ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  167  del
codice penale militare di pace, promosso dalla Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di M. B.,  con
ordinanza del 28 settembre 2021, iscritta  al  n.  209  del  registro
ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2022. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 19 ottobre  2022  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 28 settembre 2021, la Corte di  cassazione,
sezione prima penale, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27
della  Costituzione  -  questioni  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 167 del codice penale militare di pace, censurandolo «nella
parte in cui non prevede nell'ipotesi di  sabotaggio  per  temporanea
inservibilita' attenuazioni della pena per fatti di lieve entita'». 
    1.1.- La Sezione rimettente e'  investita  del  ricorso  proposto
avverso una sentenza della Corte militare d'appello di Roma,  che  ha
dichiarato M. B. colpevole del reato di sabotaggio di opere  militari
aggravato e continuato (artt. 81, primo  comma,  del  codice  penale,
167, primo comma, e 47, numero 2, cod. pen. mil. pace), condannandolo
alla  pena  di  sei  anni  e  due  mesi  di   reclusione   (all'esito
dell'applicazione delle  circostanze  attenuanti  generiche  ritenute
prevalenti sulla contestata aggravante), oltre alla degradazione, per
avere reso temporaneamente inservibile, con piu' distinte azioni,  un
hangar per velivoli militari; condotta realizzata  mediante  ripetuto
accesso  ai  locali  e  dispersione  di  fibre  di  amianto,  tramite
avvicinamento di un barattolo, «dal  contenuto  non  conosciuto»,  al
filtro rilevatore di amianto, cui erano conseguiti l'accertamento, da
parte dell'Azienda sanitaria locale, della  presenza  di  amianto  in
misura superiore ai limiti consentiti e  l'interdizione  dell'accesso
ai luoghi. 
    Disattesi i motivi di ricorso di M. B. attinenti al  giudizio  di
responsabilita' penale, e giudicata altresi' manifestamente infondata
una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 167 cod.  pen.
mil. pace - per dedotta sproporzione  del  trattamento  sanzionatorio
ivi  comminato  rispetto  a  quello  contemplato  dall'art.  168  del
medesimo codice - prospettata dall'imputato in una successiva memoria
difensiva, il giudice a quo ritiene che il dubbio  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 167 si ponga sotto il diverso profilo  della
mancata previsione, nella disposizione censurata, di una  circostanza
attenuante per i fatti di lieve entita'. 
    1.2.-  Quanto  alla  rilevanza  delle   questioni,   la   Sezione
rimettente osserva che l'accoglimento delle censure di illegittimita'
costituzionale    comporterebbe     «l'applicazione     dell'elemento
circostanziale, con diversa  e  meno  afflittiva  determinazione  del
trattamento sanzionatorio». 
    1.3.- In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
ritiene che la disposizione censurata violi gli artt. 3 e  27  Cost.,
sotto il  profilo  dei  principi  di  uguaglianza  e  ragionevolezza,
nonche' dei canoni di proporzionalita'  e  individualizzazione  della
pena. 
    1.3.1.- Sotto il primo profilo, la  Sezione  rimettente  rammenta
che l'art. 167 cod. pen. mil.  pace  punisce  con  la  reclusione  in
misura non inferiore a otto anni la condotta del militare che,  fuori
dai casi previsti dagli articoli da 105 a 108  del  medesimo  codice,
distrugge  o  rende  inservibili,  in  tutto  o   in   parte,   anche
temporaneamente, navi, aeromobili,  convogli,  strade,  stabilimenti,
depositi o altre opere militari o adibite  al  servizio  delle  Forze
armate dello Stato. 
    La fattispecie di distruzione o sabotaggio di opere  militari  di
cui all'art. 167 cod. pen.  mil.  pace  sarebbe  sovrapponibile,  per
struttura e tipicita', a quella di distruzione o sabotaggio di  opere
militari contemplata dall'art. 253 cod.  pen.,  che  punisce  con  la
medesima pena le stesse condotte, poste in essere,  analogamente,  su
res militari, differenziandosi da essa solo in relazione al  soggetto
attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque). 
    Al delitto  di  cui  all'art.  253  cod.  pen.  sarebbe  tuttavia
applicabile la disposizione dell'art. 311 cod. pen., che consente  di
diminuire la pena «quando per la  natura,  la  specie,  i  mezzi,  le
modalita'  o  circostanze  dell'azione  ovvero  per  la   particolare
tenuita' del  danno  o  del  pericolo,  il  fatto  risulti  di  lieve
entita'», laddove analoga circostanza attenuante non  e'  contemplata
dall'art.  167  cod.  pen.  mil.  pace.  Ne'  si  potrebbe   ritenere
applicabile la diminuente in questione  «in  via  d'interpretazione»,
«non sussistendo, nel sistema, un controllo di costituzionalita' c.d.
diffuso»,  che  legittimi   il   giudice   ordinario   ad   applicare
«disposizioni - che pur alimentate  da  omogeneita'  e  identita'  di
ratio - non sono espressamente  richiamate  dal  precetto  della  cui
legittimita' costituzionale si dubita». 
    In assenza di apprezzabili «elementi di  differenziazione  tra  i
due paradigmi normativi (sabotaggio ordinario  e  militare  in  senso
stretto)», la mancata previsione,  per  quest'ultimo  delitto,  della
diminuente legata alla lieve entita' del fatto -  invece  applicabile
al primo  -  violerebbe  i  principi  di  uguaglianza  sostanziale  e
ragionevolezza. 
    Pur alla luce della «poliedricita' del bene  protetto»  dall'art.
167 cod. pen. mil. pace, da leggersi «in collegamento con la qualita'
del soggetto attivo del reato» e la «necessita' di tutelare nella sua
interezza il servizio militare e  la  sua  integrita'»,  non  sarebbe
ragionevole  la  mancata  previsione  della  circostanza   attenuante
fondata sulla lieve entita' del  fatto,  che  «incide  sulla  portata
lesiva concreta ed oggettiva della condotta».  Non  potrebbe  infatti
escludersi l'ipotesi di una ridotta offensivita' della condotta anche
in riferimento al sabotaggio posto in essere dal militare, specie ove
«il bene sia reso solo temporaneamente inservibile in assenza  di  un
pregiudizio  permanente  ed  irreversibile   e   di   una   qualsiasi
compromissione di altri beni giuridici tutelati quali il  patrimonio,
oppure la salute o l'integrita' personale». 
    1.3.2.- Quanto al secondo profilo di censura, il  giudice  a  quo
premette che, rispetto alle condotte di sabotaggio - poste in  essere
tanto dai militari quanto dai civili - la  sanzione  penale  dovrebbe
esprimere «un rapporto di proporzione e adeguatezza che sia collegato
all'entita' concreta dell'aggressione al bene protetto». A tale scopo
sarebbe funzionale la diminuente  relativa  alla  lieve  entita'  del
fatto, che consente al giudice di  adeguare  la  pena  alla  concreta
offensivita' della condotta. 
    Tanto piu' necessaria sarebbe la  previsione  dell'attenuante  in
parola, a  fronte  di  una  sanzione  -  quale  e'  quella  comminata
dall'art. 167  cod.  pen.  mil.  pace  -  «fissa  e  inderogabile»  e
improntata nello stesso minimo edittale ad «asprezza eccezionale». In
difetto della stessa, infatti, la  risposta  penale  rischierebbe  di
«perdere il suo profilo di duttilita' dinamica e di adattarsi solo in
parte  alla  varieta'  delle  situazioni  che  astrattamente  possono
rientrare  nell'ambito   di   applicazione   del   paradigma   legale
d'incriminazione». 
    L'impossibilita' di mitigare, in funzione del concreto  disvalore
del fatto, il severo trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 167
cod. pen. mil. pace, determinando  l'irrogazione  di  «una  pena  non
proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come tale  dal
condannato)»,  si  risolverebbe  in   un   ostacolo   alla   funzione
rieducativa cui le pene devono tendere (sono richiamate  le  sentenze
di questa Corte n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n.
343 del 1993). 
    L'«esigenza di mobilita', o individualizzazione, della sanzione»,
funzionale a consentire «l'adeguamento  delle  risposte  punitive  ai
casi concreti» costituirebbe «naturale attuazione e  sviluppo»  tanto
del principio di uguaglianza, quanto del  principio  di  personalita'
della responsabilita' penale (art. 27, primo comma,  Cost.)  e  della
funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma,  Cost.)  (sono
citate le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963).
Previsioni sanzionatorie  rigide  non  risulterebbero,  in  linea  di
principio, «in armonia con  il  "volto  costituzionale"  del  sistema
penale», salvo che, «per la natura dell'illecito sanzionato e per  la
misura della sanzione prevista, questa ultima appaia  ragionevolmente
"proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di    comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato» (sono richiamate Corte di
cassazione, sezione prima penale, ordinanza 6 luglio 2017, n.  52613,
e la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte). 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  e,
comunque, non fondate. 
    2.1.- L'interveniente sottolinea la peculiarita' dello status del
personale militare, legato  all'amministrazione  dello  Stato  da  un
rapporto di servizio che, «rispetto  a  qualunque  altra  prestazione
lavorativa,  viene  ad  assumere  una  particolare  e  piu'   intensa
connotazione»,  da  intendersi  come   «fedelta'   qualificata,   con
contenuto piu' ampio di quello riguardante la totalita' dei cittadini
ed idonea a fondare doveri piu' impegnativi  nei  confronti  di  chi,
essendo tenuto a prestare giuramento, contrae  anche  un  vincolo  di
ordine morale, che a quelli giuridici si aggiunge» (e'  citata  Corte
di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 17  novembre  1994,  n.
9746). 
    Tale speciale status giustificherebbe l'apposizione, da parte del
legislatore ordinario, di limitazioni ai diritti - anche  di  matrice
costituzionale - del personale militare, come  si  evincerebbe  dalla
sentenza n. 24 del 1989 di questa Corte; dall'art. 19 della  legge  4
novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe  al  Governo  in  materia  di
lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative
e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»,  che  riconosce
la specificita' del ruolo delle Forze armate nella definizione  degli
ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e
della tutela  economica,  pensionistica  e  previdenziale;  dall'art.
1465, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.  66  (Codice
dell'ordinamento  militare),  ai  sensi  del  quale,  per   garantire
l'assolvimento dei compiti propri delle Forze armate, sono imposte ai
militari limitazioni nell'esercizio di  alcuni  dei  diritti  che  la
Costituzione  riconosce  ai  cittadini,   nonche'   l'osservanza   di
particolari   doveri   nell'ambito   dei   principi   costituzionali.
L'imposizione al personale  militare  di  piu'  pregnanti  doveri  di
comportamento risulterebbe  altresi'  dall'art.  713,  comma  2,  del
d.P.R.  15  marzo  2010,  n.  90  (Testo  unico  delle   disposizioni
regolamentari  in  materia   di   ordinamento   militare,   a   norma
dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n.  246),  ai  termini
del quale il militare deve astenersi, anche fuori  dal  servizio,  da
comportamenti che possano comunque condizionare l'esercizio delle sue
funzioni e ledere il prestigio dell'istituzione di appartenenza. 
    2.2.- In questo quadro normativo, del tutto legittima e  conforme
ai parametri costituzionali si paleserebbe la scelta del  legislatore
di non prevedere, in relazione al delitto di cui  all'art.  167  cod.
pen. mil.  pace,  una  circostanza  attenuante  fondata  sulla  lieve
entita' del fatto, a differenza  di  quanto  invece  avviene  per  le
condotte di sabotaggio poste in essere dai comuni cittadini. 
    E invero «ogni appartenente alle Forze armate, a differenza di un
privato  cittadino,  e'  per  definizione   il   primo   responsabile
dell'installazione militare  nonche'  deputato  alla  custodia  della
stessa, in quanto strumentale all'assolvimento dei superiori  compiti
di difesa dello Stato e tutela  della  collettivita'»,  sicche'  «per
l'appartenente al  "Consorzio  Militare"  non  puo'  rilevare  alcuna
attenuazione del fatto in funzione delle circostanze contingenti,  in
quanto gia' l'aver posto in essere quel comportamento consapevolmente
determina  una  chiara  violazione  del  giuramento  prestato  e   il
tradimento di tutti quei valori e principi caratterizzanti lo  status
di componente delle FF. AA.». 
    2.3.- Del resto -  osserva  ancora  l'Avvocatura  generale  dello
Stato - nella sentenza n.  215  del  2017  questa  Corte  ha  escluso
l'illegittimita'   costituzionale    del    differente    trattamento
sanzionatorio  delle   condotte   di   ingiuria   poste   in   essere
rispettivamente dal militare (e punite penalmente in forza  dell'art.
226 cod. pen. mil. pace) e  dal  cittadino  comune  (che,  a  seguito
dell'abrogazione dell'art. 594 cod. pen., incorre nella sola sanzione
pecuniaria civile), ponendo l'accento sulla «peculiare posizione  del
cittadino che entra (attualmente per propria scelta) nell'ordinamento
militare,  caratterizzato  da  specifiche  regole  ed   esigenze»   e
ritenendo non irragionevole imporre al militare  «una  piu'  rigorosa
osservanza di regole di comportamento, anche relative al comune senso
civico». 
    A fronte dunque di comportamenti contrari ai «doveri attinenti al
giuramento  prestato,  tra  i  quali   quelli   di   correttezza   ed
esemplarita' propri dello status  di  militare»,  sarebbe  pienamente
giustificata la scelta legislativa di  non  valorizzare  la  concreta
entita' del singolo episodio, dando  prioritaria  considerazione  «ai
superiori  interessi  pubblici,  nonche'   alla   valutazione   delle
aspettative della fiducia  riposta  dallo  Stato  in  ogni  operatore
militare». Del resto,  il  giuramento  di  fedelta'  alla  Repubblica
dell'appartenente alle Forze armate comporterebbe il  «rafforzamento,
valorizzazione  e  sublimazione  etica  dei  doveri  civili  cui   e'
vincolata la generalita' dei cittadini»;  il  che  spiegherebbe,  nel
caso di specie, la maggiore severita'  della  disciplina  del  codice
penale  militare  di  pace  rispetto  a   quella   applicabile   alla
generalita' dei consociati. 
    3.- Con memoria  illustrativa  depositata  in  prossimita'  della
camera di consiglio, il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha
insistito sulle conclusioni gia' rassegnate. 
    A parere dell'Avvocatura generale dello  Stato,  la  «specialita'
dell'ordinamento militare» e «l'assoluta indispensabilita' di  tutela
di   talune   specifiche    connotazioni    del    mondo    militare»
giustificherebbero differenze di disciplina tra  legislazione  penale
militare e legislazione ordinaria, in particolare ove - come nel caso
di specie - sussista «uno stretto  legame  con  la  salvaguardia  del
servizio militare e piu' in generale con il valore  della  disciplina
militare». 
    La fattispecie incriminatrice di cui all'art. 167 cod. pen.  mil.
pace, inserita nel Titolo II del Libro  II  che  disciplina  i  reati
contro il servizio militare - quest'ultimo inteso  come  «prestazione
collettiva cui sono tenute le Forze armate» -, sarebbe posta a tutela
di beni di uso militare,  strumentali  all'assolvimento  dei  compiti
istituzionali delle  Forze  armate,  in  primis  della  difesa  della
Patria, e costituirebbe  «applicazione  sporadica  del  principio  di
integralita'». La presenza di siffatta norma  incriminatrice  sarebbe
indispensabile a garantire  l'efficienza  delle  Forze  armate  e  il
corretto e tempestivo operato dei loro  appartenenti.  Del  resto,  e
correlativamente, l'art. 723 del d.P.R. n.  90  del  2010,  rubricato
«Tenuta e sicurezza delle armi, dei  mezzi,  dei  materiali  e  delle
installazioni  militari»,  porrebbe  in  capo  a   ciascun   militare
specifici doveri di cura e di adozione delle  cautele  necessarie  al
fine di impedire il deterioramento, la perdita o  la  sottrazione  di
detti beni militari. 
    L'assenza, nell'art. 167 cod. pen. mil. pace, di una  circostanza
attenuante per i fatti di  lieve  entita'  -  invece  applicabile  al
sabotaggio  «comune»  ex  artt.  253   e   311   cod.   pen.   -   si
giustificherebbe alla luce delle differenti finalita' di  tutela  che
connotano la prima fattispecie rispetto  alla  seconda.  La  condotta
dell'appartenente  alle  Forze  armate   che   danneggi,   sia   pure
temporaneamente, il bene oggetto di  tutela  sarebbe  gia'  idonea  a
compromettere   irreversibilmente   il   rapporto   fiduciario    con
l'amministrazione di appartenenza e, di riflesso, «l'efficienza e  la
pronta operativita' dello  strumento  militare,  anche  a  detrimento
della  collettivita'».  La   disposizione   censurata   consentirebbe
peraltro,  sia  pure  in  diversa  forma  rispetto  alla   disciplina
«comune», di adeguare la risposta  punitiva  al  caso  concreto,  con
conseguente esclusione di ogni  ostacolo  alla  funzione  rieducativa
della pena. 
    La mancata previsione di una diminuente  per  i  fatti  di  lieve
entita'  si  inserirebbe  del  resto  coerentemente  nell'ordinamento
penale militare che, in caso di condanna alla  reclusione  di  durata
non inferiore a cinque anni, prevede tra l'altro l'applicazione della
pena accessoria della degradazione, che comporta la privazione  della
qualita' di militare. 
    In definitiva, la differente disciplina del sabotaggio  di  opere
militari recata dal codice penale  militare  di  pace  e  dal  codice
penale - essendo giustificata dalla  diversita'  dei  beni  giuridici
tutelati  -  sarebbe  conforme  ai  principi  di  ragionevolezza   ed
eguaglianza, cosi' come  declinati  dalla  giurisprudenza  di  questa
Corte (sono citate le sentenze n. 46 del 1959, n. 53 del 1958 e n. 15
del 1960) e rappresenterebbe il frutto di un legittimo  bilanciamento
tra i diritti dell'appartenente alle Forze armate e la necessita'  di
«maggiore  realizzazione  di   altri   interessi   costituzionalmente
garantiti in primis la difesa della Patria», che non comprometterebbe
la funzione rieducativa della pena. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione,
sezione prima penale, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27
Cost. - questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  167  cod.
pen.  mil.  pace,  censurandolo  «nella  parte  in  cui  non  prevede
nell'ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilita' attenuazioni
della pena per fatti di lieve entita'». 
    1.1.- L'art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace dispone: «[i]l
militare, che, fuori dei casi preveduti dagli  articoli  105  a  108,
distrugge  o  rende  inservibili,  in  tutto  o   in   parte,   anche
temporaneamente, navi, aeromobili,  convogli,  strade,  stabilimenti,
depositi o altre opere militari o adibite  al  servizio  delle  forze
armate dello Stato, e' punito con la reclusione non inferiore a  otto
anni». 
    1.2.- Il giudice a quo censura, in riferimento ai  due  parametri
costituzionali menzionati, la mancata previsione di  una  circostanza
attenuante per i fatti di lieve  entita',  limitatamente  all'ipotesi
della condotta che abbia cagionato la temporanea inservibilita' degli
oggetti materiali individuati dalla disposizione incriminatrice. 
    La  censura  e'  articolata  in  due  distinti,  ma  convergenti,
profili. 
    Anzitutto,  sotto  il  profilo  di  una  allegata   irragionevole
disparita' di trattamento rispetto alla parallela  figura  delittuosa
di distruzione o sabotaggio di opere  militari  prevista  dal  codice
penale comune all'art. 253: figura descritta in maniera identica  dal
legislatore - salva l'indicazione del soggetto attivo  in  «chiunque»
in luogo del «militare» - e sanzionata anch'essa  con  la  reclusione
non inferiore a otto anni,  ma  alla  quale  risulta  applicabile  la
circostanza attenuante di cui all'art. 311  cod.  pen.,  che  prevede
(per effetto della disposizione generale  di  cui  all'art.  65  cod.
pen.) la diminuzione della pena  fino  a  un  terzo  «quando  per  la
natura, la specie, i mezzi, le modalita' o  circostanze  dell'azione,
ovvero per la particolare tenuita' del danno o del pericolo, il fatto
risulti di lieve entita'». 
    In secondo luogo,  anche  a  prescindere  dal  raffronto  con  la
parallela disciplina del codice penale, la pena minima di  otto  anni
di reclusione prevista dalla disposizione censurata costituirebbe una
previsione  di  «asprezza  eccezionale»,  suscettibile  di   condurre
all'applicazione nel caso concreto di una pena non proporzionata alla
effettiva  gravita'  del  fatto,  in  violazione  dei   principi   di
eguaglianza, di personalita' della  responsabilita'  penale  e  della
funzione rieducativa della pena. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni, ma ha svolto unicamente argomenti
concernenti il merito delle questioni medesime. 
    L'eccezione va pertanto intesa come mera formula di stile, e deve
essere per tale ragione disattesa. 
    3.- Le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3  e  27
Cost., congiuntamente considerati. 
    3.1.- In base alla costante giurisprudenza di questa  Corte  (per
una piu' estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019,  punti  da
8.1.2. a 8.1.4. del Considerato in diritto), ai sensi  del  combinato
disposto  degli  artt.  3  e   27,   terzo   comma,   Cost.   l'ampia
discrezionalita' di cui dispone il legislatore nella  quantificazione
delle pene incontra il proprio limite  nella  manifesta  sproporzione
della singola  scelta  sanzionatoria,  sia  in  relazione  alle  pene
previste per altre figure di reato (sentenze n. 68 del 2012,  n.  409
del 1989 e n. 218 del 1974), sia rispetto  alla  intrinseca  gravita'
delle condotte abbracciate da una singola figura di  reato  (sentenze
n. 73 del 2020, n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n.
341 del 1994). Il limite in parola esclude, piu' in particolare,  che
la severita' della pena comminata  dal  legislatore  possa  risultare
manifestamente sproporzionata  rispetto  alla  gravita'  oggettiva  e
soggettiva  del  reato:  il  che  accade,  in  particolare,  ove   il
legislatore fissi  una  misura  minima  della  pena  troppo  elevata,
vincolando cosi' il giudice all'inflizione  di  pene  che  potrebbero
risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua
gravita' (da  ultime,  sentenze  n.  63  del  2022,  punto  4.1.  del
Considerato in diritto, e n. 28 del 2022, punto 6.1. del  Considerato
in diritto). 
    3.2.- Numerose sono state, altresi', le pronunce  in  cui  questa
Corte ha affrontato censure formulate in riferimento all'art. 3 Cost.
e concernenti  differenze  di  trattamento  sanzionatorio  tra  reati
militari e reati comuni. 
    3.2.1.-   In   diverse   occasioni,   sono    state    dichiarate
costituzionalmente illegittime previsioni dalle quali discendeva  per
il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a  quello
riservato al comune cittadino. 
    Cosi', sono state ritenute contrarie all'art. 3 Cost.: la mancata
applicazione, in determinate  ipotesi,  di  un'amnistia  al  peculato
militare di cui all'art. 215 cod. pen. mil. pace, e la sua previsione
invece per il peculato comune (sentenza n. 4 del  1974);  la  mancata
estensione, da parte dell'art. 49 cod. pen.  mil.  pace,  a  tutti  i
reati  militari  dell'attenuante  della  provocazione,  prevista  dal
codice penale comune per la generalita' dei reati  (sentenza  n.  213
del 1984); la persistente punibilita', nell'ordinamento militare, del
peculato militare per distrazione, abolita nel diritto penale  comune
nel 1990 (sentenza n.  448  del  1991);  la  mancata  previsione  del
rilievo scusante,  anche  nell'ordinamento  militare,  dell'ignoranza
inevitabile della legge penale, il cui valore  esimente  nel  diritto
penale comune era stato riconosciuto dalla sentenza n. 364  del  1988
(sentenza n. 61 del 1995); la mancata estensione  di  un'amnistia  al
delitto di truffa militare aggravata e la sua previsione, invece, per
il corrispondente reato comune (sentenza n. 272 del 1997); la mancata
previsione,  nel  codice  penale  militare  di  pace,  di  un'ipotesi
delittuosa meno grave di peculato d'uso, similmente a quella prevista
nel diritto penale comune dall'art. 314,  secondo  comma,  cod.  pen.
(sentenza n. 286  del  2008);  l'inapplicabilita'  alla  diffamazione
militare dell'exceptio veritatis disciplinata  dall'art.  596,  commi
terzo, numero 1), e quarto, cod. pen. (sentenza n. 273 del 2009). 
    In tutte queste occasioni, la differenza di trattamento e'  stata
ritenuta  priva  di  ragionevoli  giustificazioni,  a  fronte   della
sostanziale identita' della condotta, dell'elemento psicologico e del
bene giuridico protetto dalle norme poste a raffronto. E  cio'  sulla
base del presupposto - esplicitato da una sentenza con  la  quale  e'
stata  dichiarata  costituzionalmente  illegittima   una   differente
disciplina in materia processuale per i reati  comuni  e  per  quelli
militari - che «[l]a Costituzione repubblicana supera radicalmente la
logica istituzionalistica  dell'ordinamento  militare  e,  ricondotto
anche quest'ultimo  nell'ambito  del  generale  ordinamento  statale,
particolarmente  rispettoso  e  garante  dei  diritti  sostanziali  e
processuali di tutti i cittadini, militari oppur no,  definitivamente
impedisce che la giurisdizione penale militare  si  consideri  ancora
come  "continuazione"  della  "giustizia   disciplinare"   dei   capi
militari, tesa a garantire  e  rafforzare  l'ordine  e  la  gerarchia
militare contro le violazioni "piu'  gravi"»  (sentenza  n.  278  del
1987, punto 5 del Considerato in diritto). 
    3.2.2.- In varie pronunce questa Corte ha invece  dichiarato  non
fondate questioni di legittimita'  costituzionale  ex  art.  3  Cost.
relative a differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e
militari, evidenziando  la  non  irragionevolezza  di  tali  distinte
discipline. Cosi', sono state  giudicate  non  incompatibili  con  la
Costituzione:  l'inapplicabilita'  della   scriminante   degli   atti
arbitrari del pubblico ufficiale, prevista per delitti  di  cui  agli
artt. 336 e seguenti cod. pen., al delitto  di  insubordinazione  con
ingiuria di cui all'art. 189, secondo  comma,  cod.  pen.  mil.  pace
(sentenza n. 278 del 1990); la maggior pena stabilita - in forza  del
combinato disposto degli artt. 196 e 199 cod. pen. mil. pace - per il
delitto di minaccia ad inferiore in presenza di militari riuniti  per
servizio,  rispetto  a  quella  prevista  dall'art.  336  cod.   pen.
(sentenza n. 405 del 1994); la maggior pena fissata per il delitto di
vilipendio alla bandiera nazionale o altro emblema dello Stato di cui
all'art. 83, primo comma, cod.  pen.  mil.  pace  rispetto  a  quella
prevista dagli artt. 291 e 292 cod. pen. (sentenza n. 531 del  2000);
la perdurante rilevanza penale dell'ingiuria tra militari,  pur  dopo
l'abrogazione, nel 2016, del corrispondente  delitto  comune  di  cui
all'art. 594 cod. pen., trasformato in illecito civile  (sentenza  n.
215 del 2017). 
    In  queste  pronunce,  e'  stato  per  lo  piu'  sottolineato  il
legittimo interesse a preservare, nei rapporti intersoggettivi tra  i
militari (tanto di diverso grado gerarchico, quanto di  pari  grado),
precise «esigenze di coesione dei corpi militari» (sentenza n 45  del
1992, punto 2 del Considerato in diritto), esse stesse strumentali ad
esigenze di funzionalita' delle Forze armate  (sentenza  n.  215  del
2017, punto 5.3.  del  Considerato  in  diritto);  e  cio'  anche  in
relazione alla  necessita'  di  prevenire  episodi  di  "nonnismo"  e
«ingiurie di natura sessista, a seguito dell'accesso delle  donne  al
servizio militare» (ancora, sentenza  n.  215  del  2017).  Esigenze,
tutte, che rendevano non irragionevole la diversita'  di  trattamento
di volta in volta in questione. 
    3.2.3.- Da tale copiosa giurisprudenza  puo'  evincersi  che,  in
linea di principio, una differenza di trattamento  sanzionatorio  tra
reati militari e corrispondenti reati comuni  viola  l'art.  3  Cost.
allorche'  essa   non   appaia   sorretta   da   alcuna   ragionevole
giustificazione,  stante  la  sostanziale  identita'  della  condotta
punita, dell'elemento  soggettivo  e  del  bene  giuridico  tutelato.
Emblematiche in questo senso le sentenze che censurano differenze  di
disciplina del peculato "comune" e "militare": posto che il  soggetto
attivo in entrambi i reati ha la  disponibilita'  o  il  possesso  di
denaro  o  di  cose  della  pubblica  amministrazione   per   ragioni
d'ufficio, il fatto di appropriarsi di tale denaro o cose presenta un
disvalore omogeneo tanto nell'ipotesi  in  cui  il  soggetto  sia  un
pubblico ufficiale o un incaricato  di  pubblico  servizio  "civile",
ovvero un militare. 
    Differenze di trattamento sanzionatorio  tra  reati  comuni  e  i
corrispondenti reati militari non si pongono invece in contrasto  con
il principio di uguaglianza in quanto siano giustificabili in ragione
della   oggettiva   diversita'   degli   interessi   tutelati   dalle
disposizioni, comuni e militari, che vengono  di  volta  in  volta  a
raffronto, ovvero del  particolare  rapporto  che  lega  il  soggetto
agente  al  bene   tutelato.   Emblematiche   sono   qui   le   norme
incriminatrici che concernono le condotte compiute dal  militare  nei
confronti di altri militari: lo specifico disvalore  penale  di  tali
comportamenti non dipende invero dalla loro  intrinseca  immoralita',
ne' dalla mera violazione del vincolo di  fiducia  che  l'ordinamento
ripone sul rispetto della disciplina da parte  dei  militari;  bensi'
dalla  loro  oggettiva  disfunzionalita'  rispetto  all'interesse  al
mantenimento di basilari esigenze di coesione all'interno delle Forze
armate, a loro volta strumentali  rispetto  all'efficace  svolgimento
delle delicatissime funzioni a queste  affidate,  e  conseguentemente
rispetto alla loro efficienza e capacita' operativa, oltre che  dalla
speciale  dimensione  offensiva  delle  condotte  nei  confronti  dei
diritti fondamentali dei singoli militari, particolarmente esposti  a
fenomeni di "nonnismo" o di discriminazione sessuale (sentenza n. 215
del 2017). 
    3.3.- E' dunque alla  luce  di  tali  principi  che  deve  essere
vagliata la legittimita' costituzionale della disposizione censurata. 
    3.3.1.- Va preliminarmente osservato che non  convince  l'assunto
del giudice rimettente secondo cui  non  sarebbe  apprezzabile  alcun
significativo elemento di differenziazione tra la  figura  delittuosa
di sabotaggio comune di cui  all'art.  253  cod.  pen.  e  quella  di
sabotaggio militare, tale da giustificare un loro diverso trattamento
sanzionatorio. 
    Non a torto l'Avvocatura generale dello Stato  obietta  che  ogni
appartenente alle Forze armate - a differenza del  comune  cittadino,
soggetto attivo del delitto previsto dall'art. 253  cod.  pen.  -  e'
responsabile dell'installazione militare e  della  sua  custodia,  in
particolare ai sensi dell'art. 723 del d.P.R. n. 90  del  2010.  Tale
rapporto speciale con la res, a sua volta fondato su  precisi  doveri
di diritto pubblico inerenti alla funzione esercitata,  ben  potrebbe
giustificare, in linea di  principio,  una  sanzione  piu'  severa  a
carico di chi la distrugga o renda inservibile. 
    3.3.2.- Tuttavia,  deve  convenirsi  con  il  rimettente  che  la
mancata previsione di  una  causa  di  attenuazione  del  trattamento
sanzionatorio per i fatti di lieve entita' abbracciati dal  perimetro
applicativo  della  disposizione  censurata  viola  il  principio  di
proporzionalita' della pena, specificamente invocato  dal  rimettente
nel suo secondo profilo di censura. 
    L'Avvocatura generale dello Stato  sostiene,  in  proposito,  che
rispetto alla  condotta  del  militare  non  sarebbe  concettualmente
ipotizzabile un sabotaggio di lieve entita', in quanto la commissione
del fatto sarebbe, da un lato, di per se' indicativa di  una  «chiara
violazione del giuramento prestato e [del] tradimento di  tutti  quei
valori e principi caratterizzanti lo status di componente  delle  FF.
AA.»; e, dall'altro, comprometterebbe irrimediabilmente, oltre che il
«rapporto fiduciario sussistente tra il singolo  e  l'amministrazione
di appartenenza», altresi' «l'efficienza  e  la  pronta  operativita'
dello strumento militare». 
    Tali    argomenti,     tuttavia,     non     sono     persuasivi.
Dell'impossibilita'  di  giustificare  un   trattamento   penale   di
particolare rigore sulla base della mera violazione del giuramento  e
del vincolo di fedelta' che lega l'autore della condotta  al  proprio
corpo militare si e' gia' detto. Ne' convince l'argomento secondo cui
la condotta di  sabotaggio  compiuta  dal  militare  comprometterebbe
necessariamente in modo rilevante, sul piano oggettivo,  l'efficienza
e la pronta operativita' dello strumento. 
    In realta', fatti di lieve entita' - in relazione in  particolare
alla modestia del pregiudizio  cagionato  alla  efficienza  operativa
delle res oggetto della  condotta  -  sono  agevolmente  ipotizzabili
rispetto alla figura delittuosa all'esame, in ragione della tessitura
semantica  particolarmente  lata  delle  espressioni  utilizzate  dal
legislatore. La disposizione  censurata  sanziona,  esattamente  come
quella parallela prevista dal  codice  penale  comune,  condotte  che
spaziano dalla distruzione di navi e aeromobili alla causazione della
temporanea inservibilita' di  qualsiasi  opera  adibita  al  servizio
delle Forze armate  dello  Stato:  inclusi,  ad  esempio,  apparecchi
telegrafici,  radiotelegrafici  e   telefonici   (Tribunale   supremo
militare, sentenza 14 dicembre 1978, n. 339) o  elaboratori  di  dati
(Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 gennaio 1992,
n. 3744, con riferimento all'identica  dizione  utilizzata  dall'art.
253 cod. pen.). 
    In  particolare,  fatti  di   lieve   entita'   sono   facilmente
immaginabili  rispetto  alle  condotte  -  su  cui   pone   l'accento
l'ordinanza  di  rimessione  -  consistenti  nel  rendere   meramente
«inservibili, in tutto o in parte,  anche  temporaneamente»  le  cose
elencate tanto nell'art. 167 cod. pen. mil.  pace,  quanto  nell'art.
253 cod. pen.: come nel caso  del  rifornimento  con  carburante  non
idoneo (Tribunale supremo militare, sentenza  13  febbraio  1979,  n.
144), o del mancato rifornimento  di  un  automezzo  militare  (sulla
configurabilita' del delitto  di  distruzione  o  sabotaggio  di  cui
all'art.  167  cod.  pen.  mil.  pace  mediante  condotte   omissive,
Tribunale militare di Roma, sentenza 20 marzo 2009, n. 75;  Corte  di
cassazione, sezione  prima  penale,  sentenza  20  gennaio  2011,  n.
20123). 
    La previsione nel diverso sistema del codice penale comune  della
possibilita' di una diminuzione della pena fino a un terzo,  rispetto
a una pena minima eccezionalmente elevata come quella di otto anni di
reclusione, opera come una  valvola  di  sicurezza  che  consente  al
giudice,  rispetto  a  condotte  che  non  abbiano   prodotto   danni
significativi   alla   funzionalita'   del   servizio,   di   evitare
l'irrogazione di una  sanzione  destinata  a  essere  necessariamente
eseguita in carcere, per diversi anni, anche laddove sia riconosciuta
la sussistenza  delle  circostanze  attenuanti  generiche  -  la  cui
applicazione non varrebbe comunque  a  ricondurre  la  pena  entro  i
limiti che consentono  la  concessione  di  misure  alternative  alla
detenzione in fase esecutiva. 
    L'indisponibilita' di un'analoga valvola di sicurezza nel sistema
penale militare comporta, invece, che anche rispetto a  condotte  del
militare che  non  provochino  alcun  disservizio  significativo,  il
tribunale  militare  sia  vincolato  ad  applicare  la   pena   della
reclusione non inferiore a  otto  anni,  con  le  conseguenze  appena
descritte. Un tale trattamento sanzionatorio  puo'  risultare,  anche
per il militare in servizio che pure e' titolare di specifici  doveri
di  custodia   rispetto   all'oggetto   materiale   della   condotta,
manifestamente sproporzionato  rispetto  alla  gravita'  oggettiva  e
soggettiva del  fatto,  e  comunque  incapace  di  adeguarsi  al  suo
concreto  disvalore,  con  pregiudizio  allo  stesso   principio   di
individualizzazione  della  pena  e  alla  sua  necessaria   funzione
rieducativa. 
    La situazione e', dunque, in larga misura corrispondente a quella
oggetto della pronuncia con cui e' stata dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale dell'art.  630  cod.  pen.  nella  parte  in  cui  non
prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita quando per la
natura, la specie, i mezzi, le modalita' o  circostanze  dell'azione,
ovvero per la particolare tenuita' del danno o del pericolo, il fatto
risultasse di lieve entita'. Anche in quell'occasione,  questa  Corte
ha  stigmatizzato  l'impossibilita',  discendente  dalla   disciplina
censurata, di «mitigare - in rapporto ai soli profili  oggettivi  del
fatto (caratteristiche dell'azione criminosa, entita' del danno o del
pericolo) - una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e
che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento
alla varieta' delle  situazioni  concrete  riconducibili  al  modello
legale» (sentenza n. 68 del 2012, punto 5 del Considerato in diritto;
si vedano, inoltre, le numerose pronunce  con  cui  questa  Corte  ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo il  divieto  di  prevalenza
sulla recidiva reiterata  di  circostanze  attenuanti  fondate  sulla
«lieve entita'» del fatto - sentenze n. 143 del 2021  e  n.  251  del
2012 -, sulla sua «particolare tenuita'» -sentenza n. 105 del 2014 -,
sulla sua «minore gravita'» - sentenza n.  106  del  2014  -,  ovvero
sulla «speciale tenuita'» - sentenza n. 205 del 2017 -). 
    3.4.- Al vulnus cosi' accertato non e' possibile porre rimedio  -
come vorrebbe il giudice rimettente  -  semplicemente  estendendo  al
delitto di cui all'art.  167  cod.  pen.  mil.  pace  la  circostanza
attenuante prevista dall'art. 311 cod. pen., che  per  quanto  si  e'
poc'anzi osservato non costituisce idoneo tertium comparationis,  non
prestandosi cosi' a  essere  "importata",  attraverso  una  pronuncia
additiva, all'interno del codice penale militare di pace. 
    Quest'ultimo  gia'  conosce,  pero',  diverse  ipotesi  in   cui,
rispetto a  gravi  reati  militari,  e'  previsto  che  la  pena  sia
diminuita quando il fatto  risulti  di  lieve  entita'.  Cio'  accade
rispetto ai pur gravissimi reati richiamati dall'art. 102  cod.  pen.
mil. pace (tra i quali si annoverano, ad esempio, l'alto tradimento e
le  intelligenze  con  lo  straniero),  nonche'  per  i  delitti   di
danneggiamento di edifici militari e di distruzione o  deterioramento
di cose mobili militari, disciplinati rispettivamente dagli artt. 168
e 169 cod. pen. mil. pace che immediatamente seguono la  disposizione
in questa sede censurata, e per i quali l'art. 171, numero 2),  dello
stesso codice prevede  che  la  pena  sia  «diminuita»  «se,  per  la
particolare tenuita' del danno, il fatto risulta di  lieve  entita'».
In applicazione della  disposizione  generale  di  cui  all'art.  51,
numero 4), cod. pen. mil. pace, il giudice e' tenuto in tali  ipotesi
a diminuire la pena sino a un terzo. 
    L'estensione alla disposizione censurata  della  possibilita'  di
attenuazione della pena gia' prevista dall'art. 171, numero 2),  cod.
pen. mil. pace, applicabile a figure  criminose  contigue  (anche  in
relazione alla sostanziale  coincidenza  dell'interesse  protetto)  a
quella che qui viene in  considerazione,  costituisce  una  soluzione
idonea a riparare il vulnus accertato da questa Corte. 
    Tale estensione deve essere limitata al solo frammento  dell'art.
167 cod. pen. mil. pace sul quale il giudice rimettente ha  appuntato
i dubbi di legittimita' costituzionale, e cioe' alla sola  previsione
delle condotte di  sabotaggio  temporaneo  (consistenti  nel  rendere
temporaneamente inservibili, in tutto o in parte,  le  cose  elencate
dallo stesso art. 167 cod. pen. mil. pace). 
    3.5.- L'art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace deve,  dunque,
essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in  cui
non prevede che  la  pena  sia  diminuita  se  il  fatto  di  rendere
temporaneamente inservibili, in tutto o in parte,  navi,  aeromobili,
convogli, strade, stabilimenti, depositi o  altre  opere  militari  o
adibite al servizio delle Forze armate dello Stato  risulti,  per  la
particolare tenuita' del danno causato, di lieve entita'.