ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
promosso da Vittorio Sgarbi, nella qualita' di deputato, con  ricorso
depositato in cancelleria il 20 novembre 2020 ed iscritto  al  n.  12
del registro conflitti tra poteri 2020, fase  di  ammissibilita',  in
relazione a tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri
adottati, fino alla data di deposito del  ricorso,  per  fronteggiare
l'emergenza epidemiologica da COVID-19. 
    Udito nella camera di consiglio del  10  marzo  2021  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    deliberato nella camera di consiglio del 10 marzo 2021. 
    Ritenuto che, con ricorso depositato  il  20  novembre  2020,  il
deputato Vittorio Sgarbi ha sollevato conflitto di  attribuzione  tra
poteri dello Stato nei confronti del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, «anche nella sua qualita'  di  rappresentante  del  Governo
della Repubblica Italiana»; 
    che oggetto del conflitto sono «[t]utti i Decreti del  Presidente
del Consiglio dei  Ministri  adottati  per  fronteggiare  l'emergenza
Covid-19-SARS-Cov2», che vengono analiticamente  elencati  in  ordine
cronologico,  «nella  parte  in  cui  costituiscono  esercizio  della
funzione legislativa  da  parte  del  Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri in contrasto con le norme sulla  produzione  legislativa  di
cui agli artt. 76 e 77 Cost.»; 
    che di tali atti  il  ricorrente  chiede  l'annullamento,  previa
dichiarazione di  non  spettanza  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e al Governo del potere di adottare le misure  previste  dai
suddetti decreti; 
    che il ricorrente chiede, altresi', che la  Corte  costituzionale
sollevi d'ufficio dinanzi a se'  questione  di  costituzionalita'  di
quattro decreti-legge e delle relative  leggi  di  conversione,  pure
analiticamente  elencati,  per  contrasto  con  una   pluralita'   di
parametri costituzionali; 
    che  il  ricorrente  -  membro   della   Camera   dei   deputati,
appartenente al Gruppo  Misto  nella  componente  politica  "Noi  con
l'Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro" - ripercorre le tappe che
hanno contrassegnato l'azione del Governo nel contrasto alla pandemia
da  coronavirus,  a  partire  dalla  dichiarazione  dello  stato   di
emergenza del 31 gennaio 2020, allegando che,  con  l'emanazione  del
decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure  urgenti  in  materia  di
contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica  da  COVID-19),
convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020,  n.  13,  si
sarebbe verificato un «sovvertimento dell'ordine costituzionale», con
l'attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri di un «potere
di  emergenza  e  di  deroga   a   tutti   i   diritti   fondamentali
costituzionalmente   garantiti»   e   con   «l'introduzione   di   un
procedimento in deroga agli artt. 76 e 77  Cost.  per  l'adozione  di
norme di diritto»; 
    che, in particolare, con il d.l. n. 6 del 2020, come  convertito,
sarebbero  state  genericamente  elencate  una   serie   di   misure,
«consistenti nella forte limitazione o nella totale esclusione di una
serie  di   diritti   fondamentali   costituzionalmente   garantiti»,
affidandone la concreta individuazione ad  uno  o  piu'  decreti  del
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della
salute e sentiti i ministri competenti  nonche'  i  Presidenti  delle
Regioni interessate (nel caso in cui le  misure  avessero  riguardato
esclusivamente una sola Regione o alcune specifiche Regioni),  ovvero
il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, nel caso
di misure riferite all'intero territorio nazionale; 
    che,  di  conseguenza,  venivano  emanati  quattro  decreti   del
Presidente del Consiglio dei ministri (il 23 e il 25 febbraio, il  1°
e il 5 marzo 2020); 
    che, con i successivi decreti del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri dell'8, del 9 e dell'11 marzo 2020, secondo  il  ricorrente,
il Presidente del Consiglio dei ministri «metteva sostanzialmente  in
quarantena tutti i cittadini italiani sani - con pochissime eccezioni
da documentare alla polizia», con cio' impedendo l'esercizio  di  una
serie di diritti fondamentali: il diritto al lavoro (artt. 1, 4, 35 e
36 della Costituzione), la liberta' personale  (art.  13  Cost.),  la
liberta' di circolazione (art. 16 Cost.),  la  liberta'  di  riunione
(art. 17 Cost.), la liberta' di culto (art. 19 Cost.), la liberta' di
istruzione (art. 34  Cost.),  la  liberta'  di  iniziativa  economica
privata (art. 41 Cost.), tutti tutelati ai sensi dell'art. 2 Cost.; 
    che  i  successivi  decreti  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri (adottati il 10 e il 26 aprile  2020),  nella  ricostruzione
del  ricorrente,  avrebbero  confermato  «la   sostanziale   chiusura
dell'intero  paese  e  l'obbligo  per  i  cittadini,  con  pochissime
eccezioni,   di   restare    chiusi    nelle    proprie    abitazioni
indipendentemente dal loro stato di salute e dal rischio concreto  di
contagiare ed essere infettati»; 
    che solo con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
17 maggio 2020 (Disposizioni attuative  del  decreto-legge  25  marzo
2020, n. 19, recante  misure  urgenti  per  fronteggiare  l'emergenza
epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16  maggio  2020,  n.
33, recante ulteriori misure  urgenti  per  fronteggiare  l'emergenza
epidemiologica da COVID-19) si prevedeva  la  progressiva  riapertura
delle attivita'  economiche,  mantenendo  ferma  pero',  «dall'ambito
commerciale e professionale, alla scuola e  all'universita'  sino  al
culto e alle cerimonie religiose», una  regolamentazione  dettagliata
che non era adottata  «nemmeno  dal  Presidente  del  Consiglio»,  ma
demandata ad una serie di  protocolli,  redatti  «dai  soggetti  piu'
diversi ed ai quali il DPCM  faceva  rinvio  recettizio  mediante  la
tecnica dell'allegazione»; 
    che,  durante  tutto  il  periodo  preso  in  considerazione,  il
Presidente del Consiglio  dei  ministri  avrebbe  agito,  secondo  il
ricorrente, «in via sostanzialmente autonoma con scarsi o  pochissimi
passaggi parlamentari, anche se limitati a semplici fini  informativi
delle proprie decisioni autocratiche»; 
    che, espone ancora il ricorrente, trascorso un breve  periodo  di
«apertura durante i mesi estivi» (in forza dei decreti del Presidente
del Consiglio dei ministri del 17 e 18 maggio, dell'11 giugno  e  del
14 luglio 2020), con il decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 7  settembre  2020  (Ulteriori  disposizioni  attuative  del
decreto-legge 25 marzo  2020,  n.  19,  recante  misure  urgenti  per
fronteggiare  l'emergenza   epidemiologica   da   COVID-19,   e   del
decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti
per fronteggiare  l'emergenza  epidemiologica  da  COVID-19)  sarebbe
stata imposta una nuova misura, «sempre gravemente lesiva del diritto
di liberta' individuale di cui all'art. 13 Cost.  e  del  divieto  di
imporre trattamenti sanitari di cui all'art. 32  Cost.»,  consistente
nell'obbligo  di  indossare  una  mascherina  protettiva  delle   vie
respiratorie, dapprima nei luoghi al chiuso e, successivamente, anche
all'aperto (in forza del decreto del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  13  ottobre  2020,   contenente   «Ulteriori   disposizioni
attuative del decreto-legge 25 marzo 2020,  n.  19,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020,  n.  35,  recante  "Misure
urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da  COVID-19",  e
del  decreto-legge  16  maggio   2020,   n.   33,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante  "Ulteriori
misure  urgenti  per  fronteggiare  l'emergenza   epidemiologica   da
COVID-19"»), con conseguente «grave aggressione finanche  al  diritto
di respirare e di avere una propria immagine costituita dalla faccia,
riconoscibile per tutti»; 
    che,  nella  ricostruzione  del  ricorrente,  con   la   stagione
autunnale  e  la  «prevedibile  ripresa  dei  normalissimi  casi   di
influenza (compreso il Covid-19)», il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri avrebbe «riattivato la distruzione del tessuto  economico  e
sociale del  paese»,  limitando,  con  il  decreto  18  ottobre  2020
(Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n.
19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020, n. 35,
recante «Misure urgenti per fronteggiare  l'emergenza  epidemiologica
da COVID-19», e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33,  convertito,
con modificazioni,  dalla  legge  14  luglio  2020,  n.  74,  recante
«Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica
da COVID-19»), l'attivita' di ristoranti, palestre e centri  termali,
secondo un sistema  di  misure  calibrate  «mediante  la  progressiva
colorazione  delle  diverse  regioni  in  conseguenza  del   ritenuto
aggravamento  del  contagio»,  quest'ultimo  misurato  attraverso  la
rilevazione  di  soggetti  positivi  al  coronavirus   mediante   una
tecnologia, il tampone rino-faringeo, «che a  detta  del  suo  stesso
ideatore non costitui[rebbe] uno strumento diagnostico», in quanto la
«quasi totalita'» dei  "positivi"  sarebbero  «persone  perfettamente
sane e prive di sintomi»; 
    che, in punto di ammissibilita', il ricorrente  sostiene  che  il
conflitto riguarderebbe l'illegittima invasione da parte del  Governo
delle prerogative del singolo parlamentare, al  quale  sarebbe  stato
negato «il diritto di dire e  contraddire  nell'ambito  del  processo
democratico parlamentare»; 
    che, secondo il ricorrente, la delega - mediante decreto-legge  -
da parte del Governo al  suo  Presidente,  per  l'adozione  di  norme
aventi l'effetto di sospendere i diritti fondamentali costituzionali,
violerebbe gli artt. 76 e 77 Cost., negando il ruolo  del  Parlamento
nell'adozione delle norme di legge; 
    che, per il ricorrente, la  funzione  di  controllo  parlamentare
spetterebbe non solo alle Camere nel loro complesso, ma  altresi'  al
singolo parlamentare, «anche e soprattutto laddove la sua voce sia in
dissenso con quella della maggioranza»; 
    che il ricorrente ricostruisce la  giurisprudenza  costituzionale
in tema  di  legittimazione  del  singolo  parlamentare  a  sollevare
conflitto di attribuzione  tra  poteri  dello  Stato,  riassumendo  i
principi  espressi  dall'ordinanza  n.  17  del  2019   della   Corte
costituzionale, alle cui statuizioni «fa espresso richiamo»; 
    che, in base a tali principi, come interpretati dal ricorrente, i
parlamentari sarebbero titolari  di  distinte  quote  o  frazioni  di
attribuzioni costituzionalmente garantite,  nonche'  del  diritto  di
rivolgersi al giudice costituzionale qualora subiscano una lesione  o
un'usurpazione delle loro  attribuzioni  da  parte  di  altri  organi
parlamentari «o, e' agevole soggiungere, da altri organi dello  stato
come il governo»; 
    che il ricorrente,  allo  scopo  di  allegare  e  dimostrare  una
sostanziale  negazione  o  un'evidente  menomazione  della   funzione
costituzionalmente attribuita al singolo  parlamentare,  afferma  che
tale necessaria soglia di evidenza  sarebbe  «raggiunta  al  semplice
sommario esame  dei  provvedimenti  qui  sottoposti  all'esame  della
Consulta», dal quale emergerebbe,  non  solo  «un'evidente  invasione
delle prerogative parlamentari attraverso  il  doppio  strumento  del
decreto-legge e della delega al Presidente del Consiglio di  funzioni
legislative», ma anche «un vero e proprio  snaturamento  delle  norme
sulla produzione legislativa»; 
    che, di conseguenza,  ogni  singolo  parlamentare  sarebbe  stato
«totalmente    espropriato»    (e    non    semplicemente    limitato
nell'esercizio) delle sue prerogative: «il Governo  prima  e  poi  il
Parlamento  in  sede  di  conversione  dei  decreti-legge»  avrebbero
«trasferito la potesta'  a  legiferare  in  capo  al  Presidente  del
Consiglio»; 
    che cio' sarebbe avvenuto in violazione: dell'art. 76 Cost.,  che
consente la delega di funzioni legislative all'intero Governo  «nella
sua  composizione  collegiale»  e  non  al   solo   suo   Presidente,
esclusivamente previa determinazione di principi e criteri  direttivi
e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti; dell'art. 77
Cost., che consente l'uso del decreto-legge «(sempre con la  garanzia
della collegialita' del Consiglio dei  ministri)»  solo  in  casi  di
straordinaria  necessita'  e   urgenza;   di   diritti   fondamentali
inviolabili costituzionalmente garantiti; 
    che, dunque, le modalita' di adozione dei decreti del  Presidente
del Consiglio dei ministri, anche nelle forme delineate dall'art.  1,
comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure  urgenti  per
fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con
modificazioni,  nella  legge  22  maggio  2020,  n.   35,   sarebbero
contrastanti con i suddetti parametri costituzionali,  in  quanto  il
Governo  avrebbe  rinunziato  «in  favore  del  suo  Presidente»   ad
esercitare le  proprie  attribuzioni  di  decretazione  d'urgenza  ed
avrebbe "espropriato" il Parlamento  del  potere  di  conversione  in
legge; 
    che neppure la successiva conversione in legge del d.l. n. 19 del
2020  sarebbe  «in  grado  di  risolvere  la  lesione   delle   norme
costituzionali in materia di produzione legislativa»,  in  quanto  la
delega al Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe «un  istituto
sconosciuto al  nostro  diritto»  e  il  meccanismo  cosi'  delineato
sottrarrebbe al Parlamento «il diritto di verificare e  sottoporre  a
controllo le norme urgenti adottate sotto forma di DPCM di cui non e'
prevista alcuna approvazione parlamentare»; 
    che ad evitare  il  vulnus  cosi'  prospettato,  a  giudizio  del
ricorrente, non sarebbero sufficienti ne' l'iniziativa del Presidente
del Consiglio dei ministri - «in occasione degli ultimi  DPCM»  -  di
sottoporne il contenuto alle Camere prima della  loro  adozione,  ne'
l'impugnabilita' dei d.P.C.m. in via giurisdizionale  amministrativa,
attesa la loro natura di atti amministrativi, attraverso cui  sarebbe
comunque possibile dettare «norme generali e  astratte  rivolte  alla
totalita' dei cittadini» senza «una decisione parlamentare»; 
    che, per il ricorrente, si sarebbe determinata una  inammissibile
«sospensione delle garanzie costituzionali dei diritti fondamentali»,
in forza  della  dichiarazione  di  uno  «stato  di  emergenza  o  di
eccezione»  non  contemplato  dalla   Costituzione,   al   di   fuori
dell'ipotesi  di  deliberazione  dello  stato  di  guerra  ai   sensi
dell'art. 78 Cost.; 
    che, a  giudizio  del  ricorrente,  la  garanzia  delle  liberta'
individuali costituisce un «limite invalicabile  per  l'azione  dello
stato», mentre «lo stato di eccezione  non  esiste  nella  Repubblica
Italiana», sicche' le situazioni di emergenza  «sono  rimesse  ad  un
livello piu' basso», quello della protezione civile e delle ordinanze
contingibili e urgenti, che in nessun caso possono violare i  diritti
fondamentali costituzionalmente garantiti; 
    che, dunque, l'attribuzione per decreto-legge al  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri  «di  poteri  straordinari   e   illimitati»
costituirebbe, in questa prospettiva, una grave violazione  non  solo
delle prerogative del Parlamento nella  sua  interezza  ma  anche  di
quelle  del  singolo  parlamentare,  con  riguardo  all'adozione   di
provvedimenti  che,  per  la  loro  diretta  incisione  sui   diritti
fondamentali costituzionali, dovrebbero «necessariamente assumere  la
forma della legge ordinaria, se del caso in sede  di  conversione  di
decreti-legge»; 
    che il ricorrente sollecita la Corte costituzionale  a  sollevare
innanzi a se' stessa questione  di  legittimita'  costituzionale  dei
decreti-legge (e relative leggi di conversione) indicati in  ricorso,
in quanto tali atti  normativi  avrebbero  «lo  scopo  dichiarato  di
consentire al Presidente  del  Consiglio  [...]  la  sospensione  per
ragioni emergenziali delle liberta' e dei  diritti  fondamentali  dei
cittadini», cosi' elencati: il diritto al  lavoro  (presidiato  dagli
artt. l, 4, 35, 36 e  41  Cost.);  la  liberta'  personale  (protetta
dall'art. 13 Cost.); la liberta' di movimento  (assicurata  dall'art.
16  Cost.);  i  diritti  di   riunione,   di   culto,   alla   libera
manifestazione del  pensiero,  alla  tutela  giurisdizionale,  a  non
essere assoggettati a trattamenti  sanitari  obbligatori  e,  infine,
allo studio (rispettivamente garantiti dagli artt. 17, 19, 21, 24, 32
e 34 Cost.); 
    che il ricorrente offre una sommaria  motivazione  della  lesione
che  i  decreti-legge  indicati,  considerati  nel  loro   complesso,
recherebbero a ciascuno dei parametri costituzionali evocati; 
    che,  in  generale,  i  provvedimenti  dell'esecutivo   avrebbero
privilegiato, a parere del ricorrente, il solo diritto  alla  salute,
assegnando a quest'ultimo «una totale preminenza sugli altri», fino a
consentire il totale annullamento di questi ultimi, in contrasto  con
il principio della pari dignita' di tutti i  diritti  fondamentali  e
con la «necessita' che le incisioni sul  loro  esercizio,  oltre  che
rispettose   della   Costituzione,   garantiscano    il    necessario
bilanciamento tra i diversi diritti inviolabili»; 
    che, in prossimita' della camera di consiglio del 10 marzo  2021,
il ricorrente ha depositato memoria, in  data  18  febbraio  2021  e,
dunque, fuori termine. 
    Considerato che il deputato Vittorio Sgarbi solleva conflitto  di
attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente  del
Consiglio dei ministri, «anche nella sua qualita'  di  rappresentante
del Governo della Repubblica Italiana»,  lamentando,  da  parte  sua,
l'esercizio della funzione legislativa «in  contrasto  con  le  norme
sulla produzione legislativa»  di  cui  agli  artt.  76  e  77  della
Costituzione,  attraverso  l'adozione  delle  misure   previste   dai
decreti-legge, dalle relative leggi di conversione e dai decreti  del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  posti   in   essere   per
fronteggiare l'emergenza epidemiologica COVID-19; 
    che, in particolare, il Governo, mediante decreto-legge,  avrebbe
delegato al Presidente del Consiglio dei ministri l'adozione di norme
aventi   l'effetto   di   sospendere   vari   diritti    fondamentali
costituzionalmente previsti, in contrasto  con  gli  artt.  76  e  77
Cost., negando il ruolo del Parlamento nell'approvazione delle  norme
di legge; 
    che «il Governo prima e poi il Parlamento in sede di  conversione
dei  decreti-legge»  avrebbero  cosi'  «trasferito  la   potesta'   a
legiferare in capo  al  Presidente  del  Consiglio»,  rinunziando  in
favore di quest'ultimo ad esercitare le proprie attribuzioni in punto
di  decretazione  d'urgenza,  con  "espropriazione"  del  potere   di
conversione in legge spettante al Parlamento; 
    che  il  meccanismo  cosi'  delineato  avrebbe,  in  particolare,
sottratto al Parlamento «il diritto  di  verificare  e  sottoporre  a
controllo le norme urgenti adottate sotto forma di DPCM di cui non e'
prevista alcuna approvazione parlamentare»; 
    che tale meccanismo avrebbe  altresi'  determinato  l'illegittima
invasione, da  parte  del  Governo,  delle  prerogative  del  singolo
parlamentare, al quale sarebbe stato negato «il  diritto  di  dire  e
contraddire nell'ambito del processo democratico parlamentare»; 
    che la funzione  di  controllo  parlamentare  sull'attivita'  del
Governo spetterebbe non solo alle Camere nel loro complesso, ma anche
al singolo parlamentare, «anche e soprattutto laddove la sua voce sia
in dissenso con quella della maggioranza»; 
    che,  pertanto,  il  ricorrente  chiede  l'annullamento  di  vari
decreti del Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  analiticamente
elencati, previa dichiarazione di non  spettanza  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e al Governo del potere di adottare le  misure
previste dai suddetti decreti; 
    che il ricorrente chiede,  altresi',  che  questa  Corte  sollevi
d'ufficio dinanzi a se' questione  di  costituzionalita'  di  quattro
decreti-legge  e  delle   relative   leggi   di   conversione,   pure
analiticamente  elencati,  per  contrasto  con  una   pluralita'   di
parametri costituzionali; 
    che, in questa fase del  giudizio,  la  Corte  costituzionale  e'
chiamata   a   deliberare,   in   camera   di   consiglio   e   senza
contraddittorio,  sulla  sussistenza  dei  requisiti   soggettivo   e
oggettivo prescritti dall'art. 37, primo comma, della legge 11  marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), ossia a decidere se il conflitto insorga tra  organi
competenti a dichiarare definitivamente la volonta'  del  potere  cui
appartengono e per  la  delimitazione  della  sfera  di  attribuzioni
delineata per i vari poteri da norme costituzionali; 
    che l'ordinanza n. 17 del 2019 di questa  Corte  ha  riconosciuto
l'esistenza di una sfera  di  prerogative  che  spettano  al  singolo
parlamentare, e ha affermato che - qualora risultino  lese  da  altri
organi parlamentari - esse possono essere difese con lo strumento del
ricorso per conflitto tra poteri dello Stato; 
    che la stessa ordinanza n. 17 del 2019 ha inoltre  precisato  che
«[l]a legittimazione  attiva  del  singolo  parlamentare  deve  [...]
essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo,  ossia
alle menomazioni censurabili in sede di conflitto»; 
    che, in particolare, come ribadito  dalle  ordinanze  n.  60  del
2020, n. 275 e n. 274 del 2019,  tale  legittimazione  deve  fondarsi
sull'allegazione di vizi che determinano violazioni  manifeste  delle
prerogative costituzionali dei parlamentari ed e' necessario che tali
violazioni siano rilevabili nella  loro  evidenza  gia'  in  sede  di
sommaria delibazione; 
    che,  ai  fini  dell'ammissibilita'  del  conflitto,  e'  insomma
necessario che  il  singolo  parlamentare  alleghi  «una  sostanziale
negazione o un'evidente menomazione» (cosi', ancora, ordinanza n.  17
del 2019) delle sue prerogative costituzionali; 
    che,  nella  prospettazione  del  ricorrente,  la  lesione  delle
prerogative del singolo parlamentare sarebbe diretta  conseguenza  di
una sorta di "espropriazione" del potere  legislativo  da  parte  del
Governo, attuata mediante una "delega"  contenuta  nei  decreti-legge
convertiti dal Parlamento in favore di un organo  monocratico,  quale
il Presidente del Consiglio dei ministri, in contrasto con gli  artt.
76 e 77 Cost.; 
    che questa "espropriazione" sarebbe  stata  legittimata  da  atti
governativi  aventi  forza  di   legge,   convertiti   dallo   stesso
Parlamento; 
    che, tuttavia, dalla stessa prospettazione contenuta in  ricorso,
non  risulta  che,  nell'ambito  della  Camera  di  appartenenza,  al
ricorrente sia stato interdetto l'esercizio delle sue prerogative; 
    che,  infatti,  lo  stesso  ricorrente  ha  ricordato   come   il
Parlamento abbia convertito, con modificazioni, il  decreto-legge  23
febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti  in  materia  di  contenimento  e
gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19),  nella  legge  5
marzo 2020, n. 13, con il voto contrario di due soli deputati,  l'on.
Cunial  e,  appunto,  l'on.  Sgarbi,  il  quale  ultimo,  durante  la
discussione in aula del 26 febbraio 2020, avrebbe messo  «in  guardia
sia dallo scarso approfondimento scientifico  della  questione  della
pandemia, sia  dal  grave  danno  che  le  misure  approvate  stavano
arrecando all'economia italiana»; 
    che, dunque, dalla medesima narrativa del ricorso emerge come non
sia mancato il confronto parlamentare (ordinanza n. 274 del  2019)  e
come i deputati  abbiano  avuto  la  possibilita'  di  esercitare  le
proprie funzioni costituzionali (ordinanza  n.  275  del  2019),  nel
corso  dei  «passaggi  parlamentari»,  principalmente  in   sede   di
conversione in legge dei decreti-legge indicati in ricorso; 
    che, in definitiva, e' la prospettazione stessa del ricorrente ad
attestare l'inesistenza di «violazioni  manifeste  delle  prerogative
costituzionali»  poste  a  garanzia  dello  status  dei  parlamentari
nell'ambito del procedimento legislativo (ordinanza n. 275 del 2019),
e in particolare della facolta', necessaria all'esercizio del  libero
mandato parlamentare (art. 67 Cost.), di partecipare alle discussioni
e alle deliberazioni esprimendo «opinioni»  e  «voti»  (ai  quali  si
riferisce l'art. 68 Cost., sia pure al diverso  fine  di  individuare
l'area della insindacabilita' delle funzioni parlamentari); 
    che, inoltre, la lamentata distorsione  degli  istituti  previsti
dagli artt. 76 e 77 Cost., conseguente all'asserita  "espropriazione"
della  funzione  legislativa  nei  termini  prospettati  in  ricorso,
sarebbe  semmai  idonea  a  menomare,  in  ipotesi,  le  attribuzioni
dell'intera Camera cui appartiene il deputato ricorrente,  posto  che
la funzione  legislativa  e'  esercitata  collettivamente  dalle  due
Camere (art. 70 Cost.); 
    che, quando il soggetto  titolare  della  sfera  di  attribuzioni
costituzionali che si assumono violate e' la Camera di  appartenenza,
e'  quest'ultima,  e  non  il  singolo  parlamentare,  legittimata  a
valutare l'opportunita' di reagire  avverso  le  supposte  violazioni
(ordinanza n. 129 del 2020); 
    che  non  e'  sufficiente  affermare  che  anche   ogni   singolo
parlamentare  sarebbe  stato  «totalmente  espropriato»   delle   sue
prerogative, in quanto non e' ipotizzabile alcuna concorrenza tra  la
legittimazione attiva del singolo parlamentare e quella della  Camera
di appartenenza (ordinanza n. 163 del 2018); 
    che, infatti, questa Corte  ha  gia'  escluso,  in  un  conflitto
promosso dal singolo parlamentare nei confronti del Governo,  che  il
primo possa rappresentare l'intero organo cui appartiene, perche'  il
singolo parlamentare non e'  «titolare  di  attribuzioni  individuali
costituzionalmente protette nei confronti dell'esecutivo»  (ordinanza
n. 181 del 2018); 
    che, infine, queste assorbenti ragioni dispensano  dall'esame  di
altri aspetti del conflitto,  relativi,  in  particolare,  all'esatta
individuazione degli atti asseritamente lesivi delle attribuzioni del
singolo parlamentare e  alla  configurabilita',  quale  potere  dello
Stato, del solo Presidente del Consiglio dei ministri,  indicato  nel
ricorso quale legittimato passivo anche in proprio; 
    che, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.