ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale   dell'art.   10,
unitariamente considerato, e in  combinato  disposto  con  l'art.  3,
comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in
materia di  contratto  di  lavoro  a  tempo  indeterminato  a  tutele
crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n.  183),  nel
testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 3,  comma  1,  del
decreto-legge 12 luglio 2018, n.  87  (Disposizioni  urgenti  per  la
dignita'  dei  lavoratori   e   delle   imprese),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, promosso dalla Corte
d'appello di Napoli, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra C.
R. e B. srl, con ordinanza del 16 aprile 2023, iscritta al n. 72  del
registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2023. 
    Visto l'atto di costituzione di C. R.; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  5  dicembre  2023  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    udito l'avvocato Sergio Vacirca per C. R.; 
    deliberato nella camera di consiglio del 5 dicembre 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del  2023),
la Corte d'appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale degli artt.  3,  comma  1,  e  10  del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia  di
contratto di lavoro a tempo  indeterminato  a  tutele  crescenti,  in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), in riferimento agli
artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, questi ultimi due in relazione  all'art.  1,  comma  7,
lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al  Governo
in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei  servizi  per
il lavoro e delle politiche attive, nonche' in  materia  di  riordino
della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva  e
di tutela e conciliazione delle  esigenze  di  cura,  di  vita  e  di
lavoro) e all'art. 24 della  Carta  sociale  europea,  riveduta,  con
annesso, fatta a Strasburgo il  3  maggio  1996,  ratificata  e  resa
esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 (d'ora in poi: CSE). 
    1.1.- Le questioni sono  sollevate  nel  corso  del  giudizio  di
impugnazione di un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, ad
una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di  una
procedura di licenziamento collettivo per «riduzione  del  personale»
avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge  23  luglio
1991, n. 223 (Norme in  materia  di  cassa  integrazione,  mobilita',
trattamenti  di  disoccupazione,  attuazione   di   direttive   della
Comunita' europea, avviamento al  lavoro  ed  altre  disposizioni  in
materia di  mercato  del  lavoro),  censurato  per  violazione  della
procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta. 
    1.2.- La Corte rimettente premette  di  aver  gia'  proposto,  in
riferimento alle medesime questioni, un rinvio pregiudiziale  su  cui
la Corte di giustizia dell'Unione europea, con ordinanza del 4 giugno
2020,  in  causa  C-32/20,  TJ  contro  B.  srl,  si  e'   dichiarata
manifestamente incompetente per l'estraneita' della controversia  del
procedimento  principale,  relativa  alle  conseguenze  dell'atto  di
recesso,  agli  obblighi  imposti  dalla   direttiva   98/59/CE   del
Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente  il  ravvicinamento  delle
legislazioni  degli  Stati  membri  in   materia   di   licenziamenti
collettivi; nonche', nel medesimo giudizio, questioni di legittimita'
costituzionale, per profili in parte  uguali  e  in  parte  connessi,
dichiarate da questa Corte inammissibili (sentenza n. 254  del  2020)
per una  insufficiente  individuazione  dei  vizi  del  licenziamento
collettivo e per l'incertezza sul tipo di intervento richiesto. 
    1.3.- In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia  di  aver
dichiarato  con  sentenza  parziale  l'illegittimita'  dell'impugnato
licenziamento per  violazione  dei  criteri  di  scelta,  e  di  aver
disposto   la   prosecuzione    del    giudizio    ai    soli    fini
dell'individuazione delle conseguenze sanzionatorie; osserva, quindi,
che ad un licenziamento collettivo  illegittimo  per  violazione  dei
criteri di scelta, intimato nel 2016 nei confronti di una lavoratrice
assunta  dopo  il  7  marzo  2015,  trova  applicazione   il   regime
sanzionatorio previsto dall'art. 3, comma 1, del  d.lgs.  n.  23  del
2015, richiamato dall'art. 10 del medesimo  decreto,  nella  versione
antecedente la novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n.  87
(Disposizioni  urgenti  per  la  dignita'  dei  lavoratori  e   delle
imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9  agosto  2018,
n. 96, ai sensi  del  quale  il  giudice  dichiara  l'estinzione  del
rapporto  e  condanna  il  datore  di  lavoro  al  pagamento  di  una
indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale «in  misura
comunque non inferiore a  quattro  e  non  superiore  a  ventiquattro
mensilita'». 
    1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente
formula tre articolate censure. 
    1.4.1.- In  primo  luogo,  la  Corte  dubita  della  legittimita'
costituzionale  dell'art.  10  del  d.lgs.  n.  23  del   2015,   sia
unitariamente inteso che nel combinato disposto con l'art.  3,  comma
1, dello stesso decreto, con riferimento agli artt. 3, 10, 35,  76  e
117, primo comma, Cost., nella parte in  cui  avrebbe  modificato  la
disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta  dei
lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo, pur
in assenza di una specifica delega  e,  comunque,  in  contrasto  con
l'art. 24 CSE, in violazione dei principi  e  dei  criteri  direttivi
della legge delega. 
    Con riferimento  al  profilo  interno,  la  modifica  del  regime
sanzionatorio dei  licenziamenti  collettivi  sarebbe  un  intervento
eccedente l'ambito della delega testuale di cui all'art. 1, comma  7,
lettera c), della legge n. 183 del 2014, che, demandando  al  Governo
di  adottare  una  disciplina  che  preveda  tutele   crescenti   con
l'anzianita'  che  escluda  «per   i   licenziamenti   economici   la
possibilita' della reintegrazione del lavoratore», non  consentirebbe
di ritenere ricompresa nella  devoluzione  della  potesta'  normativa
anche   la   rimodulazione   della   disciplina   sanzionatoria   del
licenziamento  collettivo,  in  quanto  corpo  normativo  unitario  e
completo, autonomamente disciplinato. 
    Nello  stesso  senso  deporrebbero  sia  l'analisi   dei   lavori
parlamentari (Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera  dei
deputati,  XI,  seduta  del  17  febbraio  2015;  Commissione  Lavoro
pubblico e privato, previdenza sociale del Senato  della  Repubblica,
11ª, seduta dell'11 febbraio 2015), sia  la  considerazione  che  una
tale significativa modifica  avrebbe  imposto  una  scelta  lessicale
inequivoca ed esplicita. 
    Quanto al profilo sovranazionale, la potesta' normativa  delegata
non  sarebbe  stata  esercitata  in  coerenza  con   le   convenzioni
internazionali, come richiesto dall'art. 1, comma 7, della  legge  n.
183 del 2014, ed in particolare in relazione all'art. 24 CSE, la  cui
violazione ad opera del d.lgs. n. 23 del 2015 - nella parte  in  cui,
prevedendo  come  sanzione  per  un  licenziamento   illegittimo   un
indennizzo  forfettizzato  ex  ante  in  un   plafond   rigido,   non
consentirebbe una personalizzazione del danno subito  a  causa  della
perdita del  posto  di  lavoro  -  risulterebbe  gia'  accertata  dal
Comitato  europeo  dei  diritti  sociali  nella   decisione   dell'11
settembre 2019, pubblicata l'11 febbraio 2020,  di  accoglimento  del
reclamo collettivo proposto dalla  Confederazione  generale  italiana
del lavoro (CGIL) n. 158 del  2017,  seguita  dalla  risoluzione  del
Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020,  che
ha invitato l'Italia a riferire sulle eventuali misure  adottate  per
rendere la misura in esame conforme alla Carta. 
    1.4.2.-  In  secondo  luogo,  il  giudice  a  quo   ritiene   non
manifestamente infondato il  contrasto  dell'art.  3,  comma  1,  del
d.lgs. n. 23 del 2015, in combinato  disposto  con  l'art.  10  dello
stesso decreto, con gli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost.,  nella  parte
in cui, per  la  stessa  violazione  dei  criteri  di  scelta,  nella
medesima procedura di licenziamento  collettivo  e  per  rapporti  di
lavoro omogenei, disporrebbe, irragionevolmente, una  sanzione  priva
di  efficacia  deterrente  e  inidonea  ad  assicurare   un   ristoro
personalizzato ed effettivo del danno per i soli lavoratori assunti a
tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015. 
    La Corte rimettente osserva che nella procedura di  licenziamento
collettivo su cui e' chiamata  a  giudicare  coesistono  rapporti  di
lavoro che, pur  assoggettati  alla  medesima  e  simultanea  analisi
comparativa  da  estendersi  all'intero  complesso  aziendale,   sono
caratterizzati da regimi  sanzionatori  disomogenei,  in  quanto  una
identica violazione dei criteri  di  scelta  viene  riparata  con  la
reintegra del rapporto di lavoro e  previdenziale  per  i  lavoratori
assunti a tempo indeterminato fino al 7 marzo 2015, ed esclusivamente
con un indennizzo forfettario, basato su una nozione di retribuzione,
non onnicomprensiva ed inadeguata ad assicurare il ristoro  effettivo
del  danno  subito  anche  sotto  il  profilo  previdenziale,  per  i
lavoratori assunti successivamente. 
    In  presenza   di   una   identica   violazione   che   determina
l'illegittima  perdita  del   posto   di   lavoro,   un   trattamento
differenziato, che in  una  prospettiva  individuale  puo'  ritenersi
giustificato in ragione del "fluire del tempo", darebbe luogo  invece
ad  una  irragionevole  disparita'  di  tutela  all'interno  di   una
procedura collettiva, divenendo un fattore disarmonico e penalizzante
nella  comparazione,   e   persino   di   condizionamento,   rispetto
all'esigenza di imparzialita'  che  connota  la  scelta;  la  ragione
giustificatrice  dello  «scopo»  perseguito  dal   legislatore,   «di
rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da  parte
di coloro che sono in cerca  di  occupazione»  (alinea  dell'art.  1,
comma 7, della legge n. 183 del 2014), perderebbe significato in  una
procedura di esubero, nella quale l'individuazione dei lavoratori  da
licenziare deve basarsi esclusivamente su una  puntuale  applicazione
di omogenei ed oggettivi criteri di scelta, poiche'  l'affievolimento
radicale  della  sanzione  amplificherebbe  per  tali  lavoratori  il
"rischio" di perdere il lavoro, con un sacrificio  irragionevole  che
si estende anche alla posizione previdenziale. 
    Nella procedura comparativa di cui agli artt. 4 e 24 della  legge
n. 223 del 1991 - conclude sul punto il giudice a quo - il  combinato
disposto delle norme censurate penalizzerebbe in modo  ingiustificato
i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015,  con
la previsione di un regime di garanzia del posto  di  lavoro  che  si
porrebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali. 
    1.4.3. - Con la terza questione il giudice  a  quo  dubita  della
legittimita'  costituzionale  delle  norme  censurate  in   combinato
disposto, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e  117
Cost. laddove, in forma irragionevole, in presenza di una  violazione
di parametri selettivi oggettivi e solidaristici,  derogherebbero  ad
un sistema sanzionatorio efficace e  adeguato  determinando,  con  il
sistema forfettizzato di danno, un  affievolimento  del  ristoro  del
pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione  efficace  ed
effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta. 
    La deroga introdotta dall'art. 10 del d.lgs. n. 23 del  2015  con
il richiamo all'art. 3,  comma  1,  dello  stesso  decreto,  rispetto
all'oggettiva  efficacia  dissuasiva  della  sanzione  in  precedenza
vigente per la identica violazione, imporrebbe l'applicazione  di  un
sistema indennitario inadeguato a ristorare il danno che deriva dalla
perdita   del   rapporto   di   lavoro,   dando    luogo    ad    una
deresponsabilizzazione dell'iniziativa privata rispetto agli  effetti
di un atto illegittimo  e  all'impossibilita'  di  personalizzare  il
pregiudizio  subito  dal  lavoratore  illegittimamente  licenziato  e
quindi la sua tutela. 
    1.5.-  Il  giudice  a  quo  si  sofferma,  infine,  sul  tipo  di
intervento richiesto ed invoca in primis  una  pronuncia  caducatoria
dell'intero art.  10  del  d.lgs.  n.  23  del  2015  o,  quantomeno,
dell'inciso «o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma  1,
della legge n. 223 del 1991», che determinerebbe una riespansione del
regime previgente uniforme per tutti i lavoratori coinvolti. 
    In alternativa, laddove le censure dell'art.  10  citato  fossero
ritenute  non  fondate,  propone  l'adozione  di   un   provvedimento
interpretativo di accoglimento di tipo caducatorio dell'art. 3, comma
1, del d.lgs. n. 23 del 2015, quanto all'inciso «e  non  superiore  a
ventiquattro» (oggi trentasei), volto ad eliminare il  "tetto"  della
misura indennitaria forfettaria, che renderebbe la sanzione priva  di
efficacia deterrente, limitatamente al  caso  di  illegittimita'  del
licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta di  cui
all'art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991. 
    2.- Con atto depositato il 15 giugno 2023  si  e'  costituita  in
giudizio C. R., ricorrente nel giudizio a  quo,  e  ha  sostenuto  la
rilevanza e la fondatezza delle sollevate questioni  di  legittimita'
costituzionale riportandosi alle considerazioni formulate dal giudice
rimettente, ed in particolare alle censure di  mancato  rispetto  dei
limiti alla delega normativa posti dall'art. 1, comma 7, della  legge
n.  183  del  2014,  di  violazione  dei  parametri  ad   opera   dei
diversificati  regimi  di  tutela  nonche'  di  irragionevolezza  del
sistema sanzionatorio  in  concreto  applicabile;  a  giudizio  della
parte, l'intervento di tipo caducatorio  richiesto  sarebbe  coerente
con le indicazioni e i  moniti  ricavabili  dalla  giurisprudenza  di
questa Corte, espressi in particolare con le sentenze n. 183 del 2022
e n. 194 del 2018, nonche' con il dettato dell'art. 24 CSE. 
    2.1.- In prossimita' dell'udienza  la  parte  ha  depositato  una
memoria in cui, dopo aver insistito sulle censure di mancato rispetto
della potesta' normativa devoluta, si e' soffermata sulla  violazione
del  diritto  di  eguaglianza  e  del  principio  di  ragionevolezza,
evidenziando che nell'ambito dei licenziamenti collettivi  l'esigenza
di  evitare  trattamenti  discriminatori  tra   i   lavoratori,   che
conseguirebbero a differenze di  disciplina,  emergerebbe  come  dato
prioritario in grado di attenuare, sino ad annullare,  l'esigenza  di
far prevalere  la  neutralita'  dello  scorrere  del  tempo  rispetto
all'applicazione della legge. 
    Alla luce  di  tali  rilievi  la  parte  auspica  la  caducazione
dell'inciso contenuto nell'art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 («o  dei
criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della legge n.  223
del 1991») ed il ripristino del meccanismo  sanzionatorio  introdotto
con la cosiddetta "legge Fornero" per tutti i lavoratori  destinatari
di un licenziamento collettivo. 
    3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non  e'  intervenuto
in giudizio. 
    4.- All'udienza del 5 dicembre 2023, la parte  ha  insistito  per
l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del  2023),
la Corte d'appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale degli artt.  3,  comma  1,  e  10  del
d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 4,  10,  24,  35,
38, 41, 111, 76 e 117, primo  comma,  Cost.,  questi  ultimi  due  in
relazione all'art. 1, comma 7, lettera c), della  legge  n.  183  del
2014 e all'art. 24 CSE. 
    1.1.- Le questioni sono  sorte  nell'ambito  di  un  giudizio  di
appello  avente  ad  oggetto  l'impugnazione  di   un   licenziamento
collettivo intimato ad una lavoratrice assunta e licenziata dopo il 7
marzo 2015, data dell'entrata in vigore del d.lgs. n.  23  del  2015,
ritenuto illegittimo per violazione dei  criteri  di  scelta  di  cui
all'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991. 
    A giudizio della Corte rimettente, la sanzione prevista dall'art.
3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, richiamato  dall'art.  10  del
medesimo decreto, nella versione antecedente le modifiche di  cui  al
d.l. n. 87 del 2018,  come  convertito,  risulterebbe  manifestamente
disomogenea sia rispetto a quella ripristinatoria applicabile per  il
medesimo tipo di  invalidita'  del  recesso  ai  rapporti  di  lavoro
costituiti ante 7 marzo 2015, sia rispetto a  quella  applicabile  ai
rapporti costituiti dopo il 7 marzo 2015, ma risolti dopo la  novella
del 2018, che ha aumentato l'indennizzo, nel minimo da quattro a  sei
e nel massimo da ventiquattro a trentasei mensilita'. 
    1.2.- Con riferimento agli artt. 3,  10,  35,  76  e  117,  primo
comma, Cost., la rimettente deduce che l'art. 10 del d.lgs. n. 23 del
2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto  con  l'art.
3, comma 1, dello stesso decreto, nella parte in cui ha modificato la
disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta  dei
lavoratori in esubero nell'ambito  di  un  licenziamento  collettivo,
violerebbe la legge delega sotto  due  profili,  uno  interno  e  uno
sovranazionale. 
    Quanto al primo profilo, perche' l'art. 1, comma 7,  lettera  c),
della legge n. 183 del 2014, demandando al Governo l'adozione di  una
disciplina che escludesse la possibilita'  della  reintegrazione  del
lavoratore nel posto di lavoro solo «per i licenziamenti  economici»,
termine riferibile alle sole forme di recesso individuale per  motivo
oggettivo, non consentiva di ricomprendere nella  potesta'  normativa
delegata anche la rimodulazione della  disciplina  sanzionatoria  del
licenziamento collettivo. 
    Quanto al secondo profilo, perche', in difformita' dai principi e
dai criteri direttivi che all'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del
2014  richiedevano  un  esercizio  della  delega  coerente   con   le
convenzioni internazionali, la disciplina censurata si  e'  posta  in
contrasto con l'art. 24 CSE prevedendo come sanzione  un  indennizzo,
forfettizzato ex ante in un plafond  rigido,  che  non  consente  una
personalizzazione del danno subito a causa della perdita del posto di
lavoro (contrasto gia' ritenuto  dal  Comitato  europeo  dei  diritti
sociali nella  decisione  dell'11  settembre  2019,  pubblicata  l'11
febbraio 2020). 
    1.3.- Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35  e  111  Cost.,  il
giudice a quo censura l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23  del  2015,
in combinato disposto con l'art. 10 dello stesso decreto, nella parte
in cui, per la violazione dei criteri di  scelta  dei  lavoratori  in
esubero nell'ambito di un  licenziamento  collettivo,  introduce  una
disciplina sanzionatoria diversa per  i  soli  lavoratori  assunti  a
tempo  indeterminato  successivamente  al  7  marzo   2015,   perche'
disporrebbe, irragionevolmente, per una identica violazione, avvenuta
contestualmente nella medesima procedura e  per  rapporti  di  lavoro
omogenei, una sanzione priva di efficacia deterrente  e  inidonea  ad
assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno subito  a
seguito della illegittima perdita del posto di lavoro. 
    1.4.- Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117,
primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione  all'art.  24  CSE,  la
Corte rimettente prospetta l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
10 del d.lgs.  n.  23  del  2015,  unitariamente  considerato,  e  in
combinato disposto con l'art. 3, comma 1, dello stesso decreto, nella
parte in cui, in riferimento alla violazione dei  criteri  di  scelta
del  lavoratore  in  esubero  in  una  procedura   di   licenziamento
collettivo, deroga ad una sanzione efficace e adeguata  introducendo,
in forma irragionevole, in presenza di una  violazione  di  parametri
selettivi oggettivi e  solidaristici,  un  sistema  forfettizzato  di
danno inefficace. Cio' determina un affievolimento  del  ristoro  del
pregiudizio causato e non consente  una  idonea  responsabilizzazione
del soggetto inadempiente attraverso una personalizzazione del  danno
cagionato. 
    2.- In via preliminare, va rilevata d'ufficio  l'inammissibilita'
delle  censure  di   illegittimita'   costituzionale   sollevate   in
riferimento agli artt. 10, 24 e 111 Cost., in quanto del tutto  prive
di motivazione. 
    La  Corte  rimettente  si  e'  limitata  ad  evocare  i  suddetti
parametri senza alcuna specifica ed adeguata illustrazione dei motivi
di censura in punto di non manifesta  infondatezza,  ne'  l'ordinanza
fornisce elementi che consentano di  valutare  il  dedotto  contrasto
delle disposizioni censurate con tali parametri genericamente evocati
(sull'inammissibilita' per difetto di motivazione sulla non manifesta
infondatezza, ex plurimis, sentenze n. 194 del 2023, n. 118 del 2022,
n. 213 e n. 178 del 2021, n. 126 del 2018). 
    3.- L'ordinanza di rimessione non presenta ulteriori  profili  di
inammissibilita'. 
    3.1.- Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi  in  merito
al  procedimento  principale  e  alla  situazione   personale   della
ricorrente  risultano  sufficienti  a   dimostrare   l'applicabilita'
ratione temporis delle disposizioni censurate (ex plurimis,  sentenze
n. 152 del 2021, n. 59  del  2021  e  n.  218  del  2020).  La  Corte
rimettente ha dato atto di aver accertato con  sentenza  parziale  la
violazione dei criteri di scelta  nell'ambito  di  una  procedura  di
licenziamento collettivo e, con questo,  giustificato  l'applicazione
del regime sanzionatorio indennitario introdotto dal d.lgs. n. 23 del
2015, stante il richiamo dell'art. 10  da  parte  dell'art.  3  dello
stesso decreto, cosi' superando le  ragioni  di  inammissibilita'  di
analoghe questioni poste con una precedente ordinanza  di  rimessione
dalla stessa Corte d'appello (sentenza n. 254 del 2020). Infatti,  in
generale, il giudice a quo e' abilitato a sollevare una seconda volta
la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia
emesso una pronuncia a carattere non  decisorio,  fondata  su  motivi
rimovibili dal rimettente (ex plurimis, sentenza n. 247 del 2022). 
    3.2.- Quanto alla non  manifesta  infondatezza  delle  questioni,
l'ordinanza di rimessione ha sufficientemente  motivato  i  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  con  argomentazioni   che   hanno   una
complessiva coerenza e unitarieta'. 
    Tutte  le  censure  di  illegittimita'  costituzionale  sono,  in
realta',  focalizzate  sul  regime  sanzionatorio  del  licenziamento
collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato
a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs.  n.
23 del 2015 (7 marzo 2015), che ha soppresso la  reintegrazione  come
conseguenza dell'illegittimita' di tale fattispecie di licenziamento. 
    L'eliminazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro  -
la quale, invece, permane ancora per i lavoratori  assunti  prima  di
tale data, ove  destinatari  dello  stesso  licenziamento  collettivo
illegittimo  -  e  la  limitazione  delle  conseguenze  del   recesso
datoriale alla sola compensazione monetaria costituiscono  il  tratto
comune delle censure mosse dalla Corte  d'appello,  dirette  tutte  a
reintrodurre  la  reintegrazione  del   lavoratore   illegittimamente
licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale. 
    Avendo di mira questo obiettivo unitario, la  Corte  d'appello  -
come  gia'  ricordato  -  censura,  con  riferimento  agli   indicati
parametri, l'eliminazione della reintegrazione: a)  perche'  prevista
dal legislatore delegato senza che essa sia riconducibile alla  legge
di delega e quindi con eccesso di delega  sotto  un  profilo  interno
(infra, punti da 6 a 11) ed uno sovranazionale (infra, punti da 12  a
14);  b)  perche'  determina  una  disciplina  ingiustificatamente  e
irragionevolmente   differenziata,   in   riferimento   allo   stesso
licenziamento collettivo, tra lavoratori "giovani" (con anzianita'  a
partire dal 7 marzo 2015) e quelli  "anziani"  (assunti  prima  della
data suddetta), i quali ultimi conservano, invece, la  reintegrazione
nel posto di lavoro in caso di licenziamento  collettivo  illegittimo
per violazione dei criteri di scelta (infra, punti da 15  a  17);  c)
infine  perche',  comunque,  il  solo  indennizzo  (con  importo  non
superiore  a  un  tetto  massimo),  senza  la   reintegrazione,   non
costituisce  in  se'  una  sanzione   adeguata   e   sufficientemente
dissuasiva dei licenziamenti illegittimi (infra, punti da 18 a 19). 
    4.- Con riferimento a  questo  specifico  nucleo  unitario  delle
censure (id est: tutela reintegratoria versus tutela indennitaria) va
richiamato - prima di passare all'esame del merito delle questioni  -
il quadro normativo di riferimento, in termini comunque essenziali. 
    4.1.- Puo' ricordarsi, innanzi tutto, che la  reintegrazione  del
lavoratore illegittimamente licenziato, misura di  tutela  fortemente
innovativa, fu introdotta - condizionatamente alla ricorrenza  di  un
livello occupazionale minimo del datore  di  lavoro  -  dall'art.  18
dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n.  300,  recante
«Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei  lavoratori,  della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro  e
norme sul  collocamento»).  Tale  misura  costituiva,  all'epoca,  un
completamento della disciplina (legge 15 luglio 1966, n. 604, recante
«Norme sui licenziamenti individuali»), introdotta pochi anni  prima,
dei  licenziamenti  individuali  illegittimi  perche'  ingiustificati
(senza giusta causa o giustificato motivo: artt. 1  e  3)  o  perche'
discriminatori (art. 4); legge  che,  per  espressa  previsione,  non
trovava applicazione alla «materia dei licenziamenti  collettivi  per
riduzione di personale» (art. 11, secondo comma). 
    L'ambito applicativo della reintegrazione (la  cosiddetta  tutela
reale del lavoratore) e' risultato, in seguito, ampliato sia ad opera
della giurisprudenza, che ne ha predicato la "forza  espansiva",  sia
da una prima riforma  legislativa  dell'art.  18  statuto  lavoratori
(art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, recante  «Disciplina  dei
licenziamenti  individuali»),  approvata  sotto  la  spinta  di   una
richiesta di referendum abrogativo, ammessa da questa Corte (sentenza
n. 65 del 1990). 
    La reintegrazione ha, poi, avuto un'ulteriore espansione,  quanto
alla sua area di applicazione, perche' e' stata  prevista  anche  nel
caso di licenziamento collettivo illegittimo dall'art 24 della  legge
n. 223  del  1991,  in  attuazione  della  direttiva  75/129/CEE  del
Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento  delle
legislazioni  degli  Stati  membri  in   materia   di   licenziamenti
collettivi. 
    Progressivamente,  pero',  in  epoca  piu'  recente,   l'ampiezza
applicativa  della   reintegrazione,   che   pareva   una   conquista
irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi,
e' stata messa in discussione  e  sull'art.  18  statuto  lavoratori,
divenuto argomento divisivo e controverso anche nel dibattito tra  le
forze politiche e sociali, si sono appuntate per un  verso  pressioni
riformatrici in favore di una maggiore flessibilita'  in  uscita  dal
posto di lavoro,  coniugate  a  politiche  attive  di  sostegno,  per
l'altro resistenze, soprattutto nel mondo sindacale,  per  conservare
la tutela reintegratoria. 
    4.2.- Si perviene cosi' al punto di  svolta  rappresentato  dalla
legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di  riforma  del
mercato del lavoro in una  prospettiva  di  crescita),  adottata  nel
contesto di un complessivo  disegno  riformatore  della  materia  del
lavoro. 
    L'art. 18 statuto lavoratori  viene  ulteriormente  novellato  e,
soprattutto, "frantumato" in plurimi regimi di tutela  nei  confronti
del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che  fino
ad allora era stata l'unicita'  della  tutela  reintegratoria  per  i
licenziamenti individuali e collettivi. 
    Al di la' delle specificita' dei singoli regimi  reintegratori  e
indennitari, va rilevato che la logica di fondo di questa  importante
riforma e' che non tutti i  licenziamenti  illegittimi  sono  uguali.
Fermo restando il tradizionale limite occupazionale,  il  legislatore
del 2012 ha ritenuto di riservare la tutela della  reintegrazione  ai
licenziamenti la cui illegittimita' e' conseguenza di una violazione,
in  senso  lato,  "piu'  grave",  prevedendo  per   gli   altri   una
compensazione indennitaria. 
    Si introduce, quindi, un inedito criterio  di  graduazione  e  di
differenziazione che modifica radicalmente la logica precedente della
reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento  illegittimo
nelle realta' occupazionali non piccole. 
    Vi  sono  licenziamenti  illegittimi  che  si  e'   ritenuto   di
continuare a sanzionare con  la  reintegrazione  del  lavoratore  nel
posto di lavoro in termini sostanzialmente analoghi  a  quelli  della
(unica) reintegrazione del regime precedente. Ve ne  sono  altri  che
pure  danno  luogo   alla   reintegrazione,   ma   con   una   tutela
complessivamente attenuata. Vi sono poi,  in  altri  casi  ancora,  i
regimi indennitari, ossia ipotesi di tutele solo  compensative  senza
reintegrazione nel posto di lavoro. 
    La matrice compromissoria della legge, tra le  istanze  di  nuove
flessibilita' e  le  resistenze  al  ridimensionamento  della  tutela
reale, si rinviene nella demarcazione del  perimetro  dei  differenti
regimi di tutela (reintegratoria ed indennitaria) secondo  una  linea
tracciata in termini non del tutto precisi,  forieri  di  contenzioso
ordinario, oltre che di censure di illegittimita' costituzionale. 
    E cio' e'  vero  soprattutto  per  il  licenziamento  individuale
"economico", ossia  quello  per  giustificato  motivo  oggettivo.  La
reintegrazione viene riservata ai licenziamenti la cui illegittimita'
e' "piu' grave" e tali sono quelli  in  cui  il  giustificato  motivo
oggettivo,  allegato   dal   datore   di   lavoro,   e'   addirittura
"insussistente". Ma si aggiunge, poi, che l'insussistenza deve essere
«manifesta» e inoltre si prevede per il giudice un  ulteriore  spazio
di valutazione perche' egli «[p]uo' altresi' applicare» - e non  gia'
«applica altresi'» - la reintegrazione. 
    L'una e l'altra limitazione, pero', sono  state  oggetto  di  due
pronunce di illegittimita' costituzionale - sentenze n. 59 del 2021 e
n. 125 del 2022 - con l'effetto che  la  linea  di  demarcazione  tra
l'area  della  tutela  reintegratoria  e  quella  della  tutela  solo
compensativa  risulta  tracciata,  ora,  in   termini   piu'   netti,
dipendendo tout court dall'inesistenza, o no, del giustificato motivo
oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso. 
    4.3.- In questo quadro di profonda riforma, anche  la  disciplina
dei licenziamenti collettivi illegittimi  e'  stata  novellata  dalla
medesima legge  n.  92  del  2012;  la  quale,  in  sintonia  con  il
ridimensionamento  della  reintegrazione  quanto   ai   licenziamenti
individuali, ha parimenti operato una differenziazione altresi' per i
licenziamenti collettivi, escludendo la reintegrazione  nel  caso  in
cui la illegittimita' consisteva nella violazione  delle  regole  del
procedimento (di derivazione europea), ma conservandola nel  caso  di
licenziamento collettivo illegittimo per violazione  dei  criteri  di
scelta, legali o previsti da accordi sindacali:  violazione  ritenuta
evidentemente "piu' grave". 
    Questo e', per grandi linee, l'assetto voluto dalla legge  n.  92
del  2012  quanto   alla   tutela   reintegratoria   del   lavoratore
illegittimamente  licenziato,  che   quindi   risulta   sensibilmente
ridimensionata  a  favore   della   tutela   indennitaria   di   tipo
compensativo. 
    4.4.- Pochi anni dopo, in un contesto riformatore  finanche  piu'
ampio che ha toccato plurimi aspetti della  materia  del  lavoro  (il
cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del  2014),  a  questa  disciplina,
novellata nel 2012,  si  e'  affiancata  -  senza  sostituirla  -  la
regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era
un  nuovo  tipo  di  contratto  di   lavoro   subordinato   a   tempo
indeterminato - cosiddetto a tutele crescenti - che si  sovrappone  a
quello ordinario precedente. 
    La tecnica legislativa e' pero' diversa: non una legge ordinaria,
ma una legge di  delega  per  affidare  al  Governo  l'emanazione  di
plurimi decreti legislativi. 
    In uno di questi (d.lgs. n. 23  del  2015),  in  particolare,  si
stabilisce un diverso regime di tutela,  nel  caso  di  licenziamento
illegittimo, per i  lavoratori  assunti  con  questo  nuovo  tipo  di
contratto, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata
in vigore (7 marzo 2015). 
    Il  contratto  di  lavoro  a  tutele  crescenti  e  la   relativa
disciplina dei licenziamenti miravano ad  incentivare  l'occupazione,
soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo  della
creazione  di  una  fattispecie  di  lavoro   subordinato   a   tempo
indeterminato maggiormente "attrattiva" per i  datori  di  lavoro  in
ragione sia della limitazione dell'area di applicazione della  tutela
reintegratoria, sia della calcolabilita' dell'indennizzo compensativo
del licenziamento illegittimo. 
    In  particolare,  quanto  alla   disciplina   del   licenziamento
individuale, il d.lgs. n. 23 del 2015 replica, nelle linee  generali,
la suddivisione delle tutele gia' operata dalla legge n. 92 del 2012,
ma ridefinendo il perimetro della tutela reintegratoria e  di  quella
indennitaria, in particolare escludendo del tutto  la  reintegrazione
nel caso di licenziamento individuale "economico",  ossia  di  quello
per giustificato motivo oggettivo e di quello collettivo. 
    4.5.- Senza entrare nel dettaglio di questa disciplina, vi e'  in
particolare  che  la  tutela  reintegratoria,  oggetto  del  presente
giudizio  di   legittimita'   costituzionale,   viene   ulteriormente
ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa
o di giustificato motivo soggettivo ed  e'  del  tutto  eliminata  in
ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.  Inoltre,
il d.lgs. n. 23  del  2015  interviene  anche  sulla  disciplina  del
licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori  assunti
con contratto a tutele crescenti, e sopprime la tutela reintegratoria
prevedendo solo quella indennitaria anche nel caso di violazione  dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti  da
accordo  sindacale,   salvo   comunque   conservarla   in   caso   di
licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta. 
    Il successivo d. l. n. 87 del 2018, come convertito,  si  limita,
quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, ad incrementare
la misura dell'indennizzo (art. 3), con l'effetto di confermare,  per
il  resto,  il  meccanismo  delle  cosiddette  tutele  crescenti   in
progressione lineare (e certa) con l'anzianita' di servizio  in  caso
di licenziamento illegittimo. Nulla dispone quanto  ai  licenziamenti
collettivi. 
    4.6.- Il rapporto tra la  tutela  reintegratoria  e  quella  solo
indennitaria nel nuovo regime del  d.lgs.  n.  23  del  2015  risulta
infine  modificato  a  seguito  delle  pronunce  di   questa   Corte,
successive a quest'ultimo intervento del legislatore. 
    Per un verso, quanto alla tutela reintegratoria, rilevano le gia'
richiamate sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022. 
    Con  la  prima,  questa  Corte  ha  dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 18, settimo comma,  secondo  periodo,  della
legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera
b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva  che  il
giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto  a
base del licenziamento per  giustificato  motivo  oggettivo,  «[p]uo'
altresi' applicare» - invece che «applica altresi'» -  la  disciplina
di cui al medesimo art. 18, quarto comma. 
    Con   la   seconda,   e'   stata   dichiarata    l'illegittimita'
costituzionale della medesima disposizione limitatamente alla  parola
«manifesta». 
    L'effetto congiunto  delle  due  richiamate  pronunce  e'  quello
dell'ampliamento dell'area della  tutela  reintegratoria  nel  regime
della legge n. 92 del 2012: l'«insussistenza del fatto»  e'  posta  a
presupposto della tutela reintegratoria del licenziamento illegittimo
per mancanza di giustificato motivo sia soggettivo sia oggettivo. 
    Per altro  verso,  sulla  tutela  indennitaria  hanno  inciso  le
sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020. 
    Con la prima, e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23  del  2015  -  sia  nel  testo
originario, sia in quello modificato dall'art. 3, comma 1,  del  d.l.
n. 87 del 2018, come  convertito  -  limitatamente  alle  parole  «di
importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio». 
    Con la seconda pronuncia, e'  stata  dichiara  la  illegittimita'
costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del  2015,  limitatamente
alle  parole  «di  importo  pari   a   una   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio». 
    La tutela indennitaria ne e' risultata, nel complesso,  ampliata,
nella misura in cui l'indennizzo e' ora fissato in una forbice tra un
minimo e un massimo  e  non  e'  piu'  quantificato  in  modo  rigido
unicamente  secondo  la  progressione  lineare   dell'anzianita'   di
servizio. 
    5.- Quindi, in sintesi, si passa dal  regime  ampio  ed  uniforme
della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970  fino
al 2012), ad uno differenziato secondo la "gravita'", in senso  lato,
della  violazione  che  inficia  la  legittimita'  del  licenziamento
(intimato dopo il 18 luglio 2012)  e,  per  i  lavoratori  assunti  a
partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore
restringimento dell'area della tutela reale e ampliamento  di  quella
indennitaria, quest'ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal
d.l. n. 87 del 2018, come convertito  (e  quindi  a  partire  dal  12
agosto 2018). 
    E'  questa  una  disciplina  composita,   differenziata   ratione
temporis (rilevano le tre date suddette: 18 luglio 2012, 7 marzo 2015
e 12 agosto 2018) e declinata in diversi regimi  di  tutela,  la  cui
complessa e complessiva articolazione  segna  la  difficolta'  di  un
processo  riformatore  in  un  ambito  -  quello  dei   licenziamenti
individuali e collettivi - di elevato impatto sociale. 
    In proposito questa Corte ha  gia'  segnalato  che  «la  materia,
frutto di interventi normativi  stratificati,  non  puo'  che  essere
rivista  in  termini  complessivi,  che  investano  sia   i   criteri
distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro,  sia
la  funzione  dissuasiva  dei  rimedi  previsti  per   le   disparate
fattispecie» (sentenza n. 183 del 2022). 
    6.- Tutto cio' premesso, va esaminata innanzi tutto la  questione
di  legittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  censurate  per
violazione della delega, contenuta nell'art. 1, comma 7, lettera  c),
della legge n. 183 del 2014, in relazione al fatto  che  quest'ultima
aveva  previsto  l'eliminazione  della  tutela  reintegratoria,   con
concentrazione nella  sola  tutela  indennitaria,  unicamente  per  i
«licenziamenti economici», intendendo per tali  -  secondo  la  Corte
rimettente - quelli individuali «economici» (ossia  per  giustificato
motivo  oggettivo)  e  non  anche  i  licenziamenti  collettivi   per
riduzione di personale. 
    La questione - sollevata in riferimento all'art. 76 Cost.  -  non
e' fondata. 
    7.- Questo e' il criterio di delega, fissato dal citato  art.  1,
comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014: «previsione, per le
nuove assunzioni,  del  contratto  a  tempo  indeterminato  a  tutele
crescenti in relazione all'anzianita' di servizio, escludendo  per  i
licenziamenti economici  la  possibilita'  della  reintegrazione  del
lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo  un  indennizzo  economico
certo e crescente con l'anzianita' di servizio e limitando il diritto
alla reintegrazione ai  licenziamenti  nulli  e  discriminatori  e  a
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare  ingiustificato,
nonche'   prevedendo   termini   certi   per    l'impugnazione    del
licenziamento». 
    Le  censure  mosse  dalla  Corte   rimettente,   che   convergono
essenzialmente nella denuncia di  eccesso  di  delega  da  parte  del
legislatore  delegato,  richiedono  l'interpretazione  del   sintagma
«licenziamenti  economici»  che  presenta  un'intrinseca   ambiguita'
perche' atecnico, nel senso che non appartiene al  lessico  giuridico
in senso stretto. 
    7.1.- La, pur estesa, disciplina dei licenziamenti individuali  e
collettivi non solo non conosce l'utilizzo del termine «licenziamenti
economici», ma anche - e da epoca  risalente,  fin  dalla  richiamata
prima legge sui licenziamenti individuali (n.  604  del  1966)  -  ha
tenuto ben distinta la disciplina degli uni e degli altri, si' da far
emergere la loro ontologica  differenza  in  termini  di  definizione
delle fattispecie e di disciplina positiva. 
    La legittimita' del  licenziamento  individuale  e'  condizionata
dalla sua "giustificatezza" (ex artt. 1 e 3 della legge  n.  604  del
1966): il giudice, investito della impugnazione dell'atto di recesso,
e' chiamato a valutare cio',  in  termini  piu'  o  meno  penetranti,
rispettivamente quanto al giustificato motivo soggettivo  (di  norma,
per "colpa" del lavoratore, ossia per «notevole  inadempimento  degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro») e a quello oggettivo
(per «ragioni inerenti all'attivita'  produttiva,  all'organizzazione
del lavoro e al regolare funzionamento di essa» con impossibilita' di
ricollocamento del lavoratore in altra posizione). In questa  seconda
ipotesi  peraltro  -  va  sottolineato  -   il   licenziamento   (per
giustificato  motivo  oggettivo)  puo'  essere  anche  plurimo,   ove
riferito a piu' lavoratori con la stessa causale. 
    E',  invece,  estranea  al  licenziamento  collettivo,   che   e'
necessariamente  unico  per  una  pluralita'  di  lavoratori  e   mai
individuale, la valutazione di "giustificatezza", essendo il  giudice
chiamato a identificare  la  fattispecie  sulla  base  di  indicatori
formali (ex artt. 4 e 24 della legge  n.  223  del  1991),  quali  la
procedura di confronto sindacale e il  numero  minimo  di  lavoratori
licenziati in un determinato arco di tempo. E'  questa  una  verifica
esterna di autenticita' della fattispecie, che non investe le ragioni
d'impresa   (quali   possono   essere   la   crisi   economica,    la
ristrutturazione aziendale, la riconversione tecnologica, e  finanche
la cessazione dell'attivita'), le quali  originano  la  riduzione  di
personale. 
    7.2.- Se si considera l'iter di formazione della legge di  delega
(n. 183 del 2014), che nasce su iniziativa del Governo, si  nota  che
la strategia complessiva perseguita per riformare la  disciplina  del
lavoro  con  plurime  deleghe  non  toccava,  inizialmente,  anche  i
licenziamenti collettivi. Il testo  approvato  dal  Senato  in  prima
lettura non conteneva infatti alcun riferimento ne' ai  licenziamenti
collettivi, ne' ai «licenziamenti economici» (A.S. 1428, trasmesso il
9 ottobre 2014 alla Camera dei deputati). 
    Successivamente, durante la discussione alla Camera  del  disegno
di legge (A.C. 2660), veniva presentato un emendamento  al  comma  7,
lettera c), dell'art. 1 (1.538, Gnecchi ed altri), diretto a limitare
la reintegrazione nei licenziamenti individuali; emendamento  questo,
che era in  seguito  riformulato,  cosicche'  solo  nel  nuovo  testo
appariva, per la prima volta, il sintagma «licenziamenti  economici»,
da riferirsi, secondo quanto precisera' lo  stesso  relatore  per  la
maggioranza in  Assemblea,  ai  soli  licenziamenti  individuali  per
motivi economici, ossia per giustificato motivo oggettivo, e non gia'
anche ai licenziamenti collettivi (seduta  n.  336  del  21  novembre
2014). 
    Il testo approvato veniva trasmesso in seconda lettura al  Senato
il  25  novembre  2014  (A.S.  1428-B),  dove   pero'   il   sintagma
«licenziamenti economici» era recepito nella  sua  oggettiva  portata
testuale, quantunque atecnica, ed era inteso come riferito  anche  ai
licenziamenti collettivi. In particolare,  il  relatore  affermava  -
come risulta dal resoconto stenografico della seduta  n.  363  del  2
dicembre 2014 - che la reintegrazione «dovra' ora essere esclusa  per
tutti i licenziamenti  non  sorretti  da  contestazione  disciplinare
(individuali  per  motivo  economico-organizzativo   o   per   scarso
rendimento  oggettivo,  collettivi,  temporaneamente  inefficaci  per
mancato superamento del periodo di comporto di  malattia)  e  per  la
generalita' dei licenziamenti disciplinari. L'area in cui essa dovra'
applicarsi e' soltanto quella dei casi di nullita' del  licenziamento
specificamente  previsti  dalla  legge  -  matrimonio,  maternita'  e
discriminazione  o  rappresaglia  -  e   in   casi   particolari   di
licenziamento disciplinare ingiustificato equiparabili  per  gravita'
al licenziamento discriminatorio, pur trattandosi ovviamente  di  una
fattispecie diversa». 
    Quindi, al Senato, l'approvazione della delega e' intervenuta (il
giorno successivo alla presentazione della  mozione  di  fiducia  del
Governo) dopo questa, pur sintetica, puntualizzazione,  che  assumeva
che nei licenziamenti economici rientrassero anche quelli collettivi. 
    L'interpretazione del sintagma «licenziamenti economici»  tornava
all'esame del Parlamento in occasione  dei  prescritti  pareri  sullo
schema di decreto legislativo, presentato dal Governo  nell'esercizio
della  delega,  e  recante,   all'art.   10,   l'eliminazione   della
reintegrazione anche nell'ipotesi  di  licenziamento  collettivo  per
violazione dei criteri di scelta del personale  da  licenziare;  cio'
perche' per il Governo  la  delega,  quanto  alla  limitazione  della
tutela reintegratoria, riguardava anche i licenziamenti collettivi. 
    La Commissione  Lavoro  pubblico  e  privato  (XI)  della  Camera
riteneva,  invece,  che  il  criterio  di  delega  in  questione  non
riguardasse anche i licenziamenti collettivi e, dunque, esprimeva  un
parere si' favorevole sullo schema di decreto  legislativo,  ma  alla
condizione che nell'art.  10  si  eliminasse  la  soppressione  della
reintegrazione e invece si  prevedesse  la  disciplina  dell'art.  5,
comma 3, della legge n. 223 del 1991 (ossia la tutela  reintegratoria
anche in caso di licenziamento collettivo illegittimo per  violazione
dei criteri di scelta). 
    La Commissione Lavoro  pubblico  e  privato,  previdenza  sociale
(11ª) del Senato si limitava, dal canto suo, a invitare il Governo  a
valutare  l'opportunita'  di  conservare  il  regime   della   tutela
reintegratoria nel caso di licenziamento collettivo  illegittimo  per
violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. 
    Il  decreto  legislativo  veniva  pero'  emanato  con  l'art.  10
invariato, cosicche' attualmente, ai  licenziamenti  illegittimi  per
violazione dei criteri di scelta si applica  la  tutela  indennitaria
(quella di cui all'art. 3, comma 1) e non gia' quella  reintegratoria
(di cui all'art. 2), la quale pero' continua ad essere applicabile in
caso  di  licenziamento  intimato  senza  l'osservanza  della   forma
scritta. La stessa tutela indennitaria (quella  di  cui  all'art.  3,
comma 1) e'  poi  confermata  anche  nel  caso  di  violazione  delle
procedure di confronto sindacale, di cui all'art. 4, comma 12,  della
legge n. 223 del 1991. 
    8.-   Orbene,   c'e'   da   considerare,   in    generale,    che
l'interpretazione dei criteri direttivi posti dalla legge  di  delega
deve tener conto, innanzi tutto, della "lettera" del testo normativo. 
    Ad essa si  affianca  l'interpretazione  sistematica  sulla  base
della ratio legis, che e' quella che emerge dal contesto  complessivo
della legge di delega e dalle finalita' che essa persegue. 
    Pertanto, il controllo sul superamento  dei  limiti  posti  dalla
legge di delega va  operato  partendo  dal  dato  letterale  per  poi
procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se
l'attivita' del legislatore delegato, nell'esercizio del  margine  di
discrezionalita' che  gli  compete  nell'attuazione  della  legge  di
delega, si sia inserito  in  modo  coerente  nel  complessivo  quadro
normativo, rispettando la ratio della norma  delegante  (sentenze  n.
250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n.  119  del  2013)  e
mantenendosi comunque nell'alveo delle scelte di fondo operate  dalla
stessa  (sentenza  n.  278  del  2016),  senza  contrastare  con  gli
indirizzi generali desumibili da questa (sentenze n. 229 del 2014, n.
134 del 2013 e n. 272 del 2012). E' infatti  costante  l'affermazione
secondo cui, «per valutare  se  il  legislatore  abbia  ecceduto  [i]
margini di  discrezionalita',  occorre  individuare  la  ratio  della
delega per verificare se la  norma  delegata  sia  stata  con  questa
coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello  stesso  senso,  tra  le
altre, sentenze n. 175 del 2022, n. 231 e n. 174 del 2021, n. 184 del
2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla
materia penale, sentenza n. 105 del 2022). 
    La  verifica  di  conformita'  della  norma  delegata  a   quella
delegante richiede, quindi, lo svolgimento  di  un  duplice  processo
ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge
di delegazione e, dall'altra, le disposizioni emanate dal legislatore
delegato, da interpretare nel significato compatibile con  la  delega
stessa. 
    In sintesi, per definire il contenuto di questa, si  deve  tenere
conto del complessivo contesto normativo  in  cui  si  inseriscono  i
principi e criteri direttivi della legge di delega e delle  finalita'
che la ispirano; cio' che rappresenta non solo la base  e  il  limite
delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della
loro portata (tra le tante, sentenze n. 166  del  2023,  n.  133  del
2021, n. 84 del 2017, n. 250 del 2016, n. 194 del 2015 e n.  153  del
2014). 
    Quanto, poi, ai lavori parlamentari, piu' volte questa Corte, pur
evidenziandone l'utilizzabilita' come  dati  ermeneutici  orientativi
per ricostruire il dibattito che ha condotto  all'approvazione  della
legge delega  e,  quindi,  quali  elementi  che  contribuiscono  alla
corretta esegesi di quest'ultima (sentenze n. 170 e n. 79 del  2019),
ha comunque escluso che essi possano prevalere  sul  tenore  testuale
della legge, quale emerge dal dato letterale e  logico  (sentenza  n.
223 del 2019), o esprimere  interpretazioni  autentiche  della  legge
delega (sentenze n. 96 del 2020, n. 127 del 2017, n. 250 del  2016  e
n. 47 del 2014). 
    Quindi i lavori parlamentari, sia sulla legge di  delega  n.  183
del 2014 sia sullo schema di decreto legislativo, di cui si e'  detto
sopra, hanno una  funzione  solo  complementare  nel  ricostruire  la
voluntas legis. 
    9.-  Nella  specie,  si  ha,  per  un  verso,   che   sul   piano
dell'interpretazione    letterale,    l'espressione    «licenziamenti
economici» si presenta, nel linguaggio  corrente,  come  una  formula
duttile, la cui ampiezza semantica e' potenzialmente idonea ad essere
adoperata in senso onnicomprensivo per includere,  sia  la  categoria
dei licenziamenti individuali «economici», perche'  per  giustificato
motivo  oggettivo  (id  est,  per  ragioni   inerenti   all'attivita'
produttiva,  all'organizzazione  del  lavoro  e   al   suo   regolare
funzionamento), sia  i  licenziamenti  collettivi  con  riduzione  di
personale per "ragioni di impresa", come tali anch'essi «economici». 
    Se il licenziamento collettivo mantiene da sempre una  disciplina
autonoma e costituisce una fattispecie di recesso  distinta  rispetto
ai licenziamenti individuali, tale autonomia  si  giustifica  per  la
preminenza di un interesse pubblico al previo confronto sindacale per
ridurre e governare l'impatto sociale delle crisi occupazionali e non
contraddice   la   qualificazione   del   recesso   datoriale    come
licenziamento economico, in quanto fondato sul dato  oggettivo  della
riduzione di personale per "ragioni di impresa". 
    Si ha quindi  che  il  sintagma  «licenziamenti  economici»  puo'
comunque riferirsi,  nel  linguaggio  comune,  ai  licenziamenti  per
motivi economici, come tali sia individuali (per giustificato  motivo
oggettivo), sia collettivi (per riduzione di personale). 
    Del resto, vi e', comunque, che l'approvazione  definitiva  della
legge di delega in seconda lettura al Senato e' stata  fatta  -  come
gia' rilevato -  proprio  sull'assunto,  riferito  dal  relatore  del
disegno  di  legge,  che   la   dizione   «licenziamenti   economici»
comprendesse anche i licenziamenti collettivi. 
    10.- Per  altro  verso,  poi,  c'e'  da  considerare,  sul  piano
logico-sistematico,  che  la  norma,  contenuta  nella   disposizione
censurata, risulta essere conforme alla finalita' della  legge-delega
di incentivare le nuove assunzioni  e  favorire  il  superamento  del
precariato si' da costituire un  coerente  sviluppo  e  completamento
della disciplina, in  simmetria,  dei  licenziamenti  economici,  sia
individuali per giustificato motivo  oggettivo,  sia  collettivi  per
riduzione di personale. E' infatti consentito al legislatore delegato
l'«emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo  e,  se
del  caso,  anche  un  completamento  delle   scelte   espresse   dal
legislatore delegante» (sentenza n. 426 del 2008; in  senso  conforme
sentenze n. 150 del 2022, n. 133 del 2021, n. 142 del 2020, n. 96 del
2020, n. 198 e n. 10 del 2018). 
    Questo parallelismo era, all'evidenza, gia' presente nella  legge
n. 92 del 2012, che ha limitato l'area di applicazione  della  tutela
reintegratoria con riferimento sia alla fattispecie di  licenziamento
(individuale) per giustificato motivo  oggettivo,  sia  a  quella  di
licenziamento (collettivo) per riduzione di personale,  escludendola,
per  quest'ultima,  in  caso  di  violazioni  delle  prescrizioni  di
carattere procedimentale concernenti il prescritto  previo  confronto
sindacale. 
    L'ulteriore limitazione della tutela reintegratoria, voluta dalla
legge n. 183 del 2014, si e' tradotta nella sua esclusione in tutti i
casi di licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo  -  salva
sempre l'ipotesi del licenziamento discriminatorio -  in  conformita'
al criterio di delega; cio'  di  cui  nessuno  dubita  e  che  emerge
inequivocabilmente dagli stessi lavori parlamentari. 
    Il legislatore delegato ha  evidentemente  ritenuto  che  sarebbe
allora   risultata   incoerentemente   asimmetrica   una   disciplina
differenziata che avesse lasciato  la  tutela  reintegratoria  per  i
licenziamenti collettivi illegittimi per violazione  dei  criteri  di
scelta  a  fronte  della  tutela  solo  indennitaria  nel   caso   di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo. 
    Se la logica di fondo delle riforme del 2012 e del 2014 e'  stata
quella  di  riservare  la  tutela  reintegratoria  solo  ai  casi  di
violazioni  piu'  "gravi"  in  senso  lato  -  e  quindi  anche  piu'
nettamente riconoscibili - di licenziamenti illegittimi, la  mancanza
del  giustificato  motivo  oggettivo  del  licenziamento  individuale
costituisce un'ipotesi non meno grave ed evoca,  anzi,  un  controllo
giudiziale piu' penetrante - in termini di giustificatezza, o no, del
recesso datoriale - di quello richiesto dalla verifica dei criteri di
scelta dei lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo,  di
cui viene in rilievo (non la giustificatezza, ma) la  identificazione
della  fattispecie  sulla  base  degli  indici  formali  del   previo
confronto sindacale e del numero  dei  lavoratori  licenziati  in  un
determinato periodo di tempo. 
    Anche a livello del diritto dell'Unione europea, il  processo  di
armonizzazione parziale della disciplina dei licenziamenti collettivi
(direttiva  98/59/CE),  centrato   sulla   procedura   di   confronto
sindacale, non ha  compreso  la  regolamentazione  delle  conseguenze
della violazione dei criteri  di  scelta  dei  lavoratori  eccedenti,
riservate alla competenza degli Stati  membri  (Corte  di  giustizia,
ordinanza 4 giugno 2020, in causa C-32/20, TJ contro B. srl); criteri
che peraltro,  secondo  la  normativa  interna,  possono  essere  «in
concorso tra loro» con conseguente loro applicazione combinata,  come
allorquando occorra considerare congiuntamente carichi  di  famiglia,
anzianita' ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative (tali sono
i criteri legali, in mancanza di quelli fissati da accordo sindacale,
previsti dall'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991). 
    Pertanto, la simmetria  con  il  licenziamento  per  giustificato
motivo oggettivo consente, sul piano della complessiva coerenza della
disciplina risultante dall'esercizio  della  delega  legislativa,  di
ritenere il sintagma «licenziamenti economici» riferito non  solo  ai
licenziamenti individuali, ma anche a quelli collettivi. 
    11.- In definitiva, l'interpretazione letterale e sistematica, da
una parte, e il necessario completamento di disciplina intrinseco  al
potere legislativo delegato per assicurare  la  coerenza  complessiva
della normativa  risultante,  dall'altra,  consentono  di  affermare,
conclusivamente, che l'estensione  della  soppressione  della  tutela
reintegratoria  anche  ai  licenziamenti  collettivi  -   «economici»
perche' per "ragioni d'impresa" - oltre che a  quelli  individuali  -
«economici» perche' per giustificato motivo oggettivo  -  puo'  farsi
rientrare nel piu' volte richiamato criterio di  delega,  che  faceva
riferimento ai «licenziamenti economici». 
    Mette  conto  notare,  infine,  che  il  legislatore,  quando  e'
nuovamente intervenuto sulla disciplina dei licenziamenti (d.l. n. 87
del 2018, come convertito), non ha modificato la disposizione che  ha
soppresso la reintegrazione nel caso di licenziamenti collettivi  per
violazione dei criteri di scelta, ma ha  lasciato  la  concentrazione
della tutela dei lavoratori in quella  indennitaria,  limitandosi  ad
incrementarla in termini  quantitativi  per  tutti  i  licenziamenti,
individuali e collettivi. 
    12.- La denunciata violazione del medesimo criterio di delega  e'
poi dedotta, dalla Corte d'appello, anche sotto un secondo profilo. 
    Ad avviso  della  Corte  rimettente,  le  disposizioni  censurate
avrebbero disatteso l'art. 1, comma 7, della legge n.  183  del  2014
altresi' nella parte in cui, essendo prescritta, per l'esercizio  del
potere  legislativo  delegato,  la  «coerenza  con   la   regolazione
dell'Unione europea e le convenzioni internazionali»,  sarebbe  stato
violato l'art. 24 CSE,  che  riconosce  «il  diritto  dei  lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo  o  altra
adeguata riparazione». 
    La  violazione  conseguirebbe  alla  sostituzione  della   tutela
reintegratoria  con  un  indennizzo  monetario  determinato  con   un
criterio rigido che, limitato entro una forbice di un importo  minimo
ed uno massimo, non ne garantirebbe l'adeguatezza,  ne'  la  funzione
dissuasiva del licenziamento illegittimo. 
    13.- Anche sotto questo ulteriore profilo  la  questione  non  e'
fondata. 
    13.1.- Va premesso  che  la  costante  giurisprudenza  di  questa
Corte, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha ritenuto
che - in ragione  della  prescrizione  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost., che richiede che la potesta' legislativa dello Stato  e  delle
Regioni sia esercitata anche  nel  rispetto  dei  «vincoli  derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» - siano
deducibili,   come   parametri   interposti,   in   particolare,   le
disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). 
    Analoga affermazione e' stata fatta piu'  recentemente  (sentenze
n. 120 e n. 194 del 2018) anche con riferimento alla CSE, che,  quale
strumento convenzionale inserito nel sistema del Consiglio  d'Europa,
si connota per la tutela che riconosce  ai  diritti  fondamentali  di
natura sociale e, per questo suo contenuto, si affianca alla CEDU si'
da essere definita suo «naturale  completamento  sul  piano  sociale»
(sentenza n. 120 del 2018). Essa, infatti,  amplia  il  perimetro  di
tutela dei diritti fondamentali oltre il  tradizionale  catalogo  dei
diritti civili e politici riconosciuti dalla CEDU,  con  apertura  ai
diritti sociali. La complementarita'  dei  due  Trattati  imprime  un
carattere unitario alla  tutela  dei  diritti  fondamentali  in  essi
prevista. 
    Puo' quindi ribadirsi l'attitudine della CSE, nel quadro generale
del sistema multilivello dei  diritti  fondamentali,  a  valere  come
parametro interposto ex art. 117, primo comma Cost.. 
    13.2.- Proprio l'art.  24  CSE,  evocato  dalla  Corte  d'appello
rimettente, e' considerato nella decisione del Comitato  europeo  dei
diritti sociali dell'11  settembre  2019,  pubblicata  l'11  febbraio
2020, resa sul reclamo collettivo n. 158  del  2017,  proposto  dalla
CGIL; decisione che conclude ritenendo la violazione dell'art. 24 CSE
da parte del d.lgs. n. 23 del 2015 a causa  della  previsione  di  un
tetto all'indennizzo spettante al lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo (in senso conforme, piu' recentemente, vedi la  decisione
del 26 settembre 2022, resa sui reclami collettivi n. 160  e  n.  171
del 2018, proposti dalla Confederation  generale  du  travail  contro
Francia, con riferimento ad analogo  tetto  dell'indennizzo  previsto
dalla disciplina dei licenziamenti nell'ordinamento francese;  mentre
in precedenza il Conseil constitutionnel, nella decisione n. 2018-761
del  21  marzo  2018,  aveva  stabilito   che   il   limite   massimo
all'indennizzo  per  licenziamento  senza  giustificato  motivo   non
costituiva   una   limitazione   sproporzionata   dei   diritti   dei
lavoratori). A tale decisione (quella relativa al d.lgs.  n.  23  del
2015) ha poi fatto seguito la risoluzione del Comitato  dei  ministri
del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020 che ha invitato il  Governo
italiano a produrre un rapporto  sullo  sviluppo  della  legislazione
nazionale  per  la  piena  attuazione   dell'art.   24   CSE   quanto
all'indennizzo da licenziamento illegittimo (analoga  raccomandazione
lo stesso Comitato dei ministri ha indirizzato, il 6 settembre  2023,
al Governo francese). 
    In proposito questa Corte ha riconosciuto  l'autorevolezza  delle
decisioni del Comitato europeo dei diritti  sociali,  previsto  dalla
CSE, organo ausiliario privo  di  natura  giurisdizionale,  ancorche'
esse non siano vincolanti per i giudici nazionali (sentenze n. 120  e
n. 194 del 2018). 
    Si e' infatti affermato che «[n]el contesto  dei  rapporti  cosi'
delineati fra la Carta sociale europea e gli Stati sottoscrittori, le
pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano  i
giudici nazionali nella interpretazione della Carta, tanto piu' se  -
come nel caso in questione - l'interpretazione estensiva proposta non
trova conferma nei nostri principi costituzionali» (sentenza  n.  120
del 2018). 
    Mentre le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato
che ad esse viene attribuito all'esito dell'attivita'  interpretativa
operata dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo,  le  disposizioni
della CSE costituiscono di per se', e per il loro contenuto oggettivo
suscettibile di autonoma interpretazione, un parametro interposto  ex
art. 117, primo comma, Cost., ma  nessun  vincolo  conformativo  puo'
derivare allo Stato contraente dall'interpretazione che di esse venga
fatta dal Comitato europeo dei diritti sociali. 
    Ne' la CSE, ne' il Protocollo addizionale del  1995,  entrato  in
vigore  nel  1998,  contengono,  infatti,  disposizioni  di   effetto
equivalente all'art. 32 CEDU, il quale  radica  la  competenza  della
Corte   EDU   in   merito   a   tutte   le   questioni    concernenti
l'interpretazione e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei  suoi
protocolli che siano sottoposte a essa; ne' tanto meno il  Protocollo
addizionale alla CSE, che istituisce  e  disciplina  il  sistema  dei
reclami collettivi, contiene una disposizione  di  contenuto  analogo
all'art. 46 CEDU sulla forza vincolante delle pronunce della Corte di
Strasburgo. 
    Il sistema  dei  reclami  collettivi  ha,  quindi,  la  specifica
funzione di promuovere una piu' piena attuazione dei diritti  sociali
nei  Paesi  del  Consiglio  d'Europa,  segnalando  criticita'   degli
ordinamenti   nazionali   che   possono   sfociare   anche   in   una
raccomandazione del Comitato dei Ministri, cosi' come e' stato per la
citata decisione sul reclamo collettivo n. 158 del 2017 relativo alla
legislazione  italiana.  Si  tratta,  pertanto,   di   una   funzione
essenzialmente propositiva e sollecitatoria, ma  priva  di  efficacia
vincolante. 
    14.- Questa Corte, chiamata a scrutinare l'art. 3, comma  1,  del
d.lgs. n. 23 del 2015 per contrasto con gli artt.  76  e  117,  primo
comma, Cost., in relazione anche all'art. 24 CSE,  ne  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale (sentenza  n.  194  del  2018)  nella
parte  in  cui  prevedeva  l'automatismo  di  un'indennita'  fissa  e
crescente in funzione della sola anzianita' di  servizio,  mentre  ha
ritenuto lo stesso indennizzo conforme ai  parametri  costituzionali,
anche a quello interposto (l'art. 24 CSE), nella parte  in  cui  esso
risulta fissato nella soglia massima di ventiquattro (ora  trentasei)
mensilita', sul presupposto che tale risarcimento non  contrasti  con
la nozione di adeguatezza  gia'  elaborata  in  precedenti  decisioni
(sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n.  132
del  1985).  Un'analoga  conformazione  del   criterio   di   calcolo
dell'indennizzo e' conseguita alla richiamata  sentenza  n.  150  del
2020  con  riferimento  al  licenziamento  disciplinare   illegittimo
perche' affetto da vizi formali o procedurali. 
    A seguito di questa complessiva  reductio  ad  legitimitatem,  il
criterio di quantificazione dell'indennizzo e' risultato conforme  al
canone di adeguatezza del risarcimento da  licenziamento  illegittimo
gia' elaborato alla luce della richiamata  giurisprudenza  di  questa
Corte, sicche' va escluso che il legislatore delegato, nel  prevedere
un indennizzo determinato entro un limite  minimo  e  massimo,  abbia
violato la delega ponendosi in  contrasto  con  il  citato  parametro
interposto. 
    Ribadito che non vi e' un'esigenza costituzionale che reclami  la
reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo  la
tutela essere  anche  indennitaria  di  natura  compensativa,  si  ha
comunque che l'adeguatezza e sufficiente dissuasivita' del sistema di
contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel  complesso
e non gia' frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualita'  e
proporzionalita' della sanzione che  il  legislatore,  nell'esercizio
non  irragionevole  della  sua  discrezionalita',  ha  previsto  come
differenziata,  conservando  la  reintegrazione  (unitamente  ad   un
indennizzo senza tetto massimo) per i casi di piu' gravi  violazioni,
quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e  riservando
agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo
il piu' incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e
n. 150 del 2020. 
    Cio' che va salvaguardato e' la «complessiva  adeguatezza»  della
tutela che il legislatore puo' «adattare secondo  una  pluralita'  di
criteri,  anche  in  considerazione  delle  diverse  fasi   storiche»
(sentenza n. 150 del 2020). 
    E' ben possibile una tutela piu'  ampia  e  piu'  incisiva,  come
quella sollecitata dal Comitato europeo  dei  diritti  sociali  nella
citata decisione dell'11 febbraio 2020. Ma appartiene alle scelte  di
politica sociale, rientranti nella discrezionalita'  del  legislatore
(art. 28 della legge 11 marzo  1953,  n.  87,  recante  «Norme  sulla
costituzione  e  sul  funzionamento  della  Corte   costituzionale»),
fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti  illegittimi  nella
gamma  di  quelli  che,  pur  in  misura  diversa  e  con  differente
incisivita',  rispondono  tutti,  nel  loro  complesso,   al   canone
costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasivita'. 
    15.- Non fondata e'  anche  la  seconda  questione  sollevata  in
riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost. 
    Il presupposto interpretativo delle  censure  mosse  dalla  Corte
d'appello   rimettente   risulta   corretto:   nel   vigente   regime
sanzionatorio, la tutela applicabile nei  confronti  di  rapporti  di
lavoro risolti in violazione dei criteri di scelta a  conclusione  di
una procedura di licenziamento collettivo  e'  diversamente  modulata
secondo  la  data  di  costituzione   del   rapporto;   per   effetto
dell'immediata applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015,  nel  caso  di
licenziamento collettivo illegittimo per violazione  dei  criteri  di
scelta ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sara' applicabile
la tutela reintegratoria attenuata, con la  condanna  del  datore  di
lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, alla regolarizzazione
contributiva e a un'indennita' riparatoria in misura non superiore  a
dodici mensilita', mentre ai lavoratori assunti  a  decorrere  dal  7
marzo 2015 spettera' la tutela  indennitaria,  determinata  ai  sensi
dell'art. 3 dello stesso decreto secondo i  piu'  favorevoli  criteri
dettati dalla sentenza di questa Corte n. 194 del 2018. 
    16.- In ordine alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., non  e'
ravvisabile   alcun   profilo   di   manifesta   irragionevolezza   o
arbitrarieta' del diverso trattamento sanzionatorio previsto per  gli
assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. 
    In termini generali, secondo la giurisprudenza della Corte se «il
principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione  in  virtu'
del  quale  a  situazioni  eguali   deve   corrispondere   l'identica
disciplina  e,   all'inverso,   discipline   differenziate   andranno
coniugate a situazioni differenti, cio' equivale a postulare  che  la
disamina della  conformita'  di  una  norma  a  quel  principio  deve
svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul  "perche'"
una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario
dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e  quindi  trarne  le
debite conclusioni in punto di corretto  uso  del  potere  normativo»
(sentenza n. 89 del 1996; di seguito, sentenze n. 43 del 2022, n. 276
del 2020 e n. 241 del 2014; nello stesso senso,  sentenza  n.  5  del
2000). 
    16.1.-  Sulla  ragionevolezza  del   criterio   di   applicazione
temporale del regime introdotto dal d.lgs. n. 23  del  2015  ai  soli
lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015,  questa  Corte  si  e'  gia'
pronunciata  con  riferimento  ai   licenziamenti   individuali   per
giustificato motivo oggettivo ritenendo non fondata l'analoga censura
di violazione dell'art. 3 Cost. (sentenza n. 194 del 2018). 
    In tale decisione si ricorda che «a proposito della delimitazione
della sfera di applicazione ratione  temporis  di  normative  che  si
succedono nel tempo [...] e' costante l'affermazione [...]  che  "non
contrasta, di per se', con il principio di eguaglianza un trattamento
differenziato  applicato  alle  stesse  fattispecie,  ma  in  momenti
diversi nel tempo, poiche' il fluire del  tempo  puo'  costituire  un
valido  elemento  di  diversificazione  delle  situazioni  giuridiche
(ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del  2010,  n.  170
del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)" (sentenza n. 254 del 2014,  punto
3  del  Considerato  in  diritto)»  e  che  «[s]petta  difatti   alla
discrezionalita'  del  legislatore,  nel  rispetto  del   canone   di
ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di  applicazione  delle
norme» (sentenza n. 104 del 2018; in senso conforme, sentenze n.  273
del 2011 e n. 94 del 2009). 
    Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal  d.lgs.  n.  23
del 2015 per i licenziamenti individuali non viola  il  principio  di
uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole
nella  finalita'  perseguita  dal  legislatore,  «di  rafforzare   le
opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro  che
sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della  legge  n.  183
del 2014). 
    Risponde al canone di ragionevolezza modulare le conseguenze  del
licenziamento  illegittimo  dei  lavoratori   subordinati   a   tempo
indeterminato al fine di rafforzare le  opportunita'  d'ingresso  nel
mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione,
sicche' «appare coerente limitare l'applicazione delle stesse  tutele
ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in  vigore,
quelli, cioe', la  cui  assunzione  avrebbe  potuto  essere  da  esse
favorita» (sentenza n. 194 del 2018). 
    16.2.- Tale conclusione va predicata  anche  con  riferimento  ai
licenziamenti collettivi, sussistendo la stessa logica di gradualita'
dell'applicazione della nuova normativa. 
    Nel limitare l'area del regime della reintegrazione ben poteva il
legislatore, nell'esercizio della  sua  discrezionalita',  conservare
questa tutela per i lavoratori che, in quanto in servizio  alla  data
di entrata in vigore del decreto legislativo,  gia'  ne  fruissero  e
limitare l'innovazione normativa ai nuovi assunti, che tale  garanzia
non  avevano,   con   la   finalita'   perseguita   di   incentivarne
l'occupazione, soprattutto giovanile, o la fuoriuscita dal precariato
(ad esempio, con la trasformazione dei rapporti a termine in rapporti
a tempo indeterminato). 
    Per i "vecchi"  lavoratori  l'eliminazione  della  reintegrazione
avrebbe significato una diminuzione di tutela che il  legislatore  ha
escluso. Per i "nuovi" lavoratori  il  mancato  riconoscimento  della
reintegrazione nella fattispecie in esame (quella  del  licenziamento
collettivo illegittimo per violazione  dei  criteri  di  scelta)  era
riconducibile al nuovo dimensionamento della tutela nei confronti dei
licenziamenti illegittimi, che apparteneva alla discrezionalita'  del
legislatore. 
    Favorire  l'occupazione  di  questi  ultimi,  anche  mediante  la
riduzione   dell'area   della    reintegrazione,    non    richiedeva
necessariamente anche di limitare la tutela dei  lavoratori  gia'  in
servizio  sopprimendo  la  tutela  reintegratoria:  in  cio'  sta  il
bilanciamento delle garanzie e il  fondamento  non  irragionevole  di
questa disciplina asimmetrica. 
    Nella successione delle leggi nel tempo e' possibile, nei  limiti
della coerenza di sistema  e  della  proporzionalita'  rispetto  alla
finalita' perseguita, che permanga una differenziazione di disciplina
ratione temporis. 
    Vi e' del resto che - pur se, sul piano della procedura  e  nella
fase di individuazione della tipologia  dei  vizi,  il  licenziamento
collettivo costituisce una fattispecie autonoma e unitaria ad effetti
plurisoggettivi che  richiede  una  regolamentazione  necessariamente
uniforme - invece nella fase delle conseguenze sanzionatorie  ciascun
licenziamento assume  rilievo  autonomo  in  riferimento  al  singolo
lavoratore sicche', rispetto a ogni distinta posizione lavorativa, e'
possibile applicare un regime sanzionatorio diverso ratione temporis,
ove tale diversificazione soddisfi un criterio di razionalita'. 
    L'autonomia sul piano sanzionatorio trova  conferma  anche  nella
considerazione che, secondo la giurisprudenza,  l'illegittimita'  per
violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 della legge  n.
223 del 1991 non puo' essere fatta valere indistintamente da ciascuno
dei lavoratori licenziati, ma  soltanto  da  coloro  che,  tra  essi,
abbiano  in  concreto  subito  un  pregiudizio  per   effetto   della
violazione  (ex  plurimis,  Corte  di  cassazione,  sezione   lavoro,
ordinanza 22 maggio 2019, n. 13871; sentenza  1°  dicembre  2016,  n.
24558). 
    Anche  per  i   licenziamenti   collettivi,   come   per   quelli
individuali, la ragionevolezza di  una  disciplina  differenziata  va
individuata nello scopo dichiarato nella  legge  delega  di  favorire
l'ingresso nel mondo del lavoro di "nuovi" assunti, accentuandone  la
flessibilita'  in  uscita  con  il  riconoscimento  di   una   tutela
indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a  tale
fine che il recesso sia individuale o collettivo. 
    17.- Le norme censurate non violano neppure  gli  artt.  4  e  35
Cost., in relazione al fatto  che  ai  lavoratori  "giovani"  (quelli
assunti a partire dal 7 marzo 2015) esse riconoscerebbero una  tutela
inadeguata e non dissuasiva, come tale insufficiente. 
    Il dubbio che rimedi diversi dalla reintegra  siano  inidonei  ad
assicurare una piena ed efficace tutela ai lavoratori arbitrariamente
licenziati ed assunti dopo il 7  marzo  2015  e'  contraddetto  dalla
costante giurisprudenza di questa Corte che, pur  segnalando  che  la
garanzia del diritto al lavoro impone l'adozione di  temperamenti  al
potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela  reale
solo uno dei modi per realizzare la garanzia del  diritto  al  lavoro
(sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e  n.  46
del 2000), spettando al legislatore modulare il sistema delle  tutele
«nell'esercizio  della  sua   discrezionalita'   e   della   politica
economico-sociale  che  attua»,  in   considerazione   del   contesto
economico e sociale di riferimento (sentenza n. 2 del 1986). 
    Questo profilo di censura ha comunque un'evidente sovrapposizione
con la successiva questione, che ora si viene ad esaminare. 
    18.- Non fondata e'  anche  la  terza  questione,  sollevata  con
riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost.),
convergenti pero' in una censura unitaria  di  insufficienza  di  una
tutela meramente indennitaria, quindi senza reintegrazione. 
    In particolare, la Corte rimettente  dubita  dell'adeguatezza  di
una tutela indennitaria determinata con la previsione di  un  "tetto"
massimo,  lamentandone  l'inefficacia,  o   una   debole   efficacia,
dissuasiva. 
    18.1.- Deve considerarsi che, a partire dalla sentenza n. 45  del
1965, questa Corte ha ricondotto la  tutela  contro  i  licenziamenti
illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost., interpretati in una  prospettiva
unitaria, affermando che il diritto al lavoro, «fondamentale  diritto
di liberta' della persona umana», pur  non  essendo  assistito  dalla
garanzia della stabilita' dell'occupazione, «esige che il legislatore
[...] adegui [...] la disciplina  dei  rapporti  di  lavoro  a  tempo
indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuita' del
lavoro,  e  circondi  di  doverose  garanzie  [...]  e  di  opportuni
temperamenti  i  casi  in  cui  si  renda  necessario  far  luogo   a
licenziamenti». 
    Anche in seguito si e' riconosciuto  il  «diritto  a  non  essere
estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n.
60 del 1991);  si  e'  ribadita  la  «garanzia  costituzionale  [del]
diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza  n.  541
del 2000 e ordinanza n. 56 del  2006);  si  e'  evidenziato  che  «la
materia dei licenziamenti individuali e' oggi regolata,  in  presenza
degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in  base  al  principio  della
necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del  2003)  e
che il «[i]l forte coinvolgimento della persona umana - a  differenza
di quanto accade in altri rapporti di durata - qualifica  il  diritto
al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare
per apprestare specifiche tutele» (sentenza n. 194 del 2018). 
    Quanto ai  meccanismi  di  tutela  del  lavoratore  nel  caso  di
licenziamento illegittimo, la stessa giurisprudenza ha valorizzato la
discrezionalita' del legislatore in materia, evidenziando che  quello
della tutela reale non costituisce l'unico paradigma possibile  (vedi
sentenza  n.  46  del  2000  nonche',   in   tema   di   legittimita'
dell'esclusione della tutela reale nelle imprese  sotto  la  prevista
soglia dimensionale, sentenze n. 2 del 1986, n. 152 del 1975 e n.  55
del 1974). 
    Gia' la sentenza n. 194 del 1970,  dopo  avere  affermato  che  i
principi che si traggono dall'art. 4 Cost. «esprimono  l'esigenza  di
un contenimento della liberta' del recesso del datore di  lavoro  dal
contratto di lavoro,  e  quindi  dell'ampliamento  della  tutela  del
lavoratore, quanto  alla  conservazione  del  posto  di  lavoro»,  ha
precisato che  «[l]'attuazione  di  questi  principi  resta  tuttavia
affidata alla discrezionalita' del legislatore ordinario, quanto alla
scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente  alla  situazione
economica generale» (successivamente, nello stesso senso, sentenze n.
55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986). 
    Nel tempo la Corte ha negato  che  il  bilanciamento  dei  valori
sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., tra diritto  al  lavoro  e  liberta'
d'impresa, imponga un determinato regime di tutela  (sentenza  n.  46
del 2000), ammettendo che il  legislatore  ben  puo',  nell'esercizio
della sua discrezionalita', prevedere un meccanismo di  tutela  anche
solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purche'  esso
sia rispettoso del  principio  di  ragionevolezza.  Il  diritto  alla
stabilita' del posto,  infatti,  risulta  dalla  «sintesi  [...]  dei
limiti  del  potere  di  licenziamento  sanzionati   dall'invalidita'
dell'atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994). 
    Sul piano della quantificazione, escluso che la  regola  generale
della integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato abbia  copertura  costituzionale
(sentenze n. 148 del 1999, n. 369 del 1996 e n.  132  del  1985),  si
richiede, ai fini  dell'adeguatezza  dell'indennizzo,  che  con  esso
venga riconosciuto un ristoro  del  pregiudizio  sofferto,  serio  ed
equilibrato, la cui  funzione  dissuasiva  non  sia  inficiata  dalla
predeterminazione  di  un  tetto  massimo,  fissato  in  un   importo
sufficientemente   elevato   e   non   condizionato    esclusivamente
all'anzianita'. 
    18.2.- Piu' recentemente, con riferimento proprio al d.lgs. n. 23
del  2015,  questa  Corte  ha  ritenuto  compatibile  con  la   Carta
fondamentale una tutela meramente monetaria,  purche'  improntata  ai
canoni  di  effettivita'  e  di   adeguatezza,   rilevando   che   il
bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su
cui non puo' non esercitarsi la  discrezionalita'  del  legislatore»,
non impone «un determinato regime di tutela»  (sentenza  n.  194  del
2018). 
    In tale pronuncia si ricorda come sia stato piu' volte affermato,
in   occasione   dell'esame   di   disposizioni    introduttive    di
forfetizzazioni legali limitative del  risarcimento  del  danno,  che
«"la  regola  generale  di  integralita'  della  riparazione   e   di
equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato  non
ha copertura costituzionale" (sentenza n. 148 del 1999), purche'  sia
garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005  e
n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303  del  2011).  La  tutela,  dunque,
ancorche' non  necessariamente  riparatoria  dell'intero  pregiudizio
subito dal  danneggiato,  deve  essere  comunque  equilibrata.  Dalle
stesse pronunce  emerge,  altresi',  che  l'adeguatezza  del  rimedio
forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un  ragionevole
contemperamento degli interessi in conflitto  (sentenze  n.  235  del
2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132 del 1985). 
    Anche nella successiva sentenza n. 150 del 2020, si e'  affermato
che   la   ragionevolezza,   nell'ambito   della    disciplina    dei
licenziamenti, dev'essere declinata come necessaria  adeguatezza  dei
rimedi, «nel contesto di  un  equilibrato  componimento  dei  diversi
interessi in  gioco  e  della  specialita'  dell'apparato  di  tutele
previsto dal diritto del lavoro. Il legislatore, pur potendo adattare
secondo una pluralita' di  criteri,  anche  in  considerazione  delle
diverse fasi storiche, i rimedi contro i  licenziamenti  illegittimi,
e' chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta
di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in se' sempre traumatico,
dell'espulsione del lavoratore». 
    18.3.- Questa Corte ha, quindi, gia' riconosciuto che  il  limite
massimo di ventiquattro mensilita', a maggior  ragione  dopo  che  il
d.l. n. 87 del 2018, come  convertito,  lo  ha  elevato  a  trentasei
mensilita' (art. 3), non si  pone  in  contrasto  con  il  canone  di
necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il  ristoro
sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in
conflitto. 
    Del resto, che il limite massimo (ventiquattro mensilita' elevate
a trentasei) costituisca  un  importo  adeguato  emerge  anche  dalla
comparazione con l'indennita' sostitutiva  della  reintegrazione,  di
cui all'art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 o  all'art.  2,
comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, stante che  l'ammontare  di  tale
indennita',  introdotta  come  un   equivalente   sostitutivo   della
reintegrazione,   e'   pari   a   quindici   mensilita'   dell'ultima
retribuzione globale di fatto. 
    Si e' poi gia' rilevato che  la  dissuasivita'  della  disciplina
dell'illegittimita' dei licenziamenti  e  l'adeguatezza  del  ristoro
vanno valutate con  riferimento  alla  regolamentazione  complessiva,
articolata nella tutela reintegratoria e in quella solo  indennitaria
secondo un criterio di gradualita' e  proporzionalita'  che  vede  la
tutela reintegratoria nei casi di violazioni piu' gravi e quella solo
indennitaria negli altri. 
    Anche  la  fissazione  di  un  limite   massimo   dell'indennizzo
risponde, del resto, alla ragione di  fondo  della  legge  delega  di
incentivare le nuove assunzioni  con  la  previsione  di  conseguenze
sanzionatorie  certe  e  prevedibili   in   caso   di   licenziamento
illegittimo. 
    La personalizzazione del ristoro resta  in  ogni  caso  garantita
entro l'intervallo in cui va quantificata l'indennita'  spettante  al
lavoratore illegittimamente licenziato, e comunque l'indennita',  pur
assorbendo tendenzialmente qualunque voce di  danno,  patrimoniale  e
non patrimoniale, non preclude alla  giurisprudenza  di  identificare
ipotesi di danno  ulteriore  risarcibile,  come  nel  caso  di  danni
derivanti dal licenziamento ingiurioso (Corte di cassazione,  sezione
lavoro, sentenza 25 gennaio 2021, n. 1507). 
    19.- La Corte rimettente dubita,  poi,  dell'adeguatezza  di  una
tutela indennitaria anche con riferimento all'art.  24  CSE,  evocato
non piu' sotto il profilo dell'eccesso  di  delega,  ma  ex  se  come
parametro interposto. 
    Pur in questa diversa prospettiva, non possono che richiamarsi le
considerazioni gia' svolte sopra ai punti da 12 a 14. 
    Ferma  restando  la  natura  non  vincolante   della   richiamata
decisione dell'11 febbraio 2020  del  Comitato  europeo  dei  diritti
sociali e il carattere interlocutorio della risoluzione del  Comitato
dei ministri del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020,  va  ribadito
che l'adeguatezza e la dissuasivita' della normativa di contrasto dei
licenziamenti illegittimi deve essere valutata con  riferimento  alla
disciplina complessiva, che si compone della tutela reintegratoria  e
di quella solo indennitaria secondo  un  criterio  di  gradualita'  e
proporzionalita'. 
    20.- Per tutto quanto finora  argomentato  vanno  dichiarate  non
fondate le questioni di legittimita' costituzionale  degli  artt.  3,
comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23  del  2015,  censurati  sotto  diversi
profili e con riferimento agli indicati parametri, nella parte in cui
hanno modificato la disciplina sanzionatoria per  la  violazione  dei
criteri di  scelta  dei  lavoratori  in  esubero  nell'ambito  di  un
licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a  tempo
indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in
misura di un indennizzo determinato entro un limite  massimo  fissato
per legge ed escludendo quella reintegratoria.