TRIBUNALE MILITARE DI ROMA
2ª sezione
Il Tribunale militare di Roma, 2ª Sezione, composto dai signori:
dott. Gabriele Casalena - Presidente;
dott. Enrico Della Ratta Rinaldi - Giudice;
col. Davide De Meo - Giudice militare;
Con l'intervento del pubblico ministero in persona del dott.
Enrico Peluso e dei cancellieri dott. Marco Cancellieri e sig.ra
Maria Laura Guerrieri, ha pronunciato in pubblica udienza la seguente
ordinanza nel procedimento;
Contro T. F., nato a ..., il ..., libero, presente, elettivamente
domiciliato presso l'avv. Cosmo Leccese, difensore di fiducia, con
studio in Gaeta (LT), via Appia lato Roma, km 136+500 N, s.n.c.;
imputato di «Diffamazione aggravata» (articoli 47 n. 2 e 4, nonche'
227 comma 1 c.p.m.p.) perche' col. A.M. all'epoca dei fatti in
servizio presso il Comando Aviazione dell'Esercito in ...,
conversando con piu' persone all'interno della buvette del Comando
Aviazione dell'Esercito offendeva la reputazione dei membri della
Commissione che stava effettuando una ispezione amministrativa presso
il Comando del ... dicendo: «poi giu' ad Antares stanno facendo altri
casini, la Commissione sta insabbiando tutto, occhio che e' gia'
pronta la lettera per la Procura.». Con le aggravanti di essere
militare rivestito di un grado e di aver commesso il fatto alla
presenza di tre o piu' militari o, comunque, in circostanze di luogo
per le quali possa verificarsi il pubblico scandalo.
In Viterbo il 29 giugno 2018 alle ore 10,15 circa.
Con le parti civili costituite F. N., V. P., L. S., G. V., difese
dall'avv. Alessia Acchioni del Foro di Velletri;
Osserva quanto segue
1. All'udienza in data odierna, all'esito dell'istruttoria
dibattimentale, il pubblico ministero ha concluso per la condanna
dell'imputato alla pena di sei mesi di reclusione militare. Il
difensore delle parti civili ha chiesto la condanna del predetto alla
pena ritenuta di giustizia e il risarcimento dei danni in favore dei
propri assistiti, oltre alla rifusione delle spese legali. La difesa
ha invocato l'assoluzione del T.
Il Presidente del Collegio ha quindi invitato le parti al
contraddittorio su un possibile profilo di illegittimita'
costituzionale dell'art. 538 del codice di procedura penale,
disposizione che, nel caso di proscioglimento dell'imputato per la
particolare tenuita' del fatto, non consente il risarcimento del
danno in favore della parte civile costituita.
Il pubblico ministero ha manifestato il parere che una eventuale
sentenza di assoluzione ex art. 131-bis del codice penale non leda il
diritto delle parti civili ad ottenere il risarcimento, ma al piu' lo
comprima, potendo esse instaurare un ulteriore processo innanzi al
giudice civile. Ha quindi espresso l'avviso che la norma sia conforme
alla Costituzione.
L'avv. Acchioni per le parti civili ha insistito nella richiesta
di risarcimento del danno e di liquidazione delle spese legali.
L'avv. Leccese, difensore dell'imputato, si e' associato alle
considerazioni del magistrato requirente.
2. Il Tribunale militare, all'esito della camera di consiglio, ha
emesso d'ufficio la presente ordinanza, con la quale si intende
promuovere il giudizio di codesta onorevole Corte costituzionale
sulla conformita' dell'art. 538 del codice di procedura penale agli
articoli 3, 24, 111 della Costituzione, e 117, comma 1, della
Costituzione con riferimento all'art. 6, comma 1, della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (di seguito: CEDU),
nella parte in cui la citata norma processuale non prevede che,
«quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare
tenuita' del fatto, il giudice decide sulla domanda per le
restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli
articoli 74 e seguenti».
3. La questione e' rilevante.
3.1. Sussiste la concreta possibilita' di fare applicazione
dell'art. 131-bis del codice penale.
Nel corso del dibattimento, il fatto oggetto di imputazione e'
stato descritto da vari testimoni.
Va osservato che la contestazione riguarda un unico episodio.
Sono poi incontroversi tra le parti sia il contesto informale (il bar
della caserma), che la presenza di poche persone.
Inoltre, e' pacifico che si procede nei confronti di un
incensurato per un reato, la diffamazione militare, per il quale e'
prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni,
cosi come stabilito dall'art. 131-bis del codice penale. Non
ricorrono, infine, le cause di inapplicabilita' previste dai commi 2
e 3 di tale norma.
3.2. Tanto premesso, le parti civili hanno avanzato richiesta di
risarcimento del danno. Per costante giurisprudenza di legittimita',
la declaratoria di non punibilita' per particolare tenuita' del fatto
non consente di decidere sulla domanda di risarcimento del danno,
poiche', come osservato dalla Suprema Corte, si puo' far luogo alla
decisione sulle questioni civili nel giudizio penale, ai sensi
dell'art. 538 del codice di procedura penale, solo in presenza di una
sentenza di condanna, oppure nelle ipotesi previste dall'art. 578 del
codice di procedura penale (amnistia e prescrizione), tra le quali
dunque non rientra quella di cui all'art. 131-bis del codice penale
(Cass., Sez. 5, sentenza n. 5433 del 18 dicembre 2020, dep. l'11
febbraio 2021; Sez. 5, sentenza n. 6347 del 6 dicembre 2016, dep. il
10 febbraio 2017).
Ne', stante il chiaro disposto normativo dell'art. 538 del codice
di procedura penale, e' possibile accedere a una interpretazione
costituzionalmente orientata di natura «additiva».
In altre parole, la normativa in vigore consente al giudice di
accertare il fatto illecito nella sua materialita', ma - se esso e'
qualificato non come illecito penale, ma come illecito civile in
applicazione dell'art. 131-bis del codice penale - non gli consente
di liquidare il danno ex articoli 2043 del codice civile e seguenti,
pur in presenza di una espressa richiesta di risarcimento formulata
dalla parte civile all'esito del processo, e anzi coltivata sin
dall'inizio e per tutto il tempo dello stesso.
In conclusione, ove codesta on.le Corte ravvisi la illegittimita'
della norma processuale censurata, il giudice potrebbe procedere alla
liquidazione del danno contestualmente alla emissione della sentenza
di proscioglimento per particolare tenuita' del fatto, senza che la
parte civile sia obbligata a instaurare un nuovo procedimento innanzi
al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno gia'
accertato in sede penale.
La questione che qui si solleva appare dunque rilevante e
dirimente.
4. La questione appare non manifestamente infondata in relazione
agli articoli 3, 24, 111 della Costituzione, e 117, comma 1, della
Costituzione con riferimento all'art. 6, comma 1, della CEDU.
Questo Tribunale militare non ignora che codesta on.le Corte
costituzionale ha gia' affrontato la questione della (non)
risarcibilita' delle pretese della parte civile costituita, all'esito
del processo penale che si concluda con una sentenza che, pur
accertando il fatto, non condanni l'imputato.
Con sentenza n. 12 del 12 gennaio 2016, la Corte ha dichiarato
non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 538
del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli
articoli 3, 24 e 111 Costituzione, nella parte in cui non consente al
giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il
risarcimento del danno, proposta a norma degli articoli 74 e ss. del
medesimo codice, quando pronuncia sentenza di assoluzione
dell'imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente. In
proposito, codesta Corte ha rilevato che l'azione civile assume
carattere accessorio e subordinato rispetto alle finalita' del
processo penale, sicche' essa puo' essere coltivata nella misura in
cui e' compatibile con le esigenze, di interesse pubblico, connesse
all'accertamento dei reati e alla sollecita definizione del processo.
Questo Collegio ritiene tuttavia che la questione odierna meriti
di essere rivalutata per differenti ragioni, dubitandosi della
conformita' a Costituzione della suddetta norma processuale, senza
rinnegare i principi espressi in passato da codesta Corte. La
prospettiva che si propone e' quella di ravvisare l'ammissibilita' di
una statuizione sulle questioni civili, nella misura in cui essa e'
compatibile con la funzione pubblicistica del processo penale: cioe',
che non comporti un indebito aggravio della procedura.
Da un lato, qui si dubita che sussista un contrasto con il
parametro dell'art. 117 della Costituzione, con riferimento all'art.
6 della CEDU. Tale parametro non era oggetto del giudizio
costituzionale definito con la sentenza 12/2016, sebbene nella
decisione la questione ricorra come obiter dictum. In particolare,
come si evidenziera' piu' oltre, appare oggi rilevante la recente
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'art. 6
della Convenzione: giurisprudenza che si e' consolidata soprattutto
nel corso degli ultimi anni, successivi alla pronuncia 12/2016, e che
e' volta a tutelare il ruolo e i diritti della vittima nel
procedimento penale.
Dall'altro lato, si reputa che gli altri parametri costituzionali
evocati (articoli 3, 24 e 111 della Costituzione) meritino di essere
nuovamente valutati, in una prospettiva dinamica, tesa a valorizzare
e rendere proficuo quel «dialogo tra le Corti» che caratterizza il
nostro ordinamento giuridico multilivello.
Da ultimo, non si possono sottacere le manifeste differenze tra
la vicenda oggetto dell'odierno giudizio a quo e quella del processo
penale da cui e' originata la sentenza 12/2016. In quest'ultimo, si
faceva questione di porre a carico di un incapace di intendere e di
volere un equo indennizzo ex art. 2047, comma 2 del codice civile:
indennizzo che, a stretto rigore, non pare essere un risarcimento ai
sensi degli articoli 74 del codice di procedura penale e 2043 del
codice civile; in secondo luogo, ivi era preliminare accertare ed
eventualmente escludere la responsabilita' di soggetti terzi,
estranei al processo penale, preposti alla custodia o sorveglianza
dell'incapace (art. 2047, comma 1 del codice civile, in relazione
all'art. 185 del codice penale). L'area della cognizione della
questione civile si estendeva dunque a questioni non strettamente
coincidenti con l'accertamento del fatto oggetto del processo penale.
Nel presente giudizio penale militare, invece, e' stato chiesto
un vero e proprio risarcimento per il danno da diffamazione e
l'azione e' stata proposta dalle parti civili nei confronti della
loro attuale controparte processuale, l'imputato. Il giudizio sul
fatto - il medesimo, riguardato nei suoi profili di natura penale e
civile - e' gia' completo e non richiede ulteriori accertamenti.
5. Con riguardo al profilo del contrasto dell'art. 538 del codice
di procedura penale con l'art. 117 della Costituzione, con
riferimento all'art. 6 della CEDU, deve essere evidenziato quanto
segue.
5.1. Va premesso che codesta Corte, sin dalle sentenze 348 e 349
del 2007, ha riconosciuto le disposizioni della CEDU, cosi' come
interpretate dalla Corte di Strasburgo, come norme di livello
subcostituzionale ma, allo stesso tempo, superprimario, dunque di
rango superiore alla legge ordinaria.
In forza della clausola generale di rango superiore, costituita
dall'art. 117, comma 1 della Costituzione, esse (qui, le disposizioni
dell'art. 6) assurgono a «parametro interposto di legittimita'
costituzionale» e l'eventuale loro contrasto con una norma primaria
(nel caso che ci occupa, l'art. 538 del codice di procedura penale)
va demandato al vaglio della Corte costituzionale.
5.2. In merito, questo Tribunale militare ritiene che si sia
ormai consolidata una giurisprudenza convenzionale che ritiene
tutelato il diritto della vittima a vedere soddisfatte le proprie
ragioni civilistiche in tempi ragionevoli gia' all'esito del processo
penale eventualmente adito in via prioritaria, sussistendo una
«legittima aspettativa» conforme a ragionevolezza, che trova tutela
nell'art. 6 della CEDU.
In proposito, codesta Corte ha avuto modo di precisare che il
giudice comune e' tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza della
Corte EDU, ma solo se consolidatasi sulla norma conferente, ed ha
offerto alcuni canoni interpretativi per individuare le nozioni di
«diritto consolidato» e «sentenza pilota» (in particolare: la
sentenza 49 del 14 gennaio 2015) in relazione alla definizione di
giurisprudenza consolidata, di cui all'art. 28 della CEDU
(«well-established case-law of the Court»).
Invero, in considerazione della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, questo Tribunale ritiene che ricorra l'ipotesi di una
interpretazione convenzionale consolidata dell'art. 6 della CEDU, la
quale e' confliggente con la norma nazionale (l'art. 538 del codice
di procedura penale).
5.3. Da ultimo, si osserva che il testo dell'art. 538 del codice
di procedura penale, stante il chiaro disposto letterale e
considerata la univoca giurisprudenza di legittimita', non consente
una interpretazione «convenzionalmente orientata» in relazione
all'art. 6 della CEDU, come applicato dalla Corte EDU, nel senso di
consentire al giudice di disporre il risarcimento del danno al di
fuori del caso di condanna dell'imputato, anche nel caso in cui venga
accertato un illecito civile e il risarcimento del danno possa essere
prontamente liquidato.
5.4. Quanto alla giurisprudenza consolidata della Corte europea
sul tema, e' possibile richiamare varie decisioni, che nel tempo si
sono sempre piu' orientate a tutela della «vittima» (con cio'
dovendosi fare riferimento alle nozioni nazionali tanto di «persona
offesa», che di «persona danneggiata») e all'esercizio dei suoi
diritti di natura civile nel corso del procedimento penale (il cd.
civil limb del par. 6 della CEDU).
Va premesso che, per la Corte, e' pacifico che la vittima del
reato che esercita un diritto civile (sia di natura risarcitoria, che
di tutela di beni immateriali, come, nel caso che ci occupa, la
reputazione) sia una parte processuale a tutti gli effetti, la quale
dunque gode del diritto a un processo che deve essere celebrato entro
un termine ragionevole («within a reasonable time») (ex plurimis:
CEDU, Grande Camera, 12 febbraio 2004, Perez c. Francia, par. 67;
CEDU, Grande Camera, 20 marzo 2009, Gorou c. Grecia, par. 24). In
merito, la Corte ha altresi' precisato che l'art. 6 della CEDU e'
applicabile alla persona offesa gia' dall'inizio del procedimento, a
prescindere cioe' dalla eventuale, futura costituzione di parte
civile (da ultimo: CEDU, Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia,
par. 20-23).
La Corte EDU ha poi piu' volte affermato la esistenza di positive
obligations di natura processuale in favore della «vittima» come
sopra intesa, che incombono sugli Stati contraenti, al fine di
rendere effettivo e non disagevole l'esercizio dei suoi diritti. Si
e' venuto cosi' a consolidare nel tempo una giurisprudenza che ha
elaborato una sorta di «statuto dei diritti civili della vittima»,
sulla base di decisioni della Corte, tra le quali occorre qui
richiamare le piu' recenti e significative ai fini che ci occupano.
5.4.1. La sentenza CEDU, Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c.
Italia afferma il diritto della persona offesa di accesso a un
tribunale («droit a' un tribunal») e a un giusto processo entro un
termine ragionevole. La pronuncia riguarda la eccessiva durata delle
indagini preliminari, a cui consegua l'archiviazione del procedimento
per prescrizione. Si procedeva, proprio come nel caso pendente
innanzi a questo Tribunale militare, per il reato di diffamazione
(anche se comune, art. 595 del codice penale, e non militare, art.
227 c.p.m.p.). I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la
violazione degli articoli 6 e 13 della CEDU, perche' alla persona
offesa non e' stata data la possibilita' di tutelare il suo diritto
alla reputazione e avanzare le proprie pretese risarcitorie nel
procedimento penale: cio', nonostante fosse pacifico che ella avrebbe
potuto adire il giudice civile citando in giudizio la controparte per
il risarcimento dei danni.
La circostanza che alla persona offesa fosse assicurata la
possibilita' di adire il giudice civile, eccepita dal Governo
italiano, secondo la Corte andava esaminata «sous l'angle de la
proportionnalite' des restrictions du droit d'acces a' un tribunal»
(le argomentazioni sul «droit a' un tribunal» sancito dall'art. 6,
sono sviluppate ai par. 34, 47 e 53), oltre che con riferimento al
diritto di ottenere una decisione in tempi ragionevoli, pure tutelato
dal medesimo art. 6 della CEDU.
La stessa Corte riconosce che tale «droit a' un tribunal» non e'
assoluto e puo' essere limitato e regolamentato dallo Stato
riconoscendo, per esempio, l'accesso ad altro giudice, in questo caso
quello civile. Tuttavia, «pareille limitation ne se concilie avec
l'article 6 § 1 de la Convention que si elle tend a' un but legitime
et s'il existe un rapport raisonnable de proportionnalite' entre les
moyens employes et le but vise' (Waite et Kennedy c. Allemagne [GC],
n o 26083/94, § 59, CEDH 1999-I)» (par. 48).
Le pur pregevoli argomentazioni, espresse nell'opinione
dissenziente redatta dal giudice italiano Sabato, relativamente
all'accesso alla giurisdizione, con specifico riguardo alla
possibilita' di accedere al giudice civile (circa la necessita' di
esperire un «two-avenue test» secondo una valutazione ex ante) non
paiono del tutto persuasive nella misura in cui non tengono conto
dell'orientamento della Corte circa la concomitante necessaria
sussistenza del sopra citato «rapport de proportionnalite'» che
inficia la legittima aspettativa del danneggiato. L'obiezione del
dissenting judge, relativa alla circostanza che la Corte abbia
concluso per l'assenza di violazione in altri casi, non convince in
considerazione del particolare esito di tali casi, che - a differenza
di quello sub iudice innanzi alla CEDU, nonche' dell'ipotesi che qui
rileva di possibile condanna al risarcimento dei danni per i fatti
accertati dal Tribunale penale come meri illeciti civili in ragione
della loro particolare tenuita' - legittimamente non comportavano un
obbligo di accertamento di merito (par. 39 della dissentig opinion,
in relazione ai par. 49-50 della sentenza, relativi a ipotesi di:
fatti non indagati in quanto ritenuti non di rilevanza penale,
prescrizione, decesso dell'imputato, patteggiamento, difetto di
giurisdizione).
5.4.2. La sentenza Petrella contro Italia poggia su altri
precedenti di rilievo, ivi citati, che occorre brevemente richiamare
nell'ottica della dimostrazione di una giurisprudenza della CEDU che
si assume consolidata.
La decisione CEDU, sezione prima, sentenza 3 aprile 2003,
Anagnostopoulos contro Grecia ravvisa la violazione dell'art. 6 della
CEDU in un caso in cui il giudice penale ha omesso di esaminare le
questioni civili (par. 32: «the applicant had lodged a claim for
compensation in the amount of GRD 15,000, which constitutes a sum
that the criminal courts examine in all cases without being obliged
to refer the matter to the civil courts. The applicant therefore had
a legitimate expectation that the courts would rule on this claim,
whether favourably or unfavourably»).
5.4.3. La medesima violazione e' stata dichiarata dalla Corte in
CEDU, Grande Camera, sentenza 2 ottobre 2008, Atanasova contro
Bulgaria: «the applicant's civil action could not be examined due to
the termination of the criminal proceedings on the grounds that the
prosecution had become time-barred. However, the applicant had made
use of the possibility available to her under domestic law to be
joined as a civil party to the criminal proceedings and to seek
compensation for the damage caused by the accident of which she had
been the victim. She therefore had a legitimate expectation that the
courts would rule on this compensation claim, whether favourably or
unfavourably» (par. 45).
Anche secondo la Grande Camera, la parte civile nutre quindi una
legittima aspettativa a una pronuncia sulle questioni civili nel
processo penale pure nel caso di accertamento di un fatto illecito,
per quanto prescritto, senza dover adire il giudice civile.
5.4.4. Tra le altri decisioni citate in Petrella contro Italia
che qui paiono rilevanti, si ricorda Tonchev contro Bulgaria (CEDU,
19 novembre 2009), a cui puo' essere accostata Dinchev contro
Bulgaria (CEDU, 16 december 2008).
5.4.5. Tra le sentenze recenti, l'unica nota di segno contrario
e' quella resa dalla CEDU, Grande Camera, Tanase c. Romania, 25
giugno 2019, la quale richiama tuttavia decisioni risalenti nel tempo
con riferimento alla omessa valutazione delle questioni civili nel
processo penale per intervenuta prescrizione del fatto di reato,
stante la possibilita' di ricorrere al giudice civile. Sul tema del
diritto di accesso a un tribunale, in essa si richiama la tesi del
«two avenues test» da effettuare secondo una mera valutazione ex
ante. Essa appare una pronuncia isolata nel quadro giurisprudenziale
di questi ultimi anni, che sembra essersi consolidato secondo una
linea maggioritaria di segno opposto.
Ne', trattandosi di decisione non confortata da altri arresti
recenti, pare possibile enfatizzare il fatto che essa sia stata resa
dalla Grande Camera. In merito, per inciso, la stessa Corte EDU, ha
affermato che «the Court would emphasise that its judgments all have
the same legal value. Their binding nature and interpretative
authority cannot therefore depend on the formation by which they were
rendered» (CEDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.1.
contro Italia, par. 252).
5.4.6. In epoca recente sono intervenute altre decisioni che, pur
non citate nella sentenza Petrella contro Italia, appaiono di rilievo
al fine di rilevare come sulle questioni qui affrontate si sia
formata una giurisprudenza consolidata.
Con la sentenza CEDU, Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia,
la Corte di Strasburgo ha statuito che occorre dare rilievo alla
posizione sostanziale del soggetto leso, piu' che alla sua
connotazione formale e pertanto la persona offesa, danneggiata dal
reato, non costituita parte civile, vanta i medesimi diritti di
quest'ultima: nel caso di specie, tanto il diritto all'accesso a un
tribunale, quanto alla ragionevole durata del procedimento penale di
cui all'art. 6, par. 1, CEDU.
Cio' che qui piu' rileva e' che pure in tale pronuncia si e'
rilevata la violazione dell'art. 6 della CEDU sulla base del
presupposto che, a prescindere dalla impregiudicata possibilita' di
adire il giudice civile, «la personne lesee peut s'attendre, dans les
cas prevus par la loi, a' l'ouverture d'un proces au cours duquel
elle peut se constituer partie civile et ainsi demander la reparation
des dommages qu'elle aurait subis» (par. 39).
5.4.7. Il medesimo principio e' sancito in altra recente
decisione (CEDU, Sez. II, 7 novembre 2017, Leuska e altri c.
Estonia).
In un procedimento relativo alla richiesta, di natura
civilistica, relativa al ristoro delle spese legali delle parti
civili, alle quali era gia' stato liquidato il danno da reato nel
procedimento penale, la Corte ha dato espressamente atto della
possibilita' di ricorrere comunque al giudice civile evocata dal
Governo estone (par. 62), ma ha statuito che, una volta adito il
giudice penale, spetta a questi pronunciarsi sulle questioni civili a
lui demandate: «Article 6 § 1 of the Convention guarantees the right
of access to a court for the determination of civil disputes. The
Court considers that this right of access to a court includes not
only the right to institute proceedings but also the right to obtain
a "determination" of the dispute by a court. It would be illusory if
a Contracting State's dornestic legal system allowed an individual to
bring a civil action before a court without ensuring that the case
would be determined by a final decision in the judicial proceedings.
It would be inconceivable for Article 6 § 1 to describe in detail
procedural guarantees afforded to litigants - proceedings that are
fair, public and expeditious - without securing to the parties the
right to have their civil disputes finally determined (see Kutić v.
Croatia, no. 48778/99, § 25, ECHR 2002-II)» (par. 67).
5.5. L'art. 6 della CEDU rileva, per il tramite dell'art. 117
della Costituzione, non solo con riguardo al «diritto a un
tribunale», come sopra illustrato, ma anche in relazione alla
irragionevole durata del procedimento.
Le disposizioni (legge 24 marzo 2001, n. 89, cd. «legge Pinto»)
che prevedono rimedi compensativi volti a ristorare la eccessiva
lunghezza dei processi sono state introdotte nel nostro ordinamento
per fare fronte alla responsabilita' dello Stato in relazione alla
norma della CEDU, come costantemente interpretata dalla Corte di
Strasburgo.
Nel caso che ci occupa, l'art. 538 del codice di procedura penale
impone una irragionevole dilatazione dei tempi di accertamento e di
risarcimento del fatto illecito, che non appare sorretta da alcuna
logica esigenza.
Invero, la parte civile e' costretta ad adire il giudice civile,
anche allorche' il giudice penale - innanzi al quale ella ha
formulato la domanda risarcitoria - accerti pienamente il fatto
illecito di particolare tenuita' e possa agevolmente liquidare il
danno in sentenza, senza ulteriori dilazioni del processo penale e
senza «costringere» la parte civile stessa ad avviare un nuovo
procedimento innanzi ad altro giudice.
Tale procedura e' fonte di possibile responsabilita' rilevante ex
art. 6 della CEDU (invero, nel caso sub iudice sono trascorsi gia'
tre anni dal fatto) e comunque di responsabilita' dello Stato per
danni a causa dell'irragionevole durata del processo (art. 1-bis
della legge n. 89/2001): responsabilita' che non ricorrerebbero,
invece, ove fosse ravvisata la illegittimita' costituzionale
dell'art. 538 del codice di procedura penale nel senso qui
denunciato.
6. Sussiste poi il dubbio di legittimita' dell'art. 538 del
codice di procedura penale in relazione all'art. 3 della
Costituzione.
Come evidenziato, l'art. 538 del codice di procedura penale
dispone che il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il
risarcimento del danno, proposta a norma degli articoli 74 e
seguenti, solo quando pronuncia sentenza di condanna.
A tale regola generale, che, nel processo penale, sancisce la
prevalenza dell'azione penale su quella civile in ragione del
condivisibile preminente interesse pubblicistico all'accertamento del
reato, sono ammesse due eccezioni.
Entrambe sono contemplate dall'art. 578 del codice di procedura
penale: quando dichiarano il reato estinto per amnistia o per
prescrizione, il giudice di appello o la Corte di cassazione decidono
comunque sull'impugnazione limitatamente alle questioni civili.
E' peraltro ammessa l'impugnazione della parte civile contro la
sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio penale, anche ai
soli effetti della responsabilita' civile (art. 576 del codice di
procedura penale). Codesta on.le Corte Costituzionale, con sentenza
n. 176 del 12 luglio 2019, ha confermato la legittimita' dell'art.
576 del codice di procedura penale con argomentazioni che qui si
condividono, non rilevando alcuna ingiustificata alterazione dello
svolgimento della funzione propria del giudice penale che decida
sulle sole questioni civili.
La ratio di queste due eccezioni (prescrizione e amnistia) e'
comune e consiste nella circostanza che, in entrambi i casi, il
processo si e' concluso con l'accertamento della sussistenza del
fatto e della sua riferibilita' all'imputato, con la conseguente
possibilita' di risarcire e liquidare il danno senza alcun ulteriore
aggravio istruttorio da parte del medesimo giudice penale.
A conferma di cio', del tutto coerentemente, il sistema prevede
che ove sia necessaria una nuova determinazione sulle questioni
civili, allorche' la sentenza sia annullata solo con riguardo ad esse
e non agli effetti penali, la Corte di cassazione rinvia quando
occorre al giudice civile competente (art. 622 del codice di
procedura penale) e non a quello penale. Altrettanto coerente e' la
disciplina in tema di proscioglimento per esito positivo del
procedimento con messa alla prova: nella sentenza che dichiara
l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 464-septies del codice di
procedura penale, non e' consentito al giudice di condannare
l'imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile,
perche', per la natura del procedimento, non si procede a un compiuto
accertamento sul merito dell'accusa e sulla responsabilita' (Cass.,
sez. 3ª, sent. 33277 del 28 marzo 2017). In quest'ultimo caso,
quindi, risponde a logica che la parte civile debba instaurare un
nuovo giudizio innanzi al giudice civile per ottenere l'eventuale
risarcimento di danni ulteriori.
In conclusione, quando il fatto e' gia' accertato e risulta che
l'imputato lo ha commesso, e' conforme al «principio di
ragionevolezza» di cui all'art. 3 della Costituzione che la decisione
sul risarcimento dei danni sia ugualmente consentita, come nei casi
in cui il reato e' prescritto o amnistiato, e quindi pure se il
giudice non puo' pronunciare la condanna dell'imputato. La esclusione
della punibilita' per la particolare tenuita' del fatto, che qui ci
occupa, e' del tutto equiparabile alle eccezioni sopra citate: anche
in questo caso, vi e' un pieno accertamento del fatto e della sua
riferibilita' all'imputato, circostanza che giustificherebbe la
possibilita' di condannare prontamente quest'ultimo ai soli effetti
civili. A parere di questo Collegio, dunque, sussiste una
ingiustificata disparita' di disciplina tra situazioni del tutto
analoghe: la prescrizione e l'amnistia da un lato, il proscioglimento
ex art. 131-bis del codice penale dall'altro.
Infine, non pare inopportuno rilevare che la disciplina in
questione, che presenta profili di complessita' soprattutto in
relazione al coordinamento processuale, e' stata introdotta solo in
tempi recenti, con il decreto legislativo 16 marzo 215, n. 28. Pur
essendo state previste modifiche al codice di procedura penale, le
nuove disposizioni introdotte dal legislatore possono sollevare, come
nel caso che ci occupa, dubbi di costituzionalita' di norme gia' in
vigore (qui, l'art. 538 del codice di procedura penale).
7. Ad avviso di questo Tribunale militare, sembra poi sussistere
il contrasto dell'art. 538 del codice di procedura penale anche con
l'art. 24 della Costituzione.
Con sentenza 28 febbraio 1996, n. 60 codesta on.le Corte ebbe a
dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art. 270 c.p.m.p.,
che all'epoca precludeva alla. persona offesa la possibilita' di
costituirsi parte civile nel processo penale militare. E' stata
rilevata nell'occasione la violazione dell'art. 24 della Costituzione
sulla base della considerazione che i principi affermati dal nuovo
codice di rito consentono nel processo penale «la piu' ampia tutela
della persona danneggiata dal reato». Pertanto, «l'esclusione della
parte civile dal processo penale militare impedisce, senza alcun
ragionevole motivo, l'esercizio del diritto di agire in giudizio, non
solo in quanto divieto di partecipare attivamente all'accertamento
dei fatti in sede penale, ma anche come impossibilita' di iniziare
immediatamente l'azione per le restituzioni ed il risarcimento del
danno».
Il Tribunale militare, dunque, e' il giudice naturale dell'azione
civile nel processo penale militare: nel caso di specie, e' il
giudice innanzi a cui agire per la tutela del proprio diritti) alla
reputazione e al risarcimento dei danni.
La persona offesa esercita il suo diritto mediante il ricorso a
un rimedio appositamente previsto dall'ordinamento, che e' idoneo a
far valere il suo diritto: la costituzione di parte civile. Nella
sentenza sopra citata, codesta Corte, con argomentazioni del tutto
condivisibili, ha evidenziato il rilievo costituzionale dei diritti
processuali della persona danneggiata che intende esercitare l'azione
civile nel processo penale.
Al punto 5 di questa ordinanza, si e' gia' evidenziato come la
giurisprudenza convenzionale abbia affermato la sussistenza di una
«aspettativa legittima» a che il procedimento sia definito innanzi al
medesimo giudice adito, nella specie quello penale: cio' anche se
resta impregiudicata la possibilita' di adire successivamente il
giudice civile (CEDU, Arnoldi contro Italia, par. 39 e par. 42).
Secondo la Corte di Strasburgo, una volta adito il giudice penale,
spetta a questi pronunciarsi sulle questioni civili a lui demandate:
il «diritto a un tribunale» e' davvero tale non tanto se e' possibile
esercitare l'azione innanzi al giudice, ma piuttosto quando il
Tribunale adito puo' in concreto rendere una decisione (CEDU, Leuska
e altri contro Estonia, par. 67).
Ritiene questo Collegio che tale interpretazione dell'art. 6
della CEDU, disposizione corrispondente alla norma dell'art. 24 della
Costituzione, possa trovare spazio, in un ideale dialogo tra le
Corti. Il profilo che appare meritevole di essere sottolineato e'
che, nel caso di sentenza di proscioglimento per particolare tenuita'
del fatto, l'istanza risarcitoria del cittadino, a cui e' stata
riconosciuta la possibilita' di costituirsi parte civile, oggi non
puo' che essere manifestamente disattesa dal giudice penale, anche
quando sia possibile soddisfarla prontamente all'esito del processo.
Tutto cio' e' imposto dall'art. 538 del codice di procedura penale
anche nei casi semplici, in cui puo' provvedere il giudice penale e
percio' non sarebbe necessario instaurare un giudizio civile per la
liquidazione del danno; a differenza dei fatti complessi, in cui
invece ben trova applicazione l'art. 651-bis del codice di procedura
penale. A normativa vigente, quindi, pure quando il giudice penale
potrebbe liquidare il danno, alla parte offesa non resta che iniziare
un nuovo procedimento innanzi al giudice civile per ottenere il
soddisfacimento delle proprie istanze risarcitorie, il cui fondamento
e' gia' stato accertato dal giudice penale. La limitazione imposta
dall'art. 538 del codice di procedura penale disattende quel rapporto
ragionevole di proporzionalita' tra mezzi impiegati e scopo, che,
come sopra evidenziato al punto 5.4.1, costituisce anche il metro
della giurisprudenza convenzionale (CEDU, Petrella contro Italia,
par. 48).
Il diritto ad agire per le questioni civili innanzi al giudice
penale viene quindi svuotato, vanificato, posto che senza alcun
ragionevole motivo non e' possibile ottenere una decisione sul
risarcimento del danno, pur in presenza dell'avvenuto accertamento
del fatto e della responsabilita' (civile) dell'imputato.
In ultima analisi, il meccanismo appare inutilmente defatigatorio
per la persona offesa e contrastante con l'art. 24 della
Costituzione.
8. Infine, si dubita della conformita' dell'art. 538 del codice
di procedura penale all'art. 111 della Costituzione.
Codesta on.le Corte, con la sentenza 12 del 12 gennaio 2016 sulla
legittimita' della suddetta norma processuale, ha ribadito che «con
riguardo, infine, all'asserita violazione del principio di
ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, secondo
periodo, della Costituzione), questa Corte ha ripetutamente affermato
che - alla luce dello stesso richiamo al connotato di
"ragionevolezza", che compare nella formula costituzionale - possono
arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme "che
comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da
alcuna logica esigenza" (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015 n. 63 e
n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)».
Nel caso ivi considerato (liquidazione di un indennizzo a seguito
di proscioglimento di imputato infermo di mente), la Corte ha
ritenuto che non sussistessero gli estremi per ravvisare la
illegittimita' dell'art. 538 del codice di procedura penale in
considerazione del «carattere accessorio e subordinato dell'azione
civile proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle
finalita' di quest'ultimo, e segnatamente nel preminente interesse
pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del
processo penale che non si concluda con un accertamento di
responsabilita' riportando nella sede naturale le istanze di natura
civile».
Nella parte finale del superiore paragrafo 4 della presenta
ordinanza, sono state succintamente lumeggiate le peculiarita' del
caso qui sub iudice in raffronto a quello, connotato da
caratteristiche ben diverse, oggetto della suddetta sentenza.
Qui giova evidenziare che, contrariamente all'ipotesi analizzata
nella decisione 12 del 2016, nel caso di proscioglimento per
particolare tenuita' del fatto il protrarsi della durata della
procedura giudiziaria per ottenere il risarcimento del danno, gia'
prontamente liquidabile dal giudice penale, non appare giustificata
da alcuna ragionevole esigenza. In altre parole, la ulteriore durata
non e' «ragionevole» nel senso richiesto dall'art. 111, comma 2 della
Costituzione.
Infatti, la eventuale decisione del giudice penale sulle
questioni civili non comporterebbe alcun vulnus alla sollecita
definizione del processo penale, le cui finalita' prioritarie di
natura pubblicistica non sarebbero in alcun modo pregiudicate.
La nozione di «ragionevolezza» della durata riecheggia i principi
evocati in materia dalla Corte di Strasburgo in relazione all'art. 6
della CEDU. La giurisprudenza convenzionale ha ravvisato la
violazione di tale disposizione, allorche' il concreto «funzionamento
del meccanismo frustri indebitamente le legittime aspettative del
danneggiato» (come ricordato da Corte costituzionale, sentenza 12 del
12 gennaio 2016, par. 12): cio' non solo nei casi di ritardo
ingiustificato imputabile alla autorita' giudiziaria nella conduzione
del procedimento (quindi per anomalie del processo penale), ma anche
a fronte di norme positive che precludano la sollecita definizione
del caso (per esempio, nel caso Lauska e altri contro Estonia).
Mutatis mutandis, nel presente giudizio: il principio di ragionevole
durata e' violato anche nei casi di ritardi imposti da una norma
processuale confliggente con il precetto costituzionale.
In conclusione, il ricorso al giudice civile previsto dall'art.
538 del codice di procedura penale anche in caso di proscioglimento
ex art. 131-bis del codice penale comporta un illogico aggravio
procedimentale e un irragionevole, inevitabile, consistente
allungamento dei tempi processuali per la persona offesa che eserciti
l'azione civile, mentre, come detto, il giudice penale potrebbe
decidere contestualmente in merito, quindi senza ritardo nei tempi di
definizione del processo (quindi, senza detrimento per l'imputato) e
senza alcun aggravio sostanziale di lavoro.