio  la  centralita'
assunta  nell'ordinanza  di  rimessione  dell'argomento  relativo  al
numero di sottoscrizioni induce l'Avvocatura generale a ritenere  che
«la  sopravvenuta  modifica   normativa   pare   incidere   in   modo
significativo  sullo  scrutinio  di   rilevanza   e   non   manifesta
infondatezza delle stesse compiuta dal Tribunale di Roma». Ne  deriva
la richiesta di rimettere gli atti al giudice a quo, ai fini  di  una
nuova valutazione a riguardo. 
    11.2.- In subordine, la difesa erariale insiste per una pronuncia
di  inammissibilita'.  Anzitutto  ribadisce   che   la   carenza   di
giurisdizione del giudice ordinario si manifesterebbe ictu  oculi  in
base al disposto dell'art. 87 del d.P.R. n. 361 del  1957,  attuativo
dell'art.  66  Cost.,   e   sarebbe   confermata   da   una   diffusa
giurisprudenza della Corte costituzionale (vengono citate le sentenze
n. 259 del 2009 e n. 113 del 1993). Sarebbe pertanto caduto in errore
il giudice a quo che, per dimostrare il contrario, si appoggerebbe ad
una implausibile motivazione fondata sulla equiparazione tra  diritto
di elettorato attivo e passivo.  L'Avvocatura  insiste  poi  per  una
pronuncia di inammissibilita' in ragione  dell'evidente  mancanza  di
interesse ad agire dei ricorrenti nella causa principale. 
    11.3.- La difesa erariale eccepisce ex novo che,  nel  denunciare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 18-bis, comma 2, del d.P.R.
n. 361 del 1957, il Tribunale di  Roma  utilizzerebbe  «come  tertium
comparationis un'ipotesi che [...] non corrisponde alla situazione di
fatto dei ricorrenti nel giudizio principale,  i  quali  non  risulta
abbiano costituito  un  gruppo  parlamentare  in  uno  dei  rami  del
Parlamento». Con la conseguenza che «poiche' l'eventuale accoglimento
della suddetta questione da parte della Corte, come  prospettata  dal
giudice a  quo,  sarebbe  insuscettibile  di  incidere  nel  processo
principale, la stessa [dovrebbe]  ritenersi  irrilevante  e,  quindi,
inammissibile anche sotto tale profilo». 
    11.4.- Per  quanto  concerne  il  merito,  l'Avvocatura  generale
contesta la tesi secondo cui le formazioni  politiche  si  vedrebbero
costrette ad acquisire le sottoscrizioni richieste in soli 11  giorni
e in un periodo di tempo ancora piu'  esiguo  (tra  8  e  10  giorni)
laddove  si  tratti  di  partiti  in  coalizione.  L'assunto  sarebbe
smentito dal tenore dell'art. 14, comma 3, della legge 21 marzo 1990,
n. 53  (Misure  urgenti  atte  a  garantire  maggiore  efficienza  al
procedimento elettorale), ai sensi del quale «[l]e  sottoscrizioni  e
le relative autenticazioni sono nulle se anteriori al centottantesimo
giorno precedente il  termine  fissato  per  la  presentazione  delle
candidature». Verrebbe allora meno  un  fondamentale  elemento  della
ricostruzione da cui muove il  giudice  rimettente;  aspetto  cui  si
aggiunge la gia' ricordata riduzione, per effetto del d.lgs.  n.  177
del 2020, dei collegi e con essi del numero di firme  da  raccogliere
su tutto il territorio nazionale. 
    Ancora, l'Avvocatura generale ribadisce che, nel motivare i dubbi
di  costituzionalita',  il  giudice  a  quo  assumerebbe   a   tertia
comparationis previsioni che avrebbero trovato  applicazione  in  due
sole occasioni, che non sarebbero ormai piu' in vigore e che comunque
presenterebbero carattere derogatorio ed eccezionale. Ne  deriverebbe
che le stesse «non possono  essere  assunte  come  utili  termini  di
raffronto ai fini del giudizio sulla corretta  osservanza,  da  parte
del legislatore, del principio di eguaglianza e della  ragionevolezza
delle norme  incise  dal  giudizio  di  legittimita'  costituzionale»
(viene citata la sentenza  della  Corte  costituzionale  n.  208  del
2019). 
    Inoltre, a dimostrazione del fatto che la disciplina  legislativa
attualmente vigente non  sarebbe  sproporzionata  rispetto  alle  sue
finalita', la difesa erariale ricorda ancora che per le elezioni  del
1994 e del 1996 i partiti hanno dovuto raccogliere sottoscrizioni  in
numero  superiore  rispetto  a  quello  ora  richiesto.  Allora,  pur
dovendosi  considerare  il  dimezzamento  dovuto  allo   scioglimento
anticipato,  furono   complessivamente   richieste   167.150   firme.
Nonostante numeri cosi' alti, e  nonostante  l'assenza  di  qualsiasi
deroga,  le  formazioni  politiche  riuscirono  a  presentarsi   alle
elezioni. Anche in vista delle elezioni svoltesi nel 2006,  quando  i
partiti sarebbero stati chiamati a raccogliere un  numero  minimo  di
sottoscrizioni per la Camera pari a 97.300 - e dunque  superiori  sia
rispetto al numero indicato dal rimettente  (94.500),  sia  a  quello
derivante dall'applicazione del d.lgs. n. 177 del 2020 (73.500) -  il
sistema non  avrebbe  impedito  a  diverse  formazioni  politiche  di
partecipare alle elezioni. 
    Pertanto, secondo l'Avvocatura generale, le  deroghe  intervenute
nel  corso  degli  ultimi  anni,  giustificate   dagli   scioglimenti
anticipati, non dimostrerebbero l'insostenibilita' dell'onere posto a
carico dei partiti. Anzi, in anni in cui erano comunque indisponibili
«strumenti tecnologici (social network,  flash  mobs,  eccetera)  che
attualmente  consentono  di  concentrare  in   breve   tempo   bacini
consistenti di elettori per raccoglierne le sottoscrizioni»,  diverse
forze   politiche   sarebbero   comunque   riuscite   a   raccogliere
sottoscrizioni in numeri  superiori  rispetto  a  quelli  attualmente
richiesti. 
    Da  ultimo,  la  difesa  dello  Stato  mette  in  discussione  la
pertinenza del richiamo ad esperienze straniere. Cio'  in  quanto  il
giudice a quo si sarebbe  limitato  a  confrontare  i  meccanismi  di
raccolta delle firme senza contestualizzarli «nell'ambito dei diversi
sistemi elettorali»  e  «senza  tenere  conto  delle  altre  barriere
previste dai rispettivi  ordinamenti  (ad  esempio  i  robusti  oneri
economici connessi  alla  presentazione  delle  liste  elettorali  in
Francia), che concorrono con il predetto limite». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di  Roma  solleva   questioni   di
legittimita' costituzionale dei commi 1  e  2  dell'art.  18-bis  del
d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361  (Approvazione  del  testo  unico  delle
leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati).  Tali
disposizioni  stabiliscono,  rispettivamente,  il  numero  minimo  di
sottoscrizioni che ciascuna lista deve  raccogliere  per  presentarsi
alle elezioni per la Camera dei  deputati  (comma  1)  e  i  soggetti
esonerati dal relativo onere (comma 2). 
    E' innanzitutto oggetto di censure il citato art.  18-bis,  comma
1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall'art.1, comma  10,
lettera a), della legge 3 novembre 2017, n. 165 (Modifiche al sistema
di elezione della Camera dei deputati e del Senato della  Repubblica.
Delega al  Governo  per  la  determinazione  dei  collegi  elettorali
uninominali e plurinominali), «nella parte in  cui  richiede  per  la
presentazione delle candidature  per  il  rinnovo  della  Camera  dei
deputati un numero minimo di 1500 sottoscrizioni  per  ogni  collegio
plurinominale,  ovvero  di  1500  ridotto  della  meta'  in  caso  di
scioglimento della Camera dei deputati che ne anticipi la scadenza di
oltre centoventi giorni»,  anziche'  «tali  numeri  ridotti  a  1/4».
Quest'ultimo  riferimento  numerico,  ai  fini  della  richiesta   di
pronuncia sostitutiva, e' rinvenuto dal rimettente nell'art. l, comma
1123, della legge 27 dicembre 2017, n. 205  (Bilancio  di  previsione
dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il
triennio 2018-2020), che aveva appunto disposto, per  le  sole  prime
elezioni  successive  alla  propria  entrata  in  vigore,  la  citata
riduzione ad un quarto delle  sottoscrizioni  richieste  dalla  norma
censurata. 
    L'art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 violerebbe gli
artt. 1, secondo comma; 3; 48, secondo comma; 51, primo comma e  117,
primo comma, della Costituzione. Alla luce  soprattutto  dell'elevato
numero  complessivo  dei  collegi  in  cui  le  firme  devono  essere
acquisite, nonche' del breve tempo a disposizione per la raccolta, la
disciplina in questione determinerebbe, infatti, una irragionevole  e
sproporzionata limitazione del  diritto  di  elettorato  passivo,  in
contrasto con i principi della rappresentativita' democratica  e  del
libero  esercizio  del  diritto  di  voto,  come  interpretati  dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    I dubbi di legittimita' costituzionale del rimettente  riguardano
anche l'art. 18-bis, comma 2,  del  d.P.R.  n.  361  del  1957,  come
modificato dall'art. 2, comma 10, lettera b), della  legge  6  maggio
2015, n. 52 (Disposizioni in materia di  elezione  della  Camera  dei
deputati), «nella parte  in  cui  limita  l'esenzione  dell'onere  di
raccolta delle sottoscrizioni ai partiti o gruppi politici costituiti
in gruppo parlamentare in entrambe le  Camere»,  anziche'  includere,
tra i soggetti esonerati, i partiti o i gruppi politici costituiti in
gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere  all'inizio  della
legislatura  in  corso  al  momento  della  convocazione  dei  comizi
elettorali. Il riferimento per la pronuncia sostitutiva richiesta  e'
rinvenuto nell'art. 2, comma 36, della legge n.  52  del  2015,  come
modificato dall'art. 6, comma 1, della legge n. 165 del 2017, recante
una previsione che, anche in tal  caso,  valeva  per  le  sole  prime
elezioni successive all'entrata in vigore della norma. 
    Anche per questa  seconda  censura,  i  parametri  costituzionali
evocati sono gli artt. 1, secondo comma; 3; 48,  secondo  comma;  51,
primo comma, e 117, primo comma, Cost.  A  dire  del  rimettente,  la
limitata estensione soggettiva dell'esenzione determinerebbe  infatti
una irragionevole sproporzione tra il  diritto  di  partecipare  alla
competizione elettorale riconosciuto  alle  forze  politiche  che  si
siano costituite in gruppi parlamentari in entrambe le  Camere  e  le
altre   forze   politiche,   incidendo   cosi'   sul   principio   di
rappresentativita' democratica e sul libero esercizio del diritto  di
voto,   come   interpretati   dalla   giurisprudenza   della    Corte
costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Osserva, peraltro, il giudice a quo, che i dubbi di  legittimita'
costituzionale sollevati non investono, «di per se',  ne'  il  numero
delle sottoscrizioni che attualmente devono essere raccolte  [...]  e
nemmeno l'esistenza, in se', dell'esenzione dal  relativo  onere  per
alcune soltanto delle formazioni politiche». Quello che il rimettente
piuttosto lamenta e' l'effetto congiunto «di una pluralita' di limiti
all'esercizio del diritto di candidarsi ex art. 51,  co.  1,  Cost.»:
l'effetto moltiplicatore del numero minimo di sottoscrizioni  (1.500)
per l'ampio numero  dei  collegi  in  cui  la  raccolta  deve  essere
effettuata; il ristretto intervallo temporale a disposizione a questo
scopo,  con  l'eccezione  del  maggior  intervallo  consentito   alle
formazioni politiche che non si candidano in coalizione; il  limitato
ambito soggettivo dell'esenzione  dal  relativo  onere;  il  connesso
margine  d'incertezza  derivante  dall'attribuzione  ai   regolamenti
parlamentari,  e  non  ad  una  fonte  di  rango   costituzionale   o
legislativo,  della  disciplina  circa  la  formazione   dei   gruppi
parlamentari, presupposto determinante per beneficiare dell'esenzione
dall'onere di raccolta; il grado d'incertezza ingenerato dalla prassi
di attenuare, nell'imminenza  dello  scioglimento  delle  Camere,  la
disciplina  dei  presupposti  legittimanti  la  partecipazione   alla
competizione elettorale. 
    Tutti  questi  elementi  determinerebbero,  particolarmente,   la
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.  «per  contrasto  con  i
principi di buona condotta elettorale  e  di  certezza  delle  regole
elettorali,  ritenuti  dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo
fondamentali  ai  fini  del  rispetto  dell'art.  3»  del  Protocollo
addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia   dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952. 
    2.- Le questioni di legittimita' costituzionale all'odierno esame
pongono   un   problema   di   particolare   delicatezza,    relativo
all'effettivita' e alla tempestivita'  della  tutela  giurisdizionale
che puo' essere domandata e  ottenuta,  in  vista  dello  svolgimento
delle  elezioni  politiche  nazionali,  nell'ambito  del   cosiddetto
contenzioso elettorale preparatorio. Tale espressione,  ha  osservato
questa Corte, si riferisce alle controversie  relative  a  tutti  gli
atti del «procedimento  preparatorio  alle  elezioni,  nel  quale  e'
inclusa la fase dell'ammissione delle liste o di candidati» (sentenza
n. 236 del  2010).  Il  contenzioso  che  insorge  in  tale  fase  si
distingue cosi' da quello occasionato dal  «procedimento  elettorale»
vero e proprio, che invece comprende le  controversie  relative  alle
operazioni elettorali e alla successiva proclamazione degli eletti. 
    Va immediatamente precisato che, nel caso di specie, non si versa
in un  contenzioso  interno  al  procedimento  preparatorio,  per  la
semplice ragione che le elezioni politiche, nel  momento  in  cui  il
giudizio principale e' stato promosso, non sono ancora state indette,
non essendo stati convocati i comizi elettorali (art. 11  del  d.P.R.
n. 361 del 1957), ne' si e' percio' in presenza di  provvedimenti  di
alcun genere adottati dagli uffici elettorali. 
    Cio' non  toglie,  come  si  vedra',  che  la  valutazione  circa
l'esistenza di un'effettiva e  tempestiva  tutela  giurisdizionale  -
nell'ambito del procedimento preparatorio alle  elezioni,  una  volta
avviato - assume rilievo per la presente pronuncia, condizionando  la
decisione  sull'ammissibilita'  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale. 
    3.- In una fase  dunque  precedente  all'avvio  del  procedimento
elettorale  preparatorio,  tali  questioni   sono   state   sollevate
nell'ambito di un giudizio instaurato ai sensi dell'art. 702-bis  del
codice di procedura civile, attraverso la proposizione  di  un'azione
volta, tra l'altro,  ad  accertare  il  diritto  dei  ricorrenti  «di
candidarsi e presentare liste di  candidati  alle  prossime  elezioni
politiche raccogliendo un numero di sottoscrizioni non  superiore  ad
un  quarto  di  quello  previsto  dall'art.  18-bis  del  d.P.R.   n.
361/1957», nonche' quello «di  presentare  liste  di  candidati  alle
prossime  elezioni  politiche  senza  raccogliere  le  sottoscrizioni
previste dal d.P.R. n. 361/1957». 
    Poiche' la formulazione letterale  del  citato  art.  18-bis  del
d.P.R. n. 361 del 1957 - che indica sia  il  numero  delle  firme  da
raccogliere, sia il relativo  regime  di  esenzione  -  non  consente
l'accoglimento della domanda, risultano rilevanti, cosi' argomenta il
giudice a quo, le questioni di legittimita' costituzionale  sollevate
nei termini precedentemente illustrati. 
    4.- In via preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto  in  giudizio,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, eccepisce che il giudice a quo difetterebbe «in
modo macroscopico e manifesto» di giurisdizione. 
    Sostiene, in particolare, l'Avvocatura generale che l'art. 87 del
d.P.R.  n.  361  del  1957,  in  attuazione   dell'art.   66   Cost.,
riserverebbe  alla  Camera   dei   deputati   ogni   controversia   e
contestazione  relativa  al  procedimento  elettorale,   intendendosi
incluso   in   questa   definizione   il   procedimento    elettorale
preparatorio. 
    Sarebbe  inoltre  implausibile  il   ragionamento   del   giudice
rimettente,  che  ha  individuato   il   fondamento   della   propria
giurisdizione  nelle  motivazioni  dell'ordinanza  della   Corte   di
cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060,  con  cui
e' stata rimessa la  questione  di  legittimita'  costituzionale  poi
definita con la sentenza n. 1 del 2014 di questa Corte. 
    Infatti, a differenza di quel caso, nelle presenti questioni  non
sarebbe in gioco il  diritto  di  elettorato  attivo,  bensi'  quello
passivo, e le due situazioni non sarebbero equiparabili.  Il  diritto
di voto  sarebbe  infatti  «espressione  della  sovranita'  popolare,
connesso alla mera qualita' di cittadino e  al  raggiungimento  della
maggiore eta' (art. 48 Cost.) e, percio', soggetto alla giurisdizione
del giudice ordinario». Invece,  il  diritto  di  elettorato  passivo
sarebbe «espressione  della  capacita'  giuridica  di  accedere  alla
carica elettiva, esercitabile esclusivamente tramite  la  candidatura
(in assenza della quale, o del verificarsi  dei  presupposti  perche'
questa si concretizzi, vale a dire l'indizione delle  elezioni,  esso
assume[rebbe]  un  carattere  meramente  virtuale),   limitabile   in
determinati   casi   (art.   65   Cost.)   e,   percio',   tutelabile
esclusivamente in sede  di  "verifica  dei  poteri",  alla  quale  fa
riferimento, per quanto riguarda le  elezioni  politiche,  l'art.  66
Cost.». 
    4.1.- La decisione su  tale  eccezione  sollecita,  da  parte  di
questa Corte, alcune puntualizzazioni sull'interpretazione  dell'art.
66 Cost. («Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei  suoi
componenti  e  delle  cause  sopraggiunte  di  ineleggibilita'  e  di
incompatibilita'»), disposizione che si trova in stretta  connessione
con gli artt. 23 e 87, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957. 
    Secondo l'art. 23, comma 2, contro le  decisioni  adottate  dagli
Uffici  centrali  circoscrizionali  di  ricusazione  di  liste  o  di
dichiarazione d'invalidita' delle candidature, i  delegati  di  lista
possono ricorrere all'Ufficio centrale nazionale. Come  affermato  da
questa Corte, l'attivita' di controllo  svolta  da  tali  collegi  ha
natura amministrativa: il fatto che siano collocati presso  le  Corti
d'appello e la Corte  di  cassazione  «non  comporta  che  i  collegi
medesimi   siano   inseriti   nell'apparato   giudiziario,   evidente
risultando la carenza, sia sotto  il  profilo  funzionale  sia  sotto
quello  strutturale,  di  un  nesso   organico   di   compenetrazione
istituzionale che consenta di ritenere che essi costituiscano sezioni
specializzate degli uffici  giudiziari  presso  cui  sono  costituiti
(sentenza n. 387 del 1996; conformi, ex plurimis, sentenze n. 29  del
2003, n. 104 del 2006, n. 164 del 2008)» (sentenza n. 259 del 2009). 
    Per parte sua, l'art. 87, comma 1, del d.P.R.  n.  361  del  1957
dispone che «[a]lla Camera dei deputati  e'  riservata  la  convalida
della  elezione  dei  propri  componenti.  Essa  pronuncia   giudizio
definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su  tutti
i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni  elettorali  o
all'Ufficio centrale durante la  loro  attivita'  o  posteriormente».
Sempre  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  ha  affermato  che  il
controllo cosi' effettuato dalle  Camere  si  configura  come  «unica
eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di
elezioni» (di nuovo sentenza n. 259 del 2009; in precedenza  sentenza
n. 113 del 1993). 
    Sul complesso delle norme citate, come e' noto, si e' consolidato
un orientamento giurisprudenziale di legittimita', qualificabile alla
stregua di diritto  vivente,  secondo  cui  rispetto  alle  decisioni
dell'Ufficio  centrale  nazionale  sussiste   difetto   assoluto   di
giurisdizione,  sia   del   giudice   ordinario   che   del   giudice
amministrativo,  perche'  proprio  l'art.   66   Cost.   riserverebbe
esclusivamente alle Camere, tramite le rispettive  Giunte,  anche  il
giudizio sul contenzioso  pre-elettorale,  compreso  quello  relativo
all'ammissione  delle  liste,  restando  cosi'   precluso   qualsiasi
intervento giurisdizionale, anche di  natura  cautelare  (ex  multis,
Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze  15  febbraio  2013,  n.
3731; 8 aprile 2008, n. 9153, n. 9152 e n. 9151; 6  aprile  2006,  n.
8119 e 8118; 9 giugno 1997, n.  5135).  Il  contenzioso  in  esame  -
stabilisce  per  parte  sua  la   giurisprudenza   amministrativa   -
risulterebbe dunque ripartito fra l'Ufficio centrale nazionale  e  le
Assemblee  parlamentari,  in  virtu'  di  una  norma  eccezionale  di
carattere derogatorio (l'art. 66 Cost.), che delineerebbe  un  regime
di riserva parlamentare, strumentale  alla  necessita'  di  garantire
l'indipendenza del Parlamento (ex plurimis, Tribunale  amministrativo
regionale per il Lazio, sezione seconda  Bis,  sentenze  13  febbraio
2018, n. 1719 e n. 1722; 12 febbraio 2018, n. 1645). 
    Contestualmente, e di  converso,  le  Giunte  delle  elezioni  di
Camera e Senato - con orientamento, anche in  questo  caso,  costante
almeno a partire  dalla  XIII  Legislatura  (1996-2001)  -  ritengono
bensi' sussistente  la  propria  competenza  a  pronunciare  giudizio
definitivo, ai sensi dell'art. 87 del d.P.R. n.  361  del  1957,  sui
ricorsi  e  reclami,  compresi  quelli   relativi   al   procedimento
elettorale preparatorio, ma solo al fine di verificare  i  titoli  di
ammissione degli eletti. Ritengono cioe' le Giunte  di  conoscere  di
ogni fase del procedimento  elettorale,  compresa  quella  precedente
l'apertura dei seggi, ma esclusivamente ai fini  del  giudizio  sulla
corretta composizione dell'organo elettivo. In questa lettura, l'art.
66 Cost. non include la possibilita' di  un  sindacato  delle  Camere
sulle esclusioni di contrassegni, liste  o  candidati,  decise  prima
dello svolgimento delle elezioni (ex plurimis, Giunta delle  elezioni
e delle immunita' parlamentari del Senato,  sedute  dell'11  dicembre
2018 e del 2 luglio 2013, nonche' Giunta delle elezioni della  Camera
dei deputati, seduta dell'11 dicembre 2018). 
    In relazione alle decisioni degli uffici elettorali  che  abbiano
limitato  il  diritto  dei  cittadini  di  presentare  liste   o   di
candidarsi, ne risulta un quadro complessivo in cui  le  controversie
che precedono lo svolgimento delle  elezioni  politiche  scontano  un
evidente vuoto di tutela giurisdizionale; assenza di  tutela  che  si
riproduce anche di fronte alle Giunte delle Camere, pur  ad  elezioni
avvenute. 
    4.2.- I problemi posti da questo peculiare assetto normativo sono
giunti, in passato, all'attenzione di questa Corte, sia attraverso la
via del conflitto tra poteri, sollevato da associazioni politiche nei
confronti di Camera e Senato,  sia  attraverso  il  giudizio  in  via
incidentale. 
    In un primo caso di conflitto, era lamentato che «lo strettissimo
lasso di tempo a disposizione  per  la  raccolta  delle  firme  e  la
necessita' di definire le candidature in anticipo rispetto alle altre
formazioni politiche» producevano  il  rischio  di  esclusione  dalla
competizione elettorale in numerose circoscrizioni,  con  conseguente
lesione del diritto, sancito dall'art. 49 Cost., di  parteciparvi  in
condizioni di parita' con gli altri partiti. Il  conflitto  e'  stato
dichiarato   inammissibile,   in   ragione   dell'impossibilita'   di
riconoscere ai partiti politici  la  natura  di  poteri  dello  Stato
(ordinanza n. 79 del 2006). 
    Similmente, nella recente ordinanza n. 196  del  2020,  e'  stato
altresi' dichiarato inammissibile, di nuovo per carenza del requisito
soggettivo,  un  conflitto  tra  poteri  promosso   dall'Associazione
«+Europa», la medesima ricorrente dell'odierno  giudizio  principale.
In quella occasione era lamentata l'asserita violazione  degli  artt.
48 e 49 Cost., per non aver il legislatore introdotto, a  favore  dei
partiti politici gia' presenti nel  Parlamento  nazionale,  l'esonero
dalla raccolta delle firme per  la  presentazione  delle  liste  alle
elezioni regionali dell'autunno 2020. La ricorrente aveva dato conto,
tra l'altro, dell'impossibilita' di «percorrere la via  del  giudizio
incidentale»,  in  ragione  della   impraticabilita'   del   «rimedio
dell'impugnazione giudiziale  del  provvedimento  che  escludesse  la
ricorrente  dalle  competizioni  elettorali  a  causa  della  mancata
raccolta delle firme». 
    Sollevata invece in via incidentale, la questione di legittimita'
costituzionale relativa all'impossibilita' di ricorrere a un  giudice
nei  confronti  delle  decisioni   adottate   dall'Ufficio   centrale
nazionale  e'  stata  dichiarata  manifestamente  inammissibile,  sia
perche'  il  rimettente  non  aveva  indicato  la  giurisdizione  cui
riteneva necessario devolvere  la  cognizione,  sia  perche'  si  era
ritenuto che, attraverso la questione di legittimita' costituzionale,
fosse in realta' sollecitata «una radicale  riforma  legislativa  che
eccede[va] i compiti di questa Corte» (ordinanza n. 512 del 2000). 
    Successivamente, la  sentenza  n.  259  del  2009  ha  nuovamente
affrontato una questione di legittimita' costituzionale sollevata  in
via incidentale nei confronti degli artt. 23 e 87 del d.P.R.  n.  361
del 1957, nella parte in cui non prevedono  l'impugnabilita'  davanti
al  giudice  amministrativo  delle  decisioni  dell'Ufficio  centrale
nazionale.   Anche   in   tal   caso   la    pronuncia    e'    stata
d'inammissibilita', ma ad essa si e' giunti  attraverso  affermazioni
di rilievo per il caso ora in esame. 
    La sentenza osservava che, pur non essendosi in  presenza  di  un
vuoto di tutela, si versava in una  situazione  di  «incertezza»  sul
giudice competente, frutto di  una  «divergenza  interpretativa»  sul
significato degli artt. 23 e 87  del  d.P.R.  n.  361  del  1957,  da
risolvere   «con   gli   strumenti    giurisdizionali,    comuni    e
costituzionali, esistenti». Affermava, inoltre,  che  il  diniego  di
giurisdizione da parte del  Parlamento  sulle  situazioni  giuridiche
soggettive, in ipotesi lese nel procedimento elettorale  preparatorio
alle elezioni politiche, comporterebbe, al piu', che sulla  questione
«possa sorgere un conflitto di giurisdizione, che non spetta a questa
Corte risolvere» (analogamente, nell'ordinanza n. 117 del  2006,  era
stato dichiarato «irricevibile» un ricorso per conflitto  tra  poteri
che richiedeva, in realta', la risoluzione di un  conflitto  negativo
di giurisdizione). 
    Peraltro, la sentenza n. 259 del 2009 negava  l'esistenza  di  un
vuoto  di  tutela  sottolineando,  soprattutto,  che  «le   questioni
attinenti le candidature, che vengono ammesse o respinte dagli uffici
competenti, nel procedimento elettorale preparatorio,  riguardano  un
diritto soggettivo, tutelato per di piu' da una norma costituzionale,
come tale rientrante, in linea di principio, nella giurisdizione  del
giudice  ordinario»   (cio'   che,   in   quel   caso,   giustificava
l'inammissibilita' della questione, volta invece a ottenere, come  si
e' detto, con sentenza additiva, l'impugnabilita' davanti al  giudice
amministrativo  delle  decisioni  dell'Ufficio  centrale   nazionale:
mentre soltanto una legge, ai sensi  dell'art.  103  Cost.,  potrebbe
introdurre  in  materia   un'ulteriore   ipotesi   di   giurisdizione
esclusiva). 
    Confortava,  inoltre,  nella  medesima   direzione   la   vigenza
dell'art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni  per  lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita' nonche'  in
materia di processo civile), che delegava il Governo - con  delega  i
cui termini non erano scaduti nel momento in cui la Corte decideva la
questione - ad introdurre, appunto, la  giurisdizione  esclusiva  del
giudice  amministrativo  nelle  controversie  concernenti  atti   del
procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per  il  rinnovo
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. 
    Per questa parte, la delega e' poi stata lasciata  scadere.  Quel
che ora conta, tuttavia, e' che questa Corte - affermando,  pur  solo
in principio, la giurisdizione del giudice  ordinario  in  materia  -
gia' allora riteneva che la forza precettiva dell'art. 66  Cost.  non
copre il contenzioso pre-elettorale,  che  percio'  ben  puo'  essere
escluso dal perimetro di efficacia della norma costituzionale. 
    4.3.- A distanza di oltre un  decennio,  scaduta  inutilmente  la
delega ricordata, consolidatosi il  citato  "diritto  vivente"  della
giurisprudenza di legittimita', condiviso da  quella  amministrativa,
confermatasi  la  ricordata  prassi   interpretativa   delle   Giunte
parlamentari, questa conclusione - gia' presente  nella  sentenza  n.
259 del 2009 - va ribadita e ulteriormente argomentata. 
    Essa e' coerente sia con il tenore testuale dell'art.  66  Cost.,
sia  con  l'ispirazione  fondamentale  che   guido'   i   Costituenti
nell'approvazione   di   questa   norma   costituzionale:   garantire
l'autonomia delle Assemblee parlamentari  nella  decisione  circa  le
controversie relative ai titoli di ammissione dei propri componenti e
percio', deve intendersi, dei proclamati eletti,  e  solo  di  questi
ultimi. 
    In Assemblea Costituente fu vivacemente  discussa  la  scelta  se
riservare la verifica sulle elezioni alle Camere o ad  organi  (anche
giurisdizionali) ad esse estranee, ma non venne mai messo  in  dubbio
che la verifica da disciplinare  in  Costituzione  dovesse  avere  ad
oggetto esclusivamente l'accertamento della condizione di  quanti,  a
seguito del voto, fossero stati proclamati  eletti.  Ad  esempio,  il
riferimento  esplicito  ad  un  accertamento  da  condurre  solo  nei
confronti di chi fosse «eletto deputato» era  stato  svolto  dall'on.
Ambrosini  nella  seduta  del  19  settembre   1946   della   seconda
Sottocommissione della  Commissione  per  la  Costituzione;  e  nella
stessa seduta l'on. Codacci Pisanelli evidenziava  come  alle  Giunte
parlamentari fosse rimesso il compito di accertare l'esistenza «negli
eletti» di determinati requisiti. 
    Ferma, quindi, questa ratio essenziale, come  emerge  dai  lavori
dell'Assemblea costituente, il tenore dell'art. 66 Cost. non  sottrae
affatto al giudice ordinario, quale giudice naturale dei diritti,  la
competenza a conoscere della violazione  del  diritto  di  elettorato
passivo nella fase antecedente alle elezioni, quando non  si  ragiona
ne' di componenti eletti di un'assemblea parlamentare  ne'  dei  loro
titoli di ammissione. 
    E', del resto,  il  rilievo  stesso  del  diritto  di  elettorato
passivo, «aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini  alla
vita democratica» (sentenza  n.  141  del  1996),  a  imporre  questa
soluzione. La  giurisprudenza  costituzionale  riconosce  in  effetti
nell'elettorato passivo un diritto politico fondamentale, che  l'art.
51  Cost.  garantisce  a  ogni  cittadino  con  i  caratteri   propri
dell'inviolabilita' ex art. 2 Cost. (ex multis, sentenze  n.  25  del
2008, n. 288 del 2007, n. 160 del 1997, n. 344 del 1993, n.  539  del
1990, n. 571 del 1989 e n. 235 del 1988). 
    Inoltre, se e' vero che una tutela dei diritti effettiva richiede
l'accesso a un giudice (art. 24 Cost.: tra le tante, sentenze n.  182
del 2014 e n. 119 del 2013), risulta  ancora  piu'  evidente  che  il
presidio della  tutela  giurisdizionale  deve  assistere  un  diritto
inviolabile, quale quello ora in esame. 
    Previsione del diritto inviolabile  e  garanzia  del  ricorso  al
giudice  per  assicurarne  la  tutela  devono  insomma  coesistere  e
sorreggersi reciprocamente. Del resto, questa Corte non ha esitato ad
ascrivere il diritto alla  tutela  giurisdizionale  «tra  i  principi
supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui e'  intimamente
connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare a tutti e
sempre,  per  qualsiasi  controversia,  un  giudice  e  un  giudizio»
(sentenza n. 18 del 1982, nonche', nello  stesso  senso,  n.  82  del
1996). Particolarmente  nella  prospettiva  dell'effettivita',  «[a]l
riconoscimento  della   titolarita'   di   diritti   non   puo'   non
accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi  a
un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale» (sentenza n.
26 del 1999): pertanto, l'azione in giudizio per la difesa dei propri
diritti e' essa stessa il contenuto di  un  diritto,  protetto  dagli
artt. 24 e  113  Cost.,  da  annoverarsi  tra  quelli  inviolabili  e
caratterizzanti lo stato democratico di diritto. «Ne' e' contestabile
che il diritto al giudice ed a una tutela  giurisdizionale  effettiva
dei diritti inviolabili e'  sicuramente  tra  i  grandi  principi  di
civilta' giuridica in ogni  sistema  democratico  del  nostro  tempo»
(sentenza n. 238 del 2014). 
    In definitiva, se «la "grande regola" del diritto  al  giudice  e
alla tutela giurisdizionale effettiva dei propri diritti,  in  quanto
scelta che appartiene  ai  grandi  principi  di  civilta'  del  tempo
presente, non puo' conoscere  eccezioni»,  salvo  quelle  strumentali
alla necessita' di garantire l'indipendenza del Parlamento  (sentenza
n. 262 del 2017), non vi sono  ragioni  per  attribuire  all'art.  66
Cost.  il  significato  di  estendere,   anziche'   ridurre,   quelle
eccezioni. 
    Spetta naturalmente alla giurisprudenza comune  tenere  in  conto
questa  interpretazione,  quanto  alla  conseguente   lettura   delle
disposizioni di  legge  ordinaria  che  con  l'art.  66  Cost.  fanno
sistema, e fra queste, soprattutto, dell'art. 87 del  d.P.R.  n.  361
del 1957. 
    4.4.- Ne' e' decisiva - come assume l'Avvocatura  generale  dello
Stato - la distinzione, ritenuta di natura strutturale,  tra  diritto
di elettorato attivo e diritto di elettorato passivo, affermando  che
essa condurrebbe di necessita' a riservare il  secondo  diritto  alla
cognizione delle Camere. 
    A prescindere dalle innegabili differenze che qualificano il modo
d'essere dei due  diritti,  il  ragionamento  fin  qui  condotto,  in
relazione alla fase precedente lo  svolgimento  delle  elezioni,  non
ammette una tale distinzione. Entrambi gli  aspetti  del  diritto  di
voto esigono tutela, in quella fase, di fronte a un  giudice:  quello
ordinario, che ne e' in principio il  giudice  naturale,  oppure,  se
cosi'  la  legge  preveda,  il  giudice  amministrativo,  in  via  di
giurisdizione esclusiva (art. 103 Cost.). 
    Sotto  un  profilo  diverso  da  quello  evocato  dall'Avvocatura
generale, la cennata distinzione tra il diritto di elettorato  attivo
e quello passivo consente semmai di evidenziare ancor piu'  il  vuoto
di tutela che caratterizza l'attuale regime del secondo. 
    Laddove il diritto di elettorato attivo sia messo in  discussione
nella sua stessa esistenza, l'ordinamento appresta un idoneo  rimedio
giurisdizionale:  cosi',  per  contestare  un  provvedimento   (delle
competenti  Commissioni  elettorali)  di  cancellazione  dalle  liste
elettorali,  oppure  la  mancata  iscrizione  in  queste,  la   legge
attribuisce il diritto di agire davanti al giudice ordinario (art. 42
del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223,  recante  «Approvazione  del  testo
unico delle leggi per la disciplina dell'elettorato attivo e  per  la
tenuta  e  la  revisione  delle  liste  elettorali»),  con  procedura
regolata dal rito sommario di  cognizione  (art.  24,  comma  1,  del
decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, recante  «Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione dei  procedimenti  civili  di  cognizione,  ai  sensi
dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»), e  la  relativa
controversia e' trattata in ogni grado in  via  d'urgenza  (art.  24,
comma 9, del  d.lgs.  appena  citato).  Nel  corso  della  procedura,
inoltre, ben  possono  essere  sollevate  questioni  di  legittimita'
costituzionale sulla disciplina che regola l'elettorato attivo  e  la
tenuta e la revisione delle  liste  elettorali,  come  testimonia  la
sentenza  n.  47  del   1970   di   questa   Corte,   che   dichiaro'
costituzionalmente illegittime alcune previsioni del  d.P.R.  n.  223
del 1967. 
    Come e' noto, inoltre, le sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017
hanno   considerato    ammissibili    questioni    di    legittimita'
costituzionale sollevate in relazione a  norme  di  legge  dalla  cui
applicazione possa derivare non gia' - come da quelle sulla tenuta  e
sulla revisione delle liste elettorali -  una  lesione  all'esistenza
stessa del diritto di elettorato attivo, bensi'  un'incertezza  circa
la pienezza del diritto di voto e  la  sua  conformita'  ai  principi
costituzionali, come ritenevano  in  quelle  occasioni  i  giudici  a
quibus  a  causa  delle  norme  del  sistema  elettorale  -  o,  piu'
precisamente, della formula elettorale - di volta in volta vigente. 
    Sollevate di fronte al giudice ordinario,  investito  di  ricorsi
che miravano appunto ad ottenere l'accertamento  della  pienezza  del
diritto di voto e della  conformita'  della  sua  regolamentazione  a
Costituzione,  l'ammissibilita'  delle  questioni   di   legittimita'
costituzionale su leggi elettorali e'  stata  motivata  -  oltre  che
sulla base del positivo riscontro del  rapporto  di  pregiudizialita'
tra giudizio a quo e  giudizio  costituzionale  e  sulla  scorta  del
rilievo essenziale del diritto oggetto di accertamento -  soprattutto
in nome dell'«esigenza  che  non  siano  sottratte  al  sindacato  di
costituzionalita' le leggi,  quali  quelle  concernenti  le  elezioni
della  Camera  e  del  Senato,  che  definiscono  le   regole   della
composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento
di un sistema democratico-rappresentativo e che  quindi  non  possono
essere immuni da quel sindacato [...]. Cio' per evitare la  creazione
di una zona franca nel sistema di  giustizia  costituzionale,  in  un
ambito    strettamente    connesso    con    l'assetto    democratico
dell'ordinamento» (sentenza n. 35 del 2017, che richiama testualmente
la sentenza n. 1 del 2014). 
    Viceversa, in casi in cui le  disposizioni  oggetto  di  censura,
relative alle elezioni per il Parlamento  europeo,  avrebbero  potuto
pervenire al vaglio di legittimita'  costituzionale  in  un  giudizio
originatosi  in  via  incidentale  nel  contenzioso  elettorale,   le
questioni sono state dichiarate inammissibili.  Essendo  previsto  un
apposito procedimento in cui il diritto di voto puo'  trovare  tutela
di  fronte  a  un   giudice   (quello   amministrativo),   non   solo
successivamente alle elezioni, ma anche prima  di  esse,  nell'ambito
del  procedimento  elettorale  preparatorio,  appunto  in  tale  sede
possono essere sollevate questioni di legittimita'  costituzionale  e
non sussiste percio' alcuna zona franca (sentenza n.  110  del  2015;
ordinanza n. 165 del 2016). 
    Nel caso del diritto di elettorato passivo, la  situazione,  come
si e' visto, e'  ben  diversa.  Qui,  particolarmente  per  cio'  che
concerne  le  elezioni  politiche  nazionali,  manca  una  disciplina
legislativa   che   assicuri   accesso   tempestivo    alla    tutela
giurisdizionale  nei  confronti  di  decisioni  in   ipotesi   lesive
dell'esistenza  stessa  del  diritto,  quali   i   provvedimenti   di
ricusazione di liste o d'incandidabilita', a differenza di  quel  che
accade per le elezioni europee o amministrative (artt. 5, 9 e 12  del
decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235,  recante  «Testo  unico
delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di  divieto  di
ricoprire cariche  elettive  e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo
1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190»,  nonche'  art.  22
del d.lgs. n.  150  del  2011),  nel  cui  ambito  e'  ben  possibile
ricorrere al giudice avverso analoghe decisioni e,  in  quella  sede,
eccepire le pertinenti questioni di legittimita'  costituzionale  (ex
plurimis, sentenze n. 214 del 2017, n. 276 del  2016  e  n.  236  del
2015). 
    Secondo l'art. 2, comma 2, del citato d.lgs.  n.  235  del  2012,
infatti, l'accertamento dell'incandidabilita' alle elezioni politiche
nazionali e' demandato agli  Uffici  elettorali  in  occasione  della
presentazione delle  liste  e  l'unico  rimedio  ammesso  avverso  la
decisione e'  il  ricorso  all'Ufficio  centrale  nazionale.  Con  la
conseguenza - gia' sopra illustrata - che sulle disposizioni di legge
(art. 1 del d.lgs. n. 235 del  2012)  che  prevedono  le  fattispecie
d'incandidabilita'  in  questione  il   controllo   di   legittimita'
costituzionale e' di fatto precluso. 
    In questo specifico ambito, e' giocoforza riconoscere che  si  e'
in presenza di una zona  franca  dalla  giustizia  costituzionale,  e
dalla giustizia tout-court, quantomeno nella sua dimensione effettiva
e tempestiva, cio' che non e' accettabile in uno Stato di diritto. 
    E' per questa essenziale ragione che l'eccezione  dell'Avvocatura
generale  va  rigettata.  L'affermazione  del  giudice  a  quo  circa
l'esistenza della propria  giurisdizione  sul  ricorso  che  ha  dato
origine alle odierne questioni  di  legittimita'  costituzionale  non
solo  non  risulta  implausibile,  come  richiede  la  giurisprudenza
costante di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 267, n. 99, n.  44
e n. 24 del 2020, n. 52 e n. 39 del 2018), ma si rivela  conforme  al
quadro costituzionale, in cui al riconoscimento di  un  diritto  deve
necessariamente accompagnarsi la garanzia della sua  tutela  in  sede
giurisdizionale. 
    4.5.- In effetti, nel caso  di  specie,  lo  stesso  interesse  a
ricorrere  dei  proponenti  l'azione  di  accertamento  nel  giudizio
principale  si  fonda,  ed   e'   persuasivamente   argomentato   dal
rimettente, con la necessita' di  esperire  l'azione  in  un  momento
largamente anticipato rispetto  alla  data  in  cui  dovranno  essere
indette le elezioni e,  quindi,  ben  prima  dell'avvio  del  vero  e
proprio procedimento elettorale preparatorio. Solo  in  questo  modo,
infatti, e'  attualmente  possibile  ottenere  -  particolarmente  se
insorgano in via incidentale dubbi sulla legittimita'  costituzionale
delle norme che regolano l'accesso alla competizione elettorale - una
pronuncia tempestiva, prima dello svolgimento delle elezioni. 
    Con   riferimento   alle   elezioni   amministrative,   ma    con
considerazioni estensibili a quelle politiche nazionali, questa Corte
(sentenza n. 236  del  2010)  ha  affermato  che  «la  posticipazione
dell'impugnabilita' degli atti di esclusione di liste o candidati  ad
un momento successivo allo svolgimento  delle  elezioni  preclude  la
possibilita' di una  tutela  giurisdizionale  efficace  e  tempestiva
delle situazioni soggettive immediatamente lese  dai  predetti  atti,
con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost. Infatti,  posto
che l'interesse  del  candidato  e'  quello  di  partecipare  ad  una
determinata  consultazione  elettorale,  in  un   definito   contesto
politico e  ambientale,  ogni  forma  di  tutela  che  intervenga  ad
elezioni concluse appare inidonea ad  evitare  che  l'esecuzione  del
provvedimento  illegittimo  di  esclusione  abbia,   nel   frattempo,
prodotto un pregiudizio». 
    In un quadro in cui e' la stessa Costituzione a disporre  termini
stringenti (in base all'art. 61 Cost., le elezioni delle nuove Camere
devono svolgersi entro 70 giorni dalla  fine  delle  precedenti),  ne
deriva  la  necessita',  anche  per  le  elezioni  politiche,   della
previsione  di  un  rito  ad  hoc,   che   assicuri   una   giustizia
pre-elettorale tempestiva. 
    In attesa del necessario intervento del legislatore,  allo  stato
attuale  della  normativa  e  delle  interpretazioni   su   di   essa
prevalenti, l'azione di accertamento di fronte al giudice ordinario -
sempre che sussista l'interesse ad agire (art. 100 cod. proc. civ.) -
risulta l'unico rimedio possibile per consentire  la  verifica  della
pienezza del diritto di elettorato passivo e la sua conformita'  alla
Costituzione. 
    5.- Sulla prima delle due  censure  sollevate  dal  rimettente  -
quella relativa all'art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957,
nella parte in cui richiede, per la presentazione  delle  candidature
per il rinnovo della Camera dei deputati, un numero minimo  di  1.500
sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale (ridotte alla meta' in
caso di scioglimento della Camera che  ne  anticipi  la  scadenza  di
oltre centoventi giorni), anziche' tali numeri ridotti a un quarto  -
l'Avvocatura generale dello Stato ritiene che le modifiche  normative
sopravvenute  per  effetto  dell'entrata  in   vigore   del   decreto
legislativo 23 dicembre 2020,  n.  177  (Determinazione  dei  collegi
elettorali uninominali e plurinominali per  l'elezione  della  Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma  dell'articolo  3
della legge 27 maggio 2019, n. 51), dovrebbero indurre  a  restituire
gli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione sulla  rilevanza
e sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate. 
    Per l'Avvocatura  generale,  la  motivazione  del  rimettente  si
baserebbe essenzialmente sulla considerazione  del  numero  eccessivo
delle  sottoscrizioni  complessivamente  richieste  (1.500   per   63
collegi,  quindi  94.500  in  totale,  oppure  47.250  in   caso   di
scioglimento anticipato). Poiche' il d.lgs. n. 177  del  2020,  dando
seguito alla riduzione del numero di parlamentari stabilita con legge
costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 (Modifiche agli articoli 56,  57
e 59 della Costituzione  in  materia  di  riduzione  del  numero  dei
parlamentari), ha determinato una «consistente diminuzione del numero
dei collegi plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati  e
del  Senato  della  Repubblica»,  la  riduzione  giustificherebbe  la
restituzione degli atti. 
    In effetti, secondo la Tabella A2 allegata  al  predetto  decreto
legislativo, il numero dei collegi plurinominali per l'elezione della
Camera dei deputati e' stato ridotto a 49, sicche'  il  numero  delle
sottoscrizioni che ogni lista non  esonerata  dovra'  raccogliere  su
tutto il territorio nazionale si  e'  corrispondentemente  ridotto  a
73.500, ovvero a 36.750 nell'ipotesi di scioglimento anticipato. 
    La tesi dell'Avvocatura generale, tuttavia, non convince. 
    In primo  luogo,  la  disposizione  oggetto  della  questione  di
legittimita' costituzionale non e' direttamente incisa dalla modifica
normativa sopravvenuta: il numero  di  sottoscrizioni  richieste  per
ciascun collegio plurinominale rimane infatti stabilito in 1.500 (750
in caso di scioglimento anticipato). 
    In secondo luogo, il numero dei collegi, per quanto  criticamente
sottolineato dal rimettente, e'  soltanto  uno  degli  argomenti  che
sostengono le censure. Come  gia'  si  e'  detto,  l'irragionevolezza
della disciplina deriverebbe  piuttosto  dal  «congiunto  e  concreto
effetto di una pluralita' di  limiti  all'esercizio  del  diritto  di
candidarsi»: il numero delle firme, essenzialmente, ma anche il breve
intervallo temporale  per  la  loro  raccolta,  il  ristretto  ambito
soggettivo del regime di esenzione,  l'incertezza  ingenerata  «dalla
prassi,  consolidatasi   nell'ultimo   decennio»,   della   riduzione
dell'onere  di  raccolta  solo  in   prossimita'   del   decreto   di
scioglimento delle Camere. 
    Infine, anche valutando isolatamente l'effetto della  diminuzione
dei collegi sul numero complessivo di sottoscrizioni richieste,  tale
riduzione, a livello nazionale, finisce per incidere per poco meno di
un quarto rispetto al totale di quelle necessarie nella  vigenza  del
d.lgs. n. 189 del 2017: e il rimettente chiede  a  questa  Corte  una
pronuncia che riduca quel numero non di un quarto, ma ad un quarto. 
    Si e' pertanto in presenza di  modifiche  normative  sopravvenute
solo parziali, seppur non marginali, che non incidono sul significato
delle censure e non determinano una modifica dei  termini  essenziali
di esse (sentenze n. 165 del 2020 e n. 125 del 2018). 
    6.-     L'Avvocatura     generale     eccepisce     ulteriormente
l'inammissibilita'  per  irrilevanza  della  censura  sollevata   dal
giudice a quo in relazione all'art. 18-bis, comma 2,  del  d.P.R.  n.
361 del 1957. 
    Il  rimettente  ha  chiesto  che,  con  pronuncia  d'accoglimento
sostitutiva,  la  disposizione  sia   dichiarata   costituzionalmente
illegittima nella parte  in  cui  limita  l'esenzione  dell'onere  di
raccolta delle sottoscrizioni ai partiti o gruppi politici costituiti
in gruppo parlamentare in entrambe le Camere, anziche' includere, tra
i soggetti esonerati, i partiti o i gruppi  politici  che  un  gruppo
parlamentare abbiano costituito  in  almeno  una  delle  due  Camere,
all'inizio della legislatura in corso al momento  della  convocazione
dei comizi elettorali. 
    L'Avvocatura  generale  obietta   che   il   rimettente   avrebbe
utilizzato, come termine di riferimento per la pronuncia sostitutiva,
«un'ipotesi che [...] non corrisponde alla situazione  di  fatto  dei
ricorrenti nel giudizio  principale,  i  quali  non  risulta  abbiano
costituito un gruppo parlamentare in uno dei rami del Parlamento». Da
qui,  a  suo  dire,  l'inammissibilita'  della  questione,   il   cui
accoglimento non gioverebbe alle parti dei giudizi principali. 
    In effetti, all'inizio della corrente legislatura, l'associazione
ricorrente nel giudizio principale non aveva costituito alcun  gruppo
parlamentare:  al  Senato,  il  28  marzo  2018,  essa  rappresentava
soltanto una componente del  Gruppo  misto  («Piu'  Europa  con  Emma
Bonino»).  Analogamente,  alla  Camera,  in  data  3   aprile   2018,
l'Associazione «+Europa» costituiva una componente del  Gruppo  misto
(«+Europa-Centro Democratico»). La circostanza  e'  confermata  dalla
memoria  delle  parti  stesse,   nella   quale   e'   affermato   che
l'Associazione  «+Europa»  «non  ha  ottenuto  un  numero  di  eletti
sufficiente a formare gruppi parlamentari alla Camera o al Senato». 
    La questione e' inammissibile per carenza  di  motivazione  sulla
rilevanza, cioe' per  una  ragione  parzialmente  diversa  da  quella
indicata dall'Avvocatura dello Stato. 
    Infatti,  secondo  la  giurisprudenza   di   questa   Corte,   il
presupposto della rilevanza non  si  identifica  necessariamente  con
l'utilita' concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a
seguito della decisione di accoglimento (sentenze n. 254 del 2020, n.
253 e n. 174 del 2019 e n. 20 del 2018). 
    Nel caso di specie, pero', il  problema  non  riguarda  tanto  il
risultato cui il rimettente mira, bensi' soprattutto la condizione in
cui si trovano, in partenza, i ricorrenti  nel  giudizio  principale,
nel  momento  in  cui  le  censure  vengono  sollevate.   Essi   sono
direttamente  soggetti  al  comma  1  del  citato  art.  18-bis  (che
stabilisce il  numero  delle  sottoscrizioni  da  raccogliere),  come
riconosce  la  stessa  ordinanza  di  rimessione,  mentre  non   sono
annoverabili - se non indirettamente in quanto soggetti esclusi  (tra
i tanti) - fra i destinatari del comma 2 del medesimo  articolo,  che
detta una disciplina applicabile alle sole forze politiche costituite
in  gruppo  parlamentare  in  entrambe  le  Camere  all'inizio  della
legislatura,  esonerandole  dalla  necessita'   di   raccogliere   le
sottoscrizioni. 
    Ebbene, la pur peculiare natura del giudizio di accertamento  non
puo' essere dilatata fino al punto  di  diventare  mera  occasio  per
sottoporre a censura di legittimita' costituzionale disposizioni  che
compongono  il  contesto  normativo  in  cui  e'   collocata   quella
direttamente  applicabile  alla  controversia.  Invece,  il  comma  2
dell'art. 18-bis del d.P.R. n.  361  del  1957  viene  coinvolto  dal
rimettente nelle censure per un'esigenza  "sistematica",  nell'ambito
della  complessiva  trasformazione  delle  regole  che   disciplinano
l'accesso delle liste alla competizione elettorale,  che  l'ordinanza
di rimessione auspica. 
    Cio' non appartiene  alla  logica  del  giudizio  incidentale  di
legittimita' costituzionale. 
    Il rimettente, inoltre, se non spiega le ragioni  per  cui  -  in
"entrata", cioe' al momento in cui le questioni vengono  sollevate  -
la disposizione ora in esame sia  applicabile  ai  ricorrenti,  nulla
dice nemmeno sulle ragioni per cui l'intervento sostitutivo richiesto
(l'estensione dell'ambito di esonero ai soggetti politici  che  hanno
costituito un gruppo  in  una  sola  delle  Camere)  garantirebbe  ai
ricorrenti  -  in  "uscita",  cioe'  dopo  l'eventuale  pronuncia  di
accoglimento - la ricercata  "pienezza"  del  diritto  di  elettorato
passivo: cio' che risulta anche contraddittorio rispetto alla  natura
stessa del giudizio da questi promosso. Tutto questo  comporta  anche
una insufficiente motivazione sull'interesse ad  agire  nel  giudizio
principale, e, di riflesso, sulla rilevanza della questione. 
    Da questo punto di vista, non e' senza rilievo  che,  nei  propri
atti  d'intervento,  i  ricorrenti  stessi  chiedano  una   pronuncia
sostitutiva ben diversa da quella prospettata dal  rimettente,  cioe'
l'estensione dell'ambito di esonero ai soggetti politici che  abbiano
anche un solo rappresentante eletto in una delle  due  Camere  o  nel
Parlamento europeo: richiesta, come noto, inammissibile, perche'  non
idonea  ad  allargare  il  perimetro  dell'esame  di  questa   Corte,
vincolato alle prospettazioni contenute nell'ordinanza di rimessione,
ma sintomatica delle aporie della questione ora in esame. 
    7.- Residuano quindi le sole censure  relative  all'art.  18-bis,
comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede,  per
la dichiarazione  di  presentazione  delle  liste  di  candidati  per
l'attribuzione   dei   seggi   nel   collegio    plurinominale,    la
sottoscrizione  di  almeno  1.500  elettori  (la  meta'  in  caso  di
scioglimento anticipato superiore ai centoventi giorni rispetto  alla
scadenza naturale delle Camere), anziche' di tali numeri ridotti a un
quarto. 
    L'Avvocatura  generale  eccepisce  in  proposito  un'altra  causa
d'inammissibilita', perche'  sarebbe  richiesta  a  questa  Corte  la
pronuncia di una sentenza additiva a contenuto non costituzionalmente
obbligato, in ragione del carattere  eminentemente  discrezionale  di
ogni scelta legislativa in materia  elettorale,  compresa  quella  in
discussione. In particolare,  l'inammissibilita'  delle  censure  del
rimettente  deriverebbe  dalla  richiesta   di   sostituzione   della
disciplina vigente, in quanto ritenuta irragionevole,  con  soluzioni
normative definite «gia' esistenti»  nell'ordinamento  (prevedendosi,
cioe', un quarto delle sottoscrizioni attualmente richieste),  ma  in
realta' non piu'  vigenti,  perche'  relative  a  precedenti  tornate
elettorali, e comunque non a rime  costituzionalmente  obbligate,  in
quanto a loro volta frutto di libere valutazioni del legislatore. 
    Questa Corte ritiene tuttavia, come gia' in precedenti  occasioni
(sentenze n. 252 e n. 152 del 2020, n. 222 del 2018, n. 179 del  2017
e n. 236 del 2016), che a fronte di  un'eccezione  d'inammissibilita'
fondata sulla pluralita' di  scelte  alternative  possibili,  rimesse
alla discrezionalita' legislativa, l'assenza di una soluzione a  rime
obbligate non e' preclusiva di per se'  sola  dell'esame  nel  merito
delle censure. 
    8.-  Nel  merito,  le   ricordate   questioni   di   legittimita'
costituzionale non sono fondate. 
    La giurisprudenza  costituzionale  ha  gia'  ripercorso  origini,
ratio  e  natura  delle  previsioni  che,   per   le   elezioni   sia
amministrative che politiche, richiedono  la  raccolta  di  un  certo
numero di sottoscrizioni a corredo delle candidature. 
    Citando le parole della Relazione  governativa  di  presentazione
del  decreto  legislativo  luogotenenziale  7  gennaio  1946,  n.   1
(Ricostituzione delle Amministrazioni  comunali  su  base  elettiva),
alle origini della disciplina in questione, la  sentenza  n.  83  del
1992  ha  ricordato  quali   sono   gli   inconvenienti   -   diffusi
nell'ordinamento precedente, che non prevedeva oneri di sorta  -  che
simili previsioni mirano ad evitare: «da un lato, lo sfrenarsi  della
lotta elettorale tra coloro che per sola ambizione, o per fini  ancor
meno commendevoli, aspiravano alla conquista del pubblico potere, pur
non riscuotendo alcun credito fra  la  popolazione;  dall'altro,  una
grande dispersione di voti,  che  si  polverizzavano  fra  un  numero
eccessivo di nomi». 
    La  medesima  sentenza  ha  sottolineato  che   le   disposizioni
sull'onere   di   raccolta   delle   sottoscrizioni   sono   adottate
«nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 51 della  Costituzione,
al fine di  soddisfare  un'esigenza  certamente  non  irragionevole»,
perche' la fissazione di un numero minimo di  firme  e'  giustificato
«"dalla  duplice  esigenza  di  garantire  da  un  lato   una   certa
consistenza numerica di base ad una compagine che  mira  ad  assumere
elettoralmente un  ruolo  di  rappresentanza  politico-amministrativa
della comunita' e di assicurare,  dall'altro,  a  tale  compagine  un
minimo di credibilita' ed affidabilita'"»; ha  rimarcato,  poi,  che,
nel nostro ordinamento, e' «ormai un principio generalizzato  che  in
ogni tipo di elezione diretta le candidature debbano essere munite di
una sorta di dimostrazione di seria consistenza e  di  un  minimo  di
consenso attestata dalla sottoscrizione di un determinato  numero  di
elettori» . 
    Questa Corte ha anche indicato il fondamento  delle  disposizioni
che, in materia, stabiliscono reati  di  falso  nelle  autenticazioni
delle sottoscrizioni, notando  che  esse  proteggono  il  bene  della
«genuinita' della competizione elettorale» (sentenza n. 84 del 1997),
ed anche quello della «serieta' delle candidature»  (sentenza  n.  45
del 1967); ha contestato l'idea che la raccolta delle  sottoscrizioni
sia una formalita' di scarso rilievo, e ha nuovamente sottolineato la
ratio delle disposizioni penali in materia, ricordando  che  il  bene
finale tutelato «e' di rango particolarmente elevato, anche sul piano
della rilevanza costituzionale, in  quanto  intimamente  connesso  al
principio democratico della rappresentativita' popolare:  trattandosi
di assicurare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali  ed
il libero ed efficace esercizio del diritto di voto» (sentenza n. 394
del 2006). 
    Il giudice  a  quo  e'  consapevole  dell'ampia  discrezionalita'
attribuita in  materia  al  legislatore,  conosce  la  giurisprudenza
costituzionale appena  riassunta,  non  nega  la  sussistenza  di  un
interesse istituzionale ed obiettivo al  regolare  svolgimento  della
competizione  elettorale,  garantita  dalle  previsioni  in   parola.
Ritiene,  ciononostante,  che  1.500  sottoscrizioni   per   collegio
plurinominale rappresentino  un  onere  eccessivo  e  sproporzionato,
considerando soprattutto che  tale  cifra  (da  moltiplicare  per  il
totale dei collegi stabiliti  sull'intero  territorio  nazionale)  e'
prevista,  come  varie  volte  si  e'  detto,  nel  contesto  di  una
disciplina che richiede  tempi  ristretti  per  la  raccolta,  ed  e'
caratterizzata da incertezza rispetto al momento in cui  la  raccolta
stessa deve iniziare, nonche' da  instabilita',  perche'  soggetta  a
mutamenti a ridosso delle elezioni. 
    A suo avviso, l'operare congiunto di questi aspetti renderebbe la
disciplina vigente la piu' onerosa tra tutte quelle adottate dal 1957
in poi, come confermerebbe la circostanza che essa sia stata  oggetto
di deroga pochi mesi  dopo  la  sua  adozione.  Proprio  al  fine  di
dimostrarne la manifesta irragionevolezza, il rimettente si sofferma,
con ampio dettaglio, sulle previsioni che, a  partire  dal  1957,  si
sono finora succedute in materia. 
    Questa analitica indagine comparativa non raggiunge  tuttavia  il
suo obbiettivo, perche' il  confronto  tra  le  varie  normative  non
consente  di  dimostrare  che  la  disciplina  vigente  sia  la  piu'
restrittiva per i soggetti non  esonerati  dall'obbligo  di  raccolta
delle sottoscrizioni, giungendo oltretutto a superare la soglia della
irragionevolezza manifesta. 
    Non e' sufficiente limitarsi al confronto tra le quantita'  delle
sottoscrizioni di volta in volta richieste. Troppo numerose, infatti,
sono le  variabili  da  considerare.  Conta  il  numero  dei  collegi
istituiti sull'intero territorio  nazionale,  la  loro  dimensione  e
popolazione (ma il rimettente non censura la previsione di un  numero
sempre uguale di sottoscrizioni, pur  in  collegi  plurinominali  non
comparabili,  appunto  per  dimensione,  popolazione,   articolazione
territoriale); ha decisivo rilievo  il  tipo  di  sistema  elettorale
adottato a livello nazionale, nonche' la specifica formula elettorale
con cui sono assegnati i seggi del singolo collegio, poiche' un conto
e'  raccogliere  sottoscrizioni  per  un  candidato,   magari   assai
popolare, che concorre per un collegio uninominale,  ben  diverso  e'
farlo per presentare una  lista  in  un  collegio  plurinominale  che
assegna seggi con formula proporzionale. Ancora, ha notevole peso  la
possibilita' o  meno  di  presentare  liste  in  coalizione;  non  e'
secondario  il  numero  dei  soggetti  abilitati  alla   raccolta   e
all'autenticazione delle  sottoscrizioni;  sono  certo  importanti  i
termini previsti per le varie fasi del  procedimento  pre-elettorale;
non e' irrilevante nemmeno il modo in cui la legge di volta in  volta
configura l'elenco dei  soggetti  esonerati  dall'onere  di  raccolta
delle sottoscrizioni. 
    Nelle diverse regolamentazioni succedutesi nel tempo tutti questi
elementi  sono  stati  variamente  disciplinati,   affiancandosi   in
combinazioni sempre diverse, cio' che  rende  non  solo  incerto,  ma
anche fallace, il  confronto  fra  discipline  lontane  nel  tempo  e
nell'ispirazione. 
    L'esame comparato delle diverse normative succedutesi  nel  tempo
non puo' essere dunque decisivo,  ai  fini  della  valutazione  della
manifesta irragionevolezza della soluzione attualmente vigente  sulla
raccolta delle sottoscrizioni. Ciascuna  delle  regolamentazioni  sul
punto e' legata allo specifico sistema elettorale nel cui  ambito  e'
stata  adottata,  e  va  valutata  insieme  ad   esso,   non   invece
isolatamente coinvolta in comparazioni diacroniche. 
    La ristrettezza dei tempi in cui le firme devono essere  raccolte
puo' senza dubbio costituire un aggravio (sul  quale  il  legislatore
potrebbe opportunamente intervenire), ma essa e' nota in partenza  ai
destinatari,  e  non  costituisce   un   accadimento   improvviso   e
imprevedibile. Per parte loro, i ricordati e frequenti  mutamenti  di
disciplina a ridosso delle elezioni  -  pur  espressione  di  un  non
commendevole costume legislativo, nell'ambito di una  disciplina  che
dovrebbe presentare i caratteri della stabilita' e della  certezza  -
esibiscono la costante natura  di  interventi  piu'  favorevoli,  che
diminuiscono l'onerosita' degli adempimenti.  In  quanto  tali  -  e,
beninteso, purche' tali - non possono percio' avere un peso  decisivo
nell'orientare verso un giudizio di irragionevolezza manifesta  della
disciplina censurata. 
    Infine, converge nella medesima direzione la  diminuzione  stessa
del numero complessivo dei collegi plurinominali -  e  percio'  delle
sottoscrizioni da raccogliere - operata dal ricordato d.lgs.  n.  177
del 2020, che da' seguito alla riduzione del numero  di  parlamentari
stabilita con legge cost. n. 1 del 2020. 
    In definitiva,  alla  luce  dell'ampia  discrezionalita'  che  e'
attribuita al legislatore in materia  elettorale,  in  considerazione
dell'interesse   costituzionale   al   regolare   svolgimento   delle
competizioni  elettorali  assicurato  dalla  disciplina   in   esame,
l'insieme delle argomentazioni proposte dal rimettente non conduce  a
un giudizio di manifesta irragionevolezza della scelta censurata. 
    Caduta questa censura, seguono la medesima sorte quelle  proposte
per violazione degli artt. 51, primo comma, 48, secondo comma,  e  1,
secondo comma, Cost., per asserita lesione del libero  esercizio  del
diritto di voto e del  principio  democratico  di  rappresentativita'
popolare: censure tutte in realta' dipendenti dalla prima. 
    Infine, non sussiste nemmeno la prospettata violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 3 Prot. addiz. CEDU. 
    Come recentemente rammentato da questa Corte (sentenza n. 35  del
2021), la Corte EDU, nel quadro di una giurisprudenza  che  manifesta
notevole prudenza nella valutazione delle restrizioni al  diritto  di
voto nel suo aspetto passivo, muove dal dichiarato presupposto che al
legislatore  nazionale  deve  essere  riconosciuto   il   potere   di
disciplinare il diritto di presentarsi alle  elezioni,  circondandolo
di cautele rigorose, anche piu' stringenti di quelle predisposte  per
il diritto di elettorato attivo, purche' tali restrizioni  perseguano
un fine legittimo, compatibile con il  principio  del  primato  della
legge e con gli obbiettivi generali della Convenzione. 
    Per gli aspetti qui rilevanti,  la  Corte  EDU  ha  ritenuto  non
incompatibile con la Convenzione l'imposizione ai  partecipanti  alla
competizione elettorale dell'obbligo di presentare un certo numero di
sottoscrizioni, anche se il numero di firme sia relativamente elevato
(sentenze 6 novembre 2012, Ekoglasnost contro Bulgaria, punto  63;  9
maggio 1994, Asensio Serqueda contro Spagna  e  12  luglio  1976,  X.
contro Austria), giacche'  misure  di  questo  genere  perseguono  il
legittimo obiettivo di scoraggiare  candidature  fittizie.  Vero  che
nella sentenza Ekoglasnost la Corte di Strasburgo  ha  sanzionato  la
Bulgaria per violazione del citato art. 3:  ma  non  per  l'onere  di
raccolta delle sottoscrizioni in se', bensi' per il  fatto  che  tale
onere - unito a quello di depositare una cauzione  elettorale  -  era
stato introdotto tardivamente, cioe' nell'imminenza  delle  elezioni,
tipo di censura che  non  potrebbe  certo  muoversi  alla  disciplina
interna vigente (che, come  si  e'  ampiamente  visto,  e'  piuttosto
caratterizzata dalla frequente  introduzione,  in  prossimita'  delle
elezioni, di discipline che diminuiscono la gravosita' dell'onere  di
raccolta).