ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 30, comma
1, lettera g), numero 1),  della  legge  30  dicembre  1991,  n.  413
(Disposizioni per ampliare le basi  imponibili,  per  razionalizzare,
facilitare e potenziare l'attivita' di accertamento; disposizioni per
la  rivalutazione  obbligatoria  dei  beni  immobili  delle  imprese,
nonche' per riformare il contenzioso e per la  definizione  agevolata
dei  rapporti  tributari  pendenti;  delega   al   Presidente   della
Repubblica per  la  concessione  di  amnistia  per  reati  tributari;
istituzioni dei centri di assistenza fiscale e  del  conto  fiscale),
32, comma 3, e 33 del decreto legislativo 31 dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413),
promosso dalla Commissione tributaria  provinciale  di  Catania,  nel
procedimento vertente tra S. L.R.  e  Riscossione  Sicilia  spa,  con
ordinanza del 7 gennaio 2021, iscritta  al  numero  56  del  registro
ordinanze  del  2021,  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale   della
Repubblica numero 19, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 26 gennaio  2022  il  Giudice
relatore Maria Rosaria San Giorgio; 
    deliberato nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 7 gennaio 2021, iscritta al numero  56  del
registro ordinanze 2021, la  Commissione  tributaria  provinciale  di
Catania ha sollevato questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1),  della  legge  30  dicembre
1991, n. 413 (Disposizioni  per  ampliare  le  basi  imponibili,  per
razionalizzare, facilitare e potenziare l'attivita' di  accertamento;
disposizioni per la  rivalutazione  obbligatoria  dei  beni  immobili
delle  imprese,  nonche'  per  riformare  il  contenzioso  e  per  la
definizione agevolata dei  rapporti  tributari  pendenti;  delega  al
Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per  reati
tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e  del  conto
fiscale), 32, comma 3 (in realta' non menzionato espressamente  nella
motivazione dell'ordinanza, ma riportato nel dispositivo), e  33  del
decreto legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul
processo tributario in attuazione della delega al  Governo  contenuta
nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), denunziandone  il
contrasto con gli artt. 101, 111 e 136 della Costituzione. 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito del  ricorso
in opposizione a cartella  di  pagamento  proposto  da  S.  L.R.  nei
confronti di Riscossione Sicilia spa ed  evidenzia  che,  non  avendo
nessuna delle parti costituite richiesto la discussione  in  pubblica
udienza, la necessita' di applicare l'art. 33, comma 1, del d.lgs. n.
546 del 1992, secondo il quale  «[l]a  controversia  e'  trattata  in
camera di consiglio salvo  che  almeno  una  delle  parti  non  abbia
chiesto la discussione in pubblica udienza, con apposita  istanza  da
depositare nella segreteria e notificare alle altre parti  costituite
entro il  termine  di  cui  all'art.  32,  comma  2»,  fonderebbe  la
rilevanza delle questioni. 
    1.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
ricorda che, nel vigore della previgente disciplina  del  contenzioso
tributario,   questa    Corte    ha    dichiarato    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 39, primo comma, del decreto del  Presidente
della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della  disciplina
del  contenzioso  tributario),   nella   parte   in   cui   escludeva
l'applicabilita'  ai  giudizi  che   si   svolgevano   dinanzi   alle
commissioni tributarie di primo e secondo  grado  dell'art.  128  del
codice di procedura civile e, quindi, del  principio  di  pubblicita'
dell'udienza ivi enunciato (sentenza n. 50 del 1989). 
    1.2.1.- Ad avviso del giudice a quo,  l'art.  33,  comma  1,  del
d.lgs. 546 del 1992, rimettendo, in attuazione della  delega  di  cui
all'art. 30, lettera g), numero 1), della legge n. 413 del 1991, alla
valutazione discrezionale delle parti costituite  la  trattazione  in
forma pubblica  delle  controversie  tributarie,  contrasterebbe  con
l'assunto, espresso dalla pronuncia anzidetta, secondo  il  quale  la
regola della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari -  da  ritenersi
implicita nel precetto costituzionale espresso dall'art.  101,  primo
comma, Cost., per il quale la giurisdizione  trova  fondamento  sulla
sovranita' popolare - puo' subire eccezioni soltanto in  relazione  a
particolari procedimenti e in presenza di  un'obiettiva  e  razionale
giustificazione. 
    Tali  condizioni  non  sarebbero,  infatti,  ravvisabili  in   un
processo,  come  quello  tributario,  governato  dal   principio   di
trasparenza dell'imposizione fiscale enunciato  dall'art.  53  Cost.,
nonche' dai principi di universalita' e di uguaglianza, in forza  dei
quali «la posizione del contribuente non e' esclusivamente  personale
e non e' tutelabile con il segreto», giacche' la generale  conoscenza
«puo' giovare alla  concreta  attuazione  del  sistema  tributario  e
concorre a ridurre il numero degli inadempimenti e degli  evasori  in
genere» (e' citata la sentenza di questa Corte n. 12 del 1971). 
    Pertanto,  argomenta  la  Commissione  rimettente,  non   essendo
configurabile un potere dispositivo delle parti in ordine alla scelta
del  rito,  sarebbe  palese  l'illegittimita'  costituzionale   della
normativa in scrutinio, nella parte in cui affida alle  stesse  parti
la scelta della forma, pubblica o camerale, della  trattazione  della
controversia. Ne'  il  valore  di  rango  costituzionale  sotteso  al
principio della pubblicita' delle udienze potrebbe  essere  posto  in
bilanciamento con un interesse, come quello all'economia  processuale
perseguito dalla normativa in scrutinio, privo di eguale rilevanza. 
    1.3.- Sarebbe, altresi', violato l'art. 111 Cost. 
    1.3.1.- Il giudice a quo, muovendo dal presupposto che  «la  piu'
ampia tutela giurisdizionale» si attui attraverso la  discussione  in
pubblica udienza, lamenta che le norme in scrutinio, nel condizionare
la  «completezza»  del  contraddittorio   nel   processo   tributario
all'esercizio  di  una  facolta'  che   postula   la   disponibilita'
dell'interesse in contesa, di cui la parte  pubblica  sarebbe  priva,
arrecherebbero un vulnus alla piena realizzazione del giusto processo
regolato dalla legge. 
    1.3.2.- Tale principio costituzionale risulterebbe violato  anche
nella declinazione oggettiva di garanzia della  partecipazione  delle
parti al giudizio. 
    Precisa, al riguardo, l'ordinanza di rimessione che «nella logica
del giusto processo e' altresi' ravvisabile un profilo oggettivo,  in
quanto la partecipazione delle parti e la dialettica  che  ne  deriva
caratterizzano la giurisdizione e sono fondamentali per  l'attuazione
della legge da parte del giudice terzo. Di  qui  l'esigenza  che  sia
prevista  la  piu'  ampia  partecipazione   delle   parti   ai   fini
dell'integrale  attuazione  del  principio  costituzionale,   essendo
l'attivita' delle parti connaturata al processo  e  potendo  solo  la
disponibilita' del diritto [...] consentire  alle  parti  private  di
rimettersi in tutto o in parte alla decisione del giudice». 
    1.4.- In ultimo, secondo il rimettente, l'art. 33, comma  1,  del
d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, in assenza della richiesta  della
pubblica udienza, la trattazione della causa in camera di  consiglio,
si porrebbe in contrasto con l'art. 136  Cost.,  essendo  stata  gia'
dichiarata  costituzionalmente  illegittima  una  norma  -   espressa
dall'art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 636 del 1972 - che escludeva
l'applicabilita' al processo tributario  del  principio  generale  di
pubblicita' dell'udienza di cui all'art. 128 cod. proc. civ. 
    1.4.1.- Ricorda, a tal fine, il giudice a quo che nella  sentenza
n. 57 del 2019 questa Corte ha ribadito come  sulla  norma  contenuta
nell'art. 136 Cost. poggi «il contenuto pratico di tutto  il  sistema
delle garanzie costituzionali, in quanto essa  toglie  immediatamente
ogni  efficacia  alla  norma  illegittima»,  senza  possibilita'   di
«compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione». 
    In  aggiunta,  il  rimettente  rammenta  che  la   giurisprudenza
costituzionale ha anche affermato che la  preclusione  del  giudicato
opera nei confronti del legislatore e riguarda ogni disposizione  che
intenda mantenere in piedi o ripristinare, sia  pure  indirettamente,
gli effetti della struttura normativa che aveva formato oggetto della
pronuncia di illegittimita' costituzionale (viene citata la  sentenza
n. 72 del 2013), ovvero che ripristini o preservi l'efficacia di  una
norma gia' dichiarata incostituzionale (sono richiamate  le  sentenze
n. 5 del 2017 e n. 350 del 2010). 
    Il giudicato costituzionale sarebbe,  quindi,  violato  non  solo
quando il legislatore  emana  una  norma  che  costituisca  una  mera
riproduzione   di   quella   gia'    dichiarata    costituzionalmente
illegittima, ma anche nel caso in cui la nuova  disciplina  persegua,
anche indirettamente,  esiti  corrispondenti  (sono  citate,  tra  le
altre, ancora, le sentenze n. 5 del 2017, n. 72 del 2013 e n. 245 del
2012). 
    1.5.-  L'ablazione  delle  norme  in   scrutinio,   conclude   la
Commissione tributaria provinciale di Catania, avrebbe  come  effetto
l'estensione a tutti i processi tributari dell'art. 34 del d.lgs.  n.
546 del 1992 - recante la disciplina della  trattazione  in  pubblica
udienza - il cui contenuto precettivo, divenendo identico a quello di
cui al combinato disposto degli artt.  20  e  39,  primo  comma,  del
d.P.R. n. 636 del 1972, come modificato a seguito della  sentenza  n.
50 del 1989, risulterebbe conforme all'art. 101 Cost. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  concludendo  per  la  dichiarazione  di  inammissibilita'  e,
comunque, di non fondatezza delle questioni sollevate. 
    2.1.- Ad avviso della difesa statale, le doglianze del rimettente
sarebbero manifestamente infondate in quanto non considererebbero che
la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  33,  comma  1,
del  d.lgs.  n.  546  del  1992,  in  riferimento  al  principio   di
pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, e' stata gia'  scrutinata  e
dichiarata non fondata con la sentenza n. 141 del 1998, con la  quale
la Corte ha precisato che,  nell'assetto  normativo  disegnato  dalla
riforma del processo tributario del 1992, le forme di trattazione  in
pubblica udienza e in camera di consiglio coesistono in  rapporto  di
alternativita', e che, comunque, il rito camerale non puo' ritenersi,
in quanto tale, illegittimo,  dovendo,  per  contro,  valutarsene  la
rispondenza alla natura del processo  al  quale  e'  applicato  e  ad
obiettive ragioni giustificatrici. 
    2.2.- A sostegno della non fondatezza delle  questioni  sollevate
con riferimento agli artt. 101 e  111  Cost.,  l'Avvocatura  generale
dello   Stato   evoca,   comunque,   la    costante    giurisprudenza
costituzionale secondo la quale il  rito  camerale  non  si  pone  in
contrasto  con  il  diritto  di  difesa,   essendo   l'esercizio   di
quest'ultimo variamente configurabile dalla  legge  a  seconda  delle
peculiari esigenze dei vari processi (vengono citate, tra  le  altre,
la sentenza n. 103 del 1985 e l'ordinanza n. 748 del 1988). 
    Inoltre, la trattazione in camera di consiglio assicurerebbe  una
rapida definizione dei giudizi, in ossequio alla garanzia del  giusto
processo  prefigurata  dall'art.   6   della   Convenzione   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    In aggiunta, nel rito tributario il controllo  popolare  sarebbe,
comunque, assicurato dalla  pubblicita'  degli  atti  depositati  nel
fascicolo; dall'ammissione  delle  parti  ad  esporre  le  rispettive
ragioni oralmente, di  persona  o  con  l'assistenza  tecnica  di  un
difensore (viene citata la sentenza di questa Corte n. 151 del 1971);
dal controllo delle parti medesime sulle fasi del  procedimento;  dal
contenuto della decisione, che deve essere motivata in conformita' al
canone  di  congruita'  argomentativa  e  resa  pubblica  e,  dunque,
sottoposta al successivo controllo di opinione. 
    2.3.- Quanto alla censura con la quale si prospetta la violazione
dell'art. 136 Cost.,  l'Avvocatura  generale  ritiene  che  l'attuale
disciplina non  si  ponga  in  contrasto  con  la  statuizione  della
sentenza n. 50 del 1989, in  quanto,  a  differenza  della  normativa
previgente, non espunge la pubblica udienza dal processo  tributario,
ma  la  contempla,  sia  pure  quale  forma  di   trattazione   della
controversia alternativa a quella camerale. 
    2.4.- In data 4 gennaio 2022  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri ha  depositato  una  memoria  con  cui  ha  insistito  nelle
rassegnate  conclusioni,  ribadendo  le   argomentazioni   svolte   e
rilevando che anche per la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  il
principio di  pubblicita'  delle  procedure  giudiziarie,  consacrato
nell'art. 6 CEDU, non ha carattere assoluto e comunque non si applica
al processo tributario, nel quale, salva l'ipotesi in cui il giudizio
abbia ad oggetto anche  l'applicazione  di  sanzioni  amministrative,
l'obbligazione fiscale,  per  il  suo  carattere  pubblicistico,  non
costituisce una fonte di «diritti e doveri di carattere civile»,  per
i quali la norma convenzionale impone l'osservanza delle garanzie del
giusto processo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Commissione  tributaria  provinciale  di  Catania  solleva
questioni di legittimita' costituzionale degli  artt.  30,  comma  1,
lettera  g),  numero  1),  della  legge  30  dicembre  1991,  n.  413
(Disposizioni per ampliare le basi  imponibili,  per  razionalizzare,
facilitare e potenziare l'attivita' di accertamento; disposizioni per
la  rivalutazione  obbligatoria  dei  beni  immobili  delle  imprese,
nonche' per riformare il contenzioso e per la  definizione  agevolata
dei  rapporti  tributari  pendenti;  delega   al   Presidente   della
Repubblica per  la  concessione  di  amnistia  per  reati  tributari;
istituzioni dei centri di assistenza fiscale e  del  conto  fiscale),
32, comma 3, e 33 del decreto legislativo 31 dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413),
denunziandone il contrasto  con  gli  artt.  101,  111  e  136  della
Costituzione. 
    1.1.- Ad avviso del giudice a  quo,  le  disposizioni  censurate,
rimettendo    alla    valutazione    discrezionale    delle     parti
l'individuazione della forma della trattazione nei processi tributari
di primo e di  secondo  grado,  violerebbero  l'art.  101  Cost.,  in
quanto, in tali controversie, la regola  generale  della  pubblicita'
dei dibattimenti giudiziari - la  quale  e'  implicita  nel  precetto
costituzionale che  fonda  l'amministrazione  della  giustizia  sulla
sovranita' popolare - non potrebbe essere derogata dalla volonta' dei
litiganti, stante il carattere indisponibile  della  pretesa  fiscale
dedotta in giudizio. 
    Ne', a giudizio del Collegio  rimettente,  l'interesse  di  rango
costituzionale sotteso al principio della pubblicita'  delle  udienze
potrebbe essere posto  in  bilanciamento  con  una  finalita',  quale
quella  di  economia  processuale  perseguita  dalla   normativa   in
scrutinio, priva di eguale rilevanza. 
    1.2.- Con la seconda questione e' prospettato un vulnus  all'art.
111 Cost. 
    1.2.1.- Il giudice a quo, muovendo dal presupposto che  «la  piu'
ampia tutela giurisdizionale» si attui attraverso la  discussione  in
pubblica udienza, lamenta che le norme in scrutinio, nel condizionare
la  «completezza»  del  contraddittorio   nel   processo   tributario
all'esercizio  di  una  facolta'  che  presuppone  la  disponibilita'
dell'interesse  in  contesa,  di  cui  la  parte  pubblica   sarebbe,
tuttavia, priva, arrecherebbero un vulnus  alla  piena  realizzazione
del giusto processo regolato dalla legge. 
    1.2.2.- Tale principio costituzionale risulterebbe violato  anche
nella declinazione oggettiva di garanzia della  partecipazione  delle
parti, quale «attivita' connaturata al processo» e fondamentale  «per
l'attuazione della legge da parte del giudice terzo». 
    1.3.- E', infine, denunciata la violazione dell'art. 136 Cost. 
    Secondo il rimettente, l'art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546  del
1992, prevedendo, in assenza della richiesta della pubblica  udienza,
la trattazione della causa in camera di  consiglio,  si  porrebbe  in
contrasto  con  l'art.  136  Cost.,  essendo  stata  gia'  dichiarata
costituzionalmente illegittima una norma  -  espressa  dall'art.  39,
primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica  26  ottobre
1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso  tributario)
- che escludeva l'applicabilita' al processo tributario del principio
generale di pubblicita' dell'udienza di cui all'art. 128  del  codice
di procedura civile. 
    2.- Alla disamina del merito delle questioni conviene  premettere
la ricostruzione del  quadro  normativo  in  cui  si  inseriscono  le
disposizioni censurate. 
    2.1.- L'art. 33, comma  1,  del  d.lgs.  n.  546  del  1992,  nel
prescrivere che la trattazione della controversia tributaria  avvenga
in camera di consiglio, e, quindi in modo non  pubblico  e  senza  la
presenza delle parti e dei difensori, salvo  che  «almeno  una  delle
parti non abbia chiesto  la  discussione  in  pubblica  udienza»,  si
conforma all'indicazione programmatica dettata all'art. 30, comma 1),
lettera g), numero 1, della legge delega n. 413 del 1991,  la  quale,
nella prospettiva di  un  progressivo  adeguamento  delle  norme  del
processo  tributario  a  quelle  del  rito   civile,   aveva   optato
espressamente per il regime ordinario di  trattazione  in  camera  di
consiglio, subordinando la possibilita' di celebrare il  processo  in
pubblica udienza all'espressa richiesta di almeno una delle parti. 
    Dalla lettura coordinata delle anzidette disposizioni e dell'art.
32, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992  -  indicato  dal  rimettente
solo in dispositivo, ma che, pur in assenza di esplicita motivazione,
va considerata parte integrante del thema decidendum, alla luce delle
argomentazioni complessive  contenute  nell'ordinanza  di  rimessione
(sentenze n. 33 del 2019 e n. 203 del 2016) - secondo il  quale  «Nel
solo caso di trattazione della controversia in  camera  di  consiglio
sono consentite brevi repliche scritte fino a  cinque  giorni  liberi
prima della data della camera  di  consiglio»,  e  dalle  indicazioni
esegetiche ricavabili dai lavori preparatori emerge scopertamente  il
favor dell'ultima riforma del processo tributario per la  trattazione
scritta,  oltre  che  una  chiara   continuita'   con   le   omologhe
disposizioni  del  processo  civile  ordinario  di  cognizione,  come
modificate dalla  legge  26  novembre  1990,  n.  353  (Provvedimenti
urgenti per il processo  civile),  le  quali,  in  termini  analoghi,
condizionavano la discussione orale della  causa  alla  richiesta  di
parte. 
    Si pensi, in particolare, agli artt.  190-bis  -  aggiunto  dalla
indicata riforma del 1990, successivamente abrogato dall'art. 63  del
decreto legislativo 19 febbraio 1998, n.  51  (Norme  in  materia  di
istituzione del giudice unico di primo grado) e sostituito  dall'art.
281-quinquies cod. proc. civ. -, 275 e 352 cod. proc. civ. 
    Tra le ragioni che avevano indotto il  legislatore  del  1990  ad
assumere  la  trattazione  scritta  a  regola  generale  della   fase
decisoria nel processo civile  vi  era  la  necessita'  di  imprimere
maggiore speditezza al processo e la rilevata infrequenza dei casi in
cui, nel previgente  regime,  le  parti  avevano  mostrato  un  reale
interesse alla discussione orale. 
    In termini non dissimili, nell'assetto  delineato  dalla  riforma
del processo tributario del  1992,  la  previsione  della  camera  di
consiglio  quale  regime  ordinario  della  trattazione   perseguiva,
innanzitutto, la finalita' della riduzione dei tempi  di  definizione
delle liti, la cui eccessiva dilatazione aveva prodotto,  nel  vigore
della precedente disciplina, un significativo arretrato. 
    2.2.- L'antecedente storico delle disposizioni  in  scrutinio  va
individuato nell'art. 39, primo comma, del d.P.R. n.  636  del  1972,
attuativo della delega contenuta nella legge 9 ottobre 1971,  n.  825
(Delega legislativa  al  Governo  della  Repubblica  per  la  riforma
tributaria), il quale,  espungendo  dal  novero  degli  articoli  del
codice di procedura civile applicabili al  contenzioso  dinanzi  alle
commissioni  tributarie  l'art.  128  cod.  proc.  civ.,  recante  la
disciplina  dell'udienza  pubblica,  aveva  introdotto   la   regola,
generale e assoluta, della trattazione  camerale  delle  controversie
tributarie. 
    Tale disposizione,  proprio  nella  parte  in  cui  escludeva  la
pubblicita' delle udienze tributarie, prevista, invece, nel  processo
civile  (art.   128   cod.   proc.   civ.),   e'   stata   dichiarata
costituzionalmente illegittima per contrasto  con  l'art.  101  Cost.
(sentenza n. 50 del 1989). 
    A supporto di tale statuizione, questa Corte, sul presupposto che
la regola  della  pubblicita'  dei  dibattimenti  giudiziari  potesse
subire eccezioni soltanto in relazione a determinati  procedimenti  e
in presenza di un'obiettiva e razionale giustificazione,  ha  escluso
che tali condizioni ricorressero per la deroga introdotta dalla norma
scrutinata nella disciplina del processo tributario. Cio' in  quanto,
in base all'art. 53 Cost., l'imposizione tributaria  e'  soggetta  al
canone  della  trasparenza,  «i  cui  effetti  riguardano  anche   la
generalita' dei cittadini, nonche' ai principi  di  universalita'  ed
eguaglianza, onde la posizione del contribuente non e' esclusivamente
personale e non e' tutelabile con il segreto». 
    In seguito alla richiamata pronuncia, l'art.  1  della  legge  22
maggio  1989,  n.  198  (Pubblicita'  delle  udienze   dinanzi   alle
commissioni tributarie), al comma 1, ha disposto  che  «[l]e  udienze
dinanzi alle commissioni  tributarie  sono  pubbliche.  Per  la  loro
disciplina si applicano gli artt. 127, 128, 129 e 130 del  codice  di
procedura civile» e, al comma 2, che «[n]el primo comma dell'articolo
39 del decreto del Presidente della Repubblica 26  ottobre  1972,  n.
636, le parole: "e dell'articolo 128" sono soppresse». 
    2.3.- Con la riforma di cui al d.lgs. n. 546 del 1992  e'  stata,
poi, reintrodotta la regola della trattazione camerale, prevedendosi,
pero', all'art. 33, comma 1, la possibilita' di derogarvi mediante la
richiesta di udienza pubblica avanzata da almeno una delle parti. 
    Detta facolta' costituisce estrinsecazione del diritto di  difesa
ex art. 24 Cost., la cui violazione - ravvisabile nel caso in cui  la
commissione tributaria disattenda una rituale richiesta di fissazione
di udienza, decidendo  la  controversia  in  camera  di  consiglio  -
comporta una nullita' processuale che travolge la stessa sentenza (ex
aliis,  Corte  di  cassazione,  sezione  quinta  civile,  sentenza  9
novembre 2021, n. 32593). 
    2.4.- Con la sentenza n. 141 del 1998, questa Corte ha dichiarato
non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 33,
comma 1, del citato decreto legislativo, in riferimento al  parametro
qui in esame. 
    3.- Tanto premesso,  la  censura  con  la  quale  la  Commissione
tributaria provinciale di Catania prospetta un  vulnus  all'art.  136
Cost. - da valutarsi in via prioritaria (sentenza n. 236  del  2021),
in quanto attinente «all'esercizio  stesso  del  potere  legislativo»
(sentenze n. 256 del 2020, n. 5 del 2017, n. 245 del 2012, n. 350 del
2010) - non e' fondata. 
    3.1.-  Secondo  la  costante  interpretazione  della  Corte,   la
violazione del giudicato costituzionale si configura «solo quando  la
nuova disposizione mantiene in vita o ripristina  gli  effetti  della
medesima   struttura   normativa   oggetto   della    pronuncia    di
illegittimita' costituzionale» (ancora sentenza n. 236 del 2021). 
    Come sopra evidenziato, con la sentenza n. 50 del 1989  e'  stata
dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. n.
636 del 1972,  nella  parte  in  cui  escludeva  l'applicabilita'  al
processo  tributario  dell'art.  128  cod.  proc.  civ.,   contenente
l'enunciazione del principio di pubblicita' dell'udienza. 
    Per contro, l'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, qui  censurato,
prevede espressamente la  pubblicita'  dell'udienza  tributaria,  sia
pure condizionandola alla presentazione, da almeno una  delle  parti,
di un'apposita istanza di discussione, e prescrivendo, in mancanza di
tale richiesta,  la  trattazione  della  controversia  in  camera  di
consiglio. 
    In particolare, come chiarito dalla sentenza  n.  141  del  1998,
alla stregua della riforma introdotta dal d.lgs.  n.  546  del  1992,
«nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza  e  in
camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternativita'». 
    Il differente  contenuto  precettivo  delle  norme  in  raffronto
esclude che il combinato disposto degli artt. 32, comma 3, e  33  del
d.lgs. n. 546 del 1992 riproponga la disciplina  previgente,  oggetto
della declaratoria di illegittimita' costituzionale  pronunciata  con
la sentenza n. 50 del 1989. 
    4.- Parimenti non fondata e' la censura relativa alla  violazione
dell'art. 101 Cost. 
    4.1.- Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 141  del  1998,
dopo aver ribadito, in  continuita'  con  le  decisioni  assunte  nel
vigore del precedente  assetto  normativo,  che  il  principio  della
pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, pur trovando fondamento  nel
precetto racchiuso nell'art. 101, primo  comma,  Cost.,  puo'  subire
eccezioni in relazione a determinati procedimenti e  in  presenza  di
giustificazioni obiettive  e  razionali,  ha  evidenziato  che,  alla
stregua della riforma del 1992, la pubblicita'  dell'udienza  risulta
non gia' esclusa, come accadeva nella  normativa  previgente,  bensi'
condizionata alla  presentazione,  da  almeno  una  delle  parti,  di
un'apposita istanza di discussione. 
    4.2.-  Va  oggi  verificata   la   perdurante   validita'   delle
valutazioni svolte nella richiamata sentenza n.  141  del  1998  alla
luce della successiva evoluzione del quadro normativo di  riferimento
e, in particolare,  della  positivizzazione,  ad  opera  della  legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei  principi  del
giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione), delle garanzie
del giusto processo, tra le quali si inscrive la  stessa  pubblicita'
dei   dibattimenti   giudiziari,   quale   «componente   naturale   e
coessenziale del processo "equo" garantito dall'art.  6  della  CEDU»
(sentenza n. 263 del 2017). 
    4.2.1.- Anteriormente alla citata riforma costituzionale,  questa
Corte  aveva,  come  si  e'  visto,  riconosciuto  al  principio   di
pubblicita' delle udienze  un'indiscutibile  valenza  costituzionale,
intravvedendovi un corollario della regola, enunciata dall'art.  101,
primo comma, Cost., secondo la quale «[l]a giustizia e'  amministrata
in nome del popolo». La garanzia della pubblicita' del giudizio -  si
argomentava - e' connaturata ad un  ordinamento  democratico  fondato
sulla sovranita' popolare,  cui  deve  conformarsi  l'amministrazione
della giustizia, la quale, in forza del citato art. 101, primo comma,
Cost., trova in quella sovranita' la sua legittimazione (sentenze  n.
235 del 1993, n. 373 del 1992, n. 50 del 1989, n. 212 del 1986  e  n.
12 del 1971). 
    La Corte, come gia' ricordato, aveva anche sottolineato il valore
non assoluto della regola della pubblicita', restando  affidato  alla
discrezionalita' del legislatore il bilanciamento degli interessi  in
giuoco nei diversi procedimenti (sentenze n. 235 del 1993  e  n.  373
del 1992). 
    Si era, altresi', evidenziata la  particolare  rilevanza  assunta
dal  principio  in  esame  nel  processo  penale,   nel   quale,   in
considerazione degli interessi protetti e dei riflessi sociali  della
violazione delle norme incriminatrici, sono ammesse deroghe solo  per
garantire beni a rilevanza costituzionale, laddove negli  altri  casi
il legislatore gode di un  piu'  ampio  margine  di  discrezionalita'
nell'individuazione degli  interessi  in  grado  di  giustificare  la
celebrazione del dibattimento a porte chiuse (sentenze n. 69 del 1991
e n. 12 del 1971). 
    4.2.2.- Nonostante il principio di pubblicita'  dei  dibattimenti
giudiziari non  sia  stato  positivizzato  neanche  a  seguito  della
riforma introdotta dalla legge cost. n. 2 del 1999, questa  Corte  ne
ha ravvisato un'enunciazione  implicita  nel  novellato  primo  comma
dell'art.  111  Cost.,  nella  parte  in  cui   dispone   che   «[l]a
giurisdizione si attua mediante il  giusto  processo  regolato  dalla
legge»,  sul  presupposto  che  -  anche  in  ragione   dell'espressa
consacrazione che si rinviene nell'art. 6 della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848  -  detto  principio
rappresenti, comunque, una componente  naturale  e  coessenziale  del
giusto processo (sentenze n. 263 del 2017, n. 109 e n. 97  del  2015,
n. 135 del 2014). 
    4.2.3.- Il rafforzamento della rilevanza costituzionale  se,  per
un  verso,  accresce  la  "forza  di  resistenza"  del  principio  di
pubblicita'  rispetto  alle  sollecitazioni  di  segno   contrastante
(sentenza n. 263 del 2017), per l'altro,  non  vale  a  infirmare  la
conclusione, cui la Corte era giunta gia' anteriormente alla  riforma
dell'art. 111 Cost., secondo la quale il precetto in questione non ha
carattere assoluto  e  puo'  subire  deroghe,  conservando  validita'
l'assunto secondo il  quale  la  Costituzione  non  impone  «in  modo
indefettibile  la  pubblicita'   di   ogni   tipo   di   procedimento
giudiziario» e tanto meno di ogni fase di esso  (ancora  sentenza  n.
263 del 2017). 
    E' appena il  caso  di  evidenziare  come  detto  principio,  pur
trovando espressa enunciazione nella CEDU (art. 6, paragrafo 1),  non
assuma  carattere   di   assolutezza   neanche   nell'interpretazione
offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo  (v.,  ex  aliis,
Corte EDU, 6 novembre 2018, sentenza Ramos Nunes de  Carvalho  e  Sa'
contro Portogallo). 
    4.3.-  Quanto  premesso  induce  a  concludere  che  i   principi
enunciati nella sentenza n. 141 del 1998 conservano validita' pur nel
mutato quadro costituzionale. 
    Deve, pertanto, ribadirsi che l'assetto normativo disegnato dalle
disposizioni  in  scrutinio  non  risulta   lesivo   della   garanzia
prefigurata dall'art. 101, primo comma, Cost. Cio', in  primo  luogo,
in  quanto  la  pubblica  udienza  non  e'  affatto  esclusa,  ma  e'
espressamente contemplata dall'art. 33 del d.lgs. n.  546  del  1992,
sia pure come forma di trattazione condizionata  alla  sollecitazione
di parte. 
    4.3.1. - Al riguardo, occorre ricordare come questa  Corte  abbia
gia' avuto modo di apprezzare  -  per  di  piu'  con  riferimento  al
processo penale, in cui l'udienza pubblica assume  un  valore  ancora
piu' pregnante (sentenze n. 260 del 2020, n. 135 del 2014, n. 212 del
1986 e n. 12 del 1971)  -  l'attitudine  di  una  siffatta  modalita'
operativa,  imperniata  sulla  scelta  della  parte,   a   soddisfare
adeguatamente l'esigenza di controllo popolare sottesa  al  principio
di pubblicita' dei giudizi. 
    In  linea   con   le   indicazioni   esegetiche   offerte   dalla
giurisprudenza  europea  (Corte  EDU,  sentenza   10   aprile   2012,
Lorenzetti contro Italia; sentenza 26  luglio  2011,  Paleari  contro
Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia;
sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro  Italia;  sentenza  5  gennaio
2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008,  Perre
e altri contro Italia; sentenza 13 novembre 2007, Bocellari  e  Rizza
contro  Italia),  diverse  pronunce  costituzionali  hanno,  infatti,
ravvisato un vulnus al  principio  di  pubblicita'  dei  dibattimenti
giudiziari nell'assenza, in alcune  procedure  camerali  penali,  non
gia' dell'udienza pubblica quale snodo procedimentale necessario,  ma
piuttosto della previsione della possibilita', per l'interessato,  di
richiederne la celebrazione. 
    Sulla scorta di tale premessa, questa Corte, con le  sentenze  n.
109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014 e n. 93 del 2010, ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale - per contrasto con  gli  artt.  117,
primo comma, e  111  Cost.  -  delle  disposizioni  disciplinanti  il
procedimento  di  opposizione  contro  l'ordinanza  in   materia   di
applicazione della confisca (artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e  676
cod.  proc.  pen.),  il  procedimento   davanti   al   tribunale   di
sorveglianza (artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, cod.  proc.  pen.),
il procedimento per l'applicazione delle misure di  sicurezza  (artt.
666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice  di  procedura
penale)  e  il  procedimento  per  l'applicazione  delle  misure   di
prevenzione (art. 4 della legge 27 dicembre 1956,  n.  1423,  recante
«Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per  la
sicurezza e per la pubblica moralita'», e art. 2-ter della  legge  31
maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro  le  organizzazioni
criminali di tipo mafioso, anche straniere»), nella parte in cui  non
consentono che, su istanza degli interessati, le procedure stesse  si
svolgano nelle  forme  dell'udienza  pubblica,  quanto  ai  gradi  di
merito. 
    4.3.2.- Pertanto, avuto anche riguardo alla  circostanza  che  il
legislatore  ha  connotato  il  giudizio  tributario  come   processo
prevalentemente  documentale,  in  particolare  dal  punto  di  vista
probatorio,  tanto  che  e'  esclusa  l'ammissibilita'  della   prova
testimoniale e del giuramento (art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del
1992), non  e'  irragionevole  la  previsione  di  un  rito  camerale
condizionato alla mancata istanza  di  parte  dell'udienza  pubblica,
posto che, in assenza della discussione, «la trattazione in  pubblica
udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioe'
ad un atto che, in quanto espositivo  dei  fatti  e  delle  questioni
oggetto del giudizio, e' comunque riprodotto nella decisione  e  reso
conoscibile alla generalita' con il deposito della stessa»  (sentenza
n. 141 del 1998). 
    D'altronde, come piu' volte sottolineato da questa Corte, il rito
camerale rinviene una coerente e  logica  motivazione  nell'interesse
generale ad un piu' rapido funzionamento del  processo  (sentenza  n.
543 del 1989), «interesse  che  assume  particolare  rilievo  per  il
processo  tributario,  gravato  da  un  contenzioso   di   dimensioni
particolarmente ingenti» (sentenza n. 141 del 1998). 
    5.- Le argomentazioni dianzi esposte danno conto, altresi', della
compatibilita' della  disciplina  in  esame  con  l'art.  111  Cost.,
rendendosi, peraltro, necessarie  alcune  ulteriori  osservazioni  in
relazione agli  specifici  profili  evidenziati  nella  ordinanza  di
rimessione con riguardo a tale parametro. 
    5.1. - Il giudice  a  quo  ritiene  che  «la  piu'  ampia  tutela
giurisdizionale» si  attui  attraverso  la  discussione  in  pubblica
udienza  e  che  le  norme  in   scrutinio,   nel   condizionare   la
«completezza»   del   contraddittorio   nel    processo    tributario
all'esercizio  di  una  facolta'  che  postula  la   «disponibilita'»
dell'interesse  in  contesa,  di  cui  la  parte  pubblica   sarebbe,
tuttavia, priva, si pongono in contrasto con la  piena  realizzazione
del giusto processo. 
    Tale principio costituzionale risulterebbe  violato  anche  nella
declinazione oggettiva di garanzia  della  partecipazione  dialettica
delle parti, quale «attivita' connaturata al processo» e fondamentale
«per l'attuazione della legge da parte del giudice terzo». 
    5.2.- Quanto al primo rilievo, deve escludersi che la facolta' di
scelta sulla forma del  contraddittorio,  cartolare  o  in  presenza,
attribuita alle parti dall'art. 33, comma 1, del d.lgs.  n.  546  del
1992, rilevi ai fini della «disponibilita'» della pretesa  impositiva
che forma oggetto del processo tributario. 
    E' evidente che un meccanismo procedurale, come quello  delineato
dalle norme in scrutinio, che consente ad entrambe le parti, pubblica
e privata, di valutare caso per caso la reale necessita' di avvalersi
della discussione in pubblica udienza, persegue un  ragionevole  fine
di  elasticita'  -  in   forza   del   quale   le   risorse   offerte
dall'ordinamento devono  essere  calibrate  in  base  alle  effettive
esigenze di tutela - e non interferisce con  la  cura  dell'interesse
pubblico al prelievo fiscale. 
    5.3.- Parimenti non fondata e' la ulteriore censura con la  quale
e'  denunciata  la  lesione  del  principio   del   giusto   processo
nell'accezione di  garanzia  della  partecipazione  dialettica  delle
parti, quale momento fondamentale «per l'attuazione  della  legge  da
parte del giudice terzo». 
    Nella prospettazione  del  Collegio  rimettente  l'interlocuzione
immediata e contestuale delle parti con il giudice sembra assurgere a
condizione indefettibile per l'attuazione del contraddittorio  e  per
la formazione del convincimento del giudice. 
    5.3.1.- Come questa Corte ha posto piu' volte in evidenza, l'art.
111, secondo comma, Cost., introdotto dalla  legge  cost.  n.  2  del
1999, stabilendo che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra
le parti, in condizioni di parita'», ha conferito veste autonoma a un
principio, quello appunto di parita' delle parti, che era gia'  stato
ritenuto insito  nel  pregresso  sistema  dei  valori  costituzionali
(sentenze n. 34 del 2020, n. 26 del 2007; ordinanze n. 110 del  2003,
n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). 
    La novella del 1999 ha,  infatti,  positivizzato,  attribuendogli
portata generale, il principio audiatur et altera pars,  in  base  al
quale il provvedimento giurisdizionale non puo' assumere carattere di
definitivita' senza che la parte destinata a subirne gli effetti  sia
stata posta in condizione di  svolgere  una  difesa  effettiva  e  di
influire, in condizioni di parita' rispetto  alle  altre  parti,  sul
convincimento del giudice. 
    Nondimeno, come evidenziato dalla giurisprudenza  costituzionale,
l'attuazione del contraddittorio non implica necessariamente  che  il
confronto dialettico tra i litiganti si svolga in  modo  esplicito  e
contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi  successivi,  purche'
anteriori all'assunzione  del  carattere  della  definitivita'  della
decisione, e come momento soltanto eventuale del processo (ex  aliis,
sentenze n. 80 del 1992, n. 125 e n. 89 del 1972). 
    La Corte ha  inoltre  precisato  che  il  contraddittorio,  quale
primaria e fondamentale garanzia del giusto processo, consiste  nella
«necessita' che tanto l'attore, quanto il contraddittore, partecipino
o siano messi in condizione di partecipare al procedimento» (sentenza
n. 181 del 2008; ordinanza n. 183 del 1999), mentre  «al  legislatore
e' consentito di differenziare la tutela giurisdizionale con riguardo
alla particolarita' del rapporto da regolare»  (sentenza  n.  89  del
1972; v. anche sentenza n. 80 del 1992 e ordinanza n. 37 del 1988). 
    5.4.-  Se   dunque,   in   via   generale,   il   principio   del
contraddittorio consacrato nell'art. 111, secondo comma, Cost. impone
esclusivamente di garantire che ogni giudizio si svolga in modo  tale
da assicurare alle parti  la  possibilita'  di  incidere,  con  mezzi
paritetici, sul convincimento del giudice, spettando  al  legislatore
configurarne le specifiche modalita'  attuative,  deve  coerentemente
escludersi che sussista un'unica forma in cui il confronto dialettico
possa estrinsecarsi e che questa  vada  necessariamente  identificata
nella difesa orale. 
    Non in tutti i  processi  la  trattazione  orale  costituisce  un
connotato indefettibile del contraddittorio  e,  quindi,  del  giusto
processo, potendo tale  forma  di  trattazione  essere  surrogata  da
difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale  e
funzionale del singolo  procedimento,  o  della  specifica  attivita'
processuale da svolgere, lo consenta e purche' le parti permangano su
di un piano di parita'. 
    5.4.1.- In tal senso si e' espressa, con  specifico  riguardo  al
processo civile, la giurisprudenza di legittimita',  precisando  che,
in generale, l'esclusione della difesa orale non menoma il diritto di
difesa, la cui concreta disciplina puo' essere variamente configurata
dalla legge, e che la regola generale della pubblicita'  puo'  subire
eccezioni in riferimento  a  determinati  procedimenti,  quando  esse
abbiano obiettiva e razionale giustificazione (Corte  di  cassazione,
sezione prima civile,  ordinanza  27  maggio  2005,  n.  11315);  che
inoltre  «la  garanzia  del  contraddittorio,  necessaria  in  quanto
costituente  il  nucleo  indefettibile   del   diritto   di   difesa,
costituzionalmente tutelato dagli artt. 24  e  111  Cost.  (cfr.,  in
rapporto all'art. 24 Cost., gia' Corte cost., sent. n. 102 del 1981),
e', comunque, assicurata dalla trattazione scritta della  causa,  con
facolta'  delle  parti   di   presentare   memorie   per   illustrare
ulteriormente le rispettive ragioni (che, del  resto,  devono  essere
gia' compiutamente declinate con  il  ricorso  per  quanto  riguarda,
segnatamente, i motivi dell'impugnazione), non solo in funzione delle
difese svolte dalla controparte» (Corte di cassazione, sezione  sesta
civile, ordinanza 10 gennaio 2017, n. 395). 
    Sempre con riferimento al rito  civile,  anche  questa  Corte  ha
affermato che «porre un'alternativa tra difesa scritta e  discussione
orale nel processo civile non puo' determinare alcuna lesione  di  un
adeguato contraddittorio, anche perche' le parti permangono su di  un
piano di parita'» (sentenza n. 275 del 1998). 
    5.5.- Neanche nel processo tributario la previsione, come regola,
della trattazione scritta e' di ostacolo a una piena  attuazione  del
contraddittorio. 
    Cio' in quanto le disposizioni censurate, per un verso, come gia'
evidenziato, non escludono la discussione in pubblica udienza, ma  ne
subordinano lo svolgimento alla tempestiva richiesta  di  almeno  una
delle parti, e, per un altro, attribuendo ai litiganti la facolta' di
depositare, oltre alle memorie  illustrative,  ulteriori  memorie  di
replica in un identico termine in parallelo, garantiscono un'adeguata
e paritetica possibilita' di difesa. 
    Al contempo, la trattazione camerale soddisfa  primarie  esigenze
di celerita' e di economia processuale, particolarmente avvertite  in
un processo, come quello tributario, che «attiene  alla  fondamentale
ed imprescindibile esigenza dello  Stato  di  reperire  i  mezzi  per
l'esercizio    delle    sue    funzioni    attraverso     l'attivita'
dell'Amministrazione finanziaria» (ordinanza n. 273 del 2019). 
    5.6.- In definitiva,  le  disposizioni  censurate,  definendo  un
modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella
versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e
conciliandosi con le caratteristiche  strutturali  e  funzionali  del
contenzioso tributario, costituiscono espressione  non  irragionevole
della discrezionalita' riservata al legislatore  nella  conformazione
degli istituti processuali. 
    6.- Pertanto, le questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1),  della  legge  n.  413  del
1991, 32, comma 3, e 33 del d.lgs. n. 546  del  1992,  devono  essere
dichiarate non fondate.