ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  191  del
codice  di  procedura  penale,  e  dell'art.  103  del  decreto   del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo unico  delle
leggi  in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e   sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza), promosso dal Tribunale  ordinario  di  Lecce,  in
composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di G.  G.,
con ordinanza del 26 ottobre 2020, iscritta al  n.  37  del  registro
ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  6  aprile  2022  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022. 
    Ritenuto che con ordinanza del 26 ottobre 2020 (reg. ord.  n.  37
del  2021),  il  Tribunale  ordinario  di  Lecce,   in   composizione
monocratica, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale: 
    a) dell'art. 191 del codice di procedura penale,  in  riferimento
agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (recte: secondo) comma, 111  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, nella parte in cui - secondo  l'interpretazione  predominante
nella giurisprudenza di legittimita', assunta quale diritto vivente -
«non prevede  che  la  sanzione  dell'inutilizzabilita'  della  prova
acquisita in violazione di un divieto  di  legge  [...]  si  applichi
anche alle c.d. "inutilizzabilita' derivate", e riguardi quindi anche
gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato  o
delle cose pertinenti  al  reato,  degli  atti  di  perquisizione  ed
ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla p.g.  fuori  dei
casi  in  cui  la  legge  costituzionale  e   quella   ordinaria   le
attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla  p.g.  fuori  del
caso  di  flagranza  di  reato,  in  forza  di  autorizzazione   data
verbalmente dal  P.M.  senza  che  ne  risultino  contestualmente  le
ragioni concrete ed  effettivamente  pertinenti;  c)  compiuti  dalla
p.g., fuori del caso di previa  flagranza  del  reato,  in  forza  di
segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi  autorizzat[i]  o
convalidat[i] dal P.M.; d) compiuti  dalla  pg.  fuori  del  caso  di
previa flagranza del reato, e successivamente convalidati  dal  P.M.,
senza  motivare  concretamente  su   quali   fossero   gli   elementi
utilizzabili  la  cui  ricorrenza  integrasse  valide   ragioni   che
legittimassero la perquisizione»; 
    b) dell'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309  (Testo  unico
delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti  e  sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza), in riferimento agli artt. 13,  14  e  117,  primo
comma, Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 8  CEDU  -,  «nella
parte in cui prevede che il P.M.  possa  consentire  l'esecuzione  di
perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza  necessita'  di
una successiva documentazione formale  delle  concrete  e  specifiche
ragioni per cui l'ha rilasciata»; 
    che il giudice a quo premette di procedere con rito ordinario nei
confronti di una persona tratta a  giudizio  per  aver  illecitamente
detenuto modesti quantitativi di sostanze stupefacenti destinati alla
cessione a terzi; 
    che  la  principale  fonte  di  prova  del  fatto  e'  costituita
dall'esito   della   perquisizione   domiciliare   eseguita    presso
l'abitazione dell'imputato, che aveva portato al  rinvenimento  e  al
conseguente sequestro delle sostanze: perquisizione effettuata  dalla
polizia giudiziaria su autorizzazione orale del pubblico ministero  e
a seguito di  notizie  comunicate  alla  stessa  polizia  giudiziaria
tramite una telefonata anonima; 
    che,  sebbene  l'art.   103   t.u.   stupefacenti,   al   momento
dell'ordinanza di rimessione, non lo prevedesse nei casi  in  cui  il
pubblico ministero avesse rilasciato un'autorizzazione  orale,  nella
specie  il  pubblico   ministero   aveva   convalidato,   con   unico
provvedimento, non solo il sequestro, ma anche la perquisizione; 
    che la motivazione della convalida atteneva, peraltro, alle  sole
ragioni del sequestro (convalidato in quanto  avente  ad  oggetto  il
corpo del  reato  o  cose  pertinenti  al  reato),  rimanendo  invece
totalmente  muta  riguardo   alle   ragioni   giustificatrici   della
perquisizione; 
    che,  ad  avviso  del  rimettente,  tale  perquisizione  dovrebbe
considerarsi   abusiva,   in   quanto   compiuta   fuori   dei   casi
tassativamente indicati dalla legge  e  in  assenza  di  valido  atto
autorizzativo; 
    che, riproponendo e sviluppando le considerazioni gia' svolte  in
precedenti ordinanze di rimessione,  il  giudice  a  quo  rileva  che
l'art. 13 Cost. (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi  previste,
dall'art.  14  Cost.  con  riguardo  a  ispezioni,  perquisizioni   e
sequestri domiciliari) prevede che ogni forma  di  limitazione  della
liberta' personale - compresa quella insita nelle ispezioni  e  nelle
perquisizioni personali  -  possa  essere  disposta  solo  con  «atto
motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
dalla   legge»:   laddove   il   riferimento   all'«atto    motivato»
implicherebbe la necessita' della forma scritta, o, comunque sia,  di
una qualche forma  di  documentazione  dell'eventuale  autorizzazione
orale, non essendo altrimenti verificabile l'osservanza del requisito
della motivazione; 
    che al principio dianzi indicato puo' derogarsi unicamente  «[i]n
casi eccezionali di necessita' ed  urgenza,  indicati  tassativamente
dalla legge»,  nei  quali  l'autorita'  di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare «provvedimenti provvisori» soggetti  a  convalida  da  parte
dell'autorita' giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono
revocati e restano privi di ogni effetto»; 
    che, pur in assenza di una esplicita  previsione  in  tal  senso,
anche la convalida dovrebbe essere effettuata - secondo il rimettente
- mediante provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata  la
ratio della garanzia apprestata dalla norma costituzionale; 
    che l'ipotesi principale  che,  in  base  alla  legge  ordinaria,
legittima l'intervento eccezionale delle forze di polizia  e'  quella
della flagranza di reato (art. 352 cod. proc. pen.); 
    che norme speciali hanno, peraltro, ampliato i casi nei quali  la
polizia giudiziaria puo' procedere a ispezioni e perquisizioni; 
    che una delle fattispecie  piu'  ricorrenti  nella  pratica  -  e
rilevante nel giudizio a quo - e' quella  contemplata  dall'art.  103
t.u. stupefacenti, i cui commi 2 e 3 abilitano la polizia giudiziaria
a procedere - nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione  e
alla repressione del traffico illecito  di  sostanze  stupefacenti  o
psicotrope - rispettivamente, all'ispezione dei mezzi  di  trasporto,
dei bagagli e degli effetti personali, e a  perquisizioni,  allorche'
vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali
sostanze e ricorrano, altresi'  -  nel  caso  delle  perquisizioni  -
«motivi di particolare necessita' ed urgenza che  non  consentano  di
richiedere l'autorizzazione telefonica del magistrato competente»; 
    che, alla luce di tale quadro normativo, la perquisizione di  cui
si discute nel giudizio a quo risulterebbe illegittima; 
    che la perquisizione e' stata,  infatti,  operata  dalla  polizia
giudiziaria fuori dalla preventiva percezione di  una  situazione  di
flagranza  di  reato   e   in   forza   di   un'autorizzazione   data
dall'autorita' giudiziaria verbalmente, senza, quindi, che ne risulti
la motivazione: autorizzazione rilasciata, per giunta, a  seguito  di
richiesta della polizia giudiziaria fondata su una denuncia  anonima,
la quale non avrebbe potuto essere utilizzata, ne' posta  a  base  di
alcun provvedimento, stante il generale divieto  stabilito  dall'art.
240 cod. proc. pen.; 
    che neppure, d'altra parte, l'attivita' di perquisizione potrebbe
ritenersi  «"sanata"»  dal  successivo  provvedimento  di  convalida,
mancando  in  esso  ogni  motivazione  riguardo  alle   ragioni   che
giustificavano la perquisizione stessa; 
    che, cio' premesso, il giudice rimettente assume che,  alla  luce
della  previsione  dell'art.  13  Cost.,  gli  atti  di  ispezione  e
perquisizione personale e  domiciliare  eseguiti  abusivamente  dalla
polizia giudiziaria, o non convalidati dall'autorita' giudiziaria con
atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche  sul  piano
probatorio; 
    che l'unica efficacia perdurante  nel  tempo  di  tali  atti  e',
infatti, quella relativa alla loro «capacita'  probatoria»:  di  modo
che la perdita di efficacia non potrebbe che equivalere, per essi,  a
quella che, nell'art.  191  cod.  proc.  pen.,  e'  qualificata  come
inutilizzabilita' delle prove assunte in violazione di un divieto  di
legge; 
    che   tale   esito   interpretativo    risulterebbe,    tuttavia,
contraddetto  dall'indirizzo  della  giurisprudenza  di  legittimita'
divenuto «assolutamente dominante» a  partire  dalla  sentenza  della
Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo-16  maggio  1996,
n. 5021; 
    che le Sezioni unite hanno ritenuto, infatti, valido il sequestro
conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi  e  dai  modi
previsti dalla legge, allorche' abbia ad oggetto il corpo del reato o
cose pertinenti al reato,  posto  che,  in  tal  caso,  il  sequestro
costituisce un atto dovuto ai sensi  dell'art.  253,  comma  1,  cod.
proc. pen., che non potrebbe essere omesso dalla polizia  giudiziaria
solo a causa dell'abuso compiuto; 
    che il giudice a quo dubita, tuttavia, che l'art. 191 cod.  proc.
pen., nella lettura offertane dal diritto  vivente,  possa  ritenersi
compatibile con il dettato costituzionale; 
    che l'interpretazione censurata si porrebbe in contrasto con  gli
artt. 13 e 14 Cost.,  negando  concreta  attuazione  alla  previsione
della perdita di efficacia delle  perquisizioni  e  delle  ispezioni,
nonche' dei sequestri ad esse conseguenti, ove eseguiti in violazione
dei divieti; 
    che  la  disciplina  stabilita  dall'art.  191  cod.  proc.  pen.
mirerebbe   ad   offrire   una    efficace    tutela    ai    diritti
costituzionalmente  garantiti,  disincentivando  le  loro  violazioni
finalizzate   all'acquisizione    della    prova,    col    prevedere
l'inutilizzabilita'   dei   relativi   risultati:   ammettendo    una
"sanatoria" ex post di  tali  violazioni,  legata  agli  esiti  della
perquisizione o dell'ispezione, si verrebbe, per converso,  a  negare
la tutela  del  cittadino  in  confronto  agli  abusi  della  polizia
giudiziaria; 
    che l'interpretazione denunciata violerebbe anche l'art. 3 Cost.,
in quanto escluderebbe l'inutilizzabilita' in casi del tutto analoghi
ad altri per  i  quali  la  legge  espressamente  la  prevede,  o  la
giurisprudenza, comunque sia, la riconosce (quali, ad esempio, quelli
delle intercettazioni e delle acquisizioni di tabulati  del  traffico
telefonico  eseguite  dalla  polizia  giudiziaria   in   assenza   di
provvedimento  motivato  dell'autorita'  giudiziaria),  dando  luogo,
altresi', al paradosso di un sistema giuridico che  vede  «inefficaci
ab origine le  leggi  incostituzionali»,  ma  «efficacissimi»,  anche
sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti
in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; 
    che la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche  l'art.  2
Cost., facendo si' che vengano a mancare effettive garanzie contro le
illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell'uomo; come  pure
l'art. 97, secondo  comma,  Cost.,  che  sottopone  in  via  generale
l'azione dei pubblici poteri  al  principio  di  legalita',  rendendo
prevalente l'azione illegale degli organi statali,  finalizzata  alla
repressione  dei  reati,  rispetto  ai  diritti  costituzionali   dei
consociati: con ulteriore violazione dell'art. 3 Cost., posto che, in
un ordinamento che prevede come centrali i diritti inviolabili  della
persona, questi dovrebbero porsi, quantomeno, sullo stesso piano  dei
diritti della collettivita' e dello Stato; 
    che un conclusivo profilo di  violazione  dell'art.  3  Cost.  e'
ravvisato  nel  fatto  che  l'interpretazione  censurata   si   trova
irrazionalmente   a    convivere    con    quella    che    riconosce
l'inutilizzabilita' di prove vietate dalla  legge  solo  perche'  non
verificabili (come nel caso  degli  scritti  anonimi  e  delle  fonti
confidenziali); 
    che l'«insondabilita'» degli elementi che hanno spinto la polizia
giudiziaria  a  eseguire  la  perquisizione  non   consentirebbe   di
escludere che siano  stati  proprio  i  terzi  latori  della  notizia
confidenziale o anonima - se non, addirittura, come  talora  pure  e'
avvenuto, le stesse forze di polizia - a  introdurre  nell'abitazione
dell'imputato la  res  illicita,  con  conseguente  violazione  anche
dell'art. 24 Cost., per compromissione del diritto di difesa, nonche'
dell'art. 111 Cost., «per vanificazione del diritto dell'imputato  ad
un  Giudice  imparziale  e  dotato  del  potere  di   esercitare   la
giurisdizione nel giusto processo»; 
    che la lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente
si porrebbe in contrasto, infine, con l'art. 8 CEDU  e,  quindi,  con
l'art. 117, primo comma, Cost., risolvendosi nella  mancata  adozione
di efficaci disincentivi  agli  abusi  delle  forze  di  polizia  che
implichino indebite interferenze nella vita privata della  persona  o
nel suo domicilio: abusi contro i quali - secondo  la  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo - il diritto  interno  deve
offrire garanzie adeguate e sufficienti; 
    che il rimettente dubita, per  altro  verso,  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte  in  cui
prevede che il P.M. possa consentire l'esecuzione di perquisizioni in
forza di autorizzazione orale  senza  necessita'  di  una  successiva
documentazione formale delle ragioni per cui l'ha rilasciata»: dubbio
- secondo il rimettente - di evidente rilevanza nel giudizio  a  quo,
in quanto e' sulla base di tale disposizione che e' stata eseguita la
perquisizione che ha portato al  rinvenimento  del  corpo  del  reato
ascritto all'imputato; 
    che sulla scorta delle considerazioni gia' svolte, il  rimettente
reputa che la norma censurata violi, in parte qua, gli artt. 13, 14 e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art.  8  CEDU,
non consentendo una  simile  autorizzazione  un  controllo  effettivo
sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
infondate; 
    che l'Avvocatura dello Stato rileva che questa Corte si  e'  gia'
pronunciata con due recenti  sentenze  su  questioni  sostanzialmente
identiche, sollevate dal medesimo giudice; 
    che con la sentenza n. 252 del 2020, questa Corte si e'  espressa
nel senso  auspicato  dal  rimettente,  dichiarando  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti nella  parte
in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari
autorizzate per telefono debbano essere convalidate; 
    che  le  questioni  concernenti  tale  norma  dovrebbero   essere
dichiarate, pertanto,  inammissibili  per  sopravvenuta  mancanza  di
oggetto, in  quanto,  a  seguito  della  citata  sentenza,  la  norma
censurata e' stata gia' rimossa  dall'ordinamento  con  efficacia  ex
tunc; 
    che con la stessa sentenza n. 252 del 2020 e  con  la  precedente
sentenza n. 219 del 2019 - soggiunge l'interveniente -  questa  Corte
ha  dichiarato,  invece,   inammissibili   (e   indi   manifestamente
inammissibili) le questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.
191 cod. proc. pen., rilevando come, con esse, il rimettente, mirasse
a trasferire nella disciplina dell'inutilizzabilita' un  concetto  di
vizio derivato che il sistema contempla esclusivamente nel campo, ben
distinto, delle nullita'; 
    che il petitum si  traduceva,  quindi,  nella  richiesta  di  una
pronuncia    «fortemente    "manipolativa"»,    volta    a    rendere
automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro, «attraverso  il
"trasferimento" su di essi dei "vizi" che affliggerebbero gli atti di
perquisizione personale e domiciliare  dai  quali  i  sequestri  sono
scaturiti» (sentenza n. 219 del 2019): il che  rendeva  le  questioni
inammissibili,  vertendosi  in  materia   caratterizzata   da   ampia
discrezionalita'  del  legislatore  (quale  quella   processuale)   e
discutendosi, per giunta, di una  disciplina  di  natura  eccezionale
(quale quella relativa  ai  divieti  probatori  e  alle  clausole  di
inutilizzabilita' processuale); 
    che  la   medesima   soluzione   si   imporrebbe   -   a   parere
dell'interveniente - in rapporto alle questioni oggi in esame, con le
quali il rimettente  lamenta  che  l'inutilizzabilita'  non  colpisca
anche gli esiti probatori delle perquisizioni operate  dalla  polizia
giudiziaria in assenza di una situazione  di  flagranza  di  reato  e
sulla  base  di   elementi   non   utilizzabili,   quali   le   fonti
confidenziali; 
    che, nel merito, le questioni relative all'art.  191  cod.  proc.
pen. risulterebbero comunque sia non fondate, perche' almeno  per  le
cose il cui sequestro e' obbligatorio e, in particolare, per le  cose
il  cui  possesso  integra  un  reato   (com'e'   per   la   sostanza
stupefacente),  l'illegittimita'  della  perquisizione  che   ne   ha
consentito   il   rinvenimento   non   potrebbe   travolgere    anche
l'apprensione del bene, in quanto l'omessa apprensione determinerebbe
immediatamente una condizione di flagrante commissione di un reato in
capo al soggetto che fosse mantenuto nel possesso della cosa. 
    Considerato che, con  l'ordinanza  di  rimessione  in  esame,  il
Tribunale ordinario di Lecce, in  composizione  monocratica,  solleva
due distinti gruppi di questioni; 
    che il giudice a quo dubita, in primo luogo,  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 191 del codice di  procedura  penale,  nella
parte  in   cui,   secondo   l'interpretazione   predominante   nella
giurisprudenza di legittimita', assunta quale diritto  vivente,  «non
prevede che la sanzione dell'inutilizzabilita' della prova  acquisita
in violazione di un divieto di legge [...]  si  applichi  anche  alle
c.d. "inutilizzabilita' derivate", e riguardi quindi anche gli  esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti  al  reato,  degli  atti  di  perquisizione  ed  ispezione
domiciliare e personale:  a)  compiuti  dalla  [polizia  giudiziaria]
fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella  ordinaria  le
attribuiscono  il  relativo  potere;  b)  compiuti   dalla   [polizia
giudiziaria] fuori del caso  di  flagranza  di  reato,  in  forza  di
autorizzazione data verbalmente dal [pubblico ministero] senza che ne
risultino  contestualmente  le  ragioni  concrete  ed  effettivamente
pertinenti; c) compiuti dalla [polizia giudiziaria], fuori  del  caso
di previa flagranza del reato, in forza  di  segnalazioni  anonime  o
confidenziali e  su  tali  basi  autorizzat[i]  o  convalidat[i]  dal
[pubblico ministero]; d) compiuti dalla [polizia  giudiziaria]  fuori
del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati
dal [pubblico  ministero],  senza  motivare  concretamente  su  quali
fossero   gli   elementi   utilizzabili   [che   legittimavano]    la
perquisizione»; 
    che, ad avviso del giudice a quo, la norma censurata  violerebbe,
anzitutto, gli artt. 13 e 14 della Costituzione, in forza  dei  quali
le perquisizioni personali e domiciliari possono essere disposte solo
per atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi  e  modi
previsti dalla legge; principio al quale puo' derogarsi solo in  casi
eccezionali di necessita' e  urgenza  indicati  tassativamente  dalla
legge, nei quali l'autorita'  di  pubblica  sicurezza  puo'  adottare
«provvedimenti   provvisori»   soggetti   a   convalida   da    parte
dell'autorita'  giudiziaria  (da  rilasciare   anch'essa   con   atto
motivato), in difetto della  quale  essi  «si  intendono  revocati  e
restano privi di ogni effetto»: previsione, questa, che implicherebbe
necessariamente l'inutilizzabilita'  dei  loro  risultati  sul  piano
probatorio, anche  perche'  solo  in  questo  modo  si  tutelerebbero
efficacemente  i  diritti  fondamentali  alla  liberta'  personale  e
domiciliare,  disincentivando  la  loro  violazione  ad  opera  della
polizia giudiziaria per finalita' di ricerca della prova; 
    che risulterebbe, altresi', violato  l'art.  3  Cost.,  sotto  un
duplice profilo: da  un  lato,  per  l'ingiustificata  disparita'  di
trattamento delle ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe,
per le quali  la  sanzione  dell'inutilizzabilita'  e'  espressamente
prevista dalla  legge  o  riconosciuta  dalla  giurisprudenza,  quali
quelle delle intercettazioni  e  dell'acquisizione  di  tabulati  del
traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in  difetto  di
provvedimento motivato dell'autorita' giudiziaria; da un altro  lato,
perche' si verrebbe a teorizzare  un  sistema  che,  paradossalmente,
considera «inefficaci  ab  origine  le  leggi  incostituzionali»,  ma
«efficacissimi», anche sotto  il  profilo  probatorio,  gli  atti  di
polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali
del cittadino; 
    che la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche  l'art.  2
Cost., facendo si' che vengano a mancare effettive garanzie contro le
illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell'uomo; come  pure
gli artt. 3 e 97,  terzo  (recte:  secondo)  comma,  Cost.,  rendendo
prevalente l'azione illegale degli organi statali,  finalizzata  alla
repressione  dei  reati,  rispetto   ai   diritti   inviolabili   dei
consociati, posti al centro dell'ordinamento costituzionale; 
    che il rimettente deduce, ancora, la violazione degli artt.  3  e
24 Cost., essendo generalmente  riconosciuta  l'inutilizzabilita'  di
prove vietate dalla legge solo perche' non  verificabili  (quali  gli
scritti anonimi e le fonti confidenziali),  mentre,  nell'ipotesi  in
esame, si considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in
diretta violazione di un divieto di legge  (anche  costituzionale)  e
caratterizzate  anch'esse  da  una  «ridotta   verificabilita'»,   in
particolare  quanto  agli  elementi  che  hanno  indotto  la  polizia
giudiziaria  a  procedere   alla   perquisizione,   con   conseguente
compromissione anche del diritto di difesa dell'imputato; 
    che, in questo modo, verrebbe violato pure l'art. 111 Cost., «per
vanificazione del diritto dell'imputato ad un  Giudice  imparziale  e
dotato  del  potere  di  esercitare  la  giurisdizione   nel   giusto
processo», non potendosi considerare  imparziale  e  indipendente  un
giudice che non abbia un adeguato potere di verifica degli elementi a
carico dell'imputato; 
    che viene prospettata, infine, la violazione dell'art. 117 Cost.,
in relazione all'art. 8 della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto  1955,  n.  848,  giacche'  verrebbero  a   mancare   efficaci
disincentivi  agli  abusi  delle  forze  di  polizia  che  implichino
indebite interferenze nella vita privata  della  persona  o  nel  suo
domicilio; 
    che il  Tribunale  di  Lecce  dubita,  in  secondo  luogo,  della
legittimita' costituzionale dell'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre  1990,
n. 309 (Testo unico  delle  leggi  in  materia  di  disciplina  degli
stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), «nella parte
in  cui  prevede  che  il  P.M.  possa  consentire  l'esecuzione   di
perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza  necessita'  di
una successiva documentazione formale  delle  concrete  e  specifiche
ragioni per cui l'ha rilasciata»: in tal modo violando -  secondo  il
rimettente - gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 8 CEDU, posto che una simile autorizzazione non
varrebbe ad assicurare un controllo effettivo sulla sussistenza delle
condizioni che legittimano la perquisizione; 
    che, quanto alle questioni  di  legittimita'  costituzionale  che
investono l'art. 191 cod. proc. pen., va rilevato che questa Corte si
e'  gia'  pronunciata  due   volte   su   questioni   sostanzialmente
sovrapponibili  alle  odierne,  sollevate  dal  medesimo  giudice  in
riferimento agli stessi parametri costituzionali (fatta eccezione per
l'art. 111 Cost.) con otto precedenti  ordinanze  di  rimessione  (le
prime due  delle  quali  emesse  in  veste  di  Giudice  dell'udienza
preliminare del medesimo Tribunale di Lecce); 
    che le questioni sono state dichiarate inammissibili (sentenza n.
219 del 2019) e indi manifestamente inammissibili  (sentenza  n.  252
del 2020); 
    che, nelle pronunce ora richiamate, si e' osservato come  con  la
disposizione censurata - secondo la quale «[l]e  prove  acquisite  in
violazione dei divieti  stabiliti  dalla  legge  non  possono  essere
utilizzate» - il legislatore abbia inteso  introdurre  un  meccanismo
preclusivo che dissolvesse la stessa "idoneita'" probatoria  di  atti
vietati  dalla  legge,  distinguendo  nettamente  tale  fenomeno  dai
profili di inefficacia conseguenti  alla  violazione  di  una  regola
sancita a pena di nullita' dell'atto; 
    che anche il vizio in questione resta, peraltro, soggetto -  come
le nullita' - ai paradigmi della tassativita' e della legalita'; 
    che,  infatti,  essendo  il  diritto  alla  prova  un   connotato
essenziale del processo penale, e' solo la legge a  stabilire  -  con
norme di  stretta  interpretazione,  in  ragione  della  loro  natura
eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, in
funzione  di  scelte  di  "politica  processuale"  spettanti  in  via
esclusiva al  legislatore:  donde  l'impossibilita'  -  ripetutamente
riconosciuta dalla  giurisprudenza  di  legittimita'  -  di  riferire
all'inutilizzabilita' il regime  del  "vizio  derivato",  contemplato
dall'art. 185, comma 1, cod. proc. pen. solo nel campo delle nullita'
(«[l]a nullita' di un atto rende invalidi gli  atti  consecutivi  che
dipendono da quello dichiarato nullo»); 
    che, in tale cornice, il  petitum  del  rimettente  si  traduceva
quindi nella richiesta di una pronuncia «fortemente  "manipolativa"»,
volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di  sequestro
«attraverso  il  "trasferimento"  su   di   essi   dei   "vizi"   che
affliggerebbero» - secondo la ricostruzione  operata  dal  rimettente
stesso - «gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali
i sequestri sono scaturiti» (sentenze n. 252 del 2020 e  n.  219  del
2019); 
    che  cio'  rendeva  le  questioni  inammissibili,  vertendosi  in
materia caratterizzata  da  ampia  discrezionalita'  del  legislatore
(quale quella  processuale),  e  discutendosi,  per  giunta,  di  una
disciplina di natura eccezionale (quale appunto  quella  relativa  ai
divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilita' processuale); 
    che lo stesso assunto del giudice a quo, secondo cui la soluzione
proposta sarebbe  stata  necessaria  al  fine  di  disincentivare  le
pratiche di acquisizione delle prove con modalita' lesive dei diritti
fondamentali (rendendole «"non paganti"»), rivelava come le questioni
coinvolgessero  scelte   di   politica   processuale   riservate   al
legislatore;  l'obiettivo  di  disincentivare  gli   abusi   risulta,
peraltro, perseguito dall'ordinamento vigente tramite la persecuzione
diretta, in sede disciplinare o, se del  caso,  anche  penale,  della
condotta  "abusiva"  della  polizia  giudiziaria,  come   del   resto
ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimita'; 
    che l'odierna  ordinanza  di  rimessione  -  la  cui  motivazione
ricalca ampiamente quella delle ordinanze gia' scrutinate, con taluni
adattamenti legati alle peculiarita' della fattispecie concreta - non
appare foriera di apprezzabili elementi di novita'; 
    che non puo' considerarsi tale, in specie, la parziale variazione
del petitum, la quale  -  come  gia'  rilevato  da  questa  Corte  in
rapporto alle analoghe operazioni  compiute  dal  giudice  a  quo  in
alcune delle precedenti ordinanze di  rimessione  -  non  muta  nella
sostanza il thema decidendum, traducendosi in una mera specificazione
(calibrata essa pure sulle peculiarita' del caso di specie) del genus
delle perquisizioni illegittime, secondo la  visione  del  rimettente
(sentenza n. 252 del 2020); 
    che la ratio decidendi delle precedenti pronunce di questa  Corte
resta, d'altro canto, valida anche a fronte della deduzione, da parte
del giudice a quo, della violazione di  un  parametro  costituzionale
ulteriore rispetto  a  quelli  precedentemente  evocati  (l'art.  111
Cost., in particolare sotto il profilo di una pretesa  compromissione
dell'imparzialita' del giudice): censura che -  nella  prospettazione
del rimettente  -  si  presenta  come  meramente  rafforzativa  della
denuncia, gia' in precedenza operata, della violazione degli artt.  3
e 24 Cost. connessa alla  «ridotta  verificabilita'»  degli  elementi
sulla  cui  base   la   polizia   giudiziaria   ha   proceduto   alla
perquisizione, che si assume derivare dal diritto vivente censurato; 
    che le  odierne  questioni  debbono  essere,  quindi,  dichiarate
anch'esse manifestamente inammissibili; 
    che quanto, invece, alle questioni concernenti  l'art.  103  t.u.
stupefacenti, questa Corte,  con  la  sentenza  n.  252  del  2020  -
successiva all'ordinanza di rimessione -, ha gia'  accolto  identiche
questioni (sollevate  dal  medesimo  giudice  a  quo  con  una  delle
precedenti ordinanze) in riferimento agli artt. 13 e  14  Cost.  (con
assorbimento della censura di violazione dell'art. 117, primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 8 CEDU), dichiarando  costituzionalmente
illegittimo il comma 3 del citato art. 103 t.u.  stupefacenti,  nella
parte in cui non prevede  che  anche  le  perquisizioni  personali  e
domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate  (con
atto motivato,  secondo  quanto  precisato  nella  motivazione  della
sentenza); 
    che in conformita' al costante indirizzo della giurisprudenza  di
questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 206, n.  192  e  n.  184  del
2021, n. 125 del 2020), le odierne questioni debbono essere,  dunque,
dichiarate  manifestamente  inammissibili  perche'  ormai  prive   di
oggetto, avendo la citata sentenza n. 252 del 2020 rimosso, in  parte
qua e con effetto ex tunc, la norma  che  determinava  il  denunciato
contrasto con i parametri costituzionali evocati. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale, vigente ratione temporis.