ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 263,  terzo
comma, del codice civile, come modificato dall'art. 28, comma 1,  del
decreto  legislativo  28  dicembre  2013,  n.  154  (Revisione  delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma  dell'articolo
2 della legge 10 dicembre  2012,  n.  219),  promosso  dal  Tribunale
ordinario di Trento nel procedimento vertente tra B. Z., in proprio e
nella qualita' di esercente la potesta' genitoriale di M.  Z.,  e  R.
C., con ordinanza del 30 giugno 2020, iscritta al n. 156 del registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Udita nella camera di consiglio del 12  maggio  2021  la  Giudice
relatrice Emanuela Navarretta; 
    deliberato nella camera di consiglio del 12 maggio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione  del  riconoscimento
del figlio per difetto di  veridicita',  il  Tribunale  ordinario  di
Trento  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 263,  terzo  comma,  del  codice  civile,  come  modificato
dall'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre  2013,  n.
154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell'articolo 2 della legge  10  dicembre  2012,  n.  219),  in
riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della  Costituzione,
quest'ultimo  in  relazione  all'art.  8  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848. 
    Il comma terzo del citato  art.  263  cod.  civ.  viene  ritenuto
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non  consente  che,
per l'autore del riconoscimento, il termine per proporre l'azione  di
impugnazione decorra dalla conoscenza della non paternita'. 
    Il giudice, pertanto, censura la  norma  che,  per  l'autore  del
riconoscimento, fa decorrere il  dies  a  quo,  relativo  al  termine
annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell'impotenza al tempo del
concepimento o, in alternativa, dall'annotazione  del  riconoscimento
sull'atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l'azione non debba essere
impedita dal decorso di un termine,  come  quello  quinquennale,  che
trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternita'. 
    2.- In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che B.  Z.
impugnava, con atto di citazione notificato  il  7  agosto  2019,  il
riconoscimento  del  minore  M.  Z.,  per  difetto  di   veridicita',
chiamando in giudizio la madre, R. C., che aderiva  all'impugnazione.
Veniva, inoltre, disposta la  nomina  di  un  curatore  speciale  del
minore M. Z. 
    2.1.-  Il  giudice  a  quo  riferisce   che   l'annotazione   del
riconoscimento era avvenuta il  giorno  stesso  della  nascita  della
bambina, in data 4 agosto 2010, e che solo nel novembre del  2018  la
madre aveva confidato all'autore del riconoscimento  di  aver  avuto,
nel 2009, una breve relazione con una terza persona. Questo  induceva
B. Z. a sottoporsi a degli esami ematici, all'esito dei  quali  aveva
scoperto  che  il  dato  scientifico  smentiva  la   sua   paternita'
biologica. 
    2.2.- Il Tribunale di Trento espone che nel giudizio a quo  tutte
le  parti  chiedevano  concordemente  la   rimozione   dell'atto   di
riconoscimento della  paternita',  effettuato  in  contrasto  con  la
verita' biologica. 
    Tuttavia,  il  giudice  rileva   che   sia   per   l'autore   del
riconoscimento, sia per la madre erano  decorsi  i  termini  previsti
dall'art. 263, terzo comma, cod. civ. 
    Il rimettente, d'altro canto, esclude che  il  curatore  nominato
dal giudice  istruttore  possa  ritenersi  legittimato  ad  impugnare
l'atto nell'interesse del minore, ai sensi dell'art. 264 cod. civ. 
    3.- Sul piano della rilevanza,  il  giudice  a  quo  osserva  che
l'impugnazione risulterebbe intempestiva, pur avendo la  disposizione
transitoria di cui all'art. 104, comma 10,  del  d.lgs.  n.  154  del
2013, previsto, per i casi di annotazione del riconoscimento avvenuta
prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina, un  differimento
dei termini di cui all'art. 263 cod. civ. alla data  dell'entrata  in
vigore del citato decreto legislativo (il 7 febbraio 2014). 
    La notifica dell'atto di citazione era, infatti,  avvenuta  il  7
agosto 2019 e, a quella data,  risultavano  decorsi  sia  il  termine
annuale, sia - per pochi mesi -  quello  quinquennale,  sicche'  solo
sollevando la questione di  legittimita'  costituzionale  il  giudice
ritiene di poter passare all'esame nel merito della domanda. 
    3.1.- Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sostiene che
le   questioni   non   potrebbero   essere   superate   in    ragione
dell'intervento adesivo di soggetti diversi dal padre. 
    Il pubblico ministero avrebbe legittimazione ad agire nell'azione
di disconoscimento di paternita', ai sensi dell'art. 244  cod.  civ.,
ma  non  nell'impugnazione  del   riconoscimento   per   difetto   di
veridicita'. 
    Parimenti,  l'intervento  adesivo   della   madre   non   sarebbe
risolutivo, essendo anche la sua azione decaduta. 
    Infine,  sebbene   l'azione   da   parte   del   figlio   risulti
imprescrittibile (art.  263,  comma  2,  cod.  civ.),  il  favor  per
l'impugnazione  espresso  dal  curatore  speciale  del   minore   non
inciderebbe sulla  rilevanza.  Secondo  il  rimettente,  infatti,  la
legittimazione  all'esperimento  dell'azione   non   spetterebbe   al
curatore nominato  dal  giudice  istruttore,  ma  richiederebbe,  nel
rispetto dell'art. 264 cod. civ. (come modificato  dall'art.  29  del
d.lgs. n. 154 del 2013), una designazione effettuata a seguito di una
procedura camerale, ai sensi dell'art. 737 del  codice  di  procedura
civile, assumendo sommarie informazioni ed acquisendo anche il parere
del  pubblico  ministero,  che  deve  verificare  se   l'impugnazione
corrisponda all'interesse del minore. 
    4.-  Con  riferimento  alla  non  manifesta  infondatezza   delle
questioni, il giudice a quo ritiene che l'art. 263, terzo comma, cod.
civ. sia contrario «non solo all'art.  8  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,  e
quindi all'art. 117, primo comma, Cost., ma anche agli artt. 3  e  76
Cost.». 
    4.1.- In particolare, relativamente alla decorrenza, per l'autore
del riconoscimento, del termine annuale di decadenza,  il  rimettente
ravvisa un contrasto con l'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo. 
    Innanzitutto,  reputa  insussistente  qualsivoglia   «ragionevole
motivo [per il quale] il termine decorra dalla conoscenza [della  non
paternita'] solo in caso di impotenza». 
    Inoltre, denuncia l'irragionevole disparita' di  trattamento  fra
la disciplina che, ai sensi dell'art. 244, secondo comma, cod.  civ.,
regola i termini  per  proporre  l'azione  di  disconoscimento  della
paternita' e la piu' rigida normativa contemplata dal comma censurato
per  l'impugnazione  del  riconoscimento.  Il  termine   annuale   di
decadenza dall'azione nell'art. 244 cod. civ. decorre dalla prova  di
una pluralita' di fatti, tra i quali la scoperta dell'adulterio della
moglie al tempo del concepimento; viceversa, la disciplina  censurata
in  tema  di  impugnazione  del  riconoscimento  «nulla  prevede   in
relazione alla specifica ipotesi di ignoranza - da parte del padre  -
della  relazione  della  madre  con  altri  uomini   al   tempo   del
concepimento». 
    4.2.- La medesima norma relativa al termine annuale si  porrebbe,
poi, in contrasto con l'art. 76 Cost., per eccesso di delega rispetto
all'art. 2, comma 1,  della  legge  del  10  dicembre  2012,  n.  219
(Disposizioni in  materia  di  riconoscimento  dei  figli  naturali).
Secondo  il  rimettente  «la  differenziazione   -   per   il   padre
"apparente", rispetto al padre coniugato - del termine per contestare
il rapporto biologico col figlio "apparente", effettuata  dal[l']art.
28  del  decreto  legislativo  28  dicembre  2013,  n.  154,  che  ha
modificato l'art. 263 c.c., appare di dubbia costituzionalita'». 
    4.3.- Infine, la disciplina sui  termini  di  cui  all'art.  263,
terzo comma, cod. civ. contrasterebbe con l'art.  117,  primo  comma,
Cost., relativamente al parametro interposto di cui all'art. 8  CEDU.
Secondo l'interpretazione offerta dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo della norma che regola  il  diritto  al
rispetto della vita privata e familiare, l'esigenza di bilanciare, in
una maniera conforme al  principio  di  proporzionalita',  il  citato
interesse con altre istanze  contrapposte  verrebbe  pregiudicata  da
regole che a priori limitassero  eccessivamente  la  possibilita'  di
contestare la paternita'. 
    Tali sarebbero le  ipotesi  in  cui  si  addebitasse  il  mancato
rispetto di un termine «per motivi che non potevano essere  imputati»
al soggetto legittimato all'azione. 
    Simile censura riguarda ambo i termini previsti per l'autore  del
riconoscimento dall'art. 263, terzo  comma,  cod.  civ.:  sia  quello
annuale, che, salvo il caso della  scoperta  dell'impotenza,  decorre
dall'annotazione del riconoscimento, sia quello quinquennale, che  si
computa sempre a partire da quel medesimo momento. 
    5.-  Da  ultimo,  il  rimettente  considera   impraticabile   una
interpretazione costituzionalmente  orientata  dell'art.  263,  terzo
comma,  cod.  civ.,  in  quanto  esclusa  dalla  «stringente  dizione
letterale» della disposizione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione  del  riconoscimento
del figlio per difetto di  veridicita',  il  Tribunale  ordinario  di
Trento  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 263,  terzo  comma,  del  codice  civile,  come  modificato
dall'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre  2013,  n.
154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell'articolo 2 della legge  10  dicembre  2012,  n.  219),  in
riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della  Costituzione,
quest'ultimo  in  relazione  all'art.  8  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    L'art. 263, terzo comma, cod. civ. prevede, in  particolare,  che
«[l]'azione di impugnazione da parte dell'autore  del  riconoscimento
deve essere proposta nel termine di un anno, che decorre  dal  giorno
dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore
del riconoscimento prova di aver ignorato  la  propria  impotenza  al
tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in  cui  ne  ha
avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato
il riconoscimento e' ammessa a provare di aver  ignorato  l'impotenza
del presunto padre. L'azione non puo' essere comunque proposta  oltre
cinque anni dall'annotazione del riconoscimento». 
    Il comma citato  viene  ritenuto  costituzionalmente  illegittimo
nella parte in cui non consente che, per l'autore del riconoscimento,
il termine  per  proporre  l'azione  di  impugnazione  decorra  dalla
conoscenza della non paternita'. 
    Il giudice, pertanto, censura la  norma  che,  per  l'autore  del
riconoscimento, fa decorrere il  dies  a  quo,  relativo  al  termine
annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell'impotenza al tempo del
concepimento o, in alternativa, dall'annotazione  del  riconoscimento
sull'atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l'azione non debba essere
impedita dal decorso di un termine,  come  quello  quinquennale,  che
trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternita'. 
    2.- Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente evidenzia che
entrambi i termini disciplinati dal comma censurato - quello  annuale
e quello quinquennale - sono, nella fattispecie oggetto del  giudizio
a quo, scaduti e, per questo, solleva le  questioni  di  legittimita'
costituzionale,  chiedendo  che  l'autore  del  riconoscimento  possa
impugnare l'atto a partire dalla scoperta della non paternita'. 
    3.- Quanto alla non manifesta infondatezza,  l'ordinanza  investe
l'intero art. 263, terzo comma, cod. civ., rilevando il contrasto con
una pluralita' di parametri che variamente si riverberano su  ambedue
i termini ivi regolati. 
    Le motivazioni riferite agli artt. 3 e  76  Cost.  riguardano  il
solo  termine  di  decadenza  annuale,  che  decorre  o  dalla  prova
dell'impotenza al tempo del concepimento o, in  mancanza  di  questa,
dall'annotazione  del  riconoscimento;  viceversa,   l'argomentazione
incentrata  sull'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  relativamente  al
parametro interposto di cui all'art. 8  CEDU,  mette  in  discussione
qualunque termine impeditivo dell'azione, quando decorra per  ragioni
che non consentono di ritenere imputabile al legittimato l'inerzia. 
    3.1.- Il  rimettente  ravvisa,  in  particolare,  una  violazione
dell'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo. 
    L'autore del riconoscimento, onde  giovarsi  di  un  dies  a  quo
relativo  al  termine  annuale  diverso  dall'annotazione  dell'atto,
sarebbe irragionevolmente ammesso a  dimostrare  la  mera  conoscenza
dell'impotenza, anziche' la scoperta della non paternita'  per  altre
ragioni. 
    Inoltre, il  medesimo  termine  comporterebbe  una  irragionevole
disparita'   di   trattamento   rispetto    alla    disciplina    del
disconoscimento di paternita'. Ai fini della sua  decorrenza,  l'art.
244 cod. civ. consente al padre di provare una pluralita'  di  fatti,
tra i quali la scoperta dell'adulterio  al  tempo  del  concepimento;
viceversa, l'art. 263, terzo  comma,  cod.  civ.  «nulla  prevede  in
relazione alla specifica ipotesi di ignoranza - da parte del padre  -
della  relazione  della  madre  con  altri  uomini   al   tempo   del
concepimento». 
    3.2.- La diversita' di previsioni, sopra richiamata, si porrebbe,
altresi', in contrasto con  l'art.  76  Cost.,  per  avere  la  norma
ecceduto rispetto ai limiti tracciati dall'art.  2,  comma  1,  della
legge delega 10 dicembre 2012, n. 219  (Disposizioni  in  materia  di
riconoscimento dei figli naturali). 
    3.3.- Infine, la disciplina sui  termini  di  cui  all'art.  263,
terzo comma, cod. civ. violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost.,  in
relazione all'art. 8 CEDU, in quanto la  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo avrebbe ritenuto  non  conformi  ad  un
bilanciamento proporzionato fra gli interessi in conflitto meccanismi
impeditivi dell'azione legati alla decorrenza  di  termini,  che  non
consentono di ritenere imputabile l'inerzia. 
    Tale parametro costituzionale chiama  in  causa  sia  il  termine
annuale sia quello quinquennale. 
    4.- Preliminarmente, si deve rilevare che il  giudice  a  quo  ha
ricostruito in maniera completa  il  quadro  normativo,  dando  conto
della norma transitoria di cui all'art. 104, comma 10, del d.lgs.  n.
154 del 2013, secondo la quale «[f]ermi  gli  effetti  del  giudicato
formatosi prima dell'entrata in vigore della legge 10 dicembre  2012,
n. 219, nel caso di riconoscimento di figlio  annotato  sull'atto  di
nascita  prima  dell'entrata   in   vigore   del   presente   decreto
legislativo,  i  termini  per  proporre  l'azione  di   impugnazione,
previsti dall'art. 263 e dai commi secondo, terzo e quarto  dell'art.
267 del codice civile, decorrono dal giorno  dell'entrata  in  vigore
del medesimo decreto legislativo».  Il  rimettente,  in  particolare,
chiarisce che il meccanismo di differimento,  previsto  dalla  citata
norma, non ha, comunque, impedito la scadenza di entrambi i  termini,
rispetto   ai   quali   solleva   le   questioni   di    legittimita'
costituzionale. 
    Deve, inoltre, precisarsi che il giudice a quo  ha  censurato  il
solo art. 263, terzo comma, cod. civ. e non anche l'art.  104,  comma
10, del d.lgs. n. 154 del 2013, in quanto ha chiesto una integrazione
della prima disposizione, che facesse decorrere il termine a  partire
da un momento - la scoperta della non  paternita'  -  che,  nel  caso
oggetto del giudizio, si era  verificato  dopo  l'entrata  in  vigore
della legge n. 219 del 2012. 
    5.- Passando ora all'esame del merito, occorre premettere che  la
riforma dell'art. 263 cod. civ., introdotta con il d.lgs. n. 154  del
2013, ha profondamente innovato la precedente disciplina, nell'ambito
di una novella legislativa che,  pur  avendo  mantenuto  distinte  le
azioni di stato, si e'  ispirata  all'obiettivo  di  «eliminare  ogni
discriminazione tra i figli [...] nel rispetto dell'articolo 30 della
Costituzione» (art. 2, comma 1, della  legge  10  dicembre  2012,  n.
219). 
    Al   precedente   regime   in   materia   di   impugnazione   del
riconoscimento per difetto di veridicita', tutto improntato al  favor
veritatis, e' subentrata una  regolamentazione  che  ha  notevolmente
rafforzato l'esigenza di stabilita' dello  status  filiationis  e  di
tutela del figlio. 
    La modifica del dato normativo e' stata, poi, accompagnata  dagli
interventi  di  questa  Corte,  che  ha  provveduto  a  precisare  la
necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra
gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. L'art.
263  cod.  civ.  sottende  «l'esigenza  di  operare   una   razionale
comparazione degli interessi  in  gioco,  alla  luce  della  concreta
situazione dei soggetti coinvolti», posto che «la regola di  giudizio
che il giudice e' tenuto ad applicare in questi  casi  [deve]  tenere
conto di variabili molto piu' complesse della rigida alternativa vero
o falso (sentenza n. 272 del 2017)» (sentenza n. 127 del 2020). 
    Sullo sfondo, dunque, di un'azione nella  quale  il  giudice  non
procede ad un mero accertamento della verita' biologica, ma opera  un
bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti,  si  collocano
le questioni poste dal rimettente, il quale dubita della legittimita'
costituzionale della disciplina relativa al duplice termine  con  cui
l'art. 263, terzo  comma,  cod.  civ.  filtra  la  possibilita',  per
l'autore del riconoscimento, di far  valere  in  giudizio  uno  degli
interessi che entrano nel  bilanciamento,  vale  a  dire  l'identita'
biologica. 
    In particolare, ravvisa un contrasto con gli artt. 3, 76  e  117,
primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  8  CEDU,
rispetto alla disposizione che regola  il  dies  a  quo  relativo  al
termine di decadenza annuale, nonche' una violazione sempre dell'art.
117, primo comma, Cost., coordinato con la citata  norma  interposta,
relativamente al termine quinquennale, che  decorre  dall'annotazione
del riconoscimento e, dunque, a prescindere  dalla  conoscenza  della
non paternita'. 
    6.- In via prioritaria, e' necessario esaminare  la  censura  che
ritiene violato l'art. 76 Cost. 
    Secondo il rimettente, l'art. 263, terzo comma, cod. civ. avrebbe
ecceduto i limiti tracciati dalla legge di delega, differenziando  la
disciplina del dies a quo, relativo al termine annuale  di  decadenza
per l'impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento,  rispetto
alla previsione che regola, per il "padre coniugato",  la  decorrenza
del termine annuale nell'azione di disconoscimento della paternita'. 
    La norma censurata  prevede,  infatti,  che  il  termine  annuale
decorra o dalla scoperta della impotenza al tempo del concepimento o,
altrimenti, dall'annotazione del riconoscimento. Per converso, l'art.
244 cod. civ. stabilisce, nel secondo  e  nel  terzo  comma,  che  il
marito puo' disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre
«dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo  di  questa
nel luogo in cui e' nato il figlio; se  prova  di  aver  ignorato  la
propria impotenza di generare  ovvero  l'adulterio  della  moglie  al
tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in  cui  ne  ha
avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel  luogo  in  cui  e'
nato il figlio il giorno della nascita, il termine, di cui al secondo
comma, decorre dal giorno del suo ritorno o dal  giorno  del  ritorno
nella residenza familiare se egli ne era lontano. In  ogni  caso,  se
egli prova di non aver avuto notizia della nascita in  detti  giorni,
il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia». 
    6.1.- La questione non e' fondata. 
    L'art. 2, comma  1,  della  legge  delega  n.  219  del  2012  ha
stabilito, quale principio generale, l'esigenza  di  «eliminare  ogni
discriminazione  tra  i   figli,   anche   adottivi,   nel   rispetto
dell'articolo 30 della Costituzione», statuendo, poi, alla lettera a)
del  medesimo  comma  la  «sostituzione,  in  tutta  la  legislazione
vigente, dei riferimenti ai "figli legittimi" e "figli naturali"  con
riferimenti ai  "figli",  salvo  l'utilizzo  delle  denominazioni  di
"figli nati nel matrimonio" e di "figli nati  fuori  del  matrimonio"
quando si tratta  di  disposizioni  a  essi  relative».  Infine,  con
specifico  riferimento  all'impugnazione   del   riconoscimento,   ha
previsto, alla  lettera  g)  del  citato  comma,  la  modifica  della
disciplina «con la limitazione  dell'imprescrittibilita'  dell'azione
solo per il figlio e con l'introduzione di un  termine  di  decadenza
per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati». 
    Sulla base delle disposizioni richiamate, non si  puo'  sostenere
che  al  legislatore  delegato  fosse  preclusa  la  possibilita'  di
mantenere  distinte  azioni  demolitorie  dello  status  filiationis,
purche' l'esito - in conformita' con l'art. 30 Cost. - non conducesse
ad una discriminazione  in  pregiudizio  al  figlio  nato  fuori  dal
matrimonio. 
    Un tale risultato deve certamente escludersi con riferimento alla
disciplina censurata. 
    Il  legislatore  delegato  non  solo   ha   introdotto   -   come
espressamente  richiesto   dalla   delega   -   l'imprescrittibilita'
dell'azione  a  beneficio  del  solo  figlio,  nonche'   un   termine
impeditivo  dell'azione  per  gli  altri  legittimati,  ma  ha  anche
contemplato  -  come  nel  disconoscimento  della  paternita'  -   un
ulteriore termine riferito al padre. Tale norma, d'altro  canto,  pur
non priva - come si dira' - di criticita', non comporta in alcun modo
una  discriminazione  in  pregiudizio  al  figlio  nato   fuori   dal
matrimonio. 
    Tanto premesso, va precisato che la giurisprudenza costituzionale
in tema di eccesso di delega e' da tempo costante nell'affermare  che
«la previsione di cui all'art. 76 Cost. non osta  all'emanazione,  da
parte  del  legislatore  delegato,  di  norme  che  rappresentino  un
coerente sviluppo  e  un  completamento  delle  scelte  espresse  dal
legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del  primo
sia  limitata  ad  una  mera  scansione  linguistica  di   previsioni
stabilite dal  secondo.  Il  sindacato  costituzionale  sulla  delega
legislativa deve, cosi', svolgersi attraverso un  confronto  tra  gli
esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato,
le disposizioni che determinano l'oggetto, i  principi  e  i  criteri
direttivi indicati dalla  legge  di  delegazione  e,  dall'altro,  le
disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel
significato compatibile con i principi e i  criteri  direttivi  della
delega.  Il  che,  se  porta  a  ritenere   del   tutto   fisiologica
quell'attivita' normativa di completamento e  sviluppo  delle  scelte
del delegante, circoscrive, d'altra parte, il vizio  in  discorso  ai
casi di dilatazione dell'oggetto indicato dalla legge di delega, fino
all'estremo di ricomprendere in esso materie  che  ne  erano  escluse
(sentenza n. 194 del 2015 e sentenze  n.  182  e  n.  50  del  2014)»
(sentenza n. 212 del 2018). 
    Deve, dunque, ritenersi che la  norma  censurata  non  abbia,  in
alcun modo, travalicato i confini tracciati dal perimetro della legge
delega. 
    7.- Sempre con riferimento alla disciplina sul dies  a  quo,  per
l'autore  del  riconoscimento,  del  termine  annuale  di   decadenza
dall'azione (art. 263, terzo  comma,  prima  parte,  cod.  civ.),  il
rimettente solleva ulteriori dubbi di legittimita' costituzionale  in
riferimento all'art. 3 Cost. 
    7.1.- L'esame  di  tali  censure  richiede,  preliminarmente,  di
ricostruire come si sia giunti ad una norma  che  fa  decorrere,  per
l'autore del riconoscimento, il dies a quo del termine annuale  dalla
scoperta  dell'impotenza  al  tempo  del  concepimento,  quale  unica
alternativa  alla  sua  decorrenza  dall'annotazione   dell'atto   di
riconoscimento. 
    La disciplina richiamata origina  da  una  traslazione  meramente
parziale, nell'ambito dell'impugnazione del riconoscimento del figlio
nato fuori dal matrimonio, delle regole dettate dal  legislatore  per
il disconoscimento della paternita' del figlio nato  nel  matrimonio.
Queste, a loro volta, hanno subito un processo evolutivo non privo di
increspature, che e' opportuno brevemente ripercorrere. 
    7.1.1.- Quando, in materia di  prova  del  disconoscimento  della
paternita', vigeva l'art. 235 cod. civ., ora abrogato, che  ammetteva
il padre coniugato a dimostrare la  non  paternita'  solo  dopo  aver
provato una serie di fatti idonei a superare l'allora presunzione  di
concepimento (la non coabitazione in quel periodo,  o,  nel  medesimo
arco di tempo, l'impotenza o l'adulterio o  la  dissimulazione  della
gravidanza  o  della  nascita),   questa   Corte   aveva   dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 244 cod. civ., nella  parte  in
cui, regolando  il  termine  di  decadenza  annuale  per  l'esercizio
dell'azione, non aveva previsto  che  esso  potesse  decorrere  anche
dalla scoperta dell'adulterio (sentenza  n.  134  del  1985)  nonche'
dalla conoscenza  dell'impotenza  (sentenza  n.  170  del  1999).  La
giurisprudenza   costituzionale   aveva   rilevato,   in   proposito:
«l'irragionevole esclusione del diritto del padre  di  agire  per  il
disconoscimento, nel caso di scoperta dell'adulterio  oltre  un  anno
dopo la nascita del figlio, poiche' l'azione sarebbe inutiliter data»
(sentenza  n.  134  del  1985),  cosi'  come  aveva   contestato   la
ragionevolezza di una previsione che negava l'azione a chi «non [era]
stato a conoscenza di un elemento costitutivo  dell'azione  medesima»
(sentenza n. 170 del 1999). 
    Dopo che le richiamate pronunce avevano riallineato la disciplina
della decorrenza dei termini alle prove  allora  richieste  dall'art.
235 cod. civ., questa Corte dichiarava, di seguito,  l'illegittimita'
costituzionale della norma appena citata, nella parte in cui, ai fini
dell'azione di  disconoscimento,  condizionava  l'esame  delle  prove
tecniche sulla non paternita'  alla  previa  dimostrazione  di  fatti
ulteriori: nello specifico, alla prova dell'adulterio. La sentenza n.
266 del 2006 rilevava, infatti, che «[i]l subordinare [...] l'accesso
alle prove tecniche, che, da sole,  consentono  di  affermare  se  il
figlio e' nato o meno da colui che e' considerato il padre legittimo,
alla previa prova dell'adulterio e',  da  una  parte,  irragionevole,
attesa l'irrilevanza di quest'ultima prova al fine dell'accoglimento,
nel merito, della domanda proposta; e, dall'altra, si risolve  in  un
sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito
dall'art. 24 della Costituzione». 
    Con la  novella  introdotta  dal  d.lgs.  n.  154  del  2013,  la
disciplina  relativa  alla  prova  oggetto  del  disconoscimento   di
paternita' e' stata conformata alla sentenza n.  266  del  2006,  con
l'eliminazione del  filtro  di  ammissibilita'  e  con  l'abrogazione
dell'art.  235  cod.  civ.,  sostituito  dalla  semplice   previsione
dell'art.  243-bis,  secondo  comma,  cod.  civ.,  secondo  cui  «chi
esercita l'azione e' ammesso a provare che non sussiste  rapporto  di
filiazione tra il figlio e il presunto  padre».  Tuttavia,  la  nuova
regolamentazione della prova non si e' riverberata  sulla  disciplina
del termine annuale di decadenza dall'azione, che e'  stata  adeguata
esclusivamente a quanto deciso dalle sentenze n. 170 del  1999  e  n.
134 del 1985. L'art. 244 cod. civ. prevede, infatti, che  il  termine
annuale di decadenza decorra per il padre dal momento  della  nascita
del figlio (o, in caso di  lontananza  in  quel  momento,  dai  fatti
previsti dall'art. 244, terzo comma, cod. civ.), oppure  dalla  prova
della conoscenza dell'adulterio o dell'impotenza a generare al  tempo
del concepimento. In sostanza, le precedenti ragioni, che integravano
il filtro di ammissibilita', continuano a dover essere  provate,  sia
pur al mero fine di impedire la decadenza dall'azione. 
    7.1.2.-  Venendo,  ora,  alla  disciplina  dell'impugnazione  del
riconoscimento del figlio, emerge come l'art. 263, terzo comma,  cod.
civ. abbia preso a modello proprio le regole  dettate  dall'art.  244
cod. civ. e si sia, poi, limitato  a  considerare  la  sola  scoperta
dell'impotenza  al  tempo  del  concepimento,  quale   dies   a   quo
alternativo a quello dell'annotazione del riconoscimento. 
    A fronte di tale disposizione, il rimettente censura la norma per
non aver previsto la decorrenza del termine annuale dalla  conoscenza
tout court della non paternita', a prescindere  dalla  causa  da  cui
essa  dipenda,  sollevando  un   duplice   dubbio   di   legittimita'
costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost. 
    Per un verso, rileva l'irragionevolezza  del  richiamo  esclusivo
alla scoperta dell'impotenza, posto che il padre puo' ben ignorare (e
non avere ragioni per sospettare) la non paternita', anche in ipotesi
diverse da quella citata. Tale censura reca  con  se'  il  dubbio  di
un'irragionevole disparita' di trattamento fra chi  possa  dimostrare
la propria impotenza, onde sottrarsi alla  decadenza  dall'azione,  e
chi non sia affetto da tale patologia. 
    Per  un  altro  verso,  contesta  l'irragionevole  disparita'  di
trattamento  rispetto  alla   disciplina   sul   disconoscimento   di
paternita', che contempla, oltre  alla  scoperta  dell'impotenza,  un
piu' ampio novero di fatti, la cui dimostrazione fa decorrere il dies
a quo del termine annuale. 
    7.2.- Le questioni sono fondate. 
    7.2.1.- Sotto il primo profilo, occorre rilevare che  l'art.  263
cod. civ. regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto  di
veridicita', abbracciando tanto  casi  di  riconoscimento  effettuato
nella consapevolezza della  non  paternita'  (su  cui  si  vedano  le
sentenze n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017), quanto ipotesi in cui il
consenso all'atto personalissimo si fondi  sull'erronea  supposizione
del legame biologico. 
    Sennonche',  mentre  puo'  ritenersi  non  irragionevole  che  il
termine annuale decorra dall'annotazione del riconoscimento  per  chi
abbia  posto  in  essere  l'atto  nella  consapevolezza   della   non
paternita'   biologica,   per   converso,   evidenzia   una    palese
irragionevolezza far decorrere il medesimo  termine  dall'annotazione
del riconoscimento, per chi  ignorasse  il  difetto  di  veridicita',
limitando la possibilita' di far valere  la  decorrenza  del  termine
dalla scoperta della non paternita' alla sola ipotesi dell'impotenza.
Ne discende una irragionevole disparita' di  trattamento  fra  autori
del riconoscimento, che possano provare  l'impotenza,  e  autori  del
riconoscimento non affetti da tale  patologia,  che  siano  parimenti
venuti a conoscenza della non veridicita' della paternita' biologica,
quando oramai sia decorso il termine annuale  conteggiato  a  partire
dall'annotazione del riconoscimento. 
    La disciplina censurata si pone, in tal modo,  in  contrasto  con
quanto affermato da questa Corte, che ha ritenuto  irragionevole  far
decorrere il  termine  annuale  di  decadenza  dall'azione  volta  ad
impugnare lo status filiationis, quando il padre non era a conoscenza
dei fatti oggetto della prova (sentenze n. 170 del 1999 e n. 134  del
1985). E se, quando  le  sentenze  richiamate  venivano  pronunciate,
l'onere probatorio che vigeva nella  disciplina  sul  disconoscimento
della paternita' riguardava fatti quali l'adulterio o l'impotenza  al
tempo del concepimento, viceversa, unico ed esclusivo  oggetto  della
prova nell'impugnazione del riconoscimento ex art. 263, primo  comma,
cod. civ., e' - ed e' sempre stato anche prima della riforma del 2013
- la mera non paternita' biologica. E', dunque, dalla scoperta  della
non paternita' che deve decorrere il  termine  annuale  di  decadenza
dall'azione   per   l'autore   del   riconoscimento,   onde   evitare
l'irragionevolezza di negare  l'azione  a  chi  «non  [era]  stato  a
conoscenza di un elemento costitutivo dell'azione medesima» (sentenza
n. 170 del 1999). 
    7.3.- Quanto sopra premesso  evidenzia  che  la  norma  censurata
comporta  una  irragionevole  disparita'  di  trattamento  anche  nel
confronto tra le regole dettate per il padre che intenda  far  valere
la verita' biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste
per il padre che agisca per il disconoscimento di paternita'. 
    Il padre non coniugato puo' dimostrare solo l'impotenza, onde far
decorrere il termine annuale di decadenza da un dies  a  quo  diverso
rispetto all'annotazione del riconoscimento; il padre coniugato puo',
invece,  avvalersi   anche   di   altre   prove,   tra   cui   quella
dell'adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che  altrimenti  decorre
dalla nascita. 
    Anche a fronte di tale diversita' di trattamento, che finisce per
rendere piu' stabile lo status filiationis  sorto  al  di  fuori  del
matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato  durante  il
matrimonio,  deve,  dunque,  ritenersi  fondata   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 263, terzo  comma,  cod.  civ.,
nella parte in cui non prevede che il termine  annuale  di  decadenza
decorra per l'autore del riconoscimento dalla mera scoperta della non
paternita',  che  in  se'  abbraccia  qualsivoglia  ragione   l'abbia
determinata. 
    In tal modo, si garantisce al padre non coniugato una  disciplina
sul termine  di  decadenza  annuale  dall'azione,  che  presenta  una
latitudine analoga a quella spettante  al  padre  coniugato,  pur  se
questi, per sottrarsi alla decadenza del termine,  e'  onerato  dalla
prova delle singole ragioni di sospetto o di acquisita certezza della
non paternita', individuate dall'art. 244,  secondo  e  terzo  comma,
cod. civ. 
    D'altro  canto,  non  puo'  certo  ritenersi   costituzionalmente
vincolata l'esatta riproduzione  nella  disciplina  dell'impugnazione
del riconoscimento di tali singole  ragioni  previste  dall'art.  244
cod. civ. per il disconoscimento della paternita'. 
    Per  un  verso,  infatti,  rispetto  a  quest'ultima  azione,  il
legislatore ha ritenuto di  mantenere,  sia  pure  al  mero  fine  di
impedire la decadenza dall'azione, un onere probatorio  che,  invero,
rispetto alla  dimostrazione  richiesta  per  il  disconoscimento  di
paternita',  la   sentenza   n.   266   del   2006   aveva   reputato
costituzionalmente illegittimo. Non a caso, la riforma  del  2013  ha
previsto  come  prova  per  l'azione  di  disconoscimento   la   mera
dimostrazione della non paternita' (art. 243-bis cod. civ). 
    Per un altro verso, il mantenimento del richiamo a fatti, che  un
tempo operavano da filtro di  ammissibilita'  dell'azione,  collegato
con la precedente presunzione di concepimento, palesa una logica  del
tutto estranea all'impugnazione del riconoscimento. 
    Appare, invece, decisivo che il superamento dell'irragionevolezza
insita nell'art. 263, terzo comma, cod. civ., avvenga,  per  l'autore
del riconoscimento, nel segno di un coordinamento tra  la  disciplina
del termine di decorrenza dell'azione e l'oggetto  della  prova  che,
nell'impugnazione del riconoscimento, e' la mera dimostrazione  della
non paternita' biologica. 
    7.4.-  In  conclusione,   deve   dichiararsi   costituzionalmente
illegittimo, per contrasto con l'art.  3  Cost.,  l'art.  263,  terzo
comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede  che,  per  l'autore
del riconoscimento, il  termine  annuale  per  proporre  l'azione  di
impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della  non
paternita'. 
    In  riferimento  a  tale  oggetto  resta  assorbita   l'ulteriore
questione di legittimita' costituzionale, posta con riguardo all'art.
117, primo comma, Cost., relativamente alla norma interposta  di  cui
all'art. 8 CEDU. 
    8.- Il contrasto con il medesimo art. 117,  primo  comma,  Cost.,
sempre in rapporto alla norma interposta di cui all'art. 8 CEDU, deve
essere, invece, indagato rispetto al  termine  quinquennale,  di  cui
all'art. 263, terzo comma, cod. civ. 
    Nella disciplina di  tale  termine  il  tempo  decorre,  inibendo
l'azione, a prescindere dalla circostanza che  il  richiedente  fosse
consapevole della sua possibile non  paternita'.  Questo  sembrerebbe
evocare  gli  orientamenti  della  Corte  EDU  che,  in  effetti,  ha
censurato alcuni meccanismi  impeditivi  di  azioni  di  impugnazione
dello status filiationis, ove al  legittimato  non  fosse  imputabile
l'inerzia. 
    8.1.- La questione non e' fondata. 
    Vero e' che, nell'interpretazione del diritto al  rispetto  della
vita personale e familiare, la Corte EDU, in vari  precedenti  (Corte
EDU, sentenza 10 gennaio 2007, Paulik contro Slovacchia;  Corte  EDU,
sentenza 24  febbraio  2006,  Shofman  contro  Russia),  compreso  il
recente caso citato dal rimettente, Doktorov contro  Bulgaria  (Corte
EDU, sentenza 10 settembre 2018), ha ritenuto che non  realizzino  un
bilanciamento proporzionato, tra gli interessi rilevanti,  discipline
volte a far decorrere un  termine  di  decadenza  per  l'impugnazione
dello stato di  filiazione  dal  momento  costitutivo  dello  stesso,
anziche'  da  quello  in  cui  il  richiedente  abbia   maturato   la
consapevolezza della sua possibile non paternita': «rather than  from
the moment the applicant became aware that he might not be the father
of the child» (Corte EDU, sentenza 10 settembre 2018, non tradotta in
italiano). In particolare, con riguardo alla legislazione bulgara, la
Corte contesta la rigidita'  di  previsioni  che  non  consentono  di
prendere in considerazione le circostanze individuali di persone che,
come il ricorrente, risultassero  decadute  per  motivi  a  loro  non
imputabili. 
    Tuttavia, l'interpretazione  sopra  richiamata  e'  correlata  in
maniera inscindibile alle fattispecie normative oggetto  dei  giudizi
sottoposti alla Corte EDU, che si riferiscono a termini (semestrali o
annuali)  decisamente  piu'  brevi  rispetto  a  quello  quinquennale
previsto dall'art. 263, terzo comma, ultima parte, cod. civ. 
    Un cosi' lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento)
radica  il  legame  familiare  e  sposta  il  peso  assiologico,  nel
bilanciamento attuato dalla norma, sul  consolidamento  dello  status
filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di
tale interesse  sia  risolta  in  via  automatica  dalla  fattispecie
normativa. 
    Nessuna censura di non proporzionalita' puo', dunque, muoversi  -
anche nel  coordinamento  fra  l'interpretazione  dell'art.  8  CEDU,
offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei  principi  costituzionali  -
alla scelta operata dal legislatore che, nella sua  discrezionalita',
ha   ritenuto   di   sacrificare    l'interesse    dell'autore    del
riconoscimento, a far valere in via giudiziale l'identita' biologica,
a beneficio dell'interesse allo status filiationis consolidatosi dopo
cinque anni dal suo sorgere. 
    Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l'interesse a far valere
la verita' biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio,
in quanto esso puo' essere fatto valere dallo stesso figlio,  per  il
quale   l'azione   di   impugnazione   del   riconoscimento   risulta
imprescrittibile.