ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 10,
unitariamente considerato, e in combinato disposto con l'art. 3,
comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in
materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele
crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nel
testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 3, comma 1, del
decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la
dignita' dei lavoratori e delle imprese), convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, promosso dalla Corte
d'appello di Napoli, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra C.
R. e B. srl, con ordinanza del 16 aprile 2023, iscritta al n. 72 del
registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2023.
Visto l'atto di costituzione di C. R.;
udito nell'udienza pubblica del 5 dicembre 2023 il Giudice
relatore Giovanni Amoroso;
udito l'avvocato Sergio Vacirca per C. R.;
deliberato nella camera di consiglio del 5 dicembre 2023.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023),
la Corte d'appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), in riferimento agli
artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, della
Costituzione, questi ultimi due in relazione all'art. 1, comma 7,
lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo
in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per
il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino
della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e
di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di
lavoro) e all'art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con
annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa
esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 (d'ora in poi: CSE).
1.1.- Le questioni sono sollevate nel corso del giudizio di
impugnazione di un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, ad
una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una
procedura di licenziamento collettivo per «riduzione del personale»
avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge 23 luglio
1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilita',
trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della
Comunita' europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in
materia di mercato del lavoro), censurato per violazione della
procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
1.2.- La Corte rimettente premette di aver gia' proposto, in
riferimento alle medesime questioni, un rinvio pregiudiziale su cui
la Corte di giustizia dell'Unione europea, con ordinanza del 4 giugno
2020, in causa C-32/20, TJ contro B. srl, si e' dichiarata
manifestamente incompetente per l'estraneita' della controversia del
procedimento principale, relativa alle conseguenze dell'atto di
recesso, agli obblighi imposti dalla direttiva 98/59/CE del
Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti
collettivi; nonche', nel medesimo giudizio, questioni di legittimita'
costituzionale, per profili in parte uguali e in parte connessi,
dichiarate da questa Corte inammissibili (sentenza n. 254 del 2020)
per una insufficiente individuazione dei vizi del licenziamento
collettivo e per l'incertezza sul tipo di intervento richiesto.
1.3.- In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia di aver
dichiarato con sentenza parziale l'illegittimita' dell'impugnato
licenziamento per violazione dei criteri di scelta, e di aver
disposto la prosecuzione del giudizio ai soli fini
dell'individuazione delle conseguenze sanzionatorie; osserva, quindi,
che ad un licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei
criteri di scelta, intimato nel 2016 nei confronti di una lavoratrice
assunta dopo il 7 marzo 2015, trova applicazione il regime
sanzionatorio previsto dall'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, richiamato dall'art. 10 del medesimo decreto, nella versione
antecedente la novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87
(Disposizioni urgenti per la dignita' dei lavoratori e delle
imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018,
n. 96, ai sensi del quale il giudice dichiara l'estinzione del
rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di una
indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale «in misura
comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro
mensilita'».
1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente
formula tre articolate censure.
1.4.1.- In primo luogo, la Corte dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sia
unitariamente inteso che nel combinato disposto con l'art. 3, comma
1, dello stesso decreto, con riferimento agli artt. 3, 10, 35, 76 e
117, primo comma, Cost., nella parte in cui avrebbe modificato la
disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei
lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo, pur
in assenza di una specifica delega e, comunque, in contrasto con
l'art. 24 CSE, in violazione dei principi e dei criteri direttivi
della legge delega.
Con riferimento al profilo interno, la modifica del regime
sanzionatorio dei licenziamenti collettivi sarebbe un intervento
eccedente l'ambito della delega testuale di cui all'art. 1, comma 7,
lettera c), della legge n. 183 del 2014, che, demandando al Governo
di adottare una disciplina che preveda tutele crescenti con
l'anzianita' che escluda «per i licenziamenti economici la
possibilita' della reintegrazione del lavoratore», non consentirebbe
di ritenere ricompresa nella devoluzione della potesta' normativa
anche la rimodulazione della disciplina sanzionatoria del
licenziamento collettivo, in quanto corpo normativo unitario e
completo, autonomamente disciplinato.
Nello stesso senso deporrebbero sia l'analisi dei lavori
parlamentari (Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei
deputati, XI, seduta del 17 febbraio 2015; Commissione Lavoro
pubblico e privato, previdenza sociale del Senato della Repubblica,
11ª, seduta dell'11 febbraio 2015), sia la considerazione che una
tale significativa modifica avrebbe imposto una scelta lessicale
inequivoca ed esplicita.
Quanto al profilo sovranazionale, la potesta' normativa delegata
non sarebbe stata esercitata in coerenza con le convenzioni
internazionali, come richiesto dall'art. 1, comma 7, della legge n.
183 del 2014, ed in particolare in relazione all'art. 24 CSE, la cui
violazione ad opera del d.lgs. n. 23 del 2015 - nella parte in cui,
prevedendo come sanzione per un licenziamento illegittimo un
indennizzo forfettizzato ex ante in un plafond rigido, non
consentirebbe una personalizzazione del danno subito a causa della
perdita del posto di lavoro - risulterebbe gia' accertata dal
Comitato europeo dei diritti sociali nella decisione dell'11
settembre 2019, pubblicata l'11 febbraio 2020, di accoglimento del
reclamo collettivo proposto dalla Confederazione generale italiana
del lavoro (CGIL) n. 158 del 2017, seguita dalla risoluzione del
Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020, che
ha invitato l'Italia a riferire sulle eventuali misure adottate per
rendere la misura in esame conforme alla Carta.
1.4.2.- In secondo luogo, il giudice a quo ritiene non
manifestamente infondato il contrasto dell'art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015, in combinato disposto con l'art. 10 dello
stesso decreto, con gli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., nella parte
in cui, per la stessa violazione dei criteri di scelta, nella
medesima procedura di licenziamento collettivo e per rapporti di
lavoro omogenei, disporrebbe, irragionevolmente, una sanzione priva
di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro
personalizzato ed effettivo del danno per i soli lavoratori assunti a
tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015.
La Corte rimettente osserva che nella procedura di licenziamento
collettivo su cui e' chiamata a giudicare coesistono rapporti di
lavoro che, pur assoggettati alla medesima e simultanea analisi
comparativa da estendersi all'intero complesso aziendale, sono
caratterizzati da regimi sanzionatori disomogenei, in quanto una
identica violazione dei criteri di scelta viene riparata con la
reintegra del rapporto di lavoro e previdenziale per i lavoratori
assunti a tempo indeterminato fino al 7 marzo 2015, ed esclusivamente
con un indennizzo forfettario, basato su una nozione di retribuzione,
non onnicomprensiva ed inadeguata ad assicurare il ristoro effettivo
del danno subito anche sotto il profilo previdenziale, per i
lavoratori assunti successivamente.
In presenza di una identica violazione che determina
l'illegittima perdita del posto di lavoro, un trattamento
differenziato, che in una prospettiva individuale puo' ritenersi
giustificato in ragione del "fluire del tempo", darebbe luogo invece
ad una irragionevole disparita' di tutela all'interno di una
procedura collettiva, divenendo un fattore disarmonico e penalizzante
nella comparazione, e persino di condizionamento, rispetto
all'esigenza di imparzialita' che connota la scelta; la ragione
giustificatrice dello «scopo» perseguito dal legislatore, «di
rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte
di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell'art. 1,
comma 7, della legge n. 183 del 2014), perderebbe significato in una
procedura di esubero, nella quale l'individuazione dei lavoratori da
licenziare deve basarsi esclusivamente su una puntuale applicazione
di omogenei ed oggettivi criteri di scelta, poiche' l'affievolimento
radicale della sanzione amplificherebbe per tali lavoratori il
"rischio" di perdere il lavoro, con un sacrificio irragionevole che
si estende anche alla posizione previdenziale.
Nella procedura comparativa di cui agli artt. 4 e 24 della legge
n. 223 del 1991 - conclude sul punto il giudice a quo - il combinato
disposto delle norme censurate penalizzerebbe in modo ingiustificato
i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, con
la previsione di un regime di garanzia del posto di lavoro che si
porrebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
1.4.3. - Con la terza questione il giudice a quo dubita della
legittimita' costituzionale delle norme censurate in combinato
disposto, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117
Cost. laddove, in forma irragionevole, in presenza di una violazione
di parametri selettivi oggettivi e solidaristici, derogherebbero ad
un sistema sanzionatorio efficace e adeguato determinando, con il
sistema forfettizzato di danno, un affievolimento del ristoro del
pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed
effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta.
La deroga introdotta dall'art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 con
il richiamo all'art. 3, comma 1, dello stesso decreto, rispetto
all'oggettiva efficacia dissuasiva della sanzione in precedenza
vigente per la identica violazione, imporrebbe l'applicazione di un
sistema indennitario inadeguato a ristorare il danno che deriva dalla
perdita del rapporto di lavoro, dando luogo ad una
deresponsabilizzazione dell'iniziativa privata rispetto agli effetti
di un atto illegittimo e all'impossibilita' di personalizzare il
pregiudizio subito dal lavoratore illegittimamente licenziato e
quindi la sua tutela.
1.5.- Il giudice a quo si sofferma, infine, sul tipo di
intervento richiesto ed invoca in primis una pronuncia caducatoria
dell'intero art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 o, quantomeno,
dell'inciso «o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1,
della legge n. 223 del 1991», che determinerebbe una riespansione del
regime previgente uniforme per tutti i lavoratori coinvolti.
In alternativa, laddove le censure dell'art. 10 citato fossero
ritenute non fondate, propone l'adozione di un provvedimento
interpretativo di accoglimento di tipo caducatorio dell'art. 3, comma
1, del d.lgs. n. 23 del 2015, quanto all'inciso «e non superiore a
ventiquattro» (oggi trentasei), volto ad eliminare il "tetto" della
misura indennitaria forfettaria, che renderebbe la sanzione priva di
efficacia deterrente, limitatamente al caso di illegittimita' del
licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta di cui
all'art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991.
2.- Con atto depositato il 15 giugno 2023 si e' costituita in
giudizio C. R., ricorrente nel giudizio a quo, e ha sostenuto la
rilevanza e la fondatezza delle sollevate questioni di legittimita'
costituzionale riportandosi alle considerazioni formulate dal giudice
rimettente, ed in particolare alle censure di mancato rispetto dei
limiti alla delega normativa posti dall'art. 1, comma 7, della legge
n. 183 del 2014, di violazione dei parametri ad opera dei
diversificati regimi di tutela nonche' di irragionevolezza del
sistema sanzionatorio in concreto applicabile; a giudizio della
parte, l'intervento di tipo caducatorio richiesto sarebbe coerente
con le indicazioni e i moniti ricavabili dalla giurisprudenza di
questa Corte, espressi in particolare con le sentenze n. 183 del 2022
e n. 194 del 2018, nonche' con il dettato dell'art. 24 CSE.
2.1.- In prossimita' dell'udienza la parte ha depositato una
memoria in cui, dopo aver insistito sulle censure di mancato rispetto
della potesta' normativa devoluta, si e' soffermata sulla violazione
del diritto di eguaglianza e del principio di ragionevolezza,
evidenziando che nell'ambito dei licenziamenti collettivi l'esigenza
di evitare trattamenti discriminatori tra i lavoratori, che
conseguirebbero a differenze di disciplina, emergerebbe come dato
prioritario in grado di attenuare, sino ad annullare, l'esigenza di
far prevalere la neutralita' dello scorrere del tempo rispetto
all'applicazione della legge.
Alla luce di tali rilievi la parte auspica la caducazione
dell'inciso contenuto nell'art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 («o dei
criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della legge n. 223
del 1991») ed il ripristino del meccanismo sanzionatorio introdotto
con la cosiddetta "legge Fornero" per tutti i lavoratori destinatari
di un licenziamento collettivo.
3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto
in giudizio.
4.- All'udienza del 5 dicembre 2023, la parte ha insistito per
l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023),
la Corte d'appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del
d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 35,
38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi due in
relazione all'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del
2014 e all'art. 24 CSE.
1.1.- Le questioni sono sorte nell'ambito di un giudizio di
appello avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento
collettivo intimato ad una lavoratrice assunta e licenziata dopo il 7
marzo 2015, data dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015,
ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta di cui
all'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991.
A giudizio della Corte rimettente, la sanzione prevista dall'art.
3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall'art. 10 del
medesimo decreto, nella versione antecedente le modifiche di cui al
d.l. n. 87 del 2018, come convertito, risulterebbe manifestamente
disomogenea sia rispetto a quella ripristinatoria applicabile per il
medesimo tipo di invalidita' del recesso ai rapporti di lavoro
costituiti ante 7 marzo 2015, sia rispetto a quella applicabile ai
rapporti costituiti dopo il 7 marzo 2015, ma risolti dopo la novella
del 2018, che ha aumentato l'indennizzo, nel minimo da quattro a sei
e nel massimo da ventiquattro a trentasei mensilita'.
1.2.- Con riferimento agli artt. 3, 10, 35, 76 e 117, primo
comma, Cost., la rimettente deduce che l'art. 10 del d.lgs. n. 23 del
2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l'art.
3, comma 1, dello stesso decreto, nella parte in cui ha modificato la
disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei
lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo,
violerebbe la legge delega sotto due profili, uno interno e uno
sovranazionale.
Quanto al primo profilo, perche' l'art. 1, comma 7, lettera c),
della legge n. 183 del 2014, demandando al Governo l'adozione di una
disciplina che escludesse la possibilita' della reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro solo «per i licenziamenti economici»,
termine riferibile alle sole forme di recesso individuale per motivo
oggettivo, non consentiva di ricomprendere nella potesta' normativa
delegata anche la rimodulazione della disciplina sanzionatoria del
licenziamento collettivo.
Quanto al secondo profilo, perche', in difformita' dai principi e
dai criteri direttivi che all'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del
2014 richiedevano un esercizio della delega coerente con le
convenzioni internazionali, la disciplina censurata si e' posta in
contrasto con l'art. 24 CSE prevedendo come sanzione un indennizzo,
forfettizzato ex ante in un plafond rigido, che non consente una
personalizzazione del danno subito a causa della perdita del posto di
lavoro (contrasto gia' ritenuto dal Comitato europeo dei diritti
sociali nella decisione dell'11 settembre 2019, pubblicata l'11
febbraio 2020).
1.3.- Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., il
giudice a quo censura l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
in combinato disposto con l'art. 10 dello stesso decreto, nella parte
in cui, per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in
esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo, introduce una
disciplina sanzionatoria diversa per i soli lavoratori assunti a
tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, perche'
disporrebbe, irragionevolmente, per una identica violazione, avvenuta
contestualmente nella medesima procedura e per rapporti di lavoro
omogenei, una sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad
assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno subito a
seguito della illegittima perdita del posto di lavoro.
1.4.- Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117,
primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 CSE, la
Corte rimettente prospetta l'illegittimita' costituzionale dell'art.
10 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente considerato, e in
combinato disposto con l'art. 3, comma 1, dello stesso decreto, nella
parte in cui, in riferimento alla violazione dei criteri di scelta
del lavoratore in esubero in una procedura di licenziamento
collettivo, deroga ad una sanzione efficace e adeguata introducendo,
in forma irragionevole, in presenza di una violazione di parametri
selettivi oggettivi e solidaristici, un sistema forfettizzato di
danno inefficace. Cio' determina un affievolimento del ristoro del
pregiudizio causato e non consente una idonea responsabilizzazione
del soggetto inadempiente attraverso una personalizzazione del danno
cagionato.
2.- In via preliminare, va rilevata d'ufficio l'inammissibilita'
delle censure di illegittimita' costituzionale sollevate in
riferimento agli artt. 10, 24 e 111 Cost., in quanto del tutto prive
di motivazione.
La Corte rimettente si e' limitata ad evocare i suddetti
parametri senza alcuna specifica ed adeguata illustrazione dei motivi
di censura in punto di non manifesta infondatezza, ne' l'ordinanza
fornisce elementi che consentano di valutare il dedotto contrasto
delle disposizioni censurate con tali parametri genericamente evocati
(sull'inammissibilita' per difetto di motivazione sulla non manifesta
infondatezza, ex plurimis, sentenze n. 194 del 2023, n. 118 del 2022,
n. 213 e n. 178 del 2021, n. 126 del 2018).
3.- L'ordinanza di rimessione non presenta ulteriori profili di
inammissibilita'.
3.1.- Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito
al procedimento principale e alla situazione personale della
ricorrente risultano sufficienti a dimostrare l'applicabilita'
ratione temporis delle disposizioni censurate (ex plurimis, sentenze
n. 152 del 2021, n. 59 del 2021 e n. 218 del 2020). La Corte
rimettente ha dato atto di aver accertato con sentenza parziale la
violazione dei criteri di scelta nell'ambito di una procedura di
licenziamento collettivo e, con questo, giustificato l'applicazione
del regime sanzionatorio indennitario introdotto dal d.lgs. n. 23 del
2015, stante il richiamo dell'art. 10 da parte dell'art. 3 dello
stesso decreto, cosi' superando le ragioni di inammissibilita' di
analoghe questioni poste con una precedente ordinanza di rimessione
dalla stessa Corte d'appello (sentenza n. 254 del 2020). Infatti, in
generale, il giudice a quo e' abilitato a sollevare una seconda volta
la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia
emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi
rimovibili dal rimettente (ex plurimis, sentenza n. 247 del 2022).
3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni,
l'ordinanza di rimessione ha sufficientemente motivato i dubbi di
legittimita' costituzionale con argomentazioni che hanno una
complessiva coerenza e unitarieta'.
Tutte le censure di illegittimita' costituzionale sono, in
realta', focalizzate sul regime sanzionatorio del licenziamento
collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato
a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n.
23 del 2015 (7 marzo 2015), che ha soppresso la reintegrazione come
conseguenza dell'illegittimita' di tale fattispecie di licenziamento.
L'eliminazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro -
la quale, invece, permane ancora per i lavoratori assunti prima di
tale data, ove destinatari dello stesso licenziamento collettivo
illegittimo - e la limitazione delle conseguenze del recesso
datoriale alla sola compensazione monetaria costituiscono il tratto
comune delle censure mosse dalla Corte d'appello, dirette tutte a
reintrodurre la reintegrazione del lavoratore illegittimamente
licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale.
Avendo di mira questo obiettivo unitario, la Corte d'appello -
come gia' ricordato - censura, con riferimento agli indicati
parametri, l'eliminazione della reintegrazione: a) perche' prevista
dal legislatore delegato senza che essa sia riconducibile alla legge
di delega e quindi con eccesso di delega sotto un profilo interno
(infra, punti da 6 a 11) ed uno sovranazionale (infra, punti da 12 a
14); b) perche' determina una disciplina ingiustificatamente e
irragionevolmente differenziata, in riferimento allo stesso
licenziamento collettivo, tra lavoratori "giovani" (con anzianita' a
partire dal 7 marzo 2015) e quelli "anziani" (assunti prima della
data suddetta), i quali ultimi conservano, invece, la reintegrazione
nel posto di lavoro in caso di licenziamento collettivo illegittimo
per violazione dei criteri di scelta (infra, punti da 15 a 17); c)
infine perche', comunque, il solo indennizzo (con importo non
superiore a un tetto massimo), senza la reintegrazione, non
costituisce in se' una sanzione adeguata e sufficientemente
dissuasiva dei licenziamenti illegittimi (infra, punti da 18 a 19).
4.- Con riferimento a questo specifico nucleo unitario delle
censure (id est: tutela reintegratoria versus tutela indennitaria) va
richiamato - prima di passare all'esame del merito delle questioni -
il quadro normativo di riferimento, in termini comunque essenziali.
4.1.- Puo' ricordarsi, innanzi tutto, che la reintegrazione del
lavoratore illegittimamente licenziato, misura di tutela fortemente
innovativa, fu introdotta - condizionatamente alla ricorrenza di un
livello occupazionale minimo del datore di lavoro - dall'art. 18
dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300, recante
«Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento»). Tale misura costituiva, all'epoca, un
completamento della disciplina (legge 15 luglio 1966, n. 604, recante
«Norme sui licenziamenti individuali»), introdotta pochi anni prima,
dei licenziamenti individuali illegittimi perche' ingiustificati
(senza giusta causa o giustificato motivo: artt. 1 e 3) o perche'
discriminatori (art. 4); legge che, per espressa previsione, non
trovava applicazione alla «materia dei licenziamenti collettivi per
riduzione di personale» (art. 11, secondo comma).
L'ambito applicativo della reintegrazione (la cosiddetta tutela
reale del lavoratore) e' risultato, in seguito, ampliato sia ad opera
della giurisprudenza, che ne ha predicato la "forza espansiva", sia
da una prima riforma legislativa dell'art. 18 statuto lavoratori
(art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, recante «Disciplina dei
licenziamenti individuali»), approvata sotto la spinta di una
richiesta di referendum abrogativo, ammessa da questa Corte (sentenza
n. 65 del 1990).
La reintegrazione ha, poi, avuto un'ulteriore espansione, quanto
alla sua area di applicazione, perche' e' stata prevista anche nel
caso di licenziamento collettivo illegittimo dall'art 24 della legge
n. 223 del 1991, in attuazione della direttiva 75/129/CEE del
Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti
collettivi.
Progressivamente, pero', in epoca piu' recente, l'ampiezza
applicativa della reintegrazione, che pareva una conquista
irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi,
e' stata messa in discussione e sull'art. 18 statuto lavoratori,
divenuto argomento divisivo e controverso anche nel dibattito tra le
forze politiche e sociali, si sono appuntate per un verso pressioni
riformatrici in favore di una maggiore flessibilita' in uscita dal
posto di lavoro, coniugate a politiche attive di sostegno, per
l'altro resistenze, soprattutto nel mondo sindacale, per conservare
la tutela reintegratoria.
4.2.- Si perviene cosi' al punto di svolta rappresentato dalla
legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), adottata nel
contesto di un complessivo disegno riformatore della materia del
lavoro.
L'art. 18 statuto lavoratori viene ulteriormente novellato e,
soprattutto, "frantumato" in plurimi regimi di tutela nei confronti
del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che fino
ad allora era stata l'unicita' della tutela reintegratoria per i
licenziamenti individuali e collettivi.
Al di la' delle specificita' dei singoli regimi reintegratori e
indennitari, va rilevato che la logica di fondo di questa importante
riforma e' che non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali.
Fermo restando il tradizionale limite occupazionale, il legislatore
del 2012 ha ritenuto di riservare la tutela della reintegrazione ai
licenziamenti la cui illegittimita' e' conseguenza di una violazione,
in senso lato, "piu' grave", prevedendo per gli altri una
compensazione indennitaria.
Si introduce, quindi, un inedito criterio di graduazione e di
differenziazione che modifica radicalmente la logica precedente della
reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo
nelle realta' occupazionali non piccole.
Vi sono licenziamenti illegittimi che si e' ritenuto di
continuare a sanzionare con la reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro in termini sostanzialmente analoghi a quelli della
(unica) reintegrazione del regime precedente. Ve ne sono altri che
pure danno luogo alla reintegrazione, ma con una tutela
complessivamente attenuata. Vi sono poi, in altri casi ancora, i
regimi indennitari, ossia ipotesi di tutele solo compensative senza
reintegrazione nel posto di lavoro.
La matrice compromissoria della legge, tra le istanze di nuove
flessibilita' e le resistenze al ridimensionamento della tutela
reale, si rinviene nella demarcazione del perimetro dei differenti
regimi di tutela (reintegratoria ed indennitaria) secondo una linea
tracciata in termini non del tutto precisi, forieri di contenzioso
ordinario, oltre che di censure di illegittimita' costituzionale.
E cio' e' vero soprattutto per il licenziamento individuale
"economico", ossia quello per giustificato motivo oggettivo. La
reintegrazione viene riservata ai licenziamenti la cui illegittimita'
e' "piu' grave" e tali sono quelli in cui il giustificato motivo
oggettivo, allegato dal datore di lavoro, e' addirittura
"insussistente". Ma si aggiunge, poi, che l'insussistenza deve essere
«manifesta» e inoltre si prevede per il giudice un ulteriore spazio
di valutazione perche' egli «[p]uo' altresi' applicare» - e non gia'
«applica altresi'» - la reintegrazione.
L'una e l'altra limitazione, pero', sono state oggetto di due
pronunce di illegittimita' costituzionale - sentenze n. 59 del 2021 e
n. 125 del 2022 - con l'effetto che la linea di demarcazione tra
l'area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo
compensativa risulta tracciata, ora, in termini piu' netti,
dipendendo tout court dall'inesistenza, o no, del giustificato motivo
oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso.
4.3.- In questo quadro di profonda riforma, anche la disciplina
dei licenziamenti collettivi illegittimi e' stata novellata dalla
medesima legge n. 92 del 2012; la quale, in sintonia con il
ridimensionamento della reintegrazione quanto ai licenziamenti
individuali, ha parimenti operato una differenziazione altresi' per i
licenziamenti collettivi, escludendo la reintegrazione nel caso in
cui la illegittimita' consisteva nella violazione delle regole del
procedimento (di derivazione europea), ma conservandola nel caso di
licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di
scelta, legali o previsti da accordi sindacali: violazione ritenuta
evidentemente "piu' grave".
Questo e', per grandi linee, l'assetto voluto dalla legge n. 92
del 2012 quanto alla tutela reintegratoria del lavoratore
illegittimamente licenziato, che quindi risulta sensibilmente
ridimensionata a favore della tutela indennitaria di tipo
compensativo.
4.4.- Pochi anni dopo, in un contesto riformatore finanche piu'
ampio che ha toccato plurimi aspetti della materia del lavoro (il
cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del 2014), a questa disciplina,
novellata nel 2012, si e' affiancata - senza sostituirla - la
regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era
un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato - cosiddetto a tutele crescenti - che si sovrappone a
quello ordinario precedente.
La tecnica legislativa e' pero' diversa: non una legge ordinaria,
ma una legge di delega per affidare al Governo l'emanazione di
plurimi decreti legislativi.
In uno di questi (d.lgs. n. 23 del 2015), in particolare, si
stabilisce un diverso regime di tutela, nel caso di licenziamento
illegittimo, per i lavoratori assunti con questo nuovo tipo di
contratto, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata
in vigore (7 marzo 2015).
Il contratto di lavoro a tutele crescenti e la relativa
disciplina dei licenziamenti miravano ad incentivare l'occupazione,
soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della
creazione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo
indeterminato maggiormente "attrattiva" per i datori di lavoro in
ragione sia della limitazione dell'area di applicazione della tutela
reintegratoria, sia della calcolabilita' dell'indennizzo compensativo
del licenziamento illegittimo.
In particolare, quanto alla disciplina del licenziamento
individuale, il d.lgs. n. 23 del 2015 replica, nelle linee generali,
la suddivisione delle tutele gia' operata dalla legge n. 92 del 2012,
ma ridefinendo il perimetro della tutela reintegratoria e di quella
indennitaria, in particolare escludendo del tutto la reintegrazione
nel caso di licenziamento individuale "economico", ossia di quello
per giustificato motivo oggettivo e di quello collettivo.
4.5.- Senza entrare nel dettaglio di questa disciplina, vi e' in
particolare che la tutela reintegratoria, oggetto del presente
giudizio di legittimita' costituzionale, viene ulteriormente
ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa
o di giustificato motivo soggettivo ed e' del tutto eliminata in
ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Inoltre,
il d.lgs. n. 23 del 2015 interviene anche sulla disciplina del
licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti
con contratto a tutele crescenti, e sopprime la tutela reintegratoria
prevedendo solo quella indennitaria anche nel caso di violazione dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da
accordo sindacale, salvo comunque conservarla in caso di
licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta.
Il successivo d. l. n. 87 del 2018, come convertito, si limita,
quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, ad incrementare
la misura dell'indennizzo (art. 3), con l'effetto di confermare, per
il resto, il meccanismo delle cosiddette tutele crescenti in
progressione lineare (e certa) con l'anzianita' di servizio in caso
di licenziamento illegittimo. Nulla dispone quanto ai licenziamenti
collettivi.
4.6.- Il rapporto tra la tutela reintegratoria e quella solo
indennitaria nel nuovo regime del d.lgs. n. 23 del 2015 risulta
infine modificato a seguito delle pronunce di questa Corte,
successive a quest'ultimo intervento del legislatore.
Per un verso, quanto alla tutela reintegratoria, rilevano le gia'
richiamate sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022.
Con la prima, questa Corte ha dichiarato l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della
legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera
b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva che il
giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a
base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «[p]uo'
altresi' applicare» - invece che «applica altresi'» - la disciplina
di cui al medesimo art. 18, quarto comma.
Con la seconda, e' stata dichiarata l'illegittimita'
costituzionale della medesima disposizione limitatamente alla parola
«manifesta».
L'effetto congiunto delle due richiamate pronunce e' quello
dell'ampliamento dell'area della tutela reintegratoria nel regime
della legge n. 92 del 2012: l'«insussistenza del fatto» e' posta a
presupposto della tutela reintegratoria del licenziamento illegittimo
per mancanza di giustificato motivo sia soggettivo sia oggettivo.
Per altro verso, sulla tutela indennitaria hanno inciso le
sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
Con la prima, e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 - sia nel testo
originario, sia in quello modificato dall'art. 3, comma 1, del d.l.
n. 87 del 2018, come convertito - limitatamente alle parole «di
importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di
servizio».
Con la seconda pronuncia, e' stata dichiara la illegittimita'
costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente
alle parole «di importo pari a una mensilita' dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio».
La tutela indennitaria ne e' risultata, nel complesso, ampliata,
nella misura in cui l'indennizzo e' ora fissato in una forbice tra un
minimo e un massimo e non e' piu' quantificato in modo rigido
unicamente secondo la progressione lineare dell'anzianita' di
servizio.
5.- Quindi, in sintesi, si passa dal regime ampio ed uniforme
della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino
al 2012), ad uno differenziato secondo la "gravita'", in senso lato,
della violazione che inficia la legittimita' del licenziamento
(intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a
partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore
restringimento dell'area della tutela reale e ampliamento di quella
indennitaria, quest'ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal
d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12
agosto 2018).
E' questa una disciplina composita, differenziata ratione
temporis (rilevano le tre date suddette: 18 luglio 2012, 7 marzo 2015
e 12 agosto 2018) e declinata in diversi regimi di tutela, la cui
complessa e complessiva articolazione segna la difficolta' di un
processo riformatore in un ambito - quello dei licenziamenti
individuali e collettivi - di elevato impatto sociale.
In proposito questa Corte ha gia' segnalato che «la materia,
frutto di interventi normativi stratificati, non puo' che essere
rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri
distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia
la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate
fattispecie» (sentenza n. 183 del 2022).
6.- Tutto cio' premesso, va esaminata innanzi tutto la questione
di legittimita' costituzionale delle disposizioni censurate per
violazione della delega, contenuta nell'art. 1, comma 7, lettera c),
della legge n. 183 del 2014, in relazione al fatto che quest'ultima
aveva previsto l'eliminazione della tutela reintegratoria, con
concentrazione nella sola tutela indennitaria, unicamente per i
«licenziamenti economici», intendendo per tali - secondo la Corte
rimettente - quelli individuali «economici» (ossia per giustificato
motivo oggettivo) e non anche i licenziamenti collettivi per
riduzione di personale.
La questione - sollevata in riferimento all'art. 76 Cost. - non
e' fondata.
7.- Questo e' il criterio di delega, fissato dal citato art. 1,
comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014: «previsione, per le
nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti in relazione all'anzianita' di servizio, escludendo per i
licenziamenti economici la possibilita' della reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico
certo e crescente con l'anzianita' di servizio e limitando il diritto
alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato,
nonche' prevedendo termini certi per l'impugnazione del
licenziamento».
Le censure mosse dalla Corte rimettente, che convergono
essenzialmente nella denuncia di eccesso di delega da parte del
legislatore delegato, richiedono l'interpretazione del sintagma
«licenziamenti economici» che presenta un'intrinseca ambiguita'
perche' atecnico, nel senso che non appartiene al lessico giuridico
in senso stretto.
7.1.- La, pur estesa, disciplina dei licenziamenti individuali e
collettivi non solo non conosce l'utilizzo del termine «licenziamenti
economici», ma anche - e da epoca risalente, fin dalla richiamata
prima legge sui licenziamenti individuali (n. 604 del 1966) - ha
tenuto ben distinta la disciplina degli uni e degli altri, si' da far
emergere la loro ontologica differenza in termini di definizione
delle fattispecie e di disciplina positiva.
La legittimita' del licenziamento individuale e' condizionata
dalla sua "giustificatezza" (ex artt. 1 e 3 della legge n. 604 del
1966): il giudice, investito della impugnazione dell'atto di recesso,
e' chiamato a valutare cio', in termini piu' o meno penetranti,
rispettivamente quanto al giustificato motivo soggettivo (di norma,
per "colpa" del lavoratore, ossia per «notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro») e a quello oggettivo
(per «ragioni inerenti all'attivita' produttiva, all'organizzazione
del lavoro e al regolare funzionamento di essa» con impossibilita' di
ricollocamento del lavoratore in altra posizione). In questa seconda
ipotesi peraltro - va sottolineato - il licenziamento (per
giustificato motivo oggettivo) puo' essere anche plurimo, ove
riferito a piu' lavoratori con la stessa causale.
E', invece, estranea al licenziamento collettivo, che e'
necessariamente unico per una pluralita' di lavoratori e mai
individuale, la valutazione di "giustificatezza", essendo il giudice
chiamato a identificare la fattispecie sulla base di indicatori
formali (ex artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991), quali la
procedura di confronto sindacale e il numero minimo di lavoratori
licenziati in un determinato arco di tempo. E' questa una verifica
esterna di autenticita' della fattispecie, che non investe le ragioni
d'impresa (quali possono essere la crisi economica, la
ristrutturazione aziendale, la riconversione tecnologica, e finanche
la cessazione dell'attivita'), le quali originano la riduzione di
personale.
7.2.- Se si considera l'iter di formazione della legge di delega
(n. 183 del 2014), che nasce su iniziativa del Governo, si nota che
la strategia complessiva perseguita per riformare la disciplina del
lavoro con plurime deleghe non toccava, inizialmente, anche i
licenziamenti collettivi. Il testo approvato dal Senato in prima
lettura non conteneva infatti alcun riferimento ne' ai licenziamenti
collettivi, ne' ai «licenziamenti economici» (A.S. 1428, trasmesso il
9 ottobre 2014 alla Camera dei deputati).
Successivamente, durante la discussione alla Camera del disegno
di legge (A.C. 2660), veniva presentato un emendamento al comma 7,
lettera c), dell'art. 1 (1.538, Gnecchi ed altri), diretto a limitare
la reintegrazione nei licenziamenti individuali; emendamento questo,
che era in seguito riformulato, cosicche' solo nel nuovo testo
appariva, per la prima volta, il sintagma «licenziamenti economici»,
da riferirsi, secondo quanto precisera' lo stesso relatore per la
maggioranza in Assemblea, ai soli licenziamenti individuali per
motivi economici, ossia per giustificato motivo oggettivo, e non gia'
anche ai licenziamenti collettivi (seduta n. 336 del 21 novembre
2014).
Il testo approvato veniva trasmesso in seconda lettura al Senato
il 25 novembre 2014 (A.S. 1428-B), dove pero' il sintagma
«licenziamenti economici» era recepito nella sua oggettiva portata
testuale, quantunque atecnica, ed era inteso come riferito anche ai
licenziamenti collettivi. In particolare, il relatore affermava -
come risulta dal resoconto stenografico della seduta n. 363 del 2
dicembre 2014 - che la reintegrazione «dovra' ora essere esclusa per
tutti i licenziamenti non sorretti da contestazione disciplinare
(individuali per motivo economico-organizzativo o per scarso
rendimento oggettivo, collettivi, temporaneamente inefficaci per
mancato superamento del periodo di comporto di malattia) e per la
generalita' dei licenziamenti disciplinari. L'area in cui essa dovra'
applicarsi e' soltanto quella dei casi di nullita' del licenziamento
specificamente previsti dalla legge - matrimonio, maternita' e
discriminazione o rappresaglia - e in casi particolari di
licenziamento disciplinare ingiustificato equiparabili per gravita'
al licenziamento discriminatorio, pur trattandosi ovviamente di una
fattispecie diversa».
Quindi, al Senato, l'approvazione della delega e' intervenuta (il
giorno successivo alla presentazione della mozione di fiducia del
Governo) dopo questa, pur sintetica, puntualizzazione, che assumeva
che nei licenziamenti economici rientrassero anche quelli collettivi.
L'interpretazione del sintagma «licenziamenti economici» tornava
all'esame del Parlamento in occasione dei prescritti pareri sullo
schema di decreto legislativo, presentato dal Governo nell'esercizio
della delega, e recante, all'art. 10, l'eliminazione della
reintegrazione anche nell'ipotesi di licenziamento collettivo per
violazione dei criteri di scelta del personale da licenziare; cio'
perche' per il Governo la delega, quanto alla limitazione della
tutela reintegratoria, riguardava anche i licenziamenti collettivi.
La Commissione Lavoro pubblico e privato (XI) della Camera
riteneva, invece, che il criterio di delega in questione non
riguardasse anche i licenziamenti collettivi e, dunque, esprimeva un
parere si' favorevole sullo schema di decreto legislativo, ma alla
condizione che nell'art. 10 si eliminasse la soppressione della
reintegrazione e invece si prevedesse la disciplina dell'art. 5,
comma 3, della legge n. 223 del 1991 (ossia la tutela reintegratoria
anche in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione
dei criteri di scelta).
La Commissione Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale
(11ª) del Senato si limitava, dal canto suo, a invitare il Governo a
valutare l'opportunita' di conservare il regime della tutela
reintegratoria nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per
violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
Il decreto legislativo veniva pero' emanato con l'art. 10
invariato, cosicche' attualmente, ai licenziamenti illegittimi per
violazione dei criteri di scelta si applica la tutela indennitaria
(quella di cui all'art. 3, comma 1) e non gia' quella reintegratoria
(di cui all'art. 2), la quale pero' continua ad essere applicabile in
caso di licenziamento intimato senza l'osservanza della forma
scritta. La stessa tutela indennitaria (quella di cui all'art. 3,
comma 1) e' poi confermata anche nel caso di violazione delle
procedure di confronto sindacale, di cui all'art. 4, comma 12, della
legge n. 223 del 1991.
8.- Orbene, c'e' da considerare, in generale, che
l'interpretazione dei criteri direttivi posti dalla legge di delega
deve tener conto, innanzi tutto, della "lettera" del testo normativo.
Ad essa si affianca l'interpretazione sistematica sulla base
della ratio legis, che e' quella che emerge dal contesto complessivo
della legge di delega e dalle finalita' che essa persegue.
Pertanto, il controllo sul superamento dei limiti posti dalla
legge di delega va operato partendo dal dato letterale per poi
procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se
l'attivita' del legislatore delegato, nell'esercizio del margine di
discrezionalita' che gli compete nell'attuazione della legge di
delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro
normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n.
250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013) e
mantenendosi comunque nell'alveo delle scelte di fondo operate dalla
stessa (sentenza n. 278 del 2016), senza contrastare con gli
indirizzi generali desumibili da questa (sentenze n. 229 del 2014, n.
134 del 2013 e n. 272 del 2012). E' infatti costante l'affermazione
secondo cui, «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i]
margini di discrezionalita', occorre individuare la ratio della
delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa
coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le
altre, sentenze n. 175 del 2022, n. 231 e n. 174 del 2021, n. 184 del
2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla
materia penale, sentenza n. 105 del 2022).
La verifica di conformita' della norma delegata a quella
delegante richiede, quindi, lo svolgimento di un duplice processo
ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge
di delegazione e, dall'altra, le disposizioni emanate dal legislatore
delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega
stessa.
In sintesi, per definire il contenuto di questa, si deve tenere
conto del complessivo contesto normativo in cui si inseriscono i
principi e criteri direttivi della legge di delega e delle finalita'
che la ispirano; cio' che rappresenta non solo la base e il limite
delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della
loro portata (tra le tante, sentenze n. 166 del 2023, n. 133 del
2021, n. 84 del 2017, n. 250 del 2016, n. 194 del 2015 e n. 153 del
2014).
Quanto, poi, ai lavori parlamentari, piu' volte questa Corte, pur
evidenziandone l'utilizzabilita' come dati ermeneutici orientativi
per ricostruire il dibattito che ha condotto all'approvazione della
legge delega e, quindi, quali elementi che contribuiscono alla
corretta esegesi di quest'ultima (sentenze n. 170 e n. 79 del 2019),
ha comunque escluso che essi possano prevalere sul tenore testuale
della legge, quale emerge dal dato letterale e logico (sentenza n.
223 del 2019), o esprimere interpretazioni autentiche della legge
delega (sentenze n. 96 del 2020, n. 127 del 2017, n. 250 del 2016 e
n. 47 del 2014).
Quindi i lavori parlamentari, sia sulla legge di delega n. 183
del 2014 sia sullo schema di decreto legislativo, di cui si e' detto
sopra, hanno una funzione solo complementare nel ricostruire la
voluntas legis.
9.- Nella specie, si ha, per un verso, che sul piano
dell'interpretazione letterale, l'espressione «licenziamenti
economici» si presenta, nel linguaggio corrente, come una formula
duttile, la cui ampiezza semantica e' potenzialmente idonea ad essere
adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria
dei licenziamenti individuali «economici», perche' per giustificato
motivo oggettivo (id est, per ragioni inerenti all'attivita'
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al suo regolare
funzionamento), sia i licenziamenti collettivi con riduzione di
personale per "ragioni di impresa", come tali anch'essi «economici».
Se il licenziamento collettivo mantiene da sempre una disciplina
autonoma e costituisce una fattispecie di recesso distinta rispetto
ai licenziamenti individuali, tale autonomia si giustifica per la
preminenza di un interesse pubblico al previo confronto sindacale per
ridurre e governare l'impatto sociale delle crisi occupazionali e non
contraddice la qualificazione del recesso datoriale come
licenziamento economico, in quanto fondato sul dato oggettivo della
riduzione di personale per "ragioni di impresa".
Si ha quindi che il sintagma «licenziamenti economici» puo'
comunque riferirsi, nel linguaggio comune, ai licenziamenti per
motivi economici, come tali sia individuali (per giustificato motivo
oggettivo), sia collettivi (per riduzione di personale).
Del resto, vi e', comunque, che l'approvazione definitiva della
legge di delega in seconda lettura al Senato e' stata fatta - come
gia' rilevato - proprio sull'assunto, riferito dal relatore del
disegno di legge, che la dizione «licenziamenti economici»
comprendesse anche i licenziamenti collettivi.
10.- Per altro verso, poi, c'e' da considerare, sul piano
logico-sistematico, che la norma, contenuta nella disposizione
censurata, risulta essere conforme alla finalita' della legge-delega
di incentivare le nuove assunzioni e favorire il superamento del
precariato si' da costituire un coerente sviluppo e completamento
della disciplina, in simmetria, dei licenziamenti economici, sia
individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi per
riduzione di personale. E' infatti consentito al legislatore delegato
l'«emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se
del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal
legislatore delegante» (sentenza n. 426 del 2008; in senso conforme
sentenze n. 150 del 2022, n. 133 del 2021, n. 142 del 2020, n. 96 del
2020, n. 198 e n. 10 del 2018).
Questo parallelismo era, all'evidenza, gia' presente nella legge
n. 92 del 2012, che ha limitato l'area di applicazione della tutela
reintegratoria con riferimento sia alla fattispecie di licenziamento
(individuale) per giustificato motivo oggettivo, sia a quella di
licenziamento (collettivo) per riduzione di personale, escludendola,
per quest'ultima, in caso di violazioni delle prescrizioni di
carattere procedimentale concernenti il prescritto previo confronto
sindacale.
L'ulteriore limitazione della tutela reintegratoria, voluta dalla
legge n. 183 del 2014, si e' tradotta nella sua esclusione in tutti i
casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo - salva
sempre l'ipotesi del licenziamento discriminatorio - in conformita'
al criterio di delega; cio' di cui nessuno dubita e che emerge
inequivocabilmente dagli stessi lavori parlamentari.
Il legislatore delegato ha evidentemente ritenuto che sarebbe
allora risultata incoerentemente asimmetrica una disciplina
differenziata che avesse lasciato la tutela reintegratoria per i
licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di
scelta a fronte della tutela solo indennitaria nel caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Se la logica di fondo delle riforme del 2012 e del 2014 e' stata
quella di riservare la tutela reintegratoria solo ai casi di
violazioni piu' "gravi" in senso lato - e quindi anche piu'
nettamente riconoscibili - di licenziamenti illegittimi, la mancanza
del giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale
costituisce un'ipotesi non meno grave ed evoca, anzi, un controllo
giudiziale piu' penetrante - in termini di giustificatezza, o no, del
recesso datoriale - di quello richiesto dalla verifica dei criteri di
scelta dei lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo, di
cui viene in rilievo (non la giustificatezza, ma) la identificazione
della fattispecie sulla base degli indici formali del previo
confronto sindacale e del numero dei lavoratori licenziati in un
determinato periodo di tempo.
Anche a livello del diritto dell'Unione europea, il processo di
armonizzazione parziale della disciplina dei licenziamenti collettivi
(direttiva 98/59/CE), centrato sulla procedura di confronto
sindacale, non ha compreso la regolamentazione delle conseguenze
della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori eccedenti,
riservate alla competenza degli Stati membri (Corte di giustizia,
ordinanza 4 giugno 2020, in causa C-32/20, TJ contro B. srl); criteri
che peraltro, secondo la normativa interna, possono essere «in
concorso tra loro» con conseguente loro applicazione combinata, come
allorquando occorra considerare congiuntamente carichi di famiglia,
anzianita' ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative (tali sono
i criteri legali, in mancanza di quelli fissati da accordo sindacale,
previsti dall'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991).
Pertanto, la simmetria con il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo consente, sul piano della complessiva coerenza della
disciplina risultante dall'esercizio della delega legislativa, di
ritenere il sintagma «licenziamenti economici» riferito non solo ai
licenziamenti individuali, ma anche a quelli collettivi.
11.- In definitiva, l'interpretazione letterale e sistematica, da
una parte, e il necessario completamento di disciplina intrinseco al
potere legislativo delegato per assicurare la coerenza complessiva
della normativa risultante, dall'altra, consentono di affermare,
conclusivamente, che l'estensione della soppressione della tutela
reintegratoria anche ai licenziamenti collettivi - «economici»
perche' per "ragioni d'impresa" - oltre che a quelli individuali -
«economici» perche' per giustificato motivo oggettivo - puo' farsi
rientrare nel piu' volte richiamato criterio di delega, che faceva
riferimento ai «licenziamenti economici».
Mette conto notare, infine, che il legislatore, quando e'
nuovamente intervenuto sulla disciplina dei licenziamenti (d.l. n. 87
del 2018, come convertito), non ha modificato la disposizione che ha
soppresso la reintegrazione nel caso di licenziamenti collettivi per
violazione dei criteri di scelta, ma ha lasciato la concentrazione
della tutela dei lavoratori in quella indennitaria, limitandosi ad
incrementarla in termini quantitativi per tutti i licenziamenti,
individuali e collettivi.
12.- La denunciata violazione del medesimo criterio di delega e'
poi dedotta, dalla Corte d'appello, anche sotto un secondo profilo.
Ad avviso della Corte rimettente, le disposizioni censurate
avrebbero disatteso l'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014
altresi' nella parte in cui, essendo prescritta, per l'esercizio del
potere legislativo delegato, la «coerenza con la regolazione
dell'Unione europea e le convenzioni internazionali», sarebbe stato
violato l'art. 24 CSE, che riconosce «il diritto dei lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra
adeguata riparazione».
La violazione conseguirebbe alla sostituzione della tutela
reintegratoria con un indennizzo monetario determinato con un
criterio rigido che, limitato entro una forbice di un importo minimo
ed uno massimo, non ne garantirebbe l'adeguatezza, ne' la funzione
dissuasiva del licenziamento illegittimo.
13.- Anche sotto questo ulteriore profilo la questione non e'
fondata.
13.1.- Va premesso che la costante giurisprudenza di questa
Corte, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha ritenuto
che - in ragione della prescrizione dell'art. 117, primo comma,
Cost., che richiede che la potesta' legislativa dello Stato e delle
Regioni sia esercitata anche nel rispetto dei «vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» - siano
deducibili, come parametri interposti, in particolare, le
disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU).
Analoga affermazione e' stata fatta piu' recentemente (sentenze
n. 120 e n. 194 del 2018) anche con riferimento alla CSE, che, quale
strumento convenzionale inserito nel sistema del Consiglio d'Europa,
si connota per la tutela che riconosce ai diritti fondamentali di
natura sociale e, per questo suo contenuto, si affianca alla CEDU si'
da essere definita suo «naturale completamento sul piano sociale»
(sentenza n. 120 del 2018). Essa, infatti, amplia il perimetro di
tutela dei diritti fondamentali oltre il tradizionale catalogo dei
diritti civili e politici riconosciuti dalla CEDU, con apertura ai
diritti sociali. La complementarita' dei due Trattati imprime un
carattere unitario alla tutela dei diritti fondamentali in essi
prevista.
Puo' quindi ribadirsi l'attitudine della CSE, nel quadro generale
del sistema multilivello dei diritti fondamentali, a valere come
parametro interposto ex art. 117, primo comma Cost..
13.2.- Proprio l'art. 24 CSE, evocato dalla Corte d'appello
rimettente, e' considerato nella decisione del Comitato europeo dei
diritti sociali dell'11 settembre 2019, pubblicata l'11 febbraio
2020, resa sul reclamo collettivo n. 158 del 2017, proposto dalla
CGIL; decisione che conclude ritenendo la violazione dell'art. 24 CSE
da parte del d.lgs. n. 23 del 2015 a causa della previsione di un
tetto all'indennizzo spettante al lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo (in senso conforme, piu' recentemente, vedi la decisione
del 26 settembre 2022, resa sui reclami collettivi n. 160 e n. 171
del 2018, proposti dalla Confederation generale du travail contro
Francia, con riferimento ad analogo tetto dell'indennizzo previsto
dalla disciplina dei licenziamenti nell'ordinamento francese; mentre
in precedenza il Conseil constitutionnel, nella decisione n. 2018-761
del 21 marzo 2018, aveva stabilito che il limite massimo
all'indennizzo per licenziamento senza giustificato motivo non
costituiva una limitazione sproporzionata dei diritti dei
lavoratori). A tale decisione (quella relativa al d.lgs. n. 23 del
2015) ha poi fatto seguito la risoluzione del Comitato dei ministri
del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020 che ha invitato il Governo
italiano a produrre un rapporto sullo sviluppo della legislazione
nazionale per la piena attuazione dell'art. 24 CSE quanto
all'indennizzo da licenziamento illegittimo (analoga raccomandazione
lo stesso Comitato dei ministri ha indirizzato, il 6 settembre 2023,
al Governo francese).
In proposito questa Corte ha riconosciuto l'autorevolezza delle
decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, previsto dalla
CSE, organo ausiliario privo di natura giurisdizionale, ancorche'
esse non siano vincolanti per i giudici nazionali (sentenze n. 120 e
n. 194 del 2018).
Si e' infatti affermato che «[n]el contesto dei rapporti cosi'
delineati fra la Carta sociale europea e gli Stati sottoscrittori, le
pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i
giudici nazionali nella interpretazione della Carta, tanto piu' se -
come nel caso in questione - l'interpretazione estensiva proposta non
trova conferma nei nostri principi costituzionali» (sentenza n. 120
del 2018).
Mentre le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato
che ad esse viene attribuito all'esito dell'attivita' interpretativa
operata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, le disposizioni
della CSE costituiscono di per se', e per il loro contenuto oggettivo
suscettibile di autonoma interpretazione, un parametro interposto ex
art. 117, primo comma, Cost., ma nessun vincolo conformativo puo'
derivare allo Stato contraente dall'interpretazione che di esse venga
fatta dal Comitato europeo dei diritti sociali.
Ne' la CSE, ne' il Protocollo addizionale del 1995, entrato in
vigore nel 1998, contengono, infatti, disposizioni di effetto
equivalente all'art. 32 CEDU, il quale radica la competenza della
Corte EDU in merito a tutte le questioni concernenti
l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi
protocolli che siano sottoposte a essa; ne' tanto meno il Protocollo
addizionale alla CSE, che istituisce e disciplina il sistema dei
reclami collettivi, contiene una disposizione di contenuto analogo
all'art. 46 CEDU sulla forza vincolante delle pronunce della Corte di
Strasburgo.
Il sistema dei reclami collettivi ha, quindi, la specifica
funzione di promuovere una piu' piena attuazione dei diritti sociali
nei Paesi del Consiglio d'Europa, segnalando criticita' degli
ordinamenti nazionali che possono sfociare anche in una
raccomandazione del Comitato dei Ministri, cosi' come e' stato per la
citata decisione sul reclamo collettivo n. 158 del 2017 relativo alla
legislazione italiana. Si tratta, pertanto, di una funzione
essenzialmente propositiva e sollecitatoria, ma priva di efficacia
vincolante.
14.- Questa Corte, chiamata a scrutinare l'art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015 per contrasto con gli artt. 76 e 117, primo
comma, Cost., in relazione anche all'art. 24 CSE, ne ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale (sentenza n. 194 del 2018) nella
parte in cui prevedeva l'automatismo di un'indennita' fissa e
crescente in funzione della sola anzianita' di servizio, mentre ha
ritenuto lo stesso indennizzo conforme ai parametri costituzionali,
anche a quello interposto (l'art. 24 CSE), nella parte in cui esso
risulta fissato nella soglia massima di ventiquattro (ora trentasei)
mensilita', sul presupposto che tale risarcimento non contrasti con
la nozione di adeguatezza gia' elaborata in precedenti decisioni
(sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132
del 1985). Un'analoga conformazione del criterio di calcolo
dell'indennizzo e' conseguita alla richiamata sentenza n. 150 del
2020 con riferimento al licenziamento disciplinare illegittimo
perche' affetto da vizi formali o procedurali.
A seguito di questa complessiva reductio ad legitimitatem, il
criterio di quantificazione dell'indennizzo e' risultato conforme al
canone di adeguatezza del risarcimento da licenziamento illegittimo
gia' elaborato alla luce della richiamata giurisprudenza di questa
Corte, sicche' va escluso che il legislatore delegato, nel prevedere
un indennizzo determinato entro un limite minimo e massimo, abbia
violato la delega ponendosi in contrasto con il citato parametro
interposto.
Ribadito che non vi e' un'esigenza costituzionale che reclami la
reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo la
tutela essere anche indennitaria di natura compensativa, si ha
comunque che l'adeguatezza e sufficiente dissuasivita' del sistema di
contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso
e non gia' frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualita' e
proporzionalita' della sanzione che il legislatore, nell'esercizio
non irragionevole della sua discrezionalita', ha previsto come
differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un
indennizzo senza tetto massimo) per i casi di piu' gravi violazioni,
quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando
agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo
il piu' incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e
n. 150 del 2020.
Cio' che va salvaguardato e' la «complessiva adeguatezza» della
tutela che il legislatore puo' «adattare secondo una pluralita' di
criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche»
(sentenza n. 150 del 2020).
E' ben possibile una tutela piu' ampia e piu' incisiva, come
quella sollecitata dal Comitato europeo dei diritti sociali nella
citata decisione dell'11 febbraio 2020. Ma appartiene alle scelte di
politica sociale, rientranti nella discrezionalita' del legislatore
(art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»),
fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi nella
gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente
incisivita', rispondono tutti, nel loro complesso, al canone
costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasivita'.
15.- Non fondata e' anche la seconda questione sollevata in
riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost.
Il presupposto interpretativo delle censure mosse dalla Corte
d'appello rimettente risulta corretto: nel vigente regime
sanzionatorio, la tutela applicabile nei confronti di rapporti di
lavoro risolti in violazione dei criteri di scelta a conclusione di
una procedura di licenziamento collettivo e' diversamente modulata
secondo la data di costituzione del rapporto; per effetto
dell'immediata applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, nel caso di
licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di
scelta ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sara' applicabile
la tutela reintegratoria attenuata, con la condanna del datore di
lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, alla regolarizzazione
contributiva e a un'indennita' riparatoria in misura non superiore a
dodici mensilita', mentre ai lavoratori assunti a decorrere dal 7
marzo 2015 spettera' la tutela indennitaria, determinata ai sensi
dell'art. 3 dello stesso decreto secondo i piu' favorevoli criteri
dettati dalla sentenza di questa Corte n. 194 del 2018.
16.- In ordine alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., non e'
ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza o
arbitrarieta' del diverso trattamento sanzionatorio previsto per gli
assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.
In termini generali, secondo la giurisprudenza della Corte se «il
principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtu'
del quale a situazioni eguali deve corrispondere l'identica
disciplina e, all'inverso, discipline differenziate andranno
coniugate a situazioni differenti, cio' equivale a postulare che la
disamina della conformita' di una norma a quel principio deve
svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul "perche'"
una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario
dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le
debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo»
(sentenza n. 89 del 1996; di seguito, sentenze n. 43 del 2022, n. 276
del 2020 e n. 241 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 5 del
2000).
16.1.- Sulla ragionevolezza del criterio di applicazione
temporale del regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015 ai soli
lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, questa Corte si e' gia'
pronunciata con riferimento ai licenziamenti individuali per
giustificato motivo oggettivo ritenendo non fondata l'analoga censura
di violazione dell'art. 3 Cost. (sentenza n. 194 del 2018).
In tale decisione si ricorda che «a proposito della delimitazione
della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si
succedono nel tempo [...] e' costante l'affermazione [...] che "non
contrasta, di per se', con il principio di eguaglianza un trattamento
differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti
diversi nel tempo, poiche' il fluire del tempo puo' costituire un
valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche
(ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170
del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)" (sentenza n. 254 del 2014, punto
3 del Considerato in diritto)» e che «[s]petta difatti alla
discrezionalita' del legislatore, nel rispetto del canone di
ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle
norme» (sentenza n. 104 del 2018; in senso conforme, sentenze n. 273
del 2011 e n. 94 del 2009).
Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal d.lgs. n. 23
del 2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di
uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole
nella finalita' perseguita dal legislatore, «di rafforzare le
opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che
sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della legge n. 183
del 2014).
Risponde al canone di ragionevolezza modulare le conseguenze del
licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo
indeterminato al fine di rafforzare le opportunita' d'ingresso nel
mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione,
sicche' «appare coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele
ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore,
quelli, cioe', la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse
favorita» (sentenza n. 194 del 2018).
16.2.- Tale conclusione va predicata anche con riferimento ai
licenziamenti collettivi, sussistendo la stessa logica di gradualita'
dell'applicazione della nuova normativa.
Nel limitare l'area del regime della reintegrazione ben poteva il
legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalita', conservare
questa tutela per i lavoratori che, in quanto in servizio alla data
di entrata in vigore del decreto legislativo, gia' ne fruissero e
limitare l'innovazione normativa ai nuovi assunti, che tale garanzia
non avevano, con la finalita' perseguita di incentivarne
l'occupazione, soprattutto giovanile, o la fuoriuscita dal precariato
(ad esempio, con la trasformazione dei rapporti a termine in rapporti
a tempo indeterminato).
Per i "vecchi" lavoratori l'eliminazione della reintegrazione
avrebbe significato una diminuzione di tutela che il legislatore ha
escluso. Per i "nuovi" lavoratori il mancato riconoscimento della
reintegrazione nella fattispecie in esame (quella del licenziamento
collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta) era
riconducibile al nuovo dimensionamento della tutela nei confronti dei
licenziamenti illegittimi, che apparteneva alla discrezionalita' del
legislatore.
Favorire l'occupazione di questi ultimi, anche mediante la
riduzione dell'area della reintegrazione, non richiedeva
necessariamente anche di limitare la tutela dei lavoratori gia' in
servizio sopprimendo la tutela reintegratoria: in cio' sta il
bilanciamento delle garanzie e il fondamento non irragionevole di
questa disciplina asimmetrica.
Nella successione delle leggi nel tempo e' possibile, nei limiti
della coerenza di sistema e della proporzionalita' rispetto alla
finalita' perseguita, che permanga una differenziazione di disciplina
ratione temporis.
Vi e' del resto che - pur se, sul piano della procedura e nella
fase di individuazione della tipologia dei vizi, il licenziamento
collettivo costituisce una fattispecie autonoma e unitaria ad effetti
plurisoggettivi che richiede una regolamentazione necessariamente
uniforme - invece nella fase delle conseguenze sanzionatorie ciascun
licenziamento assume rilievo autonomo in riferimento al singolo
lavoratore sicche', rispetto a ogni distinta posizione lavorativa, e'
possibile applicare un regime sanzionatorio diverso ratione temporis,
ove tale diversificazione soddisfi un criterio di razionalita'.
L'autonomia sul piano sanzionatorio trova conferma anche nella
considerazione che, secondo la giurisprudenza, l'illegittimita' per
violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 della legge n.
223 del 1991 non puo' essere fatta valere indistintamente da ciascuno
dei lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che, tra essi,
abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della
violazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro,
ordinanza 22 maggio 2019, n. 13871; sentenza 1° dicembre 2016, n.
24558).
Anche per i licenziamenti collettivi, come per quelli
individuali, la ragionevolezza di una disciplina differenziata va
individuata nello scopo dichiarato nella legge delega di favorire
l'ingresso nel mondo del lavoro di "nuovi" assunti, accentuandone la
flessibilita' in uscita con il riconoscimento di una tutela
indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a tale
fine che il recesso sia individuale o collettivo.
17.- Le norme censurate non violano neppure gli artt. 4 e 35
Cost., in relazione al fatto che ai lavoratori "giovani" (quelli
assunti a partire dal 7 marzo 2015) esse riconoscerebbero una tutela
inadeguata e non dissuasiva, come tale insufficiente.
Il dubbio che rimedi diversi dalla reintegra siano inidonei ad
assicurare una piena ed efficace tutela ai lavoratori arbitrariamente
licenziati ed assunti dopo il 7 marzo 2015 e' contraddetto dalla
costante giurisprudenza di questa Corte che, pur segnalando che la
garanzia del diritto al lavoro impone l'adozione di temperamenti al
potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela reale
solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro
(sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46
del 2000), spettando al legislatore modulare il sistema delle tutele
«nell'esercizio della sua discrezionalita' e della politica
economico-sociale che attua», in considerazione del contesto
economico e sociale di riferimento (sentenza n. 2 del 1986).
Questo profilo di censura ha comunque un'evidente sovrapposizione
con la successiva questione, che ora si viene ad esaminare.
18.- Non fondata e' anche la terza questione, sollevata con
riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost.),
convergenti pero' in una censura unitaria di insufficienza di una
tutela meramente indennitaria, quindi senza reintegrazione.
In particolare, la Corte rimettente dubita dell'adeguatezza di
una tutela indennitaria determinata con la previsione di un "tetto"
massimo, lamentandone l'inefficacia, o una debole efficacia,
dissuasiva.
18.1.- Deve considerarsi che, a partire dalla sentenza n. 45 del
1965, questa Corte ha ricondotto la tutela contro i licenziamenti
illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost., interpretati in una prospettiva
unitaria, affermando che il diritto al lavoro, «fondamentale diritto
di liberta' della persona umana», pur non essendo assistito dalla
garanzia della stabilita' dell'occupazione, «esige che il legislatore
[...] adegui [...] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo
indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuita' del
lavoro, e circondi di doverose garanzie [...] e di opportuni
temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a
licenziamenti».
Anche in seguito si e' riconosciuto il «diritto a non essere
estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n.
60 del 1991); si e' ribadita la «garanzia costituzionale [del]
diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541
del 2000 e ordinanza n. 56 del 2006); si e' evidenziato che «la
materia dei licenziamenti individuali e' oggi regolata, in presenza
degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della
necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del 2003) e
che il «[i]l forte coinvolgimento della persona umana - a differenza
di quanto accade in altri rapporti di durata - qualifica il diritto
al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare
per apprestare specifiche tutele» (sentenza n. 194 del 2018).
Quanto ai meccanismi di tutela del lavoratore nel caso di
licenziamento illegittimo, la stessa giurisprudenza ha valorizzato la
discrezionalita' del legislatore in materia, evidenziando che quello
della tutela reale non costituisce l'unico paradigma possibile (vedi
sentenza n. 46 del 2000 nonche', in tema di legittimita'
dell'esclusione della tutela reale nelle imprese sotto la prevista
soglia dimensionale, sentenze n. 2 del 1986, n. 152 del 1975 e n. 55
del 1974).
Gia' la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i
principi che si traggono dall'art. 4 Cost. «esprimono l'esigenza di
un contenimento della liberta' del recesso del datore di lavoro dal
contratto di lavoro, e quindi dell'ampliamento della tutela del
lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», ha
precisato che «[l]'attuazione di questi principi resta tuttavia
affidata alla discrezionalita' del legislatore ordinario, quanto alla
scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione
economica generale» (successivamente, nello stesso senso, sentenze n.
55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986).
Nel tempo la Corte ha negato che il bilanciamento dei valori
sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., tra diritto al lavoro e liberta'
d'impresa, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46
del 2000), ammettendo che il legislatore ben puo', nell'esercizio
della sua discrezionalita', prevedere un meccanismo di tutela anche
solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purche' esso
sia rispettoso del principio di ragionevolezza. Il diritto alla
stabilita' del posto, infatti, risulta dalla «sintesi [...] dei
limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidita'
dell'atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994).
Sul piano della quantificazione, escluso che la regola generale
della integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato abbia copertura costituzionale
(sentenze n. 148 del 1999, n. 369 del 1996 e n. 132 del 1985), si
richiede, ai fini dell'adeguatezza dell'indennizzo, che con esso
venga riconosciuto un ristoro del pregiudizio sofferto, serio ed
equilibrato, la cui funzione dissuasiva non sia inficiata dalla
predeterminazione di un tetto massimo, fissato in un importo
sufficientemente elevato e non condizionato esclusivamente
all'anzianita'.
18.2.- Piu' recentemente, con riferimento proprio al d.lgs. n. 23
del 2015, questa Corte ha ritenuto compatibile con la Carta
fondamentale una tutela meramente monetaria, purche' improntata ai
canoni di effettivita' e di adeguatezza, rilevando che il
bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su
cui non puo' non esercitarsi la discrezionalita' del legislatore»,
non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del
2018).
In tale pronuncia si ricorda come sia stato piu' volte affermato,
in occasione dell'esame di disposizioni introduttive di
forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, che
«"la regola generale di integralita' della riparazione e di
equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non
ha copertura costituzionale" (sentenza n. 148 del 1999), purche' sia
garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e
n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011). La tutela, dunque,
ancorche' non necessariamente riparatoria dell'intero pregiudizio
subito dal danneggiato, deve essere comunque equilibrata. Dalle
stesse pronunce emerge, altresi', che l'adeguatezza del rimedio
forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un ragionevole
contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 235 del
2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132 del 1985).
Anche nella successiva sentenza n. 150 del 2020, si e' affermato
che la ragionevolezza, nell'ambito della disciplina dei
licenziamenti, dev'essere declinata come necessaria adeguatezza dei
rimedi, «nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi
interessi in gioco e della specialita' dell'apparato di tutele
previsto dal diritto del lavoro. Il legislatore, pur potendo adattare
secondo una pluralita' di criteri, anche in considerazione delle
diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi,
e' chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta
di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in se' sempre traumatico,
dell'espulsione del lavoratore».
18.3.- Questa Corte ha, quindi, gia' riconosciuto che il limite
massimo di ventiquattro mensilita', a maggior ragione dopo che il
d.l. n. 87 del 2018, come convertito, lo ha elevato a trentasei
mensilita' (art. 3), non si pone in contrasto con il canone di
necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il ristoro
sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in
conflitto.
Del resto, che il limite massimo (ventiquattro mensilita' elevate
a trentasei) costituisca un importo adeguato emerge anche dalla
comparazione con l'indennita' sostitutiva della reintegrazione, di
cui all'art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 o all'art. 2,
comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, stante che l'ammontare di tale
indennita', introdotta come un equivalente sostitutivo della
reintegrazione, e' pari a quindici mensilita' dell'ultima
retribuzione globale di fatto.
Si e' poi gia' rilevato che la dissuasivita' della disciplina
dell'illegittimita' dei licenziamenti e l'adeguatezza del ristoro
vanno valutate con riferimento alla regolamentazione complessiva,
articolata nella tutela reintegratoria e in quella solo indennitaria
secondo un criterio di gradualita' e proporzionalita' che vede la
tutela reintegratoria nei casi di violazioni piu' gravi e quella solo
indennitaria negli altri.
Anche la fissazione di un limite massimo dell'indennizzo
risponde, del resto, alla ragione di fondo della legge delega di
incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze
sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento
illegittimo.
La personalizzazione del ristoro resta in ogni caso garantita
entro l'intervallo in cui va quantificata l'indennita' spettante al
lavoratore illegittimamente licenziato, e comunque l'indennita', pur
assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e
non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare
ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni
derivanti dal licenziamento ingiurioso (Corte di cassazione, sezione
lavoro, sentenza 25 gennaio 2021, n. 1507).
19.- La Corte rimettente dubita, poi, dell'adeguatezza di una
tutela indennitaria anche con riferimento all'art. 24 CSE, evocato
non piu' sotto il profilo dell'eccesso di delega, ma ex se come
parametro interposto.
Pur in questa diversa prospettiva, non possono che richiamarsi le
considerazioni gia' svolte sopra ai punti da 12 a 14.
Ferma restando la natura non vincolante della richiamata
decisione dell'11 febbraio 2020 del Comitato europeo dei diritti
sociali e il carattere interlocutorio della risoluzione del Comitato
dei ministri del Consiglio d'Europa dell'11 marzo 2020, va ribadito
che l'adeguatezza e la dissuasivita' della normativa di contrasto dei
licenziamenti illegittimi deve essere valutata con riferimento alla
disciplina complessiva, che si compone della tutela reintegratoria e
di quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualita' e
proporzionalita'.
20.- Per tutto quanto finora argomentato vanno dichiarate non
fondate le questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 3,
comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, censurati sotto diversi
profili e con riferimento agli indicati parametri, nella parte in cui
hanno modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei
criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell'ambito di un
licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a tempo
indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in
misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato
per legge ed escludendo quella reintegratoria.