ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,
comma  1-bis,  della  legge   26   luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), promosso  dal  Magistrato  di
sorveglianza di Padova, nel procedimento di sorveglianza  ad  istanza
di M. C., con ordinanza del 12 aprile 2021, iscritta  al  n.  81  del
registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  M.  C.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  30  novembre  2021  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi l'avvocato Fabio Corvaja per M. C. e l'avvocato dello Stato
Ettore Figliola per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 30 novembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 12 aprile 2021, iscritta al n. 81 del  r.o.
del 2021, il Magistrato di sorveglianza di Padova  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,  comma
1-bis, della legge 26 luglio 1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), nella parte in cui prevede che i permessi premio  di
cui  all'art.  30-ter  ordin.  penit.  possano  essere  concessi   ai
condannati «che abbiano  ottenuto  la  collaborazione  impossibile  e
inesigibile,  ove  accertata  l'assenza  di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata». 
    2.- Il giudice rimettente riferisce,  in  fatto,  che  M.  C.  ha
presentato istanza  di  concessione  del  beneficio  di  un  permesso
premio, al fine di poter incontrare i due figli  minori,  attualmente
residenti con la madre in Germania. 
    Risulta dall'ordinanza di rimessione che l'istante  sta  espiando
la  pena  di  14  anni  e  20  giorni  di  reclusione  (con  scadenza
attualmente fissata al  24  gennaio  2022),  in  conseguenza  di  una
condanna per i reati di associazione di tipo  mafioso  (art.  416-bis
del codice penale), sequestro di persona a scopo di estorsione  (art.
630 cod. pen.), usura (art. 644 cod. pen.) ed  estorsione  (art.  629
cod. pen.), tutti aggravati ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti  in  tema  di  lotta  alla
criminalita'  organizzata  e  di   trasparenza   e   buon   andamento
dell'attivita' amministrativa),  convertito,  con  modificazioni,  in
legge 12 luglio 1991, n. 203, vigente all'epoca dei fatti. 
    2.1.- Quanto alla  non  manifesta  infondatezza  delle  questioni
sollevate, il rimettente ripercorre  l'evoluzione  normativa  che  ha
portato all'attuale formulazione dell'art. 4-bis  ordin.  penit.,  il
cui comma 1 prevede, come regola generale applicabile ai detenuti per
«reati di criminalita' organizzata», che l'accesso ai benefici e alle
misure previsti dal Capo VI della legge n. 354 del 1975 (tra i quali,
fino alla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, anche i  permessi
premio) sia subordinato, con  la  sola  eccezione  della  liberazione
anticipata, alla collaborazione con l'autorita' giudiziaria  a  norma
dell'art.  58-ter  ordin.  penit.,   presumendosi,   altrimenti,   la
persistenza  di  una  pericolosita'  ostativa  alla  concessione  del
beneficio o della misura richiesti. 
    Ricorda, poi, che, ai sensi del comma  1-bis  del  medesimo  art.
4-bis ordin. penit., benefici e misure di cui  si  e'  detto  possono
invece essere accordati nelle ipotesi di collaborazione impossibile o
inesigibile: si tratta dei  casi  in  cui  non  risultano  sussistere
margini per un'utile collaborazione con la  giustizia,  cio'  che  si
verifica nelle ipotesi in  cui  la  sentenza  di  merito  abbia  gia'
garantito una piena ricostruzione fattuale  della  vicenda  criminosa
oppure quando  il  patrimonio  conoscitivo  del  condannato  non  gli
consenta di collaborare. Al cospetto  di  tali  situazioni,  rammenta
ancora  il  rimettente,  e'  tuttavia  necessaria  l'acquisizione  di
elementi indicativi della assenza di un collegamento attuale  con  la
criminalita' organizzata. 
    La sentenza n. 253 del 2019  di  questa  Corte,  trasformando  da
assoluta in relativa la presunzione di pericolosita' di cui al  comma
1 dell'art. 4-bis  ordin.  penit.,  ha  ammesso  la  possibilita'  di
concedere permessi premio anche in assenza di collaborazione  con  la
giustizia,  allorche'  siano  stati  acquisiti   elementi   tali   da
escludere, sia  l'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. 
    Cio' posto, secondo il giudice a quo, per  il  "diritto  vivente"
consolidatosi  nella  giurisprudenza  di  legittimita',   la   citata
sentenza n. 253 del 2019,  nella  parte  in  cui  avrebbe  introdotto
particolari «regole probatorie» - volte ad imporre l'acquisizione  di
elementi tali da escludere  anche  il  pericolo  del  ripristino  dei
collegamenti con la criminalita' organizzata - non  riguarderebbe  le
«disposizioni in tema di collaborazione impossibile». 
    Si sarebbero, in sostanza,  delineati  due  distinti  «regimi  di
valutazione della pericolosita' dei condannati per reati  ex  art.  4
bis o.p. che non abbiano collaborato  con  la  giustizia»:  a  fronte
della generale possibilita' - riconosciuta dalla citata  sentenza  n.
253 del 2019 di questa  Corte  al  condannato  per  reati  cosiddetti
ostativi ex art. 4-bis ordin. penit. - di accedere al  beneficio  del
permesso premio previa acquisizione di elementi  tali  da  escludere,
sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, sia
il pericolo del ripristino di tali collegamenti, «per i  collaboranti
"impossibili" o "inesigibili"» il magistrato di sorveglianza dovrebbe
limitarsi a valutare «la sola sussistenza di rapporti attuali con  il
contesto  malavitoso»,  senza  estendere  la  verifica   «all'aspetto
prognostico tipico della valutazione  di  pericolosita',  ossia  alla
verifica  del  pericolo  di  ripristino  di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata». 
    Proprio per questa ragione, del resto, il gia' richiamato diritto
vivente (vengono  citate  le  sentenze  della  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, 12 febbraio 2020, n. 5553; 6 novembre 2020,  n.
31025 e n. 31017; 21 ottobre  2020,  n.  29151)  avrebbe  sancito  la
persistenza  dell'interesse  all'accertamento  della   collaborazione
impossibile o inesigibile. 
    Il rimettente riferisce  che,  nel  dichiarare  inammissibile  il
ricorso proposto dalla Procura generale presso la Corte d'appello  di
Venezia contro l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza  di  Venezia
che ha riconosciuto l'impossibilita' di utile collaborazione di M. C.
con  riferimento  al  reato  di  sequestro  di  persona  a  scopo  di
estorsione, la Corte di cassazione avrebbe «imposto» al giudice a quo
di interpretare l'art. 4-bis ordin. penit., cosi' come  inciso  dalla
citata sentenza n. 253 del 2019, «nel senso di dare continuita'  alla
portata precettiva della collaborazione impossibile e di applicare il
regime probatorio "rafforzato" di cui al primo comma dell'art.  4-bis
o.p. ai soli condannati che, pur potendo collaborare, scelgono di non
farlo». 
    2.1.1.- Cio' posto, il rimettente  ritiene  che  l'assetto  duale
appena  descritto,  caratterizzato  dal  «diversificato   regime   di
valutazione della pericolosita',  si  traduca  in  una  norma  penale
irragionevole  e   pertanto   contrastante   con   l'art.   3   della
Costituzione»,  risolvendosi  «in  lettura   non   costituzionalmente
orientata del disposto  introdotto  dalla  Corte  Costituzionale  con
sentenza n. 253 del 2019». 
    Non vi sarebbe una base argomentativa razionale «per escludere un
regime  probatorio  unitario»:  l'accertamento  della  collaborazione
impossibile nulla esprimerebbe in merito all'atteggiamento soggettivo
del singolo condannato, tanto che, nel caso oggetto  del  giudizio  a
quo, sarebbe da escludere la possibilita' di riconoscere in  capo  al
richiedente  il  beneficio  -  ritenuto  «non  resipiscente   e   non
penitente» - una effettiva volonta' di collaborare. Piu' in generale,
l'impossibilita'   o   inesigibilita'   della   collaborazione    non
inciderebbe  sul  profilo  di  pericolosita'  concreta  legata   alla
posizione    apicale    o     marginale     rivestita     all'interno
dell'organizzazione criminale: non vi sarebbe, dunque, alcuna ragione
«per escludere il "collaboratore impossibile" (in particolare  quello
che continui a tenere un atteggiamento  non  penitente  e  che  abbia
rivestito nell'organizzazione criminale un ruolo  apicale,  come  nel
caso in  esame)  dal  meccanismo  probatorio  delineato  dalla  Corte
Costituzionale per quanti mantengano il silenzio  c.d.  qualificato»,
in quanto «puo' capitare che  l'atteggiamento  soggettivo  delle  due
diverse figure di non collaboranti sia identico, perche' anche chi si
vede  accertata  la  collaborazione  impossibile   puo'   non   voler
collaborare (come nel caso di specie)». 
    Per il rimettente, anzi, una  valutazione  in  concreto  potrebbe
rivelare «addirittura  una  minore  pericolosita'  del  soggetto  che
sceglie di non collaborare pur potendolo  fare  (ad  esempio  perche'
mosso dai timori per la propria e l'altrui incolumita'),  rispetto  a
quello che si trova  nell'impossibilita'  di  farlo  ma  che  non  lo
avrebbe comunque fatto». 
    2.1.2.- Il giudice a quo, inoltre,  ritiene  che  la  limitazione
irragionevolmente   imposta   al    magistrato    di    sorveglianza,
«impossibilitato ad effettuare  una  valutazione  individualizzata  e
concreta  della  pericolosita'  del  singolo  condannato»  che,   per
qualsiasi  ragione,  non  collabori   con   la   giustizia,   sarebbe
contrastante con il  «principio  di  individualizzazione  della  fase
esecutiva della pena (art. 27, co. 3, Cost.)»,  che  dovrebbe  invece
consentire anche una valutazione  dell'effettivo  spessore  criminale
del singolo detenuto. 
    Nella   prospettiva   del   rimettente,   in    sostanza,    solo
«l'eliminazione del regime differenziato imposto dal diritto vivente»
potrebbe restituire al magistrato di sorveglianza, nei  confronti  di
tutti i condannati per reati contemplati dall'art.  4-bis,  comma  1,
ordin. penit.  che  intendano  accedere  al  beneficio  del  permesso
premio, il potere  di  effettuare  una  valutazione  individualizzata
della personalita', e quindi anche della pericolosita'. 
    2.2.- Le argomentazioni esposte dal rimettente consentirebbero di
apprezzare anche la rilevanza delle questioni sollevate. 
    A tal proposito, il giudice a  quo  evidenzia  che  l'istanza  di
concessione del permesso premio e' «temporalmente ammissibile  avendo
il detenuto espiato ben oltre meta' della pena di tutti i reati». 
    Inoltre, «il percorso carcerario nel corso del lungo  periodo  di
detenzione»  sarebbe  sempre  stato  regolare   e   connotato   dalla
partecipazione  alle  attivita'  trattamentali,  «risultandosi  cosi'
integrato il requisito della meritevolezza». 
    Quanto  al  profilo  della   pericolosita',   dall'ordinanza   di
rimessione si apprende che, in base alle informazioni  fornite  dalle
autorita'  competenti,   l'istante   avrebbe   rivestito   un   ruolo
dirigenziale all'interno del sodalizio criminoso di riferimento. 
    Cio' premesso, il Magistrato di sorveglianza di  Padova,  per  le
indicazioni impartite dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte,
come recepite dal diritto vivente di cui si e' dato conto, ritiene di
dover operare le valutazioni  di  propria  competenza  unicamente  in
relazione all'assenza di collegamenti  attuali  con  la  criminalita'
organizzata,  essendo  stata  accertata   l'impossibilita'   di   una
collaborazione con la giustizia ex art. 4-bis,  comma  1-bis,  ordin.
penit. in relazione al reato di  sequestro  di  persona  a  scopo  di
estorsione (art. 630 cod. pen.). 
    Quanto a quest'ultimo  profilo,  in  particolare,  il  rimettente
riferisce che, con ordinanza del 19 febbraio 2020 (definitiva in data
3  dicembre  2020),  il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia  ha
riconosciuto l'impossibilita' di utile collaborazione con riferimento
al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod.
pen.), il solo per il quale la pena e' ancora in esecuzione. 
    Proprio in applicazione del diritto vivente rispetto al quale  il
rimettente sollecita lo scrutinio di legittimita' costituzionale,  il
detenuto potrebbe avvalersi del  regime  probatorio  piu'  favorevole
previsto dall'art. 4-bis, comma 1-bis, ordin.  penit.,  in  luogo  di
quello piu' rigoroso disegnato dalla sentenza  n.  253  del  2019  di
questa Corte, anche se «risultano in espiazione reati  caratterizzati
dalla   stessa   eguale   connotazione   ostativa   e   in   cui   si
giustificherebbe il medesimo vaglio della sussistenza di un  pericolo
di ripristino di collegamenti con la criminalita' organizzata». 
    2.3.- Quanto al petitum, il giudice a quo  ritiene  che,  con  la
pronuncia della sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, si  sarebbe
determinata l'«abrogazione implicita in parte qua delle  disposizioni
in tema di collaborazione  impossibile  o  inesigibile  (che  restano
vigenti  e  continuano  ad  avere  una  portata  percettiva   [recte:
precettiva]  originaria  con  riferimento  ai  benefici  diversi  dal
permesso premio)», cosi' come affermato nelle  prime  pronunce  della
Corte di cassazione successive alla sentenza n.  253  del  2019  (con
indirizzo poi abbandonato) secondo  cui,  a  seguito  della  indicata
pronuncia  di   questa   Corte   «doveva   negarsi   la   persistenza
dell'interesse  alla  collaborazione  impossibile   o   inesigibile»,
istituto introdotto quale sorta di  contraltare  alla  collaborazione
effettiva con la giustizia nei  casi  in  cui  la  stessa  non  fosse
utilmente praticabile: «[u]na volta venuta meno l'assoluta necessita'
della sussistenza di quest'ultima  per  poter  accedere  al  permesso
premio viene a perdere giustificazione anche la prima»  (sono  citate
le sentenze della Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  14
gennaio 2020, n. 3309, 16 gennaio 2020, n. 1636 e 27  febbraio  2020,
n. 7931). 
    Cio'  che  appunto  il  rimettente  chiede  a  questa  Corte   di
dichiarare, in contrasto con il diritto vivente ormai  stabilizzatosi
nella giurisprudenza di legittimita' (vengono richiamate le  sentenze
della Corte di Cassazione, sezione quinta penale, 21  dicembre  2020,
n. 36887; sezione prima penale, 6 novembre 2020, n. 31025; 21 ottobre
2020, n. 29140, n. 29141, e n. 29151; 23 marzo  2020,  n.  10551;  12
febbraio 2020, n. 5553, tutte concordi nel ritenere che «la decisione
della Corte Costituzionale non riguarda [...] le disposizioni in tema
di collaborazione impossibile o inesigibile»). 
    In questo quadro giurisprudenziale,  il  giudice  a  quo  ritiene
preclusa una diversa interpretazione che consenta di superare i dubbi
di legittimita' costituzionale esposti, anche  perche'  ogni  opzione
ermeneutica   alternativa   sarebbe    impedita    dal    recepimento
dell'indirizzo privilegiato dal diritto vivente nell'ordinanza del  3
dicembre 2020, con la quale la Corte di cassazione  «si  e'  espressa
nel presente procedimento dichiarando  [...]  l'inammissibilita'  del
reclamo della Procura Generale  che  aveva  sostenuto  l'orientamento
contrario». 
    2.4. - Infine, il rimettente osserva che «l'odierna questione  di
legittimita' e' volta solo apparentemente a richiedere una  pronuncia
in malam partem [...] nei confronti dei condannati non collaboranti». 
    A suo giudizio, l'eliminazione «del  regime  differenziato  della
valutazione della pericolosita' ora legittimato dall'art.  4-bis  co.
1bis  o.p.»  avrebbe  l'effetto  di  restituire  al   magistrato   di
sorveglianza,  nei  confronti  di  tutti  i  condannati   per   reati
cosiddetti ostativi che intendano accedere al  permesso  premio,  «il
potere di effettuare  una  valutazione  omogenea  e  individualizzata
della pericolosita' del detenuto non  collaborante  (suo  malgrado  o
comunque renitente), con la possibilita' di indagare anche le ragioni
che hanno indotto lo stesso  a  scegliere  il  silenzio».  Il  regime
unitario, ancora,  «consentirebbe  una  valutazione  individualizzata
volta  anche  [a]  perimetrare  la  vigente  "probatio   diabolica"»,
richiesta ai fini della dimostrazione dell'assenza  del  pericolo  di
ripristino dei collegamenti con la criminalita' organizzata. 
    3.- Si e' costituito in giudizio M. C., il quale  preliminarmente
ha ribadito che la parte residua della pena in esecuzione riguarda il
reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, per il quale  il
Tribunale di sorveglianza di Venezia, con ordinanza del  19  febbraio
2020,  «ha   riconosciuto   l'ipotesi   della   c.d.   collaborazione
impossibile,  essendo  state  acclarate  tutte  le   circostanze   di
quell'episodio criminoso», con decisione «divenuta definitiva». 
    Dopo aver ripercorso  i  passaggi  essenziali  dell'ordinanza  di
rimessione, ha chiesto che le questioni  sollevate  siano  dichiarate
inammissibili o, comunque, non fondate. 
    Il rimettente, infatti, chiederebbe a questa Corte  «di  avallare
un  primo  indirizzo  assunto  dalla  Corte   di   cassazione   circa
l'interpretazione dell'art. 4-bis, comma 1-bis, o.p.  successivamente
alla pronuncia della sentenza n. 253 del 2019», e poi «superato dalla
stessa Cassazione penale». In particolare, «[s]otto le vesti  di  una
questione  di  legittimita'  costituzionale  appuntata  sul   diritto
vivente»,  il  giudice  a  quo  starebbe  cercando  un  avallo   alla
interpretazione dell'art. 4-bis ordin. penit. ritenuta preferibile. 
    Altra  eccezione  d'inammissibilita'  e'  proposta  in  relazione
all'asserito difetto di motivazione sulla rilevanza  della  questione
avente ad oggetto un petitum produttivo di effetti  penali  in  malam
partem: non sarebbero sufficientemente  esposte  le  ragioni  per  le
quali, il detenuto, pur avendo gia'  ottenuto,  successivamente  alla
sentenza n. 253  del  2019  di  questa  Corte,  l'accertamento  della
collaborazione  impossibile  proprio  ai   fini   dell'applicabilita'
dell'art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit.,  «potrebbe  vedere  tale
applicazione sostituita da una  norma  meno  favorevole,  trattandosi
(nel  caso  del  permesso-premio)  di  norme  penali   di   carattere
sostanziale, come riconosciuto da codesta Corte nella sentenza n.  32
del 2020». 
    Nel merito, osserva che «la diversita'  di  regole  valevoli  per
coloro che non collaborano  per  propria  scelta  e  coloro  che  non
collaborano  in  quanto  la  loro  collaborazione  e'  impossibile  o
irrilevante» sarebbe il portato  di  precedenti  pronunce  di  questa
Corte (e' citata la sentenza n. 68 del 1995). 
    In ogni caso, osserva ancora la parte costituita,  la  diversita'
di situazioni sarebbe «intimamente connessa alla presunzione  che  e'
alla base delle due  norme»,  in  quanto  «se  la  collaborazione  e'
naturalisticamente   e   giuridicamente   possibile,    la    mancata
collaborazione  e'  di  per  se'   sintomatica   di   una   possibile
pericolosita'  del  detenuto,  mentre  ove  tale  collaborazione  sia
impossibile essa non e' sintomatica di nulla»,  sicche'  fuori  luogo
sarebbe la considerazione del rimettente secondo cui «anche dietro il
silenzio del "collaboratore possibile" [recte: impossibile]  potrebbe
nascondersi  una  volonta'  di  non  collaborare».  Sarebbe   percio'
ragionevole la distinzione tra  le  due  situazioni,  mentre  sarebbe
«arbitraria la pretesa del giudice a quo di vederle assimilate». 
    La situazione non sarebbe affatto cambiata dopo  la  sentenza  n.
253 del 2019 di questa Corte, perche' essa non avrebbe  eliminato  la
presunzione di pericolosita' a carico di chi non ha  collaborato,  ma
si  sarebbe  limitata  a  trasformarla  da  presunzione  assoluta  in
presunzione relativa. Una tale  presunzione  manterrebbe  la  propria
ragionevolezza esclusivamente «ove la mancata collaborazione risponda
ad una reale possibilita' del detenuto e dunque  ad  una  sua  libera
determinazione»: solo in tale ipotesi il  condannato  disporrebbe  di
mezzi di prova limitati per dimostrare  l'assenza  di  pericolosita',
«giacche'  egli  ha  a  disposizione  la  "prova  regina",  cioe'  la
collaborazione attiva». 
    Per tale ragione la censura  di  violazione  dell'art.  3,  primo
comma, Cost. sarebbe non fondata. 
    Quanto alla questione incentrata sulla violazione  dell'art.  27,
terzo comma, Cost., la parte costituita osserva  che  la  valutazione
individualizzante della  magistratura  di  sorveglianza  non  sarebbe
affatto  impedita  dalla  disposizione  censurata,   rimanendo   anzi
doverosa anche  per  la  valutazione  dei  profili  di  pericolosita'
sociale ai fini della concessione dei permessi premio. 
    4.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  inammissibile  o,
comunque, non fondata. 
    Secondo l'Avvocatura, l'ordinanza  di  rimessione  solleciterebbe
«un'applicazione   delle   norme   contestate   in   malam   partem»,
prospettando, peraltro, una soluzione che «non appare obbligata». 
    Operata una ricostruzione  dell'evoluzione  del  «"doppio  regime
penitenziario"» introdotto  dall'art.  4-bis  ordin.  penit.,  e,  in
particolare,  della  disciplina   della   collaborazione   cosiddetta
impossibile, inesigibile o irrilevante di cui al  comma  1-bis  della
medesima disposizione, l'interveniente  illustra  anche  gli  effetti
della sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte,  rilevando  che  tale
pronuncia   «non   coinvolge    l'istituto    della    collaborazione
impossibile», cosi' come gia'  ritenuto  dal  diritto  vivente  della
Corte di cassazione. 
    A parere dell'Avvocatura, in ogni  caso,  il  rimettente  avrebbe
indebitamente sottovalutato che, per la concessione del beneficio del
permesso  premio,  devono  sussistere  le  ulteriori  condizioni   di
meritevolezza indicate dall'art.  30-ter  ordin.  penit.,  costituite
dalla   regolare   condotta   e   soprattutto   dall'assenza    della
pericolosita' sociale. 
    A giudizio  dell'interveniente,  dunque,  non  si  verificherebbe
affatto la prospettata «irragionevole limitazione per il  giudice  di
sorveglianza,   impossibilitato   ad   effettuare   una   valutazione
individualizzata  e  concreta   della   pericolosita'   del   singolo
condannato che non collabori con  la  giustizia»,  in  contrasto  con
l'art. 27, terzo comma, Cost. 
    5.- In  vista  dell'udienza  pubblica,  la  parte  costituita  in
giudizio  ha  depositato  memoria  illustrativa,  con  la  quale   ha
confermato gli argomenti esposti nell'atto di costituzione. 
    Ha in particolare ribadito che l'intervento sollecitato a  questa
Corte produrrebbe  sicuramente  effetti  in  malam  partem  nei  suoi
confronti, nulla valendo l'osservazione del  rimettente  secondo  cui
l'auspicato regime unitario produrrebbe invece effetti favorevoli per
altri soggetti  e,  in  particolare,  per  i  non  collaboranti  "per
scelta", come conseguenza dell'attenuazione del carattere attualmente
"diabolico" della probatio loro richiesta. In disparte l'opinabilita'
di tale valutazione, la parte rimarca  come  del  tutto  indimostrata
sarebbe l'affermazione che esclude il verso in malam partem - per  la
vicenda oggetto del giudizio principale - del risultato avuto di mira
dal rimettente. 
    M.  C.  ha,  poi,  rilevato  come  dalla  stessa   giurisprudenza
costituzionale in tema di collaborazione impossibile o inesigibile si
trarrebbe il principio della non assimilabilita' della posizione  dei
non collaboranti «per libera scelta» e di «coloro che non collaborano
perche' impossibilitati a farlo», sicche' equiparare  le  due  figure
nel senso richiesto dal giudice a quo  «significherebbe  reintrodurre
nell'ordinamento la disparita' di trattamento gia' espunta da codesta
Corte proprio in ragione del riconoscimento della  diversa  categoria
ontologica cui ricondurre le due  fattispecie  con  riguardo  a  tale
specifico profilo». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Magistrato  di  sorveglianza  di  Padova   solleva,   in
riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,  comma
1-bis, della legge 26 luglio 1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), nella parte in cui prevede che i permessi premio  di
cui  all'art.  30-ter  ordin.  penit.  possano  essere  concessi   ai
condannati «che abbiano  ottenuto  la  collaborazione  impossibile  e
inesigibile», ove sia  accertata  la  sola  assenza  di  collegamenti
attuali con la criminalita' organizzata. 
    Il rimettente e' chiamato a decidere sull'istanza di  concessione
di un permesso premio avanzata da un detenuto che  sta  espiando  una
pena inflitta per reati tutti contemplati dal comma 1 dell'art. 4-bis
ordin. penit. e, come tali, ostativi alla  concessione  dei  benefici
penitenziari e delle misure previste dalla medesima disposizione, ove
non sia prestata la collaborazione con la giustizia di  cui  all'art.
58-ter ordin. penit. 
    Una deroga a questo meccanismo  preclusivo,  rammenta  ancora  il
giudice a quo, e' prevista dal successivo comma 1-bis,  che  consente
la concessione  di  benefici  e  misure  nelle  ipotesi  in  cui  sia
accertata l'inesigibilita' (a causa della limitata partecipazione del
condannato al fatto criminoso) o l'impossibilita' (per l'accertamento
integrale dei fatti  conseguito  aliunde)  della  collaborazione:  in
questi casi, non sussistendo margini per un'utile cooperazione con la
giustizia, viene meno la preclusione assoluta stabilita dal comma  1,
purche' siano acquisiti elementi tali da  escludere  l'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata. 
    In questo contesto,  espone  il  rimettente,  e'  intervenuta  la
sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte,  la  quale,  pronunciandosi
sul  comma  1  dell'art.  4-bis  ordin.  penit.  limitatamente   alla
concessione dei permessi  premio,  ha  inciso  sulla  presunzione  di
pericolosita'  del  detenuto  non  collaborante,  trasformandola   da
assoluta in relativa.  Tuttavia,  la  sentenza  citata  ha  richiesto
l'esclusione  non  solo  dell'attualita'  di  collegamenti   con   la
criminalita' organizzata, ma anche del  pericolo  del  ripristino  di
tali collegamenti. 
    2.-  Cio'  premesso,  il   rimettente   ricorda   come,   secondo
l'interpretazione  affermatasi  (dopo  qualche  incertezza  iniziale)
nella giurisprudenza  di  legittimita',  tale  piu'  rigoroso  regime
probatorio non riguardi «le disposizioni in  tema  di  collaborazione
impossibile».  A  seguito  della  sentenza  n.  253  del   2019,   in
riferimento alla sola concessione del permesso premio,  si  sarebbero
infatti  delineati  due  distinti  «regimi   di   valutazione   della
pericolosita' dei condannati per reati ex art. 4 bis o.p.»  che  tale
beneficio richiedano: sono  soggetti  alla  regola  della  necessaria
acquisizione di elementi  tali  da  escludere,  sia  l'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata,  sia  il  pericolo  del
ripristino di tali collegamenti coloro che, pur  potendo  collaborare
utilmente con la giustizia, abbiano scelto di  serbare  il  silenzio;
mentre il magistrato di sorveglianza dovrebbe  limitarsi  a  valutare
«la sola sussistenza di rapporti attuali con il contesto  malavitoso»
in  riferimento  a  coloro  che   abbiano   ottenuto   l'accertamento
dell'impossibilita' o dell'inesigibilita' della collaborazione. 
    Proprio questa differenza di regime e' censurata dal  rimettente,
che ne ravvisa il contrasto con i parametri di cui agli artt. 3 e 27,
terzo comma, Cost. 
    Non condivide, infatti, il  giudice  a  quo  l'esistenza  di  una
«differenza ontologica» tra «la posizione di chi puo' collaborare  ma
soggettivamente non vuole (silente per sua scelta)» e quella «di  chi
vuole collaborare ma oggettivamente non puo' (silente suo malgrado)»:
a suo dire, l'accertamento  della  collaborazione  impossibile  nulla
esprimerebbe, ne' in merito all'atteggiamento soggettivo del  singolo
condannato (che, anzi, potrebbe  essere  del  tutto  coincidente  con
quello di chi, potendo collaborare, scelga di rimanere silente), ne',
piu' in generale, in ordine al profilo di pericolosita' concreta,  ad
esempio in rapporto al ruolo rivestito nella vicenda criminale. 
    Non sarebbe, di conseguenza, ragionevole la mancata  applicazione
del «meccanismo probatorio» disegnato dalla ricordata sentenza n. 253
del 2019 al «"collaboratore impossibile"», e in particolare a  quello
che continui a tenere «un atteggiamento non  penitente  e  che  abbia
rivestito nell'organizzazione criminale un ruolo apicale». 
    Inoltre, in lesione del «principio di  individualizzazione  della
fase esecutiva della pena (art. 27, co. 3, Cost.)», la differenza  di
regime impedirebbe di «effettuare una valutazione individualizzata  e
concreta della pericolosita'  del  singolo  condannato»,  parametrata
all'effettivo spessore criminale del singolo detenuto. 
    3.-  Va  innanzitutto  esaminata  l'eccezione  d'inammissibilita'
avanzata  dalla  parte  costituita  in  giudizio,  secondo   cui   il
rimettente  avrebbe  chiesto  a   questa   Corte   un   avallo   alla
interpretazione dell'art. 4-bis ordin. penit. ritenuta preferibile. 
    Tale eccezione non e' fondata. 
    Il rimettente muove dal corretto presupposto che, in seguito alla
sentenza n. 253 del  2019  di  questa  Corte,  la  giurisprudenza  di
legittimita' abbia ormai riconosciuto, in tema di accesso al permesso
premio, l'esistenza di un  "doppio  regime  probatorio"  riferito  ai
detenuti non collaboranti condannati per reati  cosiddetti  ostativi,
differenziato a seconda che la mancata collaborazione dipenda da  una
scelta consapevole oppure dalla impossibilita' o inesigibilita' della
cooperazione con la giustizia. 
    Proprio questa differenziazione costituisce oggetto delle censure
del rimettente, il quale la ritiene in contrasto con gli  artt.  3  e
27, terzo comma, Cost. 
    Al riguardo va ribadito  che,  in  presenza  di  un  orientamento
giurisprudenziale  consolidato  sulla  disposizione  che  censura  di
illegittimita' costituzionale, il giudice a quo  ha  la  facolta'  di
assumere tale interpretazione in termini di "diritto  vivente"  e  di
richiederne  il  controllo  di   compatibilita'   con   i   parametri
costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 180 del 2021), senza che gli
si possa addebitare di non aver seguito altra  interpretazione,  piu'
aderente  ai  parametri  stessi.  E'   infatti   possibile   invocare
l'intervento di questa Corte anche allorquando  il  rimettente  abbia
unicamente l'alternativa di adeguarsi ad un'interpretazione  che  non
condivide  o  assumere  una  pronuncia  in  contrasto,  probabilmente
destinata ad essere riformata (da ultimo, sentenza n. 1 del 2021). 
    4.- La parte e il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  hanno
inoltre eccepito l'inammissibilita' delle  questioni,  asserendo  che
esse sollecitano una pronuncia in malam partem, poiche' una  sentenza
di  accoglimento  determinerebbe,  a  carico  del  detenuto  cui  sia
riconosciuta  la  collaborazione  impossibile   o   inesigibile,   un
inasprimento  degli  oneri  dimostrativi  ai  fini  dell'accesso   al
permesso premio. 
    4.1.- La decisione  su  tale  eccezione  richiede  una  sintetica
ricostruzione della disciplina,  quale  risultante,  in  particolare,
dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte. 
    Prima di quest'ultima pronuncia, il sistema  disegnato  dall'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. in relazione  a  reati  particolarmente
gravi - cosiddetti "di prima fascia" - condizionava l'accesso a tutti
i benefici e alle misure ivi elencate - compreso il permesso premio -
all'utile collaborazione con la giustizia ai sensi  dell'art.  58-ter
ordin. penit.,  assunta  come  unica  condotta  idonea  a  dimostrare
l'intervenuta  rescissione  dei  collegamenti  del  detenuto  con  la
criminalita' organizzata. 
    Con la sentenza citata, in relazione al solo permesso premio,  la
disciplina muta sensibilmente. 
    L'art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.  viene  infatti  dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, ai
detenuti per i delitti ricordati, possa essere concesso il  beneficio
in questione,  anche  in  assenza  di  utile  collaborazione  con  la
giustizia,  allorche'  siano  stati  acquisiti   elementi   tali   da
escludere, sia  l'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del  ripristino
di tali collegamenti. 
    La ragione essenziale della  pronuncia  di  accoglimento  risiede
nella natura della presunzione contenuta nell'art.  4-bis,  comma  1,
ordin. penit. La mancata collaborazione del detenuto con la giustizia
evidenzia che i suoi collegamenti con l'organizzazione criminale sono
mantenuti ed attuali. Da cio', la  sua  permanente  pericolosita',  e
quindi  l'impossibilita'  di  accedere   ai   benefici   penitenziari
normalmente disponibili  agli  altri  detenuti.  Nella  logica  della
disposizione, la presunzione dell'attualita'  dei  suoi  collegamenti
con la criminalita' organizzata e' assoluta, nel senso che  non  puo'
essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa. 
    Questa conclusione, in  relazione  al  permesso  premio,  non  e'
tuttavia consentita dagli  artt.  3  e  27,  terzo  comma,  Cost.  La
sentenza stabilisce, infatti, che «[n]on e'  la  presunzione  in  se'
stessa a risultare costituzionalmente illegittima», quanto,  appunto,
il suo carattere assoluto: da un lato, non e' irragionevole presumere
che il condannato che  non  collabora  mantenga  vivi  i  legami  con
l'organizzazione criminale di originaria appartenenza, dall'altro,  i
parametri costituzionali ricordati esigono che tale  presunzione  sia
relativa e, quindi, possa essere vinta da prova contraria. 
    Cio' che maggiormente  rileva,  ai  fini  della  decisione  delle
questioni all'odierno esame, e' peraltro  il  contenuto  degli  oneri
dimostrativi, indicati dalla  sentenza  n.  253  del  2019,  utili  a
superare la presunzione. 
    La  peculiare  natura  dei  reati  di  criminalita'  organizzata,
nonche'  la  ribadita  non  irragionevolezza  della  presunzione   di
pericolosita', purche' non assoluta, dei detenuti che decidono di non
collaborare con la giustizia, inducono infatti la sentenza  ricordata
a ricavare dal sistema costituzionale e legislativo la necessita'  di
uno  specifico  canone  probatorio  -  governato   da   «criteri   di
particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto  dal
sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo» -  per
la concessione, ai detenuti in questione, del permesso premio. 
    La sentenza in esame fa  cosi'  riferimento  all'acquisizione  di
«congrui e specifici elementi», sul  modello  del  «regime  di  prova
rafforzata» (sentenza n. 68 del  1995)  richiesto,  ai  detenuti  per
reati  di  criminalita'  organizzata,  per  l'accesso   ai   benefici
penitenziari   prima   dell'introduzione    del    requisito    della
collaborazione con  la  giustizia:  un  regime,  appunto,  incentrato
sull'acquisizione di  elementi  tali  da  escludere  l'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata. 
    Si tratta della stessa disciplina che  testualmente  permane  nel
comma  1-bis  dell'art.  4-bis  ordin.  penit.  con  riferimento   al
differente  caso  della  collaborazione  impossibile  o   inesigibile
(accanto all'ipotesi di quella «oggettivamente irrilevante»). 
    Tuttavia,  per  ragioni  di  necessita'  costituzionale  ispirate
all'interesse alla prevenzione della commissione di nuovi  reati,  la
disciplina viene resa vieppiu' stringente proprio per i detenuti  che
abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile. 
    Cosi',   il   «regime   probatorio    rafforzato»    e'    esteso
«all'acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di
collegamenti con la criminalita' organizzata, ma altresi' il pericolo
di un  loro  ripristino,  tenuto  conto  delle  concrete  circostanze
personali e ambientali». 
    Infine, «l'onere di fare specifica allegazione» di entrambi  tali
elementi - esclusione sia  dell'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata che del pericolo di un  loro  rispristino  -
viene  fatto  gravare  sullo  stesso  condannato  che   richiede   il
beneficio. 
    Come  si  vede,  la  disciplina  applicabile  al   detenuto   non
collaborante per sua scelta diverge da quella che governa i  casi  di
collaborazione impossibile o inesigibile. 
    Dal confronto tra le posizioni delle due figure di  detenuti  non
collaboranti disciplinate dai commi 1 e 1-bis dell'art. 4-bis  ordin.
penit.,  la  giurisprudenza  di  legittimita'  ha  cosi'  tratto   la
conclusione  dell'esistenza  di  un  doppio  regime  probatorio:  nei
confronti   di   coloro   che   si   siano   trovati   nell'accertata
impossibilita' di collaborare -  o  per  i  quali  la  collaborazione
risulti, comunque, inesigibile - e'  sufficiente  acquisire  elementi
che escludano  l'attualita'  dei  collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata; per coloro i quali abbiano scelto di  non  prestare  una
collaborazione ancora possibile ed esigibile  e'  invece  necessaria,
sempre al fine di superare il meccanismo ostativo, l'acquisizione  di
ulteriori elementi, oggetto di onere di specifica allegazione e  tali
da  escludere  anche  il  pericolo   di   ripristino   dei   suddetti
collegamenti. 
    4.2.- Cosi' sinteticamente  ricostruita  la  disciplina,  non  e'
dubbio che l'intervento richiesto  a  questa  Corte  renderebbe  piu'
gravosa la  posizione  del  condannato  che  richieda  (o  che  abbia
addirittura  gia'  ottenuto)  l'accertamento  dell'impossibilita'   o
inesigibilita' della collaborazione. Sarebbe a  quest'ultimo  esteso,
infatti, lo standard probatorio introdotto dalla sentenza n. 253  del
2019, piu' rigoroso in punto di oneri di allegazione nonche' riguardo
ai temi di prova da approfondire per superare il meccanismo ostativo. 
    Tuttavia,   non   e'    fondata    la    conseguente    eccezione
d'inammissibilita' delle questioni sollevata dalla parte costituita e
dall'interveniente. 
    Essa, infatti, presuppone la natura sostanziale della  disciplina
censurata, con applicazione delle garanzie  apprestate  dall'art.  25
Cost., tra cui, in primo luogo, quella della  riserva  di  legge.  Se
tale assunto fosse corretto, si ricadrebbe in un  ambito  in  cui  e'
inibito «alla Corte costituzionale sia di  creare  nuove  fattispecie
criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di
incidere in peius sulla  risposta  punitiva  o  su  aspetti  comunque
attinenti alla punibilita' (di recente, ex multis, sentenza n. 37 del
2019; ordinanze n. 219 del 2020, n. 282 e  n.  59  del  2019),  salve
specifiche eccezioni, che assicurano la dovuta ampiezza del controllo
di  legittimita'  costituzionale,  ma  non  vulnerano  il   principio
costituzionale della riserva di legge (tra le piu' recenti,  sentenze
n. 189 e n. 155 del 2019)» (sentenza n. 17 del 2021). 
    Ben vero che le piu' recenti pronunce di questa  Corte  (sentenze
n. 17 del 2021 e n. 32 del 2020)  hanno  operato  una  revisione  dei
rapporti tra i principi stabiliti  nel  secondo  comma  dell'art.  25
Cost. e la disciplina delle  misure  concernenti  l'esecuzione  delle
pene detentive. 
    Tuttavia, nelle sentenze appena ricordate, si e' escluso  che  il
divieto di applicazione retroattiva concerna anche  i  meri  benefici
penitenziari, quali appunto i permessi premio, sicche' non sarebbe in
principio inibito a questa Corte provvedere nel senso  auspicato  dal
rimettente,  ove  fossero  fondate  le  questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate. 
    5.- Sempre  in  via  preliminare,  deve  invece  essere  rilevata
l'inammissibilita' della questione sollevata in riferimento  all'art.
27, terzo comma, Cost. 
    A  parere  del  rimettente,  solo  l'eliminazione   «del   regime
differenziato della valutazione della pericolosita'  ora  legittimato
dall'art. 4-bis co. 1 bis o.p.» avrebbe l'effetto  di  restituire  al
magistrato di sorveglianza, nei confronti di tutti i  condannati  per
reati cosiddetti ostativi che intendano accedere al permesso  premio,
«il potere  di  effettuare  una  valutazione  individualizzata  della
personalita',  e  quindi  anche  della  pericolosita',  del   singolo
detenuto istante», con la possibilita' «di indagare anche le  ragioni
che hanno indotto lo stesso a scegliere il silenzio». 
    La  motivazione  della  censura  risulta,  tuttavia,  oscura   ed
apodittica, oltre che intrinsecamente contraddittoria. 
    Da un lato, il giudice a quo  non  spiega  adeguatamente  perche'
l'auspicata valutazione individualizzata,  in  caso  di  accertamento
dell'impossibilita' o inesigibilita' della collaborazione,  sia  oggi
preclusa, alla luce dei margini di valutazione concessi al magistrato
di sorveglianza nel giudizio sulla meritevolezza del  beneficio:  una
valutazione che, in base al tenore testuale dell'art.  30-ter  ordin.
penit.,  riguarda  anche  e  proprio  la  pericolosita'  sociale  del
richiedente. 
    Dall'altro lato, il rimettente individua  il  vulnus  che  questa
Corte dovrebbe rimuovere nell'impossibilita' «di  indagare  anche  le
ragioni che  hanno  indotto  lo  stesso  [detenuto]  a  scegliere  il
silenzio».  In  tal  modo,  pero',  e'  illustrata   una   condizione
riferibile solo a colui che abbia liberamente esercitato la  facolta'
di non collaborare, pur potendolo fare; mentre e' evidente  che,  una
volta accertata l'impossibilita' (o l'inesigibilita')  di  una  utile
condotta  collaborativa,  nessuna  diversa  opzione   risulta   nella
disponibilita' del detenuto. 
    6.- Nel merito, non e' fondata la  questione  residua,  sollevata
per asserita violazione dell'art. 3 Cost. 
    Il  giudice   rimettente   sostiene   che   sarebbe   del   tutto
irragionevole  la  mancata  previsione  di  «un   regime   probatorio
unitario» che accomuni  le  figure  del  detenuto  non  collaborante,
rispettivamente, "per scelta" o perche'  a  tanto  "impossibilitato",
dal momento che il loro «atteggiamento  soggettivo»  potrebbe  essere
identico,  nel  senso  che  «anche   chi   si   vede   accertata   la
collaborazione  impossibile  puo'  non  voler  collaborare».  Per  il
giudice a quo, anzi, in una situazione come  quella  ipotizzata,  una
valutazione in concreto potrebbe  rivelare  «addirittura  una  minore
pericolosita'» di colui che abbia scelto di serbare il silenzio  solo
«perche' mosso dai timori per la propria e l'altrui incolumita'». 
    Per quanto tale congettura possa trovare riscontro nella realta',
da essa non puo' trarsi la conseguenza asserita dal rimettente, cioe'
che  la  parificazione  delle  due  situazioni  messe   a   confronto
costituisca un imperativo costituzionale. 
    Nella sentenza n. 253 del 2019 questa Corte ha rilevato come,  in
mancanza di  collaborazione  con  la  giustizia,  la  presunzione  di
pericolosita'  per  mancata  rescissione  dei  collegamenti  con   la
criminalita' organizzata si  basa  su  precisi  dati  di  esperienza,
riassunti   nella   formula   dell'id   quod    plerumque    accidit:
l'appartenenza  ad  una  associazione  di  stampo  mafioso,  infatti,
«implica un'adesione stabile ad  un  sodalizio  criminoso,  di  norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta  rete
di collegamenti personali, dotato di particolare forza  intimidatrice
e capace di protrarsi nel tempo». 
    Tali  dati  di  esperienza  fanno  ritenere   non   irragionevole
presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i  legami
con l'organizzazione criminale di originaria  appartenenza,  purche',
come si e' gia'  precisato,  si  preveda  che  tale  presunzione  sia
relativa e non gia' assoluta e quindi possa  essere  vinta  da  prova
contraria. 
    Del resto, la valutazione in concreto  degli  elementi  idonei  a
superare  la  presunzione  dell'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata deve rispondere, in generale, a criteri  «di
particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto  dal
sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo». 
    E'  del  tutto  evidente,  tuttavia,  che  il  peso  degli  oneri
dimostrativi da addossare al richiedente il permesso premio non  puo'
decisivamente basarsi  sul  suo  atteggiamento  soggettivo,  ma  deve
dipendere dalla situazione oggettiva all'esame della magistratura  di
sorveglianza. E' infatti a  tale  situazione  che  l'ordinamento  non
irragionevolmente e' ancorato per stabilirne la forza  presuntiva  e,
conseguentemente, per definire  il  regime  probatorio  necessario  a
superare quest'ultima. 
    Sotto  questo  aspetto,   la   situazione   in   parola   risulta
apprezzabilmente diversa nei  due  casi  posti  in  comparazione  dal
rimettente: nel primo, la valutazione giudiziale deve tenere conto di
una  collaborazione  oggettivamente  ancora  possibile,   che   viene
tuttavia rifiutata. Nel secondo,  il  punto  di  partenza  dell'esame
giudiziale  e'  costituito  da  una   collaborazione   oggettivamente
impossibile o inesigibile. 
    La  differenza  e'  colta  dalla  prevalente  giurisprudenza   di
legittimita', ormai stabilizzata in termini di diritto  vivente,  che
ne ha coerentemente tratto conseguenze in ordine ai diversi  standard
probatori da soddisfare per vincere la presunzione di  pericolosita',
oggi relativa, per la concessione del permesso premio. 
    E cosi', nei  confronti  del  detenuto  che,  pur  essendo  nelle
condizioni di farlo, scelga di non prestare  un'utile  collaborazione
con la giustizia, si giustifica, rispetto a colui che abbia  ottenuto
l'accertamento    dell'impossibilita'    o    inesigibilita'    della
collaborazione, «uno svantaggio sul terreno degli oneri dimostrativi»
(Corte di cassazione, sezione prima  penale,  sentenza  10  settembre
2021, n. 33743). 
    Tra le due categorie di detenuti che le questioni  sollevate  dal
rimettente impongono di confrontare emerge, infatti, una  «differenza
ontologica» (cosi', tra le tante, Corte di cassazione, sezione  prima
penale, sentenze 17 giugno 2021, n. 23862, n. 23859 e  n.  23858;  21
gennaio 2021, n. 2593; 6 novembre 2020,  n.  31025  e  n.  31017;  21
ottobre 2020, n. 29151; 23 marzo 2020, n. 10551; 12 febbraio 2020, n.
5553), che conduce a distinguere «la posizione di chi "oggettivamente
puo', ma soggettivamente non vuole"  (silente  per  sua  scelta),  da
quella di chi "soggettivamente vuole,  ma  oggettivamente  non  puo'"
(silente suo malgrado)» (in termini,  Corte  di  cassazione,  sezione
quinta penale, sentenza 21 dicembre 2020, n. 36887). 
    A ben vedere, la scelta di serbare il  silenzio,  nonostante  una
perdurante possibilita' di collaborare, produce, come conseguenza  di
fatto, un effetto di favore per la consorteria  criminale,  cio'  che
giustifica una regola "probatoria" di maggiore rigore  rispetto  allo
standard minimo - l'esclusione dell'attualita' dei  collegamenti  con
la criminalita' organizzata - imposto, ai fini  del  superamento  del
regime ostativo, dai dati  di  esperienza  che  accomunano  tutte  le
figure di detenuti non collaboranti. 
    Il carattere volontario della scelta di non collaborare, infatti,
costituisce - secondo l'id quod plerumque accidit  -  un  sintomo  di
allarme, tale da esigere un regime  rafforzato  di  verifica,  esteso
all'acquisizione anche di elementi  (la  cui  allegazione  spetta  al
richiedente) idonei  ad  escludere  il  pericolo  del  ripristino  di
collegamenti con la criminalita' organizzata, e in mancanza dei quali
la decisione sull'istanza  di  concessione  del  permesso  premio  si
arresta gia' sulla soglia dell'ammissibilita'. 
    Quando invece la  collaborazione  non  potrebbe  comunque  essere
prestata,   la   giurisprudenza   di   legittimita'    ritiene    che
l'atteggiamento del detenuto assume un significato del tutto  neutro,
cio' che consente di circoscrivere il tema di prova  -  ai  fini  del
superamento del regime ostativo - all'esclusione  di  attualita'  dei
collegamenti. 
    Questa differenziazione non  appare  irragionevole,  e  tanto  e'
sufficiente per rigettare la  questione,  senza  dimenticare  che  la
previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o  inesigibile
scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n.  68  del
1995, n. 357 del 1994 e n.  306  del  1993),  tese  appunto  -  nella
vigenza di un  regime  basato,  senza  eccezioni,  sulla  presunzione
assoluta di pericolosita' del non collaborante - a  distinguere,  con
disposizioni di minor  rigore,  la  posizione  del  detenuto  cui  la
mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile. 
    Tutto questo non significa, naturalmente, che le motivazioni e le
convinzioni soggettive di tutti  i  detenuti  non  collaboranti  (per
scelta o  per  impossibilita'),  su  cui  il  giudice  rimettente  ha
appuntato  larga  parte  della  sua  attenzione,  siano  irrilevanti.
Tuttavia, come gia' accennato,  la  loro  valutazione  potra'  sempre
avvenire, ed essere opportunamente valorizzata, nella fase dell'esame
concernente la valutazione della "meritevolezza" del permesso  premio
richiesto.