ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  23,  comma
2, della legge della Regione Puglia 11  maggio  2001,  n.  13  (Norme
regionali in materia di opere  e  lavori  pubblici),  promosso  dalla
Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento  vertente
tra G. Z., in  proprio  e  quale  titolare  dell'impresa  individuale
«Impresa edile [G. Z.]» e il Comune di Mottola, con ordinanza  del  5
gennaio 2021, iscritta  al  n.  32  del  registro  ordinanze  2021  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  11,  prima
serie speciale, dell'anno 2021. 
    Udita nella camera di consiglio del 6  ottobre  2021  la  Giudice
relatrice Emanuela Navarretta; 
    deliberato nella camera di consiglio del 7 ottobre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza  del  5  gennaio  2021,  iscritta  al  registro
ordinanze n. 32 del 2021,  la  Corte  di  cassazione,  sezione  prima
civile,  ha  sollevato  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 23, comma 2, della legge della  Regione  Puglia  11  maggio
2001, n. 13 (Norme regionali in materia di opere e lavori  pubblici),
in  riferimento  all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  l),  della
Costituzione. 
    2.- La Corte di cassazione sospetta che la norma censurata  violi
il citato parametro costituzionale nella parte in cui stabilisce che,
«[q]ualora,  a  seguito  dell'iscrizione  delle  riserve   da   parte
dell'impresa sui documenti contabili, l'importo economico  dell'opera
variasse in aumento rispetto all'importo contrattuale,  l'impresa  e'
tenuta  alla  costituzione  di  un  deposito  cauzionale   a   favore
dell'Amministrazione pari allo 0,5 per cento dell'importo del maggior
costo presunto, a garanzia dei maggiori oneri  per  l'Amministrazione
per il collaudo dell'opera. Tale deposito deve essere  effettuato  in
valuta  presso  la  Tesoreria  dell'ente   o   polizza   fidejussoria
assicurativa o bancaria  con  riportata  la  causale  entro  quindici
giorni dall'apposizione delle riserve. Decorso tale termine senza  il
deposito delle somme suddette, l'impresa decade dal  diritto  di  far
valere,  in  qualunque  termine  e  modo,  le  riserve  iscritte  sui
documenti contabili.  Da  tale  deposito  verra'  detratta  la  somma
corrisposta al collaudatore e il saldo verra' restituito  all'impresa
in uno con il saldo dei lavori». 
    3.- Il rimettente  espone  che  la  vicenda  da  cui  origina  il
giudizio a quo riguarda un contratto d'appalto, stipulato in data  13
gennaio 1999,  con  il  quale  il  Comune  di  Mottola  commissionava
all'impresa individuale di G. Z. la realizzazione di un  edificio  da
adibire a caserma dei Carabinieri, dietro il  corrispettivo  di  lire
924.528.676, oltre l'IVA. 
    3.1.- La Corte di cassazione riferisce che la parte  attrice  nel
processo   principale,   G.   Z.,   titolare   dell'omonima   impresa
individuale, faceva valere,  nel  primo  grado  di  giudizio,  undici
riserve iscritte nel verbale di  collaudo,  di  cui  le  prime  dieci
lamentavano «presunti  inadempimenti  contrattuali  del  Comune,  che
avrebbero  costituito  la  ragione  del   ritardo   dell'opera,   con
conseguente illegittimita' della penale applicata dalla P.A.  per  il
mancato rispetto del termine di tale consegna, oggetto della  riserva
n. 11». Il Comune di Mottola si opponeva a tale  pretesa,  obiettando
di aver corrisposto lire 1.041.100  e  di  vantare  un  credito,  nei
confronti dell'impresa, di lire 59.717.086, tenuto conto della penale
per la ritardata consegna dell'opera, delle trattenute per la cattiva
esecuzione del  giunto  di  dilatazione  e  degli  oneri  inevasi  di
collaudo, gravanti sull'impresa  ai  sensi  del  capitolato  speciale
d'appalto. 
    All'esito del giudizio, il Tribunale ordinario di Taranto, previa
compensazione legale dei debiti reciproci riconosciuti in  capo  alle
parti, condannava l'impresa G. Z. al pagamento della  somma  di  euro
26.077,05, oltre accessori come per legge, nonche' al rimborso  delle
spese processuali. 
    3.2.- Di seguito -  secondo  quanto  riferisce  il  rimettente  -
l'impresa appaltatrice proponeva appello, che veniva rigettato  dalla
Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza
del 15 giugno 2015, sul presupposto del mancato  rispetto  dell'onere
di cui all'art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia n. 13 del 2001 e
della conseguente  decadenza  dell'appaltatore  dal  diritto  di  far
valere le riserve numeri 7, 8, 9 e 11. 
    In particolare, la Corte d'appello riteneva applicabile la citata
disposizione   alla   fattispecie    contrattuale    oggetto    della
controversia, sulla base di una duplice motivazione. 
    Per un verso, argomentava a favore della competenza regionale  in
materia di appalti pubblici per la realizzazione di una  caserma  dei
Carabinieri,  che  veniva  tenuta  distinta  dalle  opere  di  difesa
nazionale. 
    Per un altro verso, riferiva l'art. 23, comma 2, della legge reg.
Puglia n. 13 del 2001 alle «procedure in atto per le opere  pubbliche
in corso di esecuzione», in conformita' all'art. 27, comma  3,  della
medesima  legge  regionale,  che  contempla  l'adeguamento  di   tali
procedure alle previsioni della nuova legge «in tutti i casi  in  cui
queste ultime non alterino i rapporti contrattuali in atto  tra  ente
appaltante e impresa». In particolare, sosteneva  che  la  disciplina
relativa alle riserve di cui all'art. 23, comma 2, non fosse idonea a
incidere   sui   rapporti   contrattuali   in   atto   determinandone
l'«alterazione». 
    3.3.- Da  ultimo  -  espone  sempre  il  rimettente  -  l'impresa
presentava ricorso per cassazione, lamentando, per quanto  rileva  ai
fini dell'odierno scrutinio,  che  la  Corte  d'appello  non  avrebbe
dovuto avvalersi dell'art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia n. 13
del 2001, e, di conseguenza,  avrebbe  dovuto  esaminare  le  riserve
numeri 7, 8, 9 e 11. 
    Secondo  l'impresa  ricorrente,  l'interpretazione   a   supporto
dell'applicazione dell'art. 23, comma 2, ai rapporti pendenti  doveva
ritenersi «contraria ai principi generali di  legge  estendendosi  lo
ius superveniens a rapporti gia' costituiti ed efficaci in  forza  di
altre   regole»,   in   violazione   del   «principio   generale   di
irretroattivita' della legge e di intangibilita'  dei  contratti  che
andavano interpretati ed eseguiti ratione temporis». L'art. 27, comma
3, della legge reg. Puglia n. 13 del 2001 avrebbe  inteso,  pertanto,
adeguare alla nuova  disciplina  le  procedure  in  atto,  ma  non  i
rapporti di natura privatistica. 
    In ogni caso - sottolinea sempre la parte ricorrente  -  in  base
alla citata previsione, l'adeguamento  non  avrebbe  potuto  operare,
qualora avesse comportato un'alterazione dei  rapporti  contrattuali.
Nello  specifico,  a  parere  dell'impresa,  «non  poteva   ritenersi
semplice adeguamento  di  un  contratto  una  clausola  che  imponeva
condizioni peggiorative per uno dei contraenti non previste  in  sede
di sottoscrizione del contratto, qual[e] l'introduzione di  decadenze
dall'azione, anche  considerando  che  le  riserve  costituiscono  un
aspetto essenziale del contratto». 
    3.3.1.- Il rimettente riferisce, infine, che il Comune di Mottola
depositava controricorso con il quale affermava che  il  procedimento
di  iscrizione  delle  riserve  doveva  essere  adeguato  alle  norme
previste dalla legge reg. Puglia n. 13 del 2001 e che non si trattava
di ius superveniens «poiche' la legge regionale n. 13/2001 era  stata
promulgata in  data  11  maggio  2001  e  pubblicata  sul  Bollettino
Ufficiale della Regione Puglia in  data  15  maggio  2001,  mentre  i
lavori erano stati ultimati il 6 luglio 2011 [recte 2001],  lo  stato
finale in cui erano state iscritte le riserve era stato  sottoscritto
il 24 settembre 2001 e  il  certificato  di  collaudo  era  datato  6
febbraio 2002». 
    4.-  Il  giudice  a  quo  prosegue  rilevando  che  le  questioni
sottoposte al suo esame importano la necessita' di verificare, in via
preliminare, la legittimita' costituzionale dell'art.  23,  comma  2,
della legge reg. Puglia n. 13 del 2001, in riferimento all'art.  117,
secondo comma, lettera l), Cost. 
    5.- In punto di rilevanza, la Corte  di  cassazione  osserva  che
l'impresa di G. Z. ha chiesto la condanna del Comune  di  Mottola  al
pagamento di somme «dovute anche  in  ragione  dell'iscrizione  delle
riserve nn.  7,  8,  9  e  11,  in  relazione  alle  quali  e'  stata
pronunciata la decadenza in applicazione dell'art. 23, comma 2, della
legge regionale Puglia n. 13/2001». 
    Tale  disposizione  -  secondo  il  rimettente   -   risulterebbe
applicabile alla fattispecie contrattuale oggetto  del  giudizio,  in
conformita' all'art. 27, comma 3, della legge reg. Puglia n.  13  del
2001, secondo cui «[l]e procedure in atto per le opere  pubbliche  in
corso di esecuzione sono adeguate a quelle  previste  nella  presente
legge in tutti i casi in cui queste ultime non  alterino  i  rapporti
contrattuali in atto tra ente appaltante e impresa». 
    Aderendo all'interpretazione fornita  dalla  Corte  d'appello  di
Lecce,  il  giudice  a  quo  ritiene,  infatti,   che   l'espressione
«alterazioni dei rapporti  contrattuali  in  atto»  debba  intendersi
riferita a una «"modifica" delle originarie pattuizioni  contrattuali
e  non  anche  [a]  una  [loro]   "mera   integrazione"»,   come   si
riscontrerebbe nel caso dell'art.  23,  comma  2,  della  legge  reg.
Puglia n. 13 del 2001. In particolare,  quest'ultima  previsione  non
inciderebbe sul «nucleo essenziale delle obbligazioni  assunte  dalle
parti con il contratto di appalto di cui si discute, quanto piuttosto
[riguarderebbe] aspetti aventi carattere procedimentale per cio'  che
attiene alla proponibilita' delle riserve mediante  costituzione  del
deposito cauzionale e, peraltro, con un contenuto non particolarmente
incisivo, laddove si dispone che detto  deposito  debba  essere  pari
allo 0,5 per cento dell'importo del maggior costo presunto». 
    La  Corte  rimettente  aggiunge,  in  conclusione,  che  il  dato
letterale  della  disposizione  censurata  non  consentirebbe  alcuna
interpretazione  costituzionalmente  conforme   e   che   l'eventuale
accoglimento della questione comporterebbe «il cambiamento del quadro
normativo  di  riferimento  assunto  dal  giudice  a  quo».  Da  cio'
inferisce la sicura rilevanza della questione sollevata. 
    6.-  Quanto  alla  non  manifesta   infondatezza,   il   Collegio
rimettente, dopo aver ricordato - sulla scorta  della  giurisprudenza
di questa Corte (in particolare della sentenza n. 401 del 2007) - che
l'attivita'   contrattuale   della   pubblica   amministrazione   non
identifica   in   se'   una   materia,   sicche'   «i   problemi   di
costituzionalita' sollevati "devono essere esaminati in  rapporto  al
contenuto precettivo delle singole disposizioni  impugnate"»,  rileva
che la norma censurata disciplinerebbe  aspetti  relativi  alla  fase
esecutiva del contratto d'appalto pubblico, ascrivibili alla  materia
dell'ordinamento civile, di competenza  legislativa  esclusiva  dello
Stato. 
    6.1.- La fase esecutiva si connoterebbe, infatti, «per la normale
mancanza  di  poteri  autoritativi  in  capo  al  soggetto   pubblico
sostituiti   dall'esercizio   di   autonomie   negoziali»,   il   che
conforterebbe la sua natura «prevalentemente» privatistica. 
    La disciplina di tale fase richiamerebbe, pertanto, la materia di
competenza legislativa  esclusiva  statale  dell'ordinamento  civile,
poiche'  verrebbe  «in  rilievo  l'esigenza,  sottesa  al   principio
costituzionale di  uguaglianza,  di  assicurare,  in  relazione  agli
aspetti di pertinenza ad esso, l'uniformita' di trattamento su  tutto
il territorio nazionale, della disciplina della fase  dell'esecuzione
dei contratti di appalto». 
    6.2.- L'inquadramento nella materia dell'ordinamento  civile  non
verrebbe, d'altro canto, inficiato - secondo il  rimettente  -  dalla
peculiarita' della disciplina delle riserve, avendo questa Corte gia'
in precedenza precisato (nella sentenza n.  401  del  2007)  che  «la
sussistenza di aspetti di specialita', rispetto a quanto previsto dal
codice  civile,  nella  disciplina  della  fase  di  stipulazione   e
esecuzione  dei  contratti  di  appalto,  non  e'  di   ostacolo   al
riconoscimento della legittimazione  statale  di  cui  all'art.  117,
secondo comma, lettera l), Cost.». 
    6.3.- Da ultimo, il giudice a quo richiama  altri  precedenti  di
questa Corte (le sentenze n. 74 del 2012, n. 328 del 2011 e n. 45 del
2010), che avrebbero  ritenuto  «illegittime  disposizioni  simili  a
quella denunciata», e formula, in conclusione,  la  prognosi  di  non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia n.  13  del  2001,  in
riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 
    7.- La Regione Puglia non e' intervenuta nel giudizio e le  parti
del giudizio a quo non si sono costituite. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza  del  5  gennaio  2021,  iscritta  al  registro
ordinanze n. 32 del 2021,  la  Corte  di  cassazione,  sezione  prima
civile,  ha  sollevato  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 23, comma 2, della legge della  Regione  Puglia  11  maggio
2001, n. 13 (Norme regionali in materia di opere e lavori  pubblici),
in  riferimento  all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  l),  della
Costituzione. 
    1.2.- La Corte di cassazione  sospetta  che  la  norma  censurata
violi  il  citato  parametro  costituzionale  nella  parte   in   cui
stabilisce che, «[q]ualora, a seguito dell'iscrizione  delle  riserve
da parte dell'impresa sui documenti  contabili,  l'importo  economico
dell'opera variasse in  aumento  rispetto  all'importo  contrattuale,
l'impresa e' tenuta alla costituzione di  un  deposito  cauzionale  a
favore dell'Amministrazione pari allo 0,5 per cento dell'importo  del
maggior  costo  presunto,  a  garanzia   dei   maggiori   oneri   per
l'Amministrazione per il  collaudo  dell'opera.  Tale  deposito  deve
essere effettuato in valuta presso la Tesoreria dell'ente  o  polizza
fidejussoria assicurativa o bancaria con riportata la  causale  entro
quindici giorni dall'apposizione delle riserve. Decorso tale  termine
senza il deposito delle somme suddette, l'impresa decade dal  diritto
di far valere, in qualunque termine e modo, le riserve  iscritte  sui
documenti contabili.  Da  tale  deposito  verra'  detratta  la  somma
corrisposta al collaudatore e il saldo verra' restituito  all'impresa
in uno con il saldo dei lavori». 
    1.3.- Il rimettente espone che  la  vicenda  da  cui  origina  il
giudizio a quo riguarda alcune riserve  di  un  contratto  d'appalto,
stipulato in data 13 gennaio 1999, con il quale il Comune di  Mottola
commissionava all'impresa individuale di G. Z. la realizzazione di un
edificio da adibire a caserma dei Carabinieri. 
    In  particolare,  il  giudice  a  quo  riferisce  che   l'impresa
appaltatrice aveva  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso  la
decisione della Corte  d'appello  di  Lecce,  sezione  distaccata  di
Taranto, la quale, facendo applicazione dell'art. 23, comma 2,  della
legge reg. Puglia n. 13 del 2001 al contratto d'appalto  per  cui  e'
causa, accertava la decadenza dell'appaltatore  dal  diritto  di  far
valere le riserve numeri 7, 8, 9 e 11, non avendo  questi  rispettato
l'onere imposto dalla citata disposizione. 
    2.- La Corte rimettente ritiene che il ricorso sottoposto al  suo
esame richieda, in via preliminare,  di  verificare  la  legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia  n.  13
del 2001, in riferimento all'art. 117,  secondo  comma,  lettera  l),
Cost. 
    2.1.- In punto di  rilevanza,  il  giudice  a  quo  considera  la
disposizione applicabile alla fattispecie  contrattuale  oggetto  del
giudizio, in conformita' all'art. 27, comma 3, della  medesima  legge
reg. Puglia n. 13 del 2001, secondo cui «[l]e procedure in  atto  per
le opere pubbliche in corso di  esecuzione  sono  adeguate  a  quelle
previste nella presente legge in tutti i casi in  cui  queste  ultime
non alterino i rapporti contrattuali in atto tra  ente  appaltante  e
impresa». 
    A giudizio del rimettente, infatti, la disciplina  sulle  riserve
di cui all'art. 23, comma 2, non  andrebbe  ad  alterare  i  rapporti
contrattuali  in  atto,  in  quanto  non  riguarderebbe  il   «nucleo
essenziale delle obbligazioni assunte dalle parti con il contratto di
appalto di cui si discute,  quanto  piuttosto  [...]  aspetti  aventi
carattere procedimentale per cio'  che  attiene  alla  proponibilita'
delle  riserve  mediante  costituzione  del  deposito  cauzionale  e,
peraltro, con un contenuto non particolarmente incisivo,  laddove  si
dispone che detto deposito debba  essere  pari  allo  0,5  per  cento
dell'importo del maggior costo presunto». 
    Chiarito, poi, che il dato letterale della disposizione censurata
non consentirebbe alcuna interpretazione costituzionalmente  conforme
e che l'eventuale accoglimento  della  questione  determinerebbe  «il
cambiamento del  quadro  normativo  di  riferimento»,  il  rimettente
afferma la rilevanza della questione sollevata. 
    2.2.-  Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  la  Corte  di
cassazione rileva che la  disposizione  censurata  riguarda  la  fase
esecutiva del contratto d'appalto pubblico e  che  il  suo  contenuto
precettivo attiene a profili che implicano un'esigenza di uniformita'
su  tutto  il  territorio  nazionale,  nel  rispetto  del   principio
costituzionale di eguaglianza. 
    Di  conseguenza,  formula   una   prognosi   di   non   manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
23, comma 2, della legge reg. Puglia n. 13 del 2001,  in  riferimento
al parametro evocato. 
    3.- La  questione  sollevata  e'  inammissibile  per  difetto  di
rilevanza sotto due distinti profili. 
    4.- Innanzitutto, la legge reg. Puglia n.  13  del  2001  non  e'
applicabile alla fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo, che
attiene ad un contratto  di  appalto  per  «la  realizzazione  di  un
edificio [...] da adibire a Caserma dei Carabinieri». 
    L'art. 1 di tale legge regionale dispone,  infatti,  l'esclusione
dal  suo  raggio  di  applicazione  dei  «lavori  pubblici,  comunque
realizzati,  attinenti  allo  svolgimento  di  compiti   e   funzioni
mantenuti allo Stato, ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59 e del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112». 
    Vengono,  pertanto,  sottratti  alla  normativa  regionale  -  in
conformita' con il riparto di competenze di cui all'art. 117, secondo
comma, lettera d),  Cost.  -  i  lavori  riguardanti  «difesa,  forze
armate, armi e munizioni, esplosivi e materiale strategico» (art.  1,
comma 3, lettera b, della legge 15 marzo 1997, n. 59, recante «Delega
al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni  ed
enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e  per  la
semplificazione amministrativa»), spettando allo  Stato  le  funzioni
relative   alla   «programmazione,   progettazione,   esecuzione    e
manutenzione  di  opere  in  materia  di  difesa,  dogane,  ordine  e
sicurezza pubblica ed edilizia  penitenziaria»  (art.  93,  comma  1,
lettera d, del decreto legislativo 31 marzo  1998,  n.  112,  recante
«Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello  Stato  alle
regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge  15
marzo 1997, n. 59»). 
    Ebbene - come si desume in modo univoco dalle  norme  di  settore
(su cui infra) e dalla stessa giurisprudenza di  questa  Corte  -  le
caserme dell'Arma dei carabinieri rientrano fra le  opere  di  difesa
militare, oltre che fra quelle preposte a  garantire  l'ordine  e  la
sicurezza pubblica. 
    4.1.- Ben prima che venisse stipulato il  contratto  oggetto  del
giudizio a quo, questa Corte aveva,  infatti,  chiaramente  affermato
che «le sedi di servizio dell'Arma dei Carabinieri  devono  ritenersi
ricomprese nell'ambito delle "opere destinate alla difesa  militare"»
(sentenza n. 150 del 1992; nello stesso senso,  sentenza  n.  216  n.
1985). 
    Tali sedi - precisava la Corte - «rappresentano "beni strumentali
non solo per il servizio di pubblica sicurezza, ma anche per tutte le
altre attivita' di ogni formazione armata dello Stato (addestramento,
esercitazioni, custodia di armi e munizioni, ecc.)"» (sentenza n. 150
del 1992),  nonche'  «per  le  altre  complesse  mansioni,  anch'esse
proprie dei Carabinieri, come quelle di polizia militare, di raccolta
di informazioni e notizie attinenti alla difesa sia  all'interno  che
all'estero, e ancora per le attivita', sia pure svolte congiuntamente
ad altri organi statali, intese a neutralizzare azioni di  spionaggio
e  di  terrorismo:  funzioni,  queste,  chiaramente   preordinate   e
strumentali alla difesa  e  alla  stessa  integrita'  della  Nazione»
(sentenza n. 216 del 1985). 
    Di conseguenza, le citate sentenze,  nell'interpretare  l'art.  3
della legge  6  febbraio  1985,  n.  16  (Programma  quinquennale  di
costruzione di nuove sedi  di  servizio  e  relative  pertinenze  per
l'Arma dei carabinieri), che equiparava «[a]i fini  dell'accertamento
di conformita' previsto dall'articolo 81 del decreto  del  Presidente
della Repubblica 24  luglio  1977,  n.  616»  le  opere  di  edilizia
relative alle sedi di servizio dell'Arma dei carabinieri  alle  opere
destinate  alla  difesa  militare,   avevano   precisato   che   tale
equiparazione dovesse  intendersi  nel  senso  che  le  caserme  sono
«comprese [...] nell'eccezione prevista [...] per le opere di  difesa
militare» (in particolare, sentenza n. 216 del 1985). 
    La disposizione all'epoca  impugnata  -  osservava,  infatti,  la
sentenza n. 150 del  1992  -  non  ha  fatto  altro  che  riconoscere
esplicitamente «la natura propria di tali immobili», in quanto - come
gia' precisato nella sentenza n. 216 del 1985 - le sedi  di  servizio
dell'Arma dei carabinieri, «forza permanente  accasermata»  (art.  1,
primo comma, legge n. 16 del 1985), presentano entrambi  i  requisiti
che giustificano l'inclusione nella categoria delle  opere  destinate
alla  difesa  nazionale:  la  natura  militare   dell'amministrazione
interessata ai lavori e la finalita' dell'opera. 
    4.2.- Del resto, l'univoca ricostruzione fornita da questa  Corte
ha trovato, di seguito, esplicita conferma nell'art. 233 del  decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice  dell'ordinamento  militare)
che, proprio «al fine dell'affidamento  ed  esecuzione  di  contratti
pubblici relativi a lavori, servizi  e  forniture»,  include  tra  le
opere destinate alla difesa nazionale: «a) [le] sedi  di  servizio  e
relative   pertinenze   necessarie   a   soddisfare    le    esigenze
logistico-operative dell'Arma dei carabinieri», e «e) [le] caserme». 
    A tal riguardo, se e' vero che il  «diritto  positivo  successivo
alla disciplina regolatrice della fattispecie» ben puo' fornire  «una
luce retrospettiva capace di disvelarne  significati  e  orientamenti
anche differenti da quelli  precedentemente  individuati»  (Corte  di
cassazione, sezioni unite  civili,  sentenza  25  maggio-9  settembre
2021,  n.  24413),  a  fortiori  esso  deve  poter  consolidare   una
ricostruzione ermeneutica gia' ampiamente acquisita. 
    In conclusione, il contratto di appalto relativo ad  una  caserma
dei carabinieri deve ritenersi escluso  dall'ambito  di  applicazione
della norma regionale censurata. 
    5.-  La  questione  di  legittimita'   costituzionale   sollevata
evidenzia,  poi,  una  seconda  ragione  di   inammissibilita',   che
prescinde dallo specifico oggetto del contratto di appalto. 
    Si tratta dell'erronea interpretazione  dell'art.  27,  comma  3,
della  legge  reg.  Puglia  n.  13  del  2001,  dal   quale   dipende
l'applicabilita'  dell'art.  23,  comma  2,  della   medesima   legge
regionale, a procedure in corso di esecuzione  relative  a  contratti
conclusi anteriormente all'entrata in vigore della nuova  disciplina.
Tale, infatti, e' il caso  della  fattispecie  concreta  oggetto  del
giudizio a quo, relativa ad un contratto  di  appalto  stipulato  nel
1999. 
    L'art. 27, comma 3, sopra citato, se, da  un  lato,  prevede  che
«[l]e procedure in atto per le opere pubbliche in corso di esecuzione
sono adeguate a quelle previste nella presente legge»,  da  un  altro
lato, dispone tale adeguamento solo nei casi «in  cui  queste  ultime
non alterino i rapporti contrattuali in atto tra  ente  appaltante  e
impresa». In particolare, il rimettente esclude che l'art. 23,  comma
2, comporti una tale "alterazione", sostenendo che la sua  disciplina
non afferirebbe al nucleo essenziale delle obbligazioni assunte dalle
parti, ma «ad aspetti aventi carattere procedimentale  per  cio'  che
attiene alla proponibilita' delle riserve mediante  costituzione  del
deposito cauzionale». 
    Sennonche' una tale motivazione non supera il  vaglio  della  non
implausibilita' demandato a questa Corte (sentenze n. 55, n. 45 e  n.
15 del 2021, e n. 120 del 2015). 
    5.1.- Va ribadito, infatti, che «l'onere di iscrivere riserve  ha
una valenza generale e investe ogni pretesa  di  carattere  economico
che  l'esecutore  dei  lavori  intenda  far  valere   nei   confronti
dell'amministrazione» (sentenza  n.  109  del  2021):  esso,  dunque,
ricomprende  anche   spettanze   relative   a   inadempimenti   della
controparte o  che  la  legge  riconosce  all'appaltatore  in  talune
ipotesi di sopravvenienze contrattuali. 
    Risulta allora  evidente  che  impedire,  con  un  meccanismo  di
decadenza,  la  possibilita'  di   pretendere   l'esatta   esecuzione
dell'originario sinallagma o di adeguare  il  medesimo,  nei  termini
consentiti dalla legge, alle  eventuali  sopravvenienze  equivale  ad
ostacolare il pieno rispetto del contratto, oltre che  del  principio
rebus sic stantibus riflesso in talune previsioni di legge, e  questo
vuol dire chiaramente alterare i rapporti contrattuali in atto. 
    5.2.- Sotto un diverso  profilo,  deve  poi  aggiungersi  che  la
previsione del deposito cauzionale o della  fidejussione  bancaria  o
assicurativa, per quanto oggetto di un  onere,  implica  comunque  un
aggravio  rispetto   all'originaria   pattuizione   e,   soprattutto,
presuppone  ab  imis  un  nuovo  obbligo  in  capo   all'appaltatore.
Nell'ultimo periodo della norma censurata si  prevede,  infatti,  che
dal deposito «verra' detratta la somma corrisposta al collaudatore  e
il saldo verra' restituito  all'impresa  in  uno  con  il  saldo  dei
lavori».   L'obbligo   di   sostenere   i   «maggiori    oneri    per
l'Amministrazione  per  il  collaudo  dell'opera»,   previsto   dalla
medesima disposizione, comporta, dunque, un maggior costo rispetto  a
quello che dovrebbe gravare sull'appaltatore in base alle  previsioni
contemplate  dalla  normativa  statale  (art.  238  del  decreto  del
Presidente  della  Repubblica,  5  ottobre  2010,  n.  207,   recante
«Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto  legislativo  12
aprile 2006, n. 163, recante "Codice dei contratti pubblici  relativi
a  lavori,  servizi  e  forniture  in  attuazione   delle   direttive
2004/17/CE  e  2004/18/CE"»,  e  prima  art.  210  del  decreto   del
Presidente  della  Repubblica  21   dicembre   1999,   554,   recante
«Regolamento di attuazione della legge quadro in  materia  di  lavori
pubblici 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modificazioni»). 
    5.3.- Da  ultimo,  non  puo'  tacersi  che  la  stessa  Corte  di
cassazione, sezione  prima  civile,  con  la  sentenza  9  gennaio-13
febbraio 2019, n. 4259, aveva messo in luce la palese  incidenza  del
censurato art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia n.  13  del  2001
sui rapporti contrattuali in corso  e  ne  aveva,  pertanto,  escluso
l'applicazione ai contratti  conclusi  prima  della  sua  entrata  in
vigore. 
    L'art. 27, comma 3, della legge reg. Puglia n. 13 del 2001  -  si
legge  nella  richiamata  sentenza  della  Corte  di   cassazione   -
«esplicitamente avvalora[va] [...] la tesi della  non  retroattivita'
della sua valenza tutte le volte in cui essa  [andrebbe]  a  incidere
sui rapporti in atto, modificando il complesso dei  diritti  e  degli
obblighi delle parti, come e' evidente con  riferimento  all'istituto
del deposito cauzionale a garanzia dei maggiori oneri di collaudo per
tutte le riserve iscritte dall'appaltatore e comportanti  aumento  di
spesa». 
    6.- Per  le  plurime  ragioni  sopra  esposte,  la  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata dal rimettente, in  riferimento
all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  l),  Cost.,   e',   dunque,
inammissibile per difetto di rilevanza, stante la non  applicabilita'
dell'art. 23, comma 2, della legge reg. Puglia n. 13  del  2001  alla
fattispecie oggetto del giudizio a quo.