ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4,  secondo
comma, prima parte,  della  legge  18  aprile  1975,  n.  110  (Norme
integrative della disciplina vigente per  il  controllo  delle  armi,
delle munizioni e degli esplosivi), promosso dal Tribunale  ordinario
di  Lagonegro,  sezione  penale,  in  composizione  monocratica,  nel
procedimento penale a carico di F. C., con ordinanza del  14  gennaio
2022, iscritta al n. 49 del  registro  ordinanze  2022  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  19,  prima   serie
speciale, dell'anno 2022, la cui trattazione  e'  stata  fissata  per
l'adunanza in camera di consiglio del 22 marzo 2023. Visto l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio  dei  ministri;  udito  nella
camera di consiglio del 10 maggio 2023  il  Giudice  relatore  Franco
Modugno; deliberato nella camera di consiglio del 10 maggio 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 gennaio 2022, il Tribunale ordinario  di
Lagonegro, sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e  27,  terzo  comma,
della  Costituzione,   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 4, secondo comma, prima parte, della legge 18 aprile  1975,
n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per  il  controllo
delle armi, delle munizioni e degli esplosivi)  -  che  vieta,  sotto
comminatoria di  sanzione  penale,  di  portare,  senza  giustificato
motivo, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di  essa,
bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o  da  taglio
atti ad offendere, mazze,  tubi,  catene,  fionde,  bulloni  e  sfere
metalliche  -  nella  parte  in  cui  non  richiede,  ai  fini  della
punibilita' del fatto, «la sussistenza  di  circostanze  di  tempo  e
luogo dimostrative del pericolo di offesa  alla  persona».  1.1.-  Il
giudice a quo premette di essere investito del processo nei confronti
di una persona imputata del reato previsto dalla norma censurata,  in
quanto, a seguito di un controllo  stradale,  era  stata  trovata  in
possesso di una  roncola  (qualificata  impropriamente  nel  capo  di
imputazione come «machete») della lunghezza di 40 centimetri (di  cui
10 di  manico):  strumento  da  punta  o  da  taglio  del  cui  porto
l'imputato non aveva fornito adeguata giustificazione. Il  rimettente
riferisce, altresi', che in esito all'istruzione  dibattimentale,  le
parti avevano concluso concordemente per l'assoluzione dell'imputato.
1.2.-  Il  giudice  a  quo  dubita,  tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 4, secondo comma, prima parte,  della  legge
n. 110 del 1975, nella parte in  cui  non  richiede,  ai  fini  della
punibilita' - diversamente da quanto stabilito  nella  seconda  parte
del medesimo comma -, la presenza di circostanze di tempo e di  luogo
che lascino presagire l'offesa alla persona. In punto  di  rilevanza,
il giudice a quo osserva  che,  ove  le  questioni  fossero  accolte,
l'imputato dovrebbe essere assolto. La roncola  era  infatti  portata
nel portabagagli dell'autovettura da lui condotta, racchiusa  in  una
sacca e, dunque, in posizione tale da non consentirne il pronto  uso;
l'accertamento era stato inoltre eseguito nel  pomeriggio  lungo  una
strada   periferica,   con   conseguente   assenza   di   circostanze
spazio-temporali evocative del rischio di aggressione  alle  persone.
Di contro, ove le questioni  fossero  respinte,  l'imputato  dovrebbe
essere ritenuto penalmente responsabile. Secondo la giurisprudenza di
legittimita', infatti,  il  motivo  che  giustifica  il  porto  dello
strumento deve essere dedotto al momento del controllo e  in  maniera
specifica, cosi' da  consentire  alla  polizia  giudiziaria  adeguate
verifiche in ordine  alla  sua  attendibilita':  donde  l'irrilevanza
delle allegazioni difensive postume.  Nella  specie,  l'imputato,  al
momento del controllo di polizia, si era limitato ad affermare che la
roncola gli serviva per lavori  di  campagna,  senza  indicare  alcun
elemento utile al vaglio di affidabilita' della  dichiarazione.  Solo
in  sede  di   istruttoria   dibattimentale   aveva   addotto   prove
testimoniali e documentali a  sostegno  della  sua  tesi:  prove  che
risultavano,  dunque,  intempestive,  e,  comunque  sia,  inidonee  a
giustificare    il    possesso    dello    strumento    al    momento
dell'accertamento. Da esse emergeva, infatti, soltanto che l'imputato
svolgeva  all'epoca  mansioni  astrattamente   compatibili   con   lo
strumento rinvenuto, ma  non  che  quest'ultimo  fosse  stato  appena
utilizzato o dovesse essere  utilizzato  al  momento  del  controllo.
1.3.- Quanto alla non  manifesta  infondatezza  delle  questioni,  il
rimettente  rileva  che  l'art.  4  della  legge  n.  110  del   1975
disciplina, sia il  porto  delle  armi  proprie,  in  una  logica  di
raccordo con le altre norme in materia, sia il porto delle cosiddette
armi improprie. In particolare, il primo comma vieta in modo assoluto
il porto di armi  e  strumenti  ad  esse  assimilati,  destinati  per
naturale vocazione all'offesa alla persona (mazze ferrate  o  bastoni
ferrati,  sfollagente,  noccoliere,  storditori  elettrici  e   altri
apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione),  qualora
l'agente non sia autorizzato ai sensi dell'art. 42 del regio  decreto
18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle  leggi  di
pubblica sicurezza). Il secondo comma dello stesso art. 4  si  occupa
invece del porto di oggetti che, pur  potendo  essere  all'occorrenza
utilizzati per l'offesa alla persona, non sono pero' deputati a  tale
fine. Benche' costituito da  un'unica  proposizione  normativa,  tale
comma delinea due fattispecie distinte.  La  prima  parte  del  comma
vieta di portare, fuori della propria  abitazione  e  delle  relative
appartenenze,  senza  giustificato  motivo,  una  serie  di   oggetti
specificamente individuati: «bastoni  muniti  di  puntale  acuminato,
strumenti da punta o  da  taglio  atti  ad  offendere,  mazze,  tubi,
catene, fionde, bulloni, sfere metalliche». Unica condizione  per  la
punibilita' e', dunque, che  il  porto  abbia  luogo  in  assenza  di
giustificato motivo: intendendosi per tale, secondo la giurisprudenza
di legittimita', ogni esigenza dell'agente  corrispondente  a  regole
comportamentali lecite in relazione alla  natura  dell'oggetto,  alle
condizioni soggettive del portatore, alle modalita' del  fatto  e  ai
luoghi. La seconda parte del medesimo comma  estende  il  divieto  di
porto ingiustificato fuori  della  propria  abitazione  o  delle  sue
appartenenze a un complesso di altri oggetti, descritti  con  formula
generale: «qualsiasi altro strumento  non  considerato  espressamente
come arma da punta o da  taglio,  chiaramente  utilizzabile,  per  le
circostanze  di  tempo  e  di  luogo,  per  l'offesa  alla  persona».
Affinche' il porto di tali  strumenti  sia  punibile  debbono  quindi
ricorrere  due  condizioni  cumulative:  non  solo  l'assenza  di  un
giustificato motivo, ma anche la sussistenza di circostanze di  tempo
e di luogo che rendano probabile l'utilizzo dell'oggetto per l'offesa
alla persona. 1.4.- Ad avviso del giudice a quo, tale discrepanza  di
trattamento risulterebbe lesiva di plurimi  principi  costituzionali.
Il rimettente muove dal rilievo che i reati in materia di  armi  sono
posti a tutela  dell'ordine  pubblico  e  della  pacifica  convivenza
sociale. I reati di porto, in particolare, si  pongono  in  contrasto
con tale bene in ragione della possibilita'  che  l'agente  si  serva
dell'oggetto  in  modo  aggressivo.   In   questa   logica,   sarebbe
ragionevole distinguere le diverse categorie di strumenti, secondo il
loro grado di pericolosita'. Ineccepibile  sarebbe  cosi'  la  scelta
legislativa di vietare in assoluto il porto delle armi e degli  altri
strumenti indicati nel primo comma dell'art. 4, ove l'agente non  sia
munito  di  speciale  licenza:   le   caratteristiche   dell'oggetto,
destinato per sua  natura  all'offesa,  unitamente  al  fatto  che  a
portarlo  sia  un  soggetto  non  abilitato,   renderebbero   infatti
probabile un suo utilizzo per fini illeciti. Diverso il discorso  per
gli oggetti atti ad offendere,  i  quali  presentano  una  accentuata
«natura bifronte», trattandosi di strumenti ideati per  fini  leciti,
solo  occasionalmente   utilizzabili   in   pregiudizio   dell'altrui
incolumita'.  Malgrado  tale  nota  distintiva  unitaria,   per   gli
strumenti "innominati" viene richiesta «una adeguata prossimita'  tra
la condotta del soggetto agente e l'effettivo impatto sulla sicurezza
dei consociati», avendo  il  legislatore  correttamente  avanzato  lo
stadio dell'offesa punibile alla  soglia  del  pericolo  concreto  di
aggressione    alla    persona,    desumibile    dalle    circostanze
spazio-temporali; per gli strumenti  "nominati",  la  punibilita'  e'
invece collegata alla semplice incapacita' del soggetto sottoposto  a
controllo di fornire adeguate spiegazioni che escludano il  possibile
utilizzo  illecito  dell'oggetto,  e  dunque  basata  su   una   mera
presunzione di pericolo.  In  sostanza,  l'offesa  al  bene  protetto
risulterebbe collegata al solo fatto che l'autorita' non sia posta in
condizione di conoscere, con un  certo  grado  di  affidabilita',  il
futuro uso della cosa. 1.5.- In questo modo, secondo  il  rimettente,
la norma censurata si porrebbe  in  contrasto  con  il  principio  di
eguaglianza (art. 3 Cost.),  trattando  in  modo  diverso  situazioni
potenzialmente equivalenti,  con  il  rischio,  addirittura,  che  ad
essere disciplinata in maniera piu' severa  sia  la  situazione  meno
grave. La previsione  di  una  disciplina  piu'  favorevole  per  gli
strumenti individuati in via residuale potrebbe essere  ritenuta,  in
effetti, ragionevole  solo  qualora  ognuno  di  tali  oggetti  fosse
connotato con  certezza  da  un  grado  di  pericolosita'  intrinseca
inferiore a quello degli strumenti "nominati".  Tale  condizione  non
sarebbe, tuttavia, riscontrabile: alcuni oggetti rientranti nel genus
degli strumenti  "innominati"  -  ad  esempio,  bastoni  di  legno  e
martelli - risulterebbero, infatti, dotati di  una  capacita'  lesiva
pari,  o  addirittura  superiore,  a  quella  di   taluni   strumenti
"nominati"  (quali,  ad  esempio,  tubi  e  bulloni).  1.6.-  Sarebbe
violato, altresi', il principio di necessaria offensivita' del  reato
(art. 25, secondo comma, Cost.), ad  entrambi  i  livelli  in  cui  -
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - esso  opera.  Il
principio sarebbe leso, anzitutto, nella sua declinazione "astratta",
con  riferimento,  cioe',  al  momento  di  redazione   della   norma
incriminatrice, la quale dovrebbe esprimere  un  effettivo  contenuto
offensivo di beni meritevoli di tutela. La  presunzione  assoluta  di
pericolo, su cui si basa la norma censurata, apparirebbe  arbitraria,
non rispondendo all'id quod plerumque accidit, come invece  richiesto
dalla giurisprudenza costituzionale ai fini  della  legittimita'  del
ricorso  al  modello  del  reato  di  pericolo   presunto.   Non   si
riscontrerebbero, infatti, regole di esperienza in base alle quali il
porto di oggetti dalla destinazione principale lecita  sarebbe  volto
all'offesa  alla  persona  allorche'  l'agente  non  riesca  a  darne
nell'immediato una giustificazione.  La  carenza  di  un  riscontrato
motivo  legittimante,  oltre  a  segnare  una  tutela  eccessivamente
anticipata del bene, costituirebbe in effetti un «elemento del  tutto
neutro nella logica dell'offensivita'», in quanto uno  strumento  per
il cui porto si fornisce una  rassicurante  giustificazione  potrebbe
essere adoperato,  comunque  sia,  illecitamente  successivamente  al
controllo  di  polizia;  cosi'  come,   all'opposto,   alla   mancata
allegazione del giustificato motivo o alla sua  omessa  dimostrazione
potrebbe  corrispondere  l'assenza   di   una   volonta'   delittuosa
dell'agente. Sarebbero, infatti, assai frequenti i  casi  nei  quali,
per ragioni contingenti, l'agente non  e'  in  grado  di  addurre  un
motivo che superi la mera asserzione,  pur  non  essendo  animato  da
intenti illeciti. Il principio di  offensivita'  sarebbe  compromesso
anche, e in ogni caso, nella  sua  declinazione  "concreta",  inteso,
cioe', come precetto che impegna il giudice comune ad  escludere  dal
perimetro dell'incriminazione, in sede applicativa, condotte prive di
ogni attitudine  lesiva.  La  formulazione  complessiva  della  norma
impedirebbe, infatti, al giudice di verificare la concreta  idoneita'
della condotta a porre il bene protetto in una situazione di rischio,
essendo cio' richiesto espressamente solo in rapporto agli  strumenti
"innominati": il che escluderebbe, a contrario, che debba  procedersi
ad analoga verifica con riguardo agli oggetti  indicati  nella  prima
parte del comma. In tale rilievo sarebbe insita  l'impossibilita'  di
fornire una interpretazione costituzionalmente orientata della norma,
il cui tenore letterale vieterebbe implicitamente la generalizzazione
del requisito di cui si discute. 1.7.- Di  qui  anche  la  conclusiva
violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto  l'irrogazione
di una sanzione penale in difetto di una reale  aggressione  ai  beni
costituzionalmente  rilevanti  tutelati  dalla  norma  incriminatrice
determinerebbe nell'agente - specie nei casi in cui egli, mosso da un
motivo lecito, non riesca a provarlo adeguatamente  nell'immediatezza
- un senso di  sfiducia  nell'ordinamento  atto  a  compromettere  la
funzione rieducativa della pena. 2.- E' intervenuto  in  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il  quale  ha  chiesto  che  le
questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. 2.1.- Secondo
la difesa dell'interveniente, le questioni  sarebbero  inammissibili,
in quanto il  giudice  a  quo  avrebbe  omesso  di  sperimentare  una
interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata. In
base a un orientamento giurisprudenziale da tempo  diffuso,  sussiste
un «giustificato motivo» per  il  porto  dello  strumento  quando  le
esigenze  dell'agente  siano  «corrispondenti  a  regole  relazionali
lecite  rapportate  alla   natura   dell'oggetto,   alle   condizioni
soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento ed alla  normale
funzione  dell'oggetto».  A  fronte  di  cio',  il   motivo   addotto
dall'imputato  per  il   porto   dello   strumento   all'interno   di
un'autovettura mentre si trovava fuori del centro abitato - ossia  la
sua utilizzazione  per  l'esercizio  di  attivita'  agricola  -  «non
avrebbe dovuto essere integralmente pretermesso», una volta  appurato
che si trattava di una roncola, e non di un machete come indicato nel
capo di imputazione, e dunque di uno strumento abitualmente usato per
il taglio di rami e arbusti. Come precisato dalla  giurisprudenza  di
legittimita', essendo l'assenza di un giustificato motivo un elemento
di tipicita' del fatto, il giudice del merito e'  tenuto  a  compiere
una esaustiva verifica al riguardo e  a  ritenere  non  integrato  il
fatto tipico ove  sussista  un  dubbio  sulla  sua  ricorrenza.  Ne',
d'altro canto, la validita'  del  motivo  addotto  a  giustificazione
richiederebbe l'esistenza di un rapporto di immediata  contestualita'
temporale fra il porto dello strumento e il suo utilizzo.  2.2.-  Nel
merito,  le  questioni  sarebbero   in   ogni   caso   non   fondate.
Insussistente si paleserebbe,  anzitutto,  la  denunciata  violazione
dell'art. 3 Cost. L'art. 4, secondo comma, della  legge  n.  110  del
1975  avrebbe  individuato  in  modo  specifico,  all'interno   della
categoria delle armi improprie, alcuni strumenti  che,  per  le  loro
caratteristiche, si sono dimostrati particolarmente idonei a  ledere,
distinguendoli dalla generalita' degli altri oggetti, non indicati in
dettaglio, cui si riferisce la seconda parte del  comma.  Rispetto  a
questi ultimi, il requisito della chiara utilizzabilita' per l'offesa
alla persona in base  alle  circostanze  di  tempo  e  di  luogo  non
rileverebbe,  d'altronde,  solo  ai  fini   della   punibilita',   ma
assurgerebbe anche a criterio di individuazione delle armi improprie:
il che ha consentito a questa Corte di escludere, con la sentenza  n.
79 del 1982, che  la  disposizione  si  ponga  in  contrasto  con  il
principio di  tassativita'  della  fattispecie  penale.  La  medesima
sentenza ha  dichiarato,  altresi',  non  fondata  una  questione  di
legittimita'  costituzionale  sollevata  in  riferimento  all'art.  3
Cost., ponendo in evidenza che il giudice - dopo aver  accertato  che
lo strumento "innominato" costituisca arma impropria ai  sensi  della
norma censurata - deve non soltanto stabilire  la  rispondenza  della
condotta alla  fattispecie  sanzionata,  ma  anche  valutare  la  sua
gravita',  ai  fini   dell'eventuale   applicazione   dell'attenuante
prevista dal terzo comma dello stesso art. 4 della legge n.  110  del
1975 nei «casi di lieve entita'»: il che  escluderebbe  il  paventato
rischio di disparita' di trattamento di  situazioni  identiche  o  di
trattamento piu' favorevole della situazione meno pericolosa. Quanto,
poi, all'asserita violazione del principio di necessaria offensivita'
del reato, l'Avvocatura dello Stato ricorda come questa Corte, con la
sentenza n. 225 del 2008 - riferita  al  possesso  ingiustificato  di
altra  tipologia  di  oggetti,  e  cioe'  le  chiavi  alterate  e   i
grimaldelli -, abbia chiarito che  l'ampia  discrezionalita'  che  va
riconosciuta al legislatore nella  configurazione  delle  fattispecie
criminose si estende anche alla scelta delle modalita' di  protezione
penale dei singoli  beni  o  interessi.  Rientra  in  tale  sfera  di
discrezionalita'  l'opzione  per  forme  di  tutela   avanzata,   che
colpiscano  l'aggressione  ai  valori  protetti  nello  stadio  della
semplice   esposizione   a   pericolo;   nonche',   correlativamente,
l'individuazione   della   soglia   di   pericolosita'   alla   quale
riconnettere la  risposta  punitiva.  Analogamente  a  quanto  si  e'
ritenuto per la fattispecie dianzi richiamata, anche quella di cui al
secondo comma dell'art. 4 della legge n. 110  del  1975  risulterebbe
pienamente coerente con il principio di offensivita'. La norma  mira,
infatti, a salvaguardare  la  pubblica  incolumita'  e  la  sicurezza
pubblica  da  situazioni  di   pericolo   normativamente   tipizzate,
richiedendo, ai fini della punibilita', il concorso di due  elementi:
non solo, cioe', il possesso di strumenti idonei all'offesa, ma anche
l'incapacita'  del   soggetto   di   giustificare   -   e,   amplius,
l'impossibilita' di desumere aliunde - l'attuale destinazione  lecita
degli  strumenti.  Nel  caso  degli  strumenti  "innominati"   e   «a
destinazione "aspecifica"» si richiede, altresi', che  essi,  per  le
«circostanze di  tempo  e  di  luogo»  in  cui  sono  portati,  siano
«chiaramente utilizzabil[i]» per  l'offesa  alla  persona:  requisito
necessario ai fini della verifica della concretezza e dell'attualita'
del  pericolo  per  il  bene  protetto.  Le  medesime  considerazioni
varrebbero, altresi', ad escludere la  dedotta  violazione  dell'art.
27, terzo comma, Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  ordinario  di  Lagonegro,  sezione  penale,  in
composizione monocratica, dubita  della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, secondo comma, prima parte, della legge n. 110 del  1975
- che vieta, sotto comminatoria di sanzione penale, di portare, senza
giustificato  motivo,  fuori  della  propria   abitazione   o   delle
appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato,  strumenti
da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene,  fionde,
bulloni e sfere metalliche - nella parte in cui non richiede, ai fini
della punibilita' del fatto, «la sussistenza di circostanze di  tempo
e luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona». Ad  avviso
del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l'art. 3  Cost.,  in
quanto generatrice di una  irragionevole  disparita'  di  trattamento
rispetto al porto degli strumenti "innominati" indicati nella seconda
parte del medesimo comma («qualsiasi altro strumento non  considerato
espressamente  come  arma  da  punta   o   da   taglio,   chiaramente
utilizzabile, per le circostanze di tempo e di  luogo,  per  l'offesa
alla persona»): categoria atta a ricomprendere oggetti  (ad  esempio,
bastoni  e  martelli)  dotati  di  capacita'  lesiva  equivalente,  o
addirittura maggiore, rispetto a quella  di  taluni  degli  strumenti
"nominati". Sarebbe leso, altresi', l'art. 25, secondo comma,  Cost.,
per contrasto con il principio di necessaria offensivita' del  reato,
sia nella sua declinazione astratta (con riguardo, cioe', al  momento
di redazione della norma), sia nella sua declinazione  concreta  (con
riferimento, cioe', alla fase di applicazione giudiziale):  sotto  il
primo profilo, in  quanto  l'incriminazione  sarebbe  basata  su  una
presunzione  assoluta  di  pericolo   per   l'ordine   pubblico   non
rispondente all'id quod plerumque accidit (non riscontrandosi  regole
di  esperienza  per  cui  il  porto  di  oggetti  dalla  destinazione
principale lecita, quali quelli considerati, sarebbe volto all'offesa
alla persona, allorche' l'agente non riesca a darne nell'immediatezza
una giustificazione plausibile); sotto il secondo  profilo,  giacche'
la formulazione complessiva dell'art. 4, secondo comma,  della  legge
n. 110 del 1975 impedirebbe al  giudice  di  verificare  la  concreta
idoneita' della condotta a porre il bene giuridico  protetto  in  una
effettiva situazione di rischio. Di qui anche la violazione dell'art.
27, terzo comma, Cost.,  in  quanto  l'irrogazione  di  una  sanzione
penale  in  difetto  di  una  reale  aggressione  ai  beni   protetti
genererebbe  in  chi   ne   e'   colpito   un   senso   di   sfiducia
nell'ordinamento, atto a compromettere la funzione rieducativa  della
pena.  2.-  Prodromica  all'esame  delle  censure  e'  una  sintetica
ricostruzione del panorama  normativo  di  riferimento.  Oggetto  dei
dubbi di legittimita' costituzionale e' la disciplina  del  porto  di
armi improprie, delineata dal secondo comma dell'art. 4  della  legge
n. 110 del  1975:  disciplina  la  cui  inosservanza  e'  punita  dal
successivo terzo comma con l'arresto da sei mesi a  due  anni  e  con
l'ammenda da  1.000  a  10.000  euro.  Alla  luce  delle  indicazioni
ritraibili dall'art. 585, secondo comma, numero 2), del codice penale
e dall'art. 45, secondo comma, del regio decreto 6  maggio  1940,  n.
635 (Approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18
giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza), si designano
usualmente come armi improprie gli strumenti che  -  pur  non  avendo
quale destinazione naturale l'offesa alla  persona  (come  invece  le
armi  proprie),  in  quanto  concepiti  per  usi  diversi  e   leciti
(lavorativi, domestici, sportivi, scientifici e simili) - si prestano
ad essere occasionalmente utilizzati per  offendere.  Tali  strumenti
sono distinti  dalla  norma  censurata  in  due  sottocategorie:  gli
strumenti "nominati" (o "tipici") e  gli  strumenti  "innominati"  (o
"atipici"). La prima parte del comma vieta, infatti, di portare fuori
della propria  abitazione  e  delle  appartenenze  di  essa  «[s]enza
giustificato motivo» una serie di oggetti  individuati  in  dettaglio
(«bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio
atti ad  offendere,  mazze,  tubi,  catene,  fionde,  bulloni,  sfere
metalliche»). Allo stesso  regime  risultano  soggetti,  per  effetto
della modifica operata dall'art. 5, comma 1, lettera b),  numero  2),
del decreto legislativo 26 ottobre 2010,  n.  204  (Attuazione  della
direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva  91/477/CEE  relativa
al controllo dell'acquisizione  e  della  detenzione  di  armi),  gli
ulteriori strumenti indicati nella parte finale dello stesso  secondo
comma dell'art. 4  della  legge  n.  110  del  1975,  non  investita,
peraltro, dalle censure del giudice rimettente. Unica condizione  per
la punibilita' del porto degli oggetti considerati fuori  dai  luoghi
di pertinenza dell'agente e', dunque, che la condotta sia  realizzata
in assenza  di  un  «giustificato  motivo»:  intendendosi  per  tale,
secondo  una  ricorrente   affermazione   giurisprudenziale,   quello
determinato da «particolari esigenze dell'agente [...]  perfettamente
corrispondenti  a  regole  comportamentali  lecite  relazionate  alla
natura dell'oggetto, alle modalita' di verificazione del fatto,  alle
condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento, alla
normale funzione  dell'oggetto»  (ex  multis,  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 30 settembre 2019-10 gennaio 2020,  n.
578; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione quarta  penale,
sentenza 14 novembre-9 dicembre 2019, n. 49769). In sostanza, occorre
che, al momento del porto, l'oggetto sia destinato a uno scopo lecito
ad esso riferibile,  avuto  riguardo  alle  circostanze  oggettive  e
soggettive. La seconda parte del comma (preceduta dalla  congiunzione
«nonche'»), con  previsione  residuale  e  di  chiusura,  estende  il
divieto di porto ingiustificato  fuori  dalla  propria  abitazione  o
dalle appartenenze di essa  a  un  ulteriore  complesso  di  oggetti,
descritti  con  formula  generale  imperniata  su  una  "clausola  di
offensivita'":   «qualsiasi   altro   strumento    non    considerato
espressamente  come  arma  da  punta   o   da   taglio,   chiaramente
utilizzabile, per le circostanze di tempo e di  luogo,  per  l'offesa
alla persona». Affinche' il porto di tali oggetti  sia  punibile  non
basta, pertanto, l'assenza di un  giustificato  motivo,  ma  occorre,
altresi', che le circostanze spazio-temporali in cui il porto avviene
rendano concreto il pericolo che l'agente si avvalga dell'oggetto  in
chiave aggressiva (Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  7
novembre-24 dicembre 2019, n. 51946): l'avverbio  «chiaramente»  sta,
infatti, a significare che deve esservi un collegamento non meramente
ipotetico tra l'oggetto,  non  destinato  naturalmente  all'offesa  e
spesso di uso comune, e la sua utilizzazione  per  procurare  lesioni
(Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza  21  novembre-9
dicembre 2013, n. 49517), anche se poi tale utilizzazione  non  abbia
effettivamente luogo (Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,
sentenza 26 febbraio-18 marzo 2009, n. 11812). Per opinione  diffusa,
la norma incriminatrice  del  porto  di  armi  improprie,  nella  sua
duplice articolazione, e' diretta, al pari delle altre in materia  di
armi, a tutelare la sicurezza pubblica e  l'incolumita'  individuale:
si tratta segnatamente di una fattispecie «di sbarramento» (Corte  di
cassazione, sezione quarta penale,  sentenza  27  agosto-3  settembre
1996, n. 8222), volta ad evitare, «in via di prevenzione»  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 17 gennaio-16 maggio 1985,
n. 4750), che lo strumento possa essere utilizzato per la commissione
di  piu'  gravi  delitti  lesivi  di  altri  beni  giuridici   (vita,
integrita' fisica, patrimonio e via dicendo), quali omicidi,  lesioni
personali, rapine o minacce. In tale ottica, questa stessa  Corte  ha
individuato l'oggetto  della  tutela  nell'ordine  pubblico  e  nella
«pacifica convivenza sociale» (sentenza n. 79  del  1982).  3.-  Cio'
premesso, occorre prendere preliminarmente in  esame  l'eccezione  di
inammissibilita' delle questioni formulata  dall'Avvocatura  generale
dello Stato, sotto il profilo dell'omessa sperimentazione,  da  parte
del  giudice  a  quo,  di  una   interpretazione   costituzionalmente
orientata della disposizione censurata. Assume  l'Avvocatura  che  il
motivo addotto nel caso di specie dall'imputato per  giustificare  il
porto dell'oggetto all'interno di un'autovettura  mentre  si  trovava
fuori del centro abitato - ossia la sua utilizzazione per l'esercizio
di attivita' agricola -  «non  avrebbe  dovuto  essere  integralmente
pretermesso» dal rimettente, una volta appurato che  si  trattava  di
una roncola, e dunque di uno  strumento  abitualmente  usato  per  il
taglio di rami e arbusti. Secondo la giurisprudenza di  legittimita',
infatti, l'assenza di un giustificato motivo rappresenta un  elemento
di  tipicita'  del  fatto,  sicche'  il  giudice  deve  escludere  la
configurabilita'  del  reato  ove  sussista  un  dubbio   sulla   sua
ricorrenza; ne', d'altro  canto,  la  validita'  del  motivo  addotto
richiede l'esistenza  di  un  rapporto  di  immediata  contestualita'
temporale fra il porto dello strumento e il suo utilizzo. L'eccezione
non e' fondata. Essa si risolve in una critica alla  motivazione  del
giudice  a  quo  in  ordine  alla  rilevanza  delle  questioni,   con
particolare riguardo alla ritenuta insussistenza, nel caso di specie,
di  un  giustificato  motivo  del  porto.  Tale  motivazione  appare,
peraltro, in grado di superare il vaglio di non implausibilita',  nel
quale si sostanzia  e  si  esaurisce  il  controllo  "esterno"  sulla
rilevanza demandato a questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 192  del
2022, n. 207, n. 181 e n. 59  del  2021,  e  n.  218  del  2020).  Il
rimettente ricorda infatti come, secondo consolidati indirizzi  della
giurisprudenza di  legittimita',  la  giustificazione  del  porto  di
oggetti atti  ad  offendere  debba  essere  fornita  al  momento  del
controllo e in modo  specifico,  cosi'  da  consentire  alla  polizia
giudiziaria di procedere a immediate verifiche (tra le  molte,  Corte
di cassazione, sezione prima penale,  sentenza  30  gennaio-7  maggio
2019, n. 19307; Corte di cassazione, sezione prima  penale,  sentenza
15 marzo-15 aprile 2019, n. 16376);  essa  deve  risultare,  inoltre,
attuale, tale cioe' da dimostrare l'esigenza di  un  utilizzo  lecito
dello strumento al momento dell'accertamento (tra le altre, Corte  di
cassazione, sezione settima penale, ordinanza  15  gennaio-10  agosto
2015, n. 34774; Corte di cassazione, sezione prima  penale,  sentenza
23 settembre-20 ottobre 2004, n. 41098). Per gli strumenti da lavoro,
in particolare, il porto deve risultare legato da un nesso attuale di
causalita' rispetto allo svolgimento dell'attivita' lavorativa  o  ad
altra  ad  essa,   almeno   indirettamente,   ricollegabile   (quale,
tipicamente, il trasferimento da casa al luogo di lavoro e viceversa)
(Corte di cassazione, n.  41098  del  2004);  diversamente  opinando,
infatti, qualsiasi condotta di porto di strumento atto  ad  offendere
potrebbe trovare giustificazione in una causa astrattamente  connessa
con esso, ma non effettiva al momento del comportamento  vietato:  il
che contrasterebbe con la ratio legis,  mirante  a  restringere,  per
motivi di ordine pubblico e di sicurezza per le persone e le cose, il
piu'  possibile  il  porto  di  strumenti  e  oggetti  potenzialmente
adoperabili per commettere atti di intimidazione e di violenza (Corte
di cassazione, sezione prima penale, sentenza  14  gennaio-14  aprile
1999,  n.  4696).  Nella  specie,  per   converso,   in   base   alla
ricostruzione operata in punto di fatto dal giudice a quo -  che  non
spetta a questa Corte sindacare - l'imputato si  sarebbe  limitato  a
dichiarare ai verbalizzanti, in  modo  del  tutto  generico,  che  lo
strumento  gli  serviva  per  lavori  agricoli,   mentre   le   prove
successivamente addotte in sede  dibattimentale,  oltre  a  risultare
tardive,  dimostrerebbero  soltanto  che  egli   svolgeva   all'epoca
un'attivita' lavorativa compatibile con l'uso dello strumento, ma non
che questo dovesse essere impiegato o fosse stato appena impiegato al
momento  del  controllo.  Con  particolare  riguardo  al  presupposto
ermeneutico che  fonda  i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  -
l'impossibilita',  cioe',  di  riferire  il  requisito  della  chiara
utilizzabilita' per l'offesa, alla luce delle circostanze di tempo  e
di luogo, al porto degli strumenti "nominati"  -  il  giudice  a  quo
esclude, d'altro canto, espressamente e in  modo  motivato,  che  sia
possibile  una  interpretazione  costituzionalmente  orientata  della
disposizione  censurata.  Il   tenore   letterale   di   quest'ultima
impedirebbe, infatti, di "generalizzare" il requisito  in  questione,
estendendolo a strumenti diversi da quelli ai quali e' specificamente
riferito.  Tale  conclusione  risponde   al   diritto   vivente:   la
giurisprudenza di legittimita' e',  infatti,  costante  nel  ritenere
che, alla luce del dettato normativo,  il  requisito  in  parola  sia
richiesto unicamente per  gli  strumenti  "innominati"  di  cui  alla
seconda parte del comma (per  tutte,  Corte  di  cassazione,  sezione
seconda penale, sentenza 8 marzo-26 aprile  2022,  n.  15908;  Cass.,
ordinanza n. 34774 del 2015). 4.- Nel merito, le questioni  non  sono
tuttavia fondate. 4.1.- Quanto alla dedotta violazione del  principio
di eguaglianza (art. 3 Cost.), la censura fa perno  sull'assunto  per
cui - stante la comune caratteristica di tutte le armi improprie,  di
essere  strumenti  aventi  una  destinazione  naturale  lecita,  solo
occasionalmente utilizzabili  per  l'offesa  -  il  trattamento  piu'
rigoroso riservato agli  strumenti  "nominati"  non  potrebbe  essere
giustificato con una loro maggiore pericolosita', essendovi strumenti
"innominati" (ad esempio, bastoni di legno o martelli) con  capacita'
offensiva pari o addirittura  superiore  a  quella  di  taluni  degli
strumenti "nominati" (quali tubi o bulloni). In senso  contrario,  va
tuttavia osservato che la  distinzione  tra  strumenti  "nominati"  e
"innominati" operata dalla norma censurata non e' priva di ratio.  Il
legislatore ha incluso tra gli strumenti "nominati",  anzitutto,  gli
strumenti che, per le loro caratteristiche, si presentano come quelli
oggettivamente piu'  pericolosi:  bastoni  con  puntale  acuminato  e
strumenti da punta o da taglio atti  ad  offendere  (quali  coltelli,
forbici a  punta,  asce,  roncole,  machete  e  simili).  Si  tratta,
infatti, di strumenti  strutturalmente  prossimi  alle  armi  proprie
cosiddette bianche e che, non a caso, corrispondono al nucleo storico
delle armi  improprie  gia'  contemplato  in  origine  dall'art.  42,
secondo comma, TULPS. Il legislatore ha preso poi  in  considerazione
gli strumenti che, in base  all'esperienza,  relativa  soprattutto  a
manifestazioni violente di piazza,  piu'  facilmente  e  con  maggior
frequenza si prestano ad essere impiegati per l'offesa alla  persona:
mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche.  Proprio  con
riguardo alla normativa penale in materia di armi,  questa  Corte  ha
affermato che, nella  determinazione  delle  fattispecie  tipiche  di
reato, correttamente il legislatore tiene conto «non  [...]  soltanto
della  struttura  e  pericolosita'  astratta  dei  fatti  che  va  ad
incriminare», ma anche «della concreta esperienza  nella  quale  quei
fatti si sono verificati e dei particolari  inconvenienti  provocati,
in precedenza, dai fatti stessi, in relazione  ai  beni  che  intende
tutelare»: quindi, non solo della astratta capacita'  di  offesa  dei
singoli strumenti, ma anche dell'uso concreto che di essi viene fatto
in base all'esperienza (sentenza n. 132 del 1986; in  senso  analogo,
con riferimento alla disciplina penale degli  stupefacenti,  sentenza
n. 333 del 1991). Su tale rilievo, questa Corte  ha  ritenuto  quindi
non ingiustificata la sottoposizione delle  armi  ad  aria  compressa
(considerate, a certe condizioni, armi comuni da sparo) a  un  regime
piu' rigoroso di quello previsto per le armi da pesca, come il fucile
subacqueo (escluse  da  tale  considerazione,  ancorche'  funzionanti
anch'esse  ad  aria  compressa),  posto  che  le  seconde,  in   base
all'esperienza, meno si prestano ad usi distorti (sentenza n. 132 del
1986). Nel caso oggi in esame, per riprendere  l'esempio  prospettato
dal rimettente, puo' anche essere vero  che  un  martello  di  grosse
dimensioni abbia, astrattamente,  una  capacita'  di  offesa  pari  o
maggiore a quella di un  tubo:  ma  l'esperienza  -  della  quale  il
legislatore si e' fatto interprete - ha mostrato  che  l'impiego  per
l'offesa del primo e' meno agevole e frequente di quello del secondo.
Cio', senza considerare che nel giudizio a quo si discute  del  porto
di una roncola; dunque, di un oggetto appartenente pacificamente alla
categoria di armi improprie  anche  oggettivamente  piu'  pericolose,
quale  quella  degli  strumenti  da  punta  o  da  taglio  (Corte  di
cassazione, sezione quinta  penale,  sentenza  7  febbraio-11  giugno
2020, n. 17942; Corte di cassazione, sezione quinta penale, 5 marzo-9
luglio 1982, n. 6763): strumenti atti a ferire - e non  semplicemente
ad  essere  occasionalmente  usati  come  corpi   contundenti   -   e
caratterizzati,  altresi',  da  una  particolare  maneggevolezza.  Va
aggiunto, per completezza, che, rispetto ai moltissimi oggetti in uso
nella vita comune  occasionalmente  utilizzabili  per  l'offesa  alla
persona  -  che  il  legislatore  non  potrebbe  enumerare  in   modo
casistico, senza incorrere nel rischio della lacuna -  la  condizione
della sussistenza di circostanze che facciano apparire verosimile  un
impiego in  pregiudizio  dell'altrui  incolumita'  svolge  anche  una
insostituibile funzione di delimitazione del fatto  tipico:  funzione
debitamente  valorizzata  a  suo  tempo  da  questa  Corte   -   come
sottolineato dall'Avvocatura dello  Stato  -  al  fine  di  escludere
l'indeterminatezza  della  categoria  degli  strumenti   "innominati"
(sentenza n. 79 del  1982).  4.2.-  Quanto,  poi,  alla  denuncia  di
violazione del principio di necessaria offensivita' del reato,  giova
ricordare che, per costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  tale
principio - la cui matrice costituzionale e' ricavabile dall'art. 25,
secondo comma, Cost. (sentenza n.  211  del  2022),  in  una  lettura
sistematica cui fa da sfondo  l'«insieme  dei  valori  connessi  alla
dignita' umana» (sentenze n. 225 del 2008 e n. 263 del 2000) -  opera
su due piani distinti. Da un lato, cioe', come  precetto  rivolto  al
legislatore, diretto a limitare la repressione penale  a  fatti  che,
nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto  offensivo
di beni o interessi ritenuti meritevoli di  protezione  (offensivita'
"in astratto"); dall'altro, come criterio  interpretativo-applicativo
affidato al giudice, il quale, nella verifica della  riconducibilita'
della singola fattispecie concreta al  paradigma  punitivo  astratto,
dovra' evitare che ricadano in quest'ultimo  comportamenti  privi  di
qualsiasi attitudine lesiva (offensivita' "in concreto") (sentenze n.
211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n.  265  del
2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Quanto al  primo  versante,
il principio di offensivita' in  astratto  non  implica  che  l'unico
modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno.
Rientra, infatti, nella discrezionalita' del legislatore  optare  per
forme di tutela anticipata,  le  quali  colpiscano  l'aggressione  ai
valori protetti nello stadio della semplice esposizione  a  pericolo,
nonche', correlativamente, individuare  la  soglia  di  pericolosita'
alla quale riconnettere la risposta punitiva  (sentenze  n.  211  del
2022, n. 141  del  2019,  n.  109  del  2016  e  n.  225  del  2008):
prospettiva nella quale non e' precluso, in linea  di  principio,  il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto  (sentenze  n.  211
del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 247 del 1997,
n. 360 del 1995, n. 133  del  1992  e  n.  333  del  1991).  Compete,
nondimeno, a questa Corte  verificare  -  tramite  lo  strumento  del
sindacato di costituzionalita'  -  se  le  soluzioni  adottate  siano
rispettose del principio di offensivita' "in astratto", acclarando se
la fattispecie delineata dal legislatore esprima un  reale  contenuto
offensivo: esigenza che, nell'ipotesi del  reato  di  pericolo  -  e,
segnatamente, di pericolo presunto - presuppone «che  la  valutazione
legislativa  di  pericolosita'  del  fatto  incriminato  non  risulti
irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque  accidit»
(sentenze n. 211 del 2022, n. 141 del 2019, n. 109 del 2016 e n.  225
del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 278  del  2019).  Ove  tale
condizione risulti soddisfatta, «il compito di uniformare  la  figura
criminosa al principio di offensivita' nella concretezza  applicativa
resta affidato  al  giudice  ordinario,  nell'esercizio  del  proprio
potere ermeneutico».  Quest'ultimo  «-  rimanendo  impegnato  ad  una
lettura "teleologicamente orientata" degli elementi  di  fattispecie,
tanto piu' attenta quanto  piu'  le  formule  verbali  impiegate  dal
legislatore  appaiano,  in  se',  anodine  o   polisense   -   dovra'
segnatamente evitare che l'area di  operativita'  dell'incriminazione
si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialita'  lesiva»
(sentenza n. 225 del 2008).  4.2.1.-  Nel  caso  in  esame,  si  deve
escludere che la  norma  censurata  confligga  con  il  principio  di
offensivita' "in astratto". Contrariamente a quanto assume il giudice
a quo, la presunzione di pericolo sottesa alla  norma  incriminatrice
non puo' essere ritenuta irrazionale o arbitraria, tenuto conto della
natura degli strumenti "nominati" avuti di mira -  selezionati,  come
si e' visto, in ragione della particolare attitudine  lesiva,  legata
alle loro caratteristiche intrinseche (quanto agli strumenti da punta
o da taglio), o alla frequenza del loro impiego per usi distorti,  in
base all'esperienza (quanto agli altri) - e del richiesto difetto  di
una giustificazione del loro porto fuori dell'abitazione o delle  sue
appartenenze. Condotta - quella del porto fuori dai luoghi privati di
pertinenza dell'agente - che si presenta, peraltro, come quella  piu'
vicina all'uso pregiudizievole, e  dunque  connotata  da  un  maggior
coefficiente di pericolosita'. Al riguardo, occorre considerare  che,
nella logica della norma, come di altre norme incriminatrici in  tema
di armi, gli oggetti atti ad offendere non sono soltanto lo strumento
utilizzabile per la commissione premeditata di  illeciti  penali,  ma
anche occasionali mezzi di commissione di  reati  da  parte  di  chi,
trovandosi coinvolto in un conflitto, sia spinto a usarli  contro  il
proprio avversario. Si tratta, quindi, di  oggetti  che,  in  base  a
regole di esperienza, presentano un significativo  rischio  di  poter
essere utilizzati in modo illecito: anziche' attendere  che  l'agente
tenti di commettere un reato con lo strumento in  suo  possesso,  non
puo' ritenersi arbitrario che il diritto  penale  intervenga  in  una
fase precedente per prevenire  tale  rischio.  L'anticipazione  della
tutela risulta qui giustificata - anche in chiave di proporzionalita'
dell'intervento - dall'elevato rango degli  interessi  in  gioco,  al
culmine  dei  quali  si   pone   la   salvaguardia   della   vita   e
dell'integrita' fisica delle persone. Non appare persuasivo,  d'altro
canto, il ragionamento del giudice a quo, secondo il quale  l'assenza
di   giustificato   motivo   del   porto    costituirebbe    elemento
insignificante  nella  logica  dell'offensivita',   in   quanto   uno
strumento  portato  per  giustificato  motivo  potrebbe  bene  essere
utilizzato illecitamente subito dopo il controllo di polizia. Invero,
anche il fatto che un'arma  comune  da  sparo  venga  portata  da  un
soggetto munito  di  licenza  non  ne  esclude  l'impiego  per  scopi
criminosi. Nel caso in esame, in cui  si  discute  di  strumenti  con
destinazione  principale  lecita,  il  riferimento  al   giustificato
motivo, da un lato, attenua significativamente la probabilita' che lo
strumento  sia  destinato  ad   essere   utilizzato   per   l'offesa;
dall'altro, vale a circoscrivere la punibilita' ai soli comportamenti
che creano la situazione di  pericolo  senza  avere  alcuna  utilita'
apprezzabile  nella  vita   sociale.   Nei   passaggi   argomentativi
dell'ordinanza di rimessione e' insita, in effetti, una critica  alla
lettura troppo rigorosa del requisito  dell'assenza  di  giustificato
motivo adottata dalla giurisprudenza di legittimita', in  particolare
per   quanto   attiene   alla   pretesa   -   priva   di    riscontro
nell'elaborazione giurisprudenziale  relativa  alla  contravvenzione,
per molti versi strutturalmente affine, di possesso ingiustificato di
chiavi  alterate  o  di  grimaldelli  (art.  707  cod.  pen.)  -  che
l'interessato  fornisca  al  momento   stesso   del   controllo   una
spiegazione  adeguata  del  porto   dell'oggetto,   suscettibile   di
immediata verifica da parte degli organi di polizia (con  conseguente
irrilevanza a  priori  di  ogni  successiva  allegazione  difensiva):
spiegazione che il portatore, per molteplici ragioni, potrebbe essere
non in grado di offrire, pur avendo in animo di fare  un  uso  lecito
dello strumento. Ma allora sarebbe semmai questo specifico e distinto
aspetto che dovrebbe formare oggetto di  censura.  4.2.2.-  Riguardo,
poi, al dedotto  contrasto  con  il  principio  di  offensivita'  "in
concreto" - del quale, secondo il giudice a quo, la  norma  censurata
precluderebbe l'operativita', in ragione della sua formulazione -  va
rilevato  che  il  rimettente  muove  da  una   interpretazione   non
condivisibile della valenza del principio richiamato. E' ben vero che
il tenore letterale della disposizione esclude - secondo  il  diritto
vivente - che, riguardo  al  porto  degli  strumenti  "nominati",  il
giudice debba  accertare  una  situazione  di  pericolo  concreto  di
impiego dello strumento per l'offesa, alla luce delle circostanze  di
tempo e di luogo (come invece per  gli  strumenti  "innominati").  Ma
rispetto ai reati di pericolo presunto non  e'  in  questo  modo  che
opera il principio di offensivita' in sede di applicazione  da  parte
del giudice comune. In effetti, se  rispetto  ai  reati  di  pericolo
presunto il giudice dovesse accertare la concreta pericolosita' della
condotta verrebbe meno la stessa distinzione tra essi e  i  reati  di
pericolo concreto. In realta',  in  questi  ultimi  il  giudice  deve
appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussistesse  una
seria probabilita' della verificazione del danno. Di  contro  -  come
emerge  dalla  giurisprudenza  di  questa  Corte  sul  principio   di
offensivita' che si e' avuto  modo  di  richiamare  -  nei  reati  di
pericolo presunto, il giudice deve escludere la punibilita' di  fatti
pure corrispondenti alla  formulazione  della  norma  incriminatrice,
quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole)
possibilita' di produzione  del  danno.  In  questa  prospettiva,  il
principio di offensivita' "in concreto" puo' - e deve - operare anche
in rapporto alla figura criminosa considerata.  Il  giudice  potrebbe
escludere  la  punibilita',  in  primo   luogo,   alla   luce   delle
caratteristiche dell'oggetto, anche se di per  se'  rispondente  alla
definizione legislativa. Si tratta, del resto,  di  un  criterio  del
quale questa Corte ha gia' fatto applicazione in tema  di  detenzione
illegale di esplosivi (art. 2 della legge 2  ottobre  1967,  n.  895,
recante «Disposizioni per il  controllo  delle  armi»),  al  fine  di
escludere che possa ritenersi punibile la detenzione di  quantitativi
minimi  di  materia  esplodente,  che  non  raggiungano  la   «soglia
dell'offensivita'  dei  beni  in   discussione»   (come   nel   caso,
prospettato dal rimettente dell'epoca, della detenzione di polvere da
sparo bastante per il caricamento di una sola cartuccia) (sentenza n.
62  del  1986).  Ma  potrebbero  venire  in  rilievo,  nella   stessa
direzione, anche le condizioni spazio-temporali  del  porto,  qualora
esse dimostrino l'inesistenza di qualsiasi (apprezzabile) pericolo di
tale utilizzazione. 4.3.- La residua censura di violazione  dell'art.
27, terzo comma, Cost. appare priva di autonomia rispetto a quella di
violazione del principio di necessaria  offensivita'  del  reato.  Il
giudice  a   quo   fa,   infatti,   discendere   automaticamente   la
compromissione  della  finalita'   rieducativa   della   pena   dalla
circostanza che, nell'ipotesi in esame, una sanzione penale  verrebbe
applicata  in  difetto  di  una  reale   aggressione   dell'interesse
protetto. La censura cade, pertanto, con quella cui accede. 5.-  Alla
luce  delle  considerazioni  che  precedono,   le   questioni   vanno
dichiarate non fondate.