TRIBUNALE MILITARE DI ROMA 
                             2ª sezione 
 
    Il Tribunale militare di Roma, 2ª Sezione, composto dai signori: 
        dott. Gabriele Casalena - Presidente; 
        dott. Enrico Della Ratta Rinaldi - Giudice; 
        col. Davide De Meo - Giudice militare; 
    Con l'intervento del pubblico  ministero  in  persona  del  dott.
Enrico Peluso e dei cancellieri  dott.  Marco  Cancellieri  e  sig.ra
Maria Laura Guerrieri, ha pronunciato in pubblica udienza la seguente
ordinanza nel procedimento; 
    Contro T. F., nato a ..., il ..., libero, presente, elettivamente
domiciliato presso l'avv. Cosmo Leccese, difensore  di  fiducia,  con
studio in Gaeta (LT), via Appia lato  Roma,  km  136+500  N,  s.n.c.;
imputato di «Diffamazione aggravata» (articoli 47 n. 2 e  4,  nonche'
227 comma 1 c.p.m.p.)  perche'  col.  A.M.  all'epoca  dei  fatti  in
servizio  presso  il  Comando   Aviazione   dell'Esercito   in   ...,
conversando con piu' persone all'interno della  buvette  del  Comando
Aviazione dell'Esercito offendeva la  reputazione  dei  membri  della
Commissione che stava effettuando una ispezione amministrativa presso
il Comando del ... dicendo: «poi giu' ad Antares stanno facendo altri
casini, la Commissione sta insabbiando  tutto,  occhio  che  e'  gia'
pronta la lettera per la  Procura.».  Con  le  aggravanti  di  essere
militare rivestito di un grado e  di  aver  commesso  il  fatto  alla
presenza di tre o piu' militari o, comunque, in circostanze di  luogo
per le quali possa verificarsi il pubblico scandalo. 
    In Viterbo il 29 giugno 2018 alle ore 10,15 circa. 
    Con le parti civili costituite F. N., V. P., L. S., G. V., difese
dall'avv. Alessia Acchioni del Foro di Velletri; 
 
                        Osserva quanto segue 
 
    1.  All'udienza  in  data  odierna,  all'esito   dell'istruttoria
dibattimentale, il pubblico ministero ha  concluso  per  la  condanna
dell'imputato alla pena  di  sei  mesi  di  reclusione  militare.  Il
difensore delle parti civili ha chiesto la condanna del predetto alla
pena ritenuta di giustizia e il risarcimento dei danni in favore  dei
propri assistiti, oltre alla rifusione delle spese legali. La  difesa
ha invocato l'assoluzione del T. 
    Il Presidente  del  Collegio  ha  quindi  invitato  le  parti  al
contraddittorio   su   un   possibile   profilo   di   illegittimita'
costituzionale  dell'art.  538  del  codice  di   procedura   penale,
disposizione che, nel caso di proscioglimento  dell'imputato  per  la
particolare tenuita' del fatto,  non  consente  il  risarcimento  del
danno in favore della parte civile costituita. 
    Il pubblico ministero ha manifestato il parere che una  eventuale
sentenza di assoluzione ex art. 131-bis del codice penale non leda il
diritto delle parti civili ad ottenere il risarcimento, ma al piu' lo
comprima, potendo esse instaurare un ulteriore  processo  innanzi  al
giudice civile. Ha quindi espresso l'avviso che la norma sia conforme
alla Costituzione. 
    L'avv. Acchioni per le parti civili ha insistito nella  richiesta
di risarcimento del danno e di liquidazione delle spese legali. 
    L'avv. Leccese, difensore dell'imputato,  si  e'  associato  alle
considerazioni del magistrato requirente. 
    2. Il Tribunale militare, all'esito della camera di consiglio, ha
emesso d'ufficio la presente  ordinanza,  con  la  quale  si  intende
promuovere il giudizio  di  codesta  onorevole  Corte  costituzionale
sulla conformita' dell'art. 538 del codice di procedura  penale  agli
articoli 3, 24,  111  della  Costituzione,  e  117,  comma  1,  della
Costituzione con riferimento all'art. 6, comma 1,  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (di seguito: CEDU),
nella parte in cui la  citata  norma  processuale  non  prevede  che,
«quando pronuncia sentenza  di  proscioglimento  per  la  particolare
tenuita'  del  fatto,  il  giudice  decide  sulla  domanda   per   le
restituzioni e il risarcimento del  danno,  proposta  a  norma  degli
articoli 74 e seguenti». 
    3. La questione e' rilevante. 
    3.1. Sussiste  la  concreta  possibilita'  di  fare  applicazione
dell'art. 131-bis del codice penale. 
    Nel corso del dibattimento, il fatto oggetto  di  imputazione  e'
stato descritto da vari testimoni. 
    Va osservato che la contestazione  riguarda  un  unico  episodio.
Sono poi incontroversi tra le parti sia il contesto informale (il bar
della caserma), che la presenza di poche persone. 
    Inoltre,  e'  pacifico  che  si  procede  nei  confronti  di   un
incensurato per un reato, la diffamazione militare, per il  quale  e'
prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a  cinque  anni,
cosi  come  stabilito  dall'art.  131-bis  del  codice  penale.   Non
ricorrono, infine, le cause di inapplicabilita' previste dai commi  2
e 3 di tale norma. 
    3.2. Tanto premesso, le parti civili hanno avanzato richiesta  di
risarcimento del danno. Per costante giurisprudenza di  legittimita',
la declaratoria di non punibilita' per particolare tenuita' del fatto
non consente di decidere sulla domanda  di  risarcimento  del  danno,
poiche', come osservato dalla Suprema Corte, si puo' far  luogo  alla
decisione sulle  questioni  civili  nel  giudizio  penale,  ai  sensi
dell'art. 538 del codice di procedura penale, solo in presenza di una
sentenza di condanna, oppure nelle ipotesi previste dall'art. 578 del
codice di procedura penale (amnistia e prescrizione),  tra  le  quali
dunque non rientra quella di cui all'art. 131-bis del  codice  penale
(Cass., Sez. 5, sentenza n. 5433 del  18  dicembre  2020,  dep.  l'11
febbraio 2021; Sez. 5, sentenza n. 6347 del 6 dicembre 2016, dep.  il
10 febbraio 2017). 
    Ne', stante il chiaro disposto normativo dell'art. 538 del codice
di procedura penale, e'  possibile  accedere  a  una  interpretazione
costituzionalmente orientata di natura «additiva». 
    In altre parole, la normativa in vigore consente  al  giudice  di
accertare il fatto illecito nella sua materialita', ma - se  esso  e'
qualificato non come illecito penale,  ma  come  illecito  civile  in
applicazione dell'art. 131-bis del codice penale - non  gli  consente
di liquidare il danno ex articoli 2043 del codice civile e  seguenti,
pur in presenza di una espressa richiesta di  risarcimento  formulata
dalla parte civile all'esito  del  processo,  e  anzi  coltivata  sin
dall'inizio e per tutto il tempo dello stesso. 
    In conclusione, ove codesta on.le Corte ravvisi la illegittimita'
della norma processuale censurata, il giudice potrebbe procedere alla
liquidazione del danno contestualmente alla emissione della  sentenza
di proscioglimento per particolare tenuita' del fatto, senza  che  la
parte civile sia obbligata a instaurare un nuovo procedimento innanzi
al giudice  civile  per  ottenere  il  risarcimento  del  danno  gia'
accertato in sede penale. 
    La questione  che  qui  si  solleva  appare  dunque  rilevante  e
dirimente. 
    4. La questione appare non manifestamente infondata in  relazione
agli articoli 3, 24, 111 della Costituzione, e 117,  comma  1,  della
Costituzione con riferimento all'art. 6, comma 1, della CEDU. 
    Questo Tribunale militare non  ignora  che  codesta  on.le  Corte
costituzionale  ha  gia'  affrontato   la   questione   della   (non)
risarcibilita' delle pretese della parte civile costituita, all'esito
del processo penale  che  si  concluda  con  una  sentenza  che,  pur
accertando il fatto, non condanni l'imputato. 
    Con sentenza n. 12 del 12 gennaio 2016, la  Corte  ha  dichiarato
non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 538
del codice  di  procedura  penale,  sollevata,  in  riferimento  agli
articoli 3, 24 e 111 Costituzione, nella parte in cui non consente al
giudice  di  decidere  sulla  domanda  per  le  restituzioni   e   il
risarcimento del danno, proposta a norma degli articoli 74 e ss.  del
medesimo   codice,   quando   pronuncia   sentenza   di   assoluzione
dell'imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente.  In
proposito, codesta Corte  ha  rilevato  che  l'azione  civile  assume
carattere  accessorio  e  subordinato  rispetto  alle  finalita'  del
processo penale, sicche' essa puo' essere coltivata nella  misura  in
cui e' compatibile con le esigenze, di interesse  pubblico,  connesse
all'accertamento dei reati e alla sollecita definizione del processo. 
    Questo Collegio ritiene tuttavia che la questione odierna  meriti
di  essere  rivalutata  per  differenti  ragioni,  dubitandosi  della
conformita' a Costituzione della suddetta  norma  processuale,  senza
rinnegare i  principi  espressi  in  passato  da  codesta  Corte.  La
prospettiva che si propone e' quella di ravvisare l'ammissibilita' di
una statuizione sulle questioni civili, nella misura in cui  essa  e'
compatibile con la funzione pubblicistica del processo penale: cioe',
che non comporti un indebito aggravio della procedura. 
    Da un lato, qui si  dubita  che  sussista  un  contrasto  con  il
parametro dell'art. 117 della Costituzione, con riferimento  all'art.
6  della  CEDU.  Tale  parametro  non  era   oggetto   del   giudizio
costituzionale  definito  con  la  sentenza  12/2016,  sebbene  nella
decisione la questione ricorra come obiter  dictum.  In  particolare,
come si evidenziera' piu' oltre, appare  oggi  rilevante  la  recente
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'art.  6
della Convenzione: giurisprudenza che si e'  consolidata  soprattutto
nel corso degli ultimi anni, successivi alla pronuncia 12/2016, e che
e'  volta  a  tutelare  il  ruolo  e  i  diritti  della  vittima  nel
procedimento penale. 
    Dall'altro lato, si reputa che gli altri parametri costituzionali
evocati (articoli 3, 24 e 111 della Costituzione) meritino di  essere
nuovamente valutati, in una prospettiva dinamica, tesa a  valorizzare
e rendere proficuo quel «dialogo tra le Corti»  che  caratterizza  il
nostro ordinamento giuridico multilivello. 
    Da ultimo, non si possono sottacere le manifeste  differenze  tra
la vicenda oggetto dell'odierno giudizio a quo e quella del  processo
penale da cui e' originata la sentenza 12/2016. In  quest'ultimo,  si
faceva questione di porre a carico di un incapace di intendere  e  di
volere un equo indennizzo ex art. 2047, comma 2  del  codice  civile:
indennizzo che, a stretto rigore, non pare essere un risarcimento  ai
sensi degli articoli 74 del codice di procedura  penale  e  2043  del
codice civile; in secondo luogo, ivi  era  preliminare  accertare  ed
eventualmente  escludere  la  responsabilita'  di   soggetti   terzi,
estranei al processo penale, preposti alla  custodia  o  sorveglianza
dell'incapace (art. 2047, comma 1 del  codice  civile,  in  relazione
all'art. 185  del  codice  penale).  L'area  della  cognizione  della
questione civile si estendeva dunque  a  questioni  non  strettamente
coincidenti con l'accertamento del fatto oggetto del processo penale. 
    Nel presente giudizio penale militare, invece, e'  stato  chiesto
un vero e  proprio  risarcimento  per  il  danno  da  diffamazione  e
l'azione e' stata proposta dalle parti  civili  nei  confronti  della
loro attuale controparte processuale,  l'imputato.  Il  giudizio  sul
fatto - il medesimo, riguardato nei suoi profili di natura  penale  e
civile - e' gia' completo e non richiede ulteriori accertamenti. 
    5. Con riguardo al profilo del contrasto dell'art. 538 del codice
di  procedura  penale  con  l'art.  117   della   Costituzione,   con
riferimento all'art. 6 della CEDU,  deve  essere  evidenziato  quanto
segue. 
    5.1. Va premesso che codesta Corte, sin dalle sentenze 348 e  349
del 2007, ha riconosciuto le  disposizioni  della  CEDU,  cosi'  come
interpretate  dalla  Corte  di  Strasburgo,  come  norme  di  livello
subcostituzionale ma, allo stesso  tempo,  superprimario,  dunque  di
rango superiore alla legge ordinaria. 
    In forza della clausola generale di rango  superiore,  costituita
dall'art. 117, comma 1 della Costituzione, esse (qui, le disposizioni
dell'art.  6)  assurgono  a  «parametro  interposto  di  legittimita'
costituzionale» e l'eventuale loro contrasto con una  norma  primaria
(nel caso che ci occupa, l'art. 538 del codice di  procedura  penale)
va demandato al vaglio della Corte costituzionale. 
    5.2. In merito, questo Tribunale  militare  ritiene  che  si  sia
ormai  consolidata  una  giurisprudenza  convenzionale  che   ritiene
tutelato il diritto della vittima a  vedere  soddisfatte  le  proprie
ragioni civilistiche in tempi ragionevoli gia' all'esito del processo
penale  eventualmente  adito  in  via  prioritaria,  sussistendo  una
«legittima aspettativa» conforme a ragionevolezza, che  trova  tutela
nell'art. 6 della CEDU. 
    In proposito, codesta Corte ha avuto modo  di  precisare  che  il
giudice comune e' tenuto ad  uniformarsi  alla  giurisprudenza  della
Corte EDU, ma solo se consolidatasi sulla  norma  conferente,  ed  ha
offerto alcuni canoni interpretativi per individuare  le  nozioni  di
«diritto  consolidato»  e  «sentenza  pilota»  (in  particolare:   la
sentenza 49 del 14 gennaio 2015) in  relazione  alla  definizione  di
giurisprudenza  consolidata,  di   cui   all'art.   28   della   CEDU
(«well-established case-law of the Court»). 
    Invero, in considerazione della  giurisprudenza  della  Corte  di
Strasburgo, questo Tribunale ritiene che  ricorra  l'ipotesi  di  una
interpretazione convenzionale consolidata dell'art. 6 della CEDU,  la
quale e' confliggente con la norma nazionale (l'art. 538  del  codice
di procedura penale). 
    5.3. Da ultimo, si osserva che il testo dell'art. 538 del  codice
di  procedura  penale,  stante  il  chiaro   disposto   letterale   e
considerata la univoca giurisprudenza di legittimita',  non  consente
una  interpretazione  «convenzionalmente  orientata»   in   relazione
all'art. 6 della CEDU, come applicato dalla Corte EDU, nel  senso  di
consentire al giudice di disporre il risarcimento  del  danno  al  di
fuori del caso di condanna dell'imputato, anche nel caso in cui venga
accertato un illecito civile e il risarcimento del danno possa essere
prontamente liquidato. 
    5.4. Quanto alla giurisprudenza consolidata della  Corte  europea
sul tema, e' possibile richiamare varie decisioni, che nel  tempo  si
sono sempre  piu'  orientate  a  tutela  della  «vittima»  (con  cio'
dovendosi fare riferimento alle nozioni nazionali tanto  di  «persona
offesa», che di  «persona  danneggiata»)  e  all'esercizio  dei  suoi
diritti di natura civile nel corso del procedimento  penale  (il  cd.
civil limb del par. 6 della CEDU). 
    Va premesso che, per la Corte, e' pacifico  che  la  vittima  del
reato che esercita un diritto civile (sia di natura risarcitoria, che
di tutela di beni immateriali, come,  nel  caso  che  ci  occupa,  la
reputazione) sia una parte processuale a tutti gli effetti, la  quale
dunque gode del diritto a un processo che deve essere celebrato entro
un termine ragionevole («within a  reasonable  time»)  (ex  plurimis:
CEDU, Grande Camera, 12 febbraio 2004, Perez  c.  Francia,  par.  67;
CEDU, Grande Camera, 20 marzo 2009, Gorou c.  Grecia,  par.  24).  In
merito, la Corte ha altresi' precisato che l'art.  6  della  CEDU  e'
applicabile alla persona offesa gia' dall'inizio del procedimento,  a
prescindere cioe'  dalla  eventuale,  futura  costituzione  di  parte
civile (da ultimo: CEDU, Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella  c.  Italia,
par. 20-23). 
    La Corte EDU ha poi piu' volte affermato la esistenza di positive
obligations di natura processuale  in  favore  della  «vittima»  come
sopra intesa, che  incombono  sugli  Stati  contraenti,  al  fine  di
rendere effettivo e non disagevole l'esercizio dei suoi  diritti.  Si
e' venuto cosi' a consolidare nel tempo  una  giurisprudenza  che  ha
elaborato una sorta di «statuto dei diritti  civili  della  vittima»,
sulla base di  decisioni  della  Corte,  tra  le  quali  occorre  qui
richiamare le piu' recenti e significative ai fini che ci occupano. 
    5.4.1. La sentenza CEDU, Sez.  I,  18  marzo  2021,  Petrella  c.
Italia afferma il diritto  della  persona  offesa  di  accesso  a  un
tribunale («droit a' un tribunal») e a un giusto  processo  entro  un
termine ragionevole. La pronuncia riguarda la eccessiva durata  delle
indagini preliminari, a cui consegua l'archiviazione del procedimento
per prescrizione.  Si  procedeva,  proprio  come  nel  caso  pendente
innanzi a questo Tribunale militare, per  il  reato  di  diffamazione
(anche se comune, art. 595 del codice penale, e  non  militare,  art.
227  c.p.m.p.).  I  giudici  di  Strasburgo  hanno  riconosciuto   la
violazione degli articoli 6 e 13 della  CEDU,  perche'  alla  persona
offesa non e' stata data la possibilita' di tutelare il  suo  diritto
alla reputazione e  avanzare  le  proprie  pretese  risarcitorie  nel
procedimento penale: cio', nonostante fosse pacifico che ella avrebbe
potuto adire il giudice civile citando in giudizio la controparte per
il risarcimento dei danni. 
    La circostanza  che  alla  persona  offesa  fosse  assicurata  la
possibilita'  di  adire  il  giudice  civile,  eccepita  dal  Governo
italiano, secondo la Corte  andava  esaminata  «sous  l'angle  de  la
proportionnalite' des restrictions du droit d'acces a'  un  tribunal»
(le argomentazioni sul «droit a' un tribunal»  sancito  dall'art.  6,
sono sviluppate ai par. 34, 47 e 53), oltre che  con  riferimento  al
diritto di ottenere una decisione in tempi ragionevoli, pure tutelato
dal medesimo art. 6 della CEDU. 
    La stessa Corte riconosce che tale «droit a' un tribunal» non  e'
assoluto  e  puo'  essere  limitato  e  regolamentato   dallo   Stato
riconoscendo, per esempio, l'accesso ad altro giudice, in questo caso
quello civile. Tuttavia, «pareille limitation  ne  se  concilie  avec
l'article 6 § 1 de la Convention que si elle tend a' un but  legitime
et s'il existe un rapport raisonnable de proportionnalite' entre  les
moyens employes et le but vise' (Waite et Kennedy c. Allemagne  [GC],
n o 26083/94, § 59, CEDH 1999-I)» (par. 48). 
    Le   pur   pregevoli   argomentazioni,   espresse   nell'opinione
dissenziente  redatta  dal  giudice  italiano  Sabato,  relativamente
all'accesso  alla  giurisdizione,   con   specifico   riguardo   alla
possibilita' di accedere al giudice civile (circa  la  necessita'  di
esperire un «two-avenue test» secondo una valutazione  ex  ante)  non
paiono del tutto persuasive nella misura in  cui  non  tengono  conto
dell'orientamento  della  Corte  circa  la  concomitante   necessaria
sussistenza del  sopra  citato  «rapport  de  proportionnalite'»  che
inficia la legittima aspettativa  del  danneggiato.  L'obiezione  del
dissenting judge,  relativa  alla  circostanza  che  la  Corte  abbia
concluso per l'assenza di violazione in altri casi, non  convince  in
considerazione del particolare esito di tali casi, che - a differenza
di quello sub iudice innanzi alla CEDU, nonche' dell'ipotesi che  qui
rileva di possibile condanna al risarcimento dei danni  per  i  fatti
accertati dal Tribunale penale come meri illeciti civili  in  ragione
della loro particolare tenuita' - legittimamente non comportavano  un
obbligo di accertamento di merito (par. 39 della  dissentig  opinion,
in relazione ai par. 49-50 della sentenza,  relativi  a  ipotesi  di:
fatti non indagati  in  quanto  ritenuti  non  di  rilevanza  penale,
prescrizione,  decesso  dell'imputato,  patteggiamento,  difetto   di
giurisdizione). 
    5.4.2.  La  sentenza  Petrella  contro  Italia  poggia  su  altri
precedenti di rilievo, ivi citati, che occorre brevemente  richiamare
nell'ottica della dimostrazione di una giurisprudenza della CEDU  che
si assume consolidata. 
    La  decisione  CEDU,  sezione  prima,  sentenza  3  aprile  2003,
Anagnostopoulos contro Grecia ravvisa la violazione dell'art. 6 della
CEDU in un caso in cui il giudice penale ha omesso  di  esaminare  le
questioni civili (par. 32: «the applicant  had  lodged  a  claim  for
compensation in the amount of GRD 15,000,  which  constitutes  a  sum
that the criminal courts examine in all cases without  being  obliged
to refer the matter to the civil courts. The applicant therefore  had
a legitimate expectation that the courts would rule  on  this  claim,
whether favourably or unfavourably»). 
    5.4.3. La medesima violazione e' stata dichiarata dalla Corte  in
CEDU, Grande  Camera,  sentenza  2  ottobre  2008,  Atanasova  contro
Bulgaria: «the applicant's civil action could not be examined due  to
the termination of the criminal proceedings on the grounds  that  the
prosecution had become time-barred. However, the applicant  had  made
use of the possibility available to her  under  domestic  law  to  be
joined as a civil party to  the  criminal  proceedings  and  to  seek
compensation for the damage caused by the accident of which  she  had
been the victim. She therefore had a legitimate expectation that  the
courts would rule on this compensation claim, whether  favourably  or
unfavourably» (par. 45). 
    Anche secondo la Grande Camera, la parte civile nutre quindi  una
legittima aspettativa a una  pronuncia  sulle  questioni  civili  nel
processo penale pure nel caso di accertamento di un  fatto  illecito,
per quanto prescritto, senza dover adire il giudice civile. 
    5.4.4. Tra le altri decisioni citate in  Petrella  contro  Italia
che qui paiono rilevanti, si ricorda Tonchev contro  Bulgaria  (CEDU,
19 novembre  2009),  a  cui  puo'  essere  accostata  Dinchev  contro
Bulgaria (CEDU, 16 december 2008). 
    5.4.5. Tra le sentenze recenti, l'unica nota di  segno  contrario
e' quella resa dalla CEDU,  Grande  Camera,  Tanase  c.  Romania,  25
giugno 2019, la quale richiama tuttavia decisioni risalenti nel tempo
con riferimento alla omessa valutazione delle  questioni  civili  nel
processo penale per intervenuta  prescrizione  del  fatto  di  reato,
stante la possibilita' di ricorrere al giudice civile. Sul  tema  del
diritto di accesso a un tribunale, in essa si richiama  la  tesi  del
«two avenues test» da effettuare  secondo  una  mera  valutazione  ex
ante. Essa appare una pronuncia isolata nel quadro  giurisprudenziale
di questi ultimi anni, che sembra  essersi  consolidato  secondo  una
linea maggioritaria di segno opposto. 
    Ne', trattandosi di decisione non  confortata  da  altri  arresti
recenti, pare possibile enfatizzare il fatto che essa sia stata  resa
dalla Grande Camera. In merito, per inciso, la stessa Corte  EDU,  ha
affermato che «the Court would emphasise that its judgments all  have
the  same  legal  value.  Their  binding  nature  and  interpretative
authority cannot therefore depend on the formation by which they were
rendered» (CEDU, Grande  Camera,  28  giugno  2018,  G.I.E.M.  S.r.1.
contro Italia, par. 252). 
    5.4.6. In epoca recente sono intervenute altre decisioni che, pur
non citate nella sentenza Petrella contro Italia, appaiono di rilievo
al fine di rilevare  come  sulle  questioni  qui  affrontate  si  sia
formata una giurisprudenza consolidata. 
    Con la sentenza CEDU, Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia,
la Corte di Strasburgo ha statuito  che  occorre  dare  rilievo  alla
posizione  sostanziale  del  soggetto  leso,  piu'   che   alla   sua
connotazione formale e pertanto la persona  offesa,  danneggiata  dal
reato, non costituita parte  civile,  vanta  i  medesimi  diritti  di
quest'ultima: nel caso di specie, tanto il diritto all'accesso  a  un
tribunale, quanto alla ragionevole durata del procedimento penale  di
cui all'art. 6, par. 1, CEDU. 
    Cio' che qui piu' rileva e' che pure  in  tale  pronuncia  si  e'
rilevata  la  violazione  dell'art.  6  della  CEDU  sulla  base  del
presupposto che, a prescindere dalla impregiudicata  possibilita'  di
adire il giudice civile, «la personne lesee peut s'attendre, dans les
cas prevus par la loi, a' l'ouverture d'un  proces  au  cours  duquel
elle peut se constituer partie civile et ainsi demander la reparation
des dommages qu'elle aurait subis» (par. 39). 
    5.4.7.  Il  medesimo  principio  e'  sancito  in  altra   recente
decisione (CEDU,  Sez.  II,  7  novembre  2017,  Leuska  e  altri  c.
Estonia). 
    In  un  procedimento   relativo   alla   richiesta,   di   natura
civilistica, relativa al  ristoro  delle  spese  legali  delle  parti
civili, alle quali era gia' stato liquidato il  danno  da  reato  nel
procedimento penale,  la  Corte  ha  dato  espressamente  atto  della
possibilita' di ricorrere comunque  al  giudice  civile  evocata  dal
Governo estone (par. 62), ma ha statuito  che,  una  volta  adito  il
giudice penale, spetta a questi pronunciarsi sulle questioni civili a
lui demandate: «Article 6 § 1 of the Convention guarantees the  right
of access to a court for the determination  of  civil  disputes.  The
Court considers that this right of access to  a  court  includes  not
only the right to institute proceedings but also the right to  obtain
a "determination" of the dispute by a court. It would be illusory  if
a Contracting State's dornestic legal system allowed an individual to
bring a civil action before a court without ensuring  that  the  case
would be determined by a final decision in the judicial  proceedings.
It would be inconceivable for Article 6 § 1  to  describe  in  detail
procedural guarantees afforded to litigants -  proceedings  that  are
fair, public and expeditious - without securing to  the  parties  the
right to have their civil disputes finally determined (see  Kutić  v.
Croatia, no. 48778/99, § 25, ECHR 2002-II)» (par. 67). 
    5.5. L'art. 6 della CEDU rileva, per  il  tramite  dell'art.  117
della  Costituzione,  non  solo  con  riguardo  al  «diritto   a   un
tribunale»,  come  sopra  illustrato,  ma  anche  in  relazione  alla
irragionevole durata del procedimento. 
    Le disposizioni (legge 24 marzo 2001, n. 89, cd.  «legge  Pinto»)
che prevedono rimedi compensativi  volti  a  ristorare  la  eccessiva
lunghezza dei processi sono state introdotte nel  nostro  ordinamento
per fare fronte alla responsabilita' dello Stato  in  relazione  alla
norma della CEDU, come  costantemente  interpretata  dalla  Corte  di
Strasburgo. 
    Nel caso che ci occupa, l'art. 538 del codice di procedura penale
impone una irragionevole dilatazione dei tempi di accertamento  e  di
risarcimento del fatto illecito, che non appare  sorretta  da  alcuna
logica esigenza. 
    Invero, la parte civile e' costretta ad adire il giudice  civile,
anche allorche'  il  giudice  penale  -  innanzi  al  quale  ella  ha
formulato la domanda  risarcitoria  -  accerti  pienamente  il  fatto
illecito di particolare tenuita' e  possa  agevolmente  liquidare  il
danno in sentenza, senza ulteriori dilazioni del  processo  penale  e
senza «costringere» la  parte  civile  stessa  ad  avviare  un  nuovo
procedimento innanzi ad altro giudice. 
    Tale procedura e' fonte di possibile responsabilita' rilevante ex
art. 6 della CEDU (invero, nel caso sub iudice  sono  trascorsi  gia'
tre anni dal fatto) e comunque di  responsabilita'  dello  Stato  per
danni a causa dell'irragionevole  durata  del  processo  (art.  1-bis
della legge n.  89/2001):  responsabilita'  che  non  ricorrerebbero,
invece,  ove  fosse  ravvisata   la   illegittimita'   costituzionale
dell'art.  538  del  codice  di  procedura  penale  nel   senso   qui
denunciato. 
    6. Sussiste poi il  dubbio  di  legittimita'  dell'art.  538  del
codice  di  procedura  penale   in   relazione   all'art.   3   della
Costituzione. 
    Come evidenziato, l'art.  538  del  codice  di  procedura  penale
dispone che il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e  il
risarcimento  del  danno,  proposta  a  norma  degli  articoli  74  e
seguenti, solo quando pronuncia sentenza di condanna. 
    A tale regola generale, che, nel  processo  penale,  sancisce  la
prevalenza  dell'azione  penale  su  quella  civile  in  ragione  del
condivisibile preminente interesse pubblicistico all'accertamento del
reato, sono ammesse due eccezioni. 
    Entrambe sono contemplate dall'art. 578 del codice  di  procedura
penale: quando  dichiarano  il  reato  estinto  per  amnistia  o  per
prescrizione, il giudice di appello o la Corte di cassazione decidono
comunque sull'impugnazione limitatamente alle questioni civili. 
    E' peraltro ammessa l'impugnazione della parte civile  contro  la
sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio penale, anche ai
soli effetti della responsabilita' civile (art.  576  del  codice  di
procedura penale). Codesta on.le Corte Costituzionale,  con  sentenza
n. 176 del 12 luglio 2019, ha confermato  la  legittimita'  dell'art.
576 del codice di procedura penale  con  argomentazioni  che  qui  si
condividono, non rilevando alcuna  ingiustificata  alterazione  dello
svolgimento della funzione propria  del  giudice  penale  che  decida
sulle sole questioni civili. 
    La ratio di queste due eccezioni  (prescrizione  e  amnistia)  e'
comune e consiste nella circostanza  che,  in  entrambi  i  casi,  il
processo si e' concluso  con  l'accertamento  della  sussistenza  del
fatto e della sua  riferibilita'  all'imputato,  con  la  conseguente
possibilita' di risarcire e liquidare il danno senza alcun  ulteriore
aggravio istruttorio da parte del medesimo giudice penale. 
    A conferma di cio', del tutto coerentemente, il  sistema  prevede
che ove sia  necessaria  una  nuova  determinazione  sulle  questioni
civili, allorche' la sentenza sia annullata solo con riguardo ad esse
e non agli effetti penali,  la  Corte  di  cassazione  rinvia  quando
occorre  al  giudice  civile  competente  (art.  622  del  codice  di
procedura penale) e non a quello penale. Altrettanto coerente  e'  la
disciplina  in  tema  di  proscioglimento  per  esito  positivo   del
procedimento con  messa  alla  prova:  nella  sentenza  che  dichiara
l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 464-septies del  codice  di
procedura  penale,  non  e'  consentito  al  giudice  di   condannare
l'imputato al risarcimento del danno in favore  della  parte  civile,
perche', per la natura del procedimento, non si procede a un compiuto
accertamento sul merito dell'accusa e sulla  responsabilita'  (Cass.,
sez. 3ª, sent. 33277  del  28  marzo  2017).  In  quest'ultimo  caso,
quindi, risponde a logica che la parte  civile  debba  instaurare  un
nuovo giudizio innanzi al giudice  civile  per  ottenere  l'eventuale
risarcimento di danni ulteriori. 
    In conclusione, quando il fatto e' gia' accertato e  risulta  che
l'imputato  lo  ha   commesso,   e'   conforme   al   «principio   di
ragionevolezza» di cui all'art. 3 della Costituzione che la decisione
sul risarcimento dei danni sia ugualmente consentita, come  nei  casi
in cui il reato e' prescritto o  amnistiato,  e  quindi  pure  se  il
giudice non puo' pronunciare la condanna dell'imputato. La esclusione
della punibilita' per la particolare tenuita' del fatto, che  qui  ci
occupa, e' del tutto equiparabile alle eccezioni sopra citate:  anche
in questo caso, vi e' un pieno accertamento del  fatto  e  della  sua
riferibilita'  all'imputato,  circostanza  che  giustificherebbe   la
possibilita' di condannare prontamente quest'ultimo ai  soli  effetti
civili.  A  parere  di  questo   Collegio,   dunque,   sussiste   una
ingiustificata disparita' di  disciplina  tra  situazioni  del  tutto
analoghe: la prescrizione e l'amnistia da un lato, il proscioglimento
ex art. 131-bis del codice penale dall'altro. 
    Infine, non  pare  inopportuno  rilevare  che  la  disciplina  in
questione,  che  presenta  profili  di  complessita'  soprattutto  in
relazione al coordinamento processuale, e' stata introdotta  solo  in
tempi recenti, con il decreto legislativo 16 marzo 215,  n.  28.  Pur
essendo state previste modifiche al codice di  procedura  penale,  le
nuove disposizioni introdotte dal legislatore possono sollevare, come
nel caso che ci occupa, dubbi di costituzionalita' di norme  gia'  in
vigore (qui, l'art. 538 del codice di procedura penale). 
    7. Ad avviso di questo Tribunale militare, sembra poi  sussistere
il contrasto dell'art. 538 del codice di procedura penale  anche  con
l'art. 24 della Costituzione. 
    Con sentenza 28 febbraio 1996, n. 60 codesta on.le Corte  ebbe  a
dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art.  270  c.p.m.p.,
che all'epoca precludeva alla.  persona  offesa  la  possibilita'  di
costituirsi parte civile  nel  processo  penale  militare.  E'  stata
rilevata nell'occasione la violazione dell'art. 24 della Costituzione
sulla base della considerazione che i principi  affermati  dal  nuovo
codice di rito consentono nel processo penale «la piu'  ampia  tutela
della persona danneggiata dal reato». Pertanto,  «l'esclusione  della
parte civile dal processo  penale  militare  impedisce,  senza  alcun
ragionevole motivo, l'esercizio del diritto di agire in giudizio, non
solo in quanto divieto di  partecipare  attivamente  all'accertamento
dei fatti in sede penale, ma anche come  impossibilita'  di  iniziare
immediatamente l'azione per le restituzioni ed  il  risarcimento  del
danno». 
    Il Tribunale militare, dunque, e' il giudice naturale dell'azione
civile nel processo penale  militare:  nel  caso  di  specie,  e'  il
giudice innanzi a cui agire per la tutela del proprio  diritti)  alla
reputazione e al risarcimento dei danni. 
    La persona offesa esercita il suo diritto mediante il  ricorso  a
un rimedio appositamente previsto dall'ordinamento, che e'  idoneo  a
far valere il suo diritto: la costituzione  di  parte  civile.  Nella
sentenza sopra citata, codesta Corte, con  argomentazioni  del  tutto
condivisibili, ha evidenziato il rilievo costituzionale  dei  diritti
processuali della persona danneggiata che intende esercitare l'azione
civile nel processo penale. 
    Al punto 5 di questa ordinanza, si e' gia'  evidenziato  come  la
giurisprudenza convenzionale abbia affermato la  sussistenza  di  una
«aspettativa legittima» a che il procedimento sia definito innanzi al
medesimo giudice adito, nella specie quello  penale:  cio'  anche  se
resta impregiudicata la  possibilita'  di  adire  successivamente  il
giudice civile (CEDU, Arnoldi contro Italia,  par.  39  e  par.  42).
Secondo la Corte di Strasburgo, una volta adito  il  giudice  penale,
spetta a questi pronunciarsi sulle questioni civili a lui  demandate:
il «diritto a un tribunale» e' davvero tale non tanto se e' possibile
esercitare l'azione  innanzi  al  giudice,  ma  piuttosto  quando  il
Tribunale adito puo' in concreto rendere una decisione (CEDU,  Leuska
e altri contro Estonia, par. 67). 
    Ritiene questo Collegio  che  tale  interpretazione  dell'art.  6
della CEDU, disposizione corrispondente alla norma dell'art. 24 della
Costituzione, possa trovare spazio,  in  un  ideale  dialogo  tra  le
Corti. Il profilo che appare meritevole  di  essere  sottolineato  e'
che, nel caso di sentenza di proscioglimento per particolare tenuita'
del fatto, l'istanza risarcitoria  del  cittadino,  a  cui  e'  stata
riconosciuta la possibilita' di costituirsi parte  civile,  oggi  non
puo' che essere manifestamente disattesa dal  giudice  penale,  anche
quando sia possibile soddisfarla prontamente all'esito del  processo.
Tutto cio' e' imposto dall'art. 538 del codice  di  procedura  penale
anche nei casi semplici, in cui puo' provvedere il giudice  penale  e
percio' non sarebbe necessario instaurare un giudizio civile  per  la
liquidazione del danno; a differenza  dei  fatti  complessi,  in  cui
invece ben trova applicazione l'art. 651-bis del codice di  procedura
penale. A normativa vigente, quindi, pure quando  il  giudice  penale
potrebbe liquidare il danno, alla parte offesa non resta che iniziare
un nuovo procedimento innanzi  al  giudice  civile  per  ottenere  il
soddisfacimento delle proprie istanze risarcitorie, il cui fondamento
e' gia' stato accertato dal giudice penale.  La  limitazione  imposta
dall'art. 538 del codice di procedura penale disattende quel rapporto
ragionevole di proporzionalita' tra mezzi  impiegati  e  scopo,  che,
come sopra evidenziato al punto 5.4.1,  costituisce  anche  il  metro
della giurisprudenza convenzionale  (CEDU,  Petrella  contro  Italia,
par. 48). 
    Il diritto ad agire per le questioni civili  innanzi  al  giudice
penale viene quindi  svuotato,  vanificato,  posto  che  senza  alcun
ragionevole motivo  non  e'  possibile  ottenere  una  decisione  sul
risarcimento del danno, pur in  presenza  dell'avvenuto  accertamento
del fatto e della responsabilita' (civile) dell'imputato. 
    In ultima analisi, il meccanismo appare inutilmente defatigatorio
per  la  persona  offesa  e  contrastante   con   l'art.   24   della
Costituzione. 
    8. Infine, si dubita della conformita' dell'art. 538  del  codice
di procedura penale all'art. 111 della Costituzione. 
    Codesta on.le Corte, con la sentenza 12 del 12 gennaio 2016 sulla
legittimita' della suddetta norma processuale, ha ribadito  che  «con
riguardo,  infine,   all'asserita   violazione   del   principio   di
ragionevole durata del processo (art.  111,  secondo  comma,  secondo
periodo, della Costituzione), questa Corte ha ripetutamente affermato
che  -  alla   luce   dello   stesso   richiamo   al   connotato   di
"ragionevolezza", che compare nella formula costituzionale -  possono
arrecare  un  vulnus  a  quel  principio  solamente  le  norme   "che
comportino una dilatazione dei tempi del  processo  non  sorrette  da
alcuna logica esigenza" (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015 n. 63 e
n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)». 
    Nel caso ivi considerato (liquidazione di un indennizzo a seguito
di proscioglimento  di  imputato  infermo  di  mente),  la  Corte  ha
ritenuto  che  non  sussistessero  gli  estremi  per   ravvisare   la
illegittimita' dell'art.  538  del  codice  di  procedura  penale  in
considerazione del «carattere accessorio  e  subordinato  dell'azione
civile  proposta  nell'ambito  del  processo  penale  rispetto   alle
finalita' di quest'ultimo, e segnatamente  nel  preminente  interesse
pubblico (e dello stesso imputato)  alla  sollecita  definizione  del
processo  penale  che  non  si  concluda  con  un   accertamento   di
responsabilita' riportando nella sede naturale le istanze  di  natura
civile». 
    Nella parte finale  del  superiore  paragrafo  4  della  presenta
ordinanza, sono state succintamente lumeggiate  le  peculiarita'  del
caso  qui  sub  iudice  in   raffronto   a   quello,   connotato   da
caratteristiche ben diverse, oggetto della suddetta sentenza. 
    Qui giova evidenziare che, contrariamente all'ipotesi  analizzata
nella  decisione  12  del  2016,  nel  caso  di  proscioglimento  per
particolare tenuita'  del  fatto  il  protrarsi  della  durata  della
procedura giudiziaria per ottenere il risarcimento  del  danno,  gia'
prontamente liquidabile dal giudice penale, non  appare  giustificata
da alcuna ragionevole esigenza. In altre parole, la ulteriore  durata
non e' «ragionevole» nel senso richiesto dall'art. 111, comma 2 della
Costituzione. 
    Infatti,  la  eventuale  decisione  del  giudice   penale   sulle
questioni  civili  non  comporterebbe  alcun  vulnus  alla  sollecita
definizione del processo penale,  le  cui  finalita'  prioritarie  di
natura pubblicistica non sarebbero in alcun modo pregiudicate. 
    La nozione di «ragionevolezza» della durata riecheggia i principi
evocati in materia dalla Corte di Strasburgo in relazione all'art.  6
della  CEDU.  La  giurisprudenza  convenzionale   ha   ravvisato   la
violazione di tale disposizione, allorche' il concreto «funzionamento
del meccanismo frustri indebitamente  le  legittime  aspettative  del
danneggiato» (come ricordato da Corte costituzionale, sentenza 12 del
12 gennaio 2016,  par.  12):  cio'  non  solo  nei  casi  di  ritardo
ingiustificato imputabile alla autorita' giudiziaria nella conduzione
del procedimento (quindi per anomalie del processo penale), ma  anche
a fronte di norme positive che precludano  la  sollecita  definizione
del caso (per esempio, nel  caso  Lauska  e  altri  contro  Estonia).
Mutatis mutandis, nel presente giudizio: il principio di  ragionevole
durata e' violato anche nei casi di  ritardi  imposti  da  una  norma
processuale confliggente con il precetto costituzionale. 
    In conclusione, il ricorso al giudice civile  previsto  dall'art.
538 del codice di procedura penale anche in caso  di  proscioglimento
ex art. 131-bis del  codice  penale  comporta  un  illogico  aggravio
procedimentale   e   un   irragionevole,   inevitabile,   consistente
allungamento dei tempi processuali per la persona offesa che eserciti
l'azione civile, mentre,  come  detto,  il  giudice  penale  potrebbe
decidere contestualmente in merito, quindi senza ritardo nei tempi di
definizione del processo (quindi, senza detrimento per l'imputato)  e
senza alcun aggravio sostanziale di lavoro.