DIREZIONE GENERALE DELLA PREVENZIONE (gia' -DIPARTIMENTO DELLA PREVENZIONE-) Commissione oncologica nazionale Linee Guida concernenti la prevenzione, la diagnosi e l'assistenza in oncologia Parte I GLI OBIETTIVI DI SALUTE DEL PIANO ONCOLOGICO NAZIONALE PREMESSA Il cancro e' una delle patologie piu' complesse e diffuse nel panorama epidemiologico clinico attuale. La complessita' della patologia oncologica dipende da alcune caratteristiche biologiche e cliniche peculiari dei tumori maligni, quali l'eziologia multifattoriale, l'eterogeneita' biologica, la variabilita' delle manifestazioni cliniche e della storia naturale della malattia, l'estrema diversificazione della risposta terapeutica ai diversi trattamenti, in particolare alla terapia medica, in funzione del tipo istologico e delle proprieta' bio-molecolari, della sede d'insorgenza della neoplasia e, infine, la gravita' delle problematiche assistenziali, psicologiche e sociali sollevate dal riconoscimento della malattia e dall'evoluzione della stessa verso la cronicita' o verso la fase terminale. La diffusione della malattia rappresenta inoltre un dato quantitativo che, al pari della complessita' biologica e clinica, pone l'esigenza del controllo del cancro fra le priorita' assolute in tema di tutela della salute. IMPATTO COMPLESSIVO DELLA PATOLOGIA ONCOLOGICA I dati epidemiologici di maggior rilievo riguardano l'incidenza, la mortalita' e la prevalenza della malattia nella popolazione italiana. La misura dell'incidenza e' un indicatore del fabbisogno di risorse diagnosticoterapeutiche nella fase d'esordio della malattia. L'incidenza stimata dei tumori maligni in Italia e' pari a 389.8 nei maschi e 309.5 nelle femmine per 100.000 abitanti. Nel 1996, per 1000 abitanti, i tassi complessivi di mortalita' per cancro sono stati 3,14 nei maschi e 2,12 nelle femmine. ( fonte I.S.S.) La probabilita' di ammalare di cancro, nel corso della propria vita, e' per gli uomini di 1\3 e per le donne 1\4. Il cancro e' inoltre la prima causa di anni di vita perduti. In termini assoluti, in Italia i nuovi casi annui di tumore maligno assommano a circa 270.000. I decessi, dovuti ogni anno alla malattia, sono circa 150.000, pari al 24-25 % di tutte le cause di morte e occupano il secondo posto dopo le malattie cardiovascolari. Nel 1996 si sono verificati 87.428 decessi per cancro nei maschi e 62.726 decessi nelle femmine. (fonte I.S.S.) I tassi di mortalita', compresi nella fascia di eta' tra i 35 ed i 64 anni, si sono mantenuti piuttosto costanti, mentre e' aumentata, nell'ultimo decennio, l'incidenza della patologia neoplastica. Il dato puo' rappresentare un utile indicatore del miglioramento delle potenzialita' diagnostico-terapeutiche e degli assetti organizzativi nel campo dell'assistenza ai malati oncologici. Se per alcune neoplasie (prostata e polmone) l'incremento dell'incidenza puo' correlarsi al prolungamento della vita media, cio' non e' per altre patologie (mammella, colon retto, melanoma) per le quali vi e' stato invece un significativo aumento, anche nelle fasce di eta' piu' giovani, comprese tra i 35 ed i 64 anni. Il piu' frequente tumore nel sesso maschile e' quello del polmone, che colpisce ogni anno 29.000. uomini; il piu' frequente tumore nel sesso femminile e' quello del seno, che colpisce ogni anno 31.000. donne. DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DEI TUMORI IN ITALIA. La distribuzione del cancro in Italia e' caratterizzata dall'elevata differenza di incidenza e di mortalita' fra grandi aree del paese, in particolare fra nord e sud. In entrambi i sessi e per la maggior parte delle singole localizzazioni tumorali, ed in particolare per i tumori a maggiore frequenza, il rischio di ammalare e' molto superiore al nord che al sud del paese. Questo dato e' unico tra i paesi industrializzati europei, dove si hanno, fra regioni, differenze meno marcate. Questi dati sembrano d'altronde essere coerenti con quanto noto sulla minore presenza di fattori di rischio di tumore nelle popolazioni meridionali quali: - livelli di consumo di tabacco e di alcool inferiori a quelli del nord del paese; - profili riproduttivi di cui e' dimostrata l'associazione con ridotti livelli di rischio dei tumori della mammella; - meno frequente esposizione a sostanze cancerogene in ambienti di vita e di lavoro; - abitudini alimentari ricche di vegetali freschi e relativamente povere di grassi animali. I CONFRONTI INTERNAZIONALI Nel caso dei tumori piu' frequenti: polmone, colon-retto, mammella e vescica, i dati italiani sono allineati ai livelli di frequenza piu' elevati del Nord America e Nord Europa; nel caso di altre neoplasie rilevanti, quali il cancro dello stomaco, il cancro del fegato e della prostata, i profili di rischio sono comparabili con quelli propri di paesi a basso sviluppo economico. Tali osservazioni collocano l'Italia ai livelli alti di frequenza, osservati nel mondo. LA SOPRAVVIVENZA Nelle malattie croniche e nel caso specifico nei tumori, la durata della sopravvivenza e' considerata la misura piu' adeguata dell'efficacia delle cure. Le differenze di sopravvivenza fra tipi di tumori e' funzione peraltro di numerose variabili, quali la possibilita' di una loro diagnosi in fase asintomatica, attraverso i test di screening, la probabilita' di una loro diagnosi in fase sintomatica precoce, l'efficacia di specifici trattamenti. Per alcune neoplasie si dispone di test di screening di provata efficacia, nel consentire trattamenti precoci che riducano la letalita'. Per altre, al momento, non esistono simili strumenti ed il trattamento dei casi sintomatici produce tuttora risultati deludenti. L'osservazione della durata della sopravvivenza, a cinque anni, per il complesso dei tumori, mostra che i risultati terapeutici osservati in Italia sono buoni e la situazione nel complesso puo' considerarsi soddisfacente. Le differenze riscontrabili all'interno del paese indicano che vi sono comunque margini di miglioramento delle possibilita' di trattamento per alcune forme tumorali. Il confronto con il quadro europeo e' buono. Infatti, i dati di sopravvivenza rilevati in Italia sono uguali, superiori e, nei casi meno brillanti, comunque non inferiori ai livelli minimi osservati in altri paesi. LA PREVALENZA I dati di prevalenza esprimono il carico di una patologia presente in una popolazione. Per quanto attiene le malattie neoplastiche, sono quindi indicatori della domanda di servizi nelle fasi successive alla fase acuta della malattia. La prevalenza stimata delle persone che vivono oggi avendo o avendo avuto una storia di cancro e' di circa 1.400.000. I dati relativi all'incidenza e sopravvivenza dei tumori sono in aumento, cosi' come e' in crescita l'attesa di vita, anche nelle persone anziane. Queste tendenze convergono nell'allargare la quota di casi prevalenti nella popolazione. Sono quindi evidenti le implicazioni che la patologia oncologica, nelle sue varie fasi, comporta per il servizio sanitario e per la societa'. OBIETTIVI PRIMARI In questo scenario epidemiologico-clinico, il Piano Oncologico Nazionale si propone di raggiungere i seguenti obiettivi primari: 1- riduzione dell'incidenza dei tumori; 2 - riduzione della mortalita'; 3 - aumento della sopravvivenza e miglioramento della qualita' di vita dei malati di cancro. Gli obiettivi primari del Piano Oncologico Nazionale possono essere raggiunti con un'appropriata metodologia, che consiste nella realizzazione di una concreta strategia globale di controllo del cancro, da perseguire attraverso l'individuazione, la programmazione, la pianificazione e l'attuazione pratica di adeguati interventi di sanita' pubblica in campo oncologico. Il razionale sul quale si basa la strategia globale del controllo del cancro deriva dalla complessita' del fenomeno e dall'esigenza, che ne consegue, di utilizzare in modo integrato tutti gli strumenti attualmente disponibili per fronteggiare i diversi aspetti della malattia, che sono di seguito elencati: - epidemiologia;.br, - prevenzione primaria; - diagnosi precoce; - ricerca preclinica e clinica; - diagnosi; - terapia; - realizzazione delle cure palliative in oncologia. La condizione, perche' si realizzi un efficace intervento di controllo del cancro, e' che le relative azioni siano adeguatamente coordinate ed integrate. Solo realizzando l'integrazione organizzativa delle risorse dedicate alla prevenzione, alla diagnosi e, particolarmente, di quelle dedicate specificatamente alle cure oncologiche, e' prevedibile il miglioramento dell'efficacia dei servizi sanitari. Infatti, la possibilita' di disporre di tecnologie di elevata qualita', sia a livello diagnostica sia terapeutico, e contestualmente il conseguimento delle migliori forme di integrazione di chirurgia, chemioterapia e radioterapia consentono di ottenere migliori risultati in termini di sopravvivenza, come dimostrato da studi recenti condotti dai Registri Tumori di popolazione italiana (ITACARE) ed europea (EUROCARE). Questi studi hanno dimostrato che la sopravvivenza a lungo termine, a 5 e a 10 anni dalla diagnosi, dei casi affetti da tumore maligno, e' aumentata significativamente negli ultimi venti anni, passando da valori del 30-35 % a valori del 40-45% e, per alcuni tumori, superando la soglia del 50%. Cio' ha comportato una riduzione del rischio globale di morte del 30% dal 1978 ad oggi. Il dato che emerge con evidenza dallo studio ITACARE e' che esistono significative differenze di sopravvivenza fra le diverse aree del paese, a sfavore delle regioni del centro-sud, rispetto a quelle del nord e che queste differenze riguardano quasi esclusivamente quei tumori che rispondono bene ai trattamenti convenzionali considerati. Cio' dimostra che le possibilita' di guarigione e di lunga sopravvivenza dei malati affetti da tumore maligno dipendono, in gran parte, dalla qualita' dei servizi diagnostici e terapeutici erogati dai presidi di oncologia, dalla loro migliore integrazione e dall'organizzazione territoriale delle attivita' e delle strutture oncologiche di prevenzione, diagnosi e cura, in stretto collegamento con i Dipartimenti di Prevenzione ed i Distretti di cui agli art. n.3 quater, 3 quinquies, 7bis, 7ter, 7quater del Decreto legislativo 229, e secondo quanto previsto dal D.M. 24.4.2000 " Progetto obiettivo materno infantile, pubblicato sulla G.U. n. 89 del 7.6.2000. Come gia' precedentemente enunciato, in apparente contrasto con questi dati, che riguardano la sopravvivenza ed il rischio relativo di morte dei malati di cancro, sono i dati forniti dall'ISTAT e dal sistema dei Registri Tumori sulle variazioni geografiche dei tassi di incidenza e di mortalita' per tumore, che risultano quasi dimezzati nelle regioni meridionali rispetto a quelle del nord. Il fenomeno sembra chiamare in causa il ruolo dei fattori di rischio legati agli stili di vita ed alle condizioni ambientali e lavorative nel determinismo della malattia neoplastica e sembra anche dimostrare come ad una riduzione dell'incidenza corrisponda necessariamente anche una riduzione di mortalita'. Ne consegue che la strategia globale di controllo del cancro deve tenere conto oltre che delle potenzialita' diagnostiche e terapeutiche anche delle possibilita' di intervento in ambito preventivo, mirate sia alla modificazione degli stili di vita, che comportano un maggior rischio di ammalare di cancro, sia alla protezione, quando questa sia possibile, dei singoli individui e/o della popolazione generale, dai fattori di rischio ambientali o lavorativi, di tumore maligno. OBIETTIVI SPECIFICI INTERMEDI, MONITORAGGIO E CONTROLLO Da quanto sopra espresso deriva che il raggiungimento degli obiettivi primari del Piano Oncologico si puo' ottenere solo grazie alla realizzazione degli obiettivi specifici intermedi di seguito elencati nei punti 1, 2 3, 4, 5, ed all'attivazione di un sistema di monitoraggio e di controllo da attuare attraverso le strategie indicate nei punti 6, 7, 8. 1) Ottimizzazione degli standard terapeutico-assistenziali, attraverso la razionalizzazione, l'integrazione organizzativa e funzionale ed il potenziamento dei presidi oncologici con funzione di diagnosi e cura; 2) Attuazione, sul territorio nazionale, di una rete di presidi dedicati alle cure palliative e di programmi di assistenza domiciliare ai malati terminali; 3) Promozione di programmi di screening di documentata efficacia, per la diagnosi precoce dei tumori in tutte le regioni italiane; 4) Realizzazione di programmi di prevenzione primaria mirati alle patologie per le quali l'efficacia degli interventi preventivi e' stata documentata; 5) Potenziamento della ricerca clinica in oncologia, da realizzare tramite l'allocazione di adeguate risorse e la predisposizione di un piano nazionale di settore. 6) Consolidamento e sviluppo della rete di monitoraggio epidemiologico basata sui registri tumori di popolazione; 7) Attivazione di sistemi di controllo delle migrazioni sanitarie; 8) Attivazione di programmi operativi di promozione e di controllo di qualita' delle attivita' diagnostiche e terapeutiche. Parte II GLI OBIETTIVI SPECIFICI INTERMEDI Obiettivo specifico intermedio n. 1 OTTIMIZZAZIONE DEGLI STANDARD ASSISTENZIALI E TERAPEUTICI IN ONCOLOGIA. Il S.S.N. assicura i livelli essenziali ed uniformi di assistenza, definiti dal Piano sanitario nazionale, nel rispetto dei bisogni di salute, dell'equita' di accesso all'assistenza, della qualita' delle cure e della loro appropriatezza. Pertanto i livelli di assistenza rappresentano l'ambito delle garanzie da assicurare in tutto il territorio nazionale. Il Piano, nel precisare che la promozione e la tutela della salute implicano una riorganizzazione del sistema, che consenta un riequilibrio fra i diversi settori di intervento, rileva il necessario impegno nella riallocazione delle risorse, dalla cura alla prevenzione, dalla generalita' della popolazione ai gruppi a rischio, dall'assistenza ospedaliera all'assistenza territoriale. Il Piano specifica inoltre che le strategie da porre in essere, per una razionalizzazione del sistema medesimo, devono prevedere il coordinamento intra ed interaziendale, il potenziamento dell'assistenza in regime di day hospital, la diffusione dell'assistenza domiciliare integrata, lo sviluppo di programmi di screening. In oncologia, l'invecchiamento della popolazione, la crescita del numero delle persone affette da tale patologia, il conseguente aumento dei bisogni, con diversi livelli di complessita', per i quali occorre garantire continuita' dell'intervento di cura, senza tralasciare le variabili psico-sociali, in grado di contribuire a migliorare la qualita' di vita, richiedono la capacita' di erogare risposte integrate e coordinate. Tale obiettivo presuppone non solo l'integrazione professionale, ma anche istituzionale e gestionale, finalizzata alla realizzazione di un concreto coordinamento degli interventi nei diversi settori impegnati nella produzione di servizi e coinvolti, a diverso titolo, nella prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie oncologiche. Il Piano sanitario nazionale individua i livelli uniformi, essenziali ed appropriati di assistenza, definiti con riferimento a: a)assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro; b)assistenza distrettuale; c)assistenza ospedaliera. Il Piano, oltre a definire i livelli di assistenza, individua anche la conseguente attribuzione e riclassificazione dei compiti, delle attivita' e delle prestazioni che ai diversi livelli devono essere fornite e garantite. Il presente documento rappresenta la formulazione delle linee generali su cui devono articolarsi e svilupparsi, in un processo armonico e coordinato, le strategie organizzative sottese all'implementazione del sistema della rete dei servizi oncologici, che presuppone, in relazione ai bisogni assistenziali, interventi da erogare in ambito ospedaliero e territoriale, nella logica della continuita' assistenziale, tenuto conto anche della loro intensita'. Presupposto irrinunciabile e' quindi una forte integrazione tra le strutture che erogano assistenza oncologica e quelle che si occupano piu' specificamente degli esiti della patologia. I miglioramenti terapeutici ed assistenziali ed il miglioramento della qualita' di vita sono pertanto strettamente connessi alla definizione di specifici percorsi, tramite i quali le strutture preposte si attivano, per garantire la presa in carico del paziente oncologico, durante tutte le fasi della malattia, promuovendo e realizzando il coordinamento delle attivita' ospedaliere e territoriali. Occorre peraltro preliminarmente sottolineare che: - I presidi oncologici di diagnosi e cura sono strutture di primaria importanza nella strategia globale di controllo del cancro. - L'integrazione delle terapie chirurgiche, mediche, radioterapiche e' in grado di determinare la guarigione nel 55-60% dei malati di tumore maligno. - La corretta applicazione di programmi terapeutici e degli interventi riabilitativi, coerenti con i migliori standard nazionali ed internazionali, e' in grado di ottenere risultati significativi, non solo in termini di guarigione definitiva, ma anche in termini di sopravvivenza, di remissione obiettiva di malattia e di miglioramento della qualita' di vita. - Al processo assistenziale concorrono anche le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria, di cui all'art. 3 septies del Decreto Legislativo n. 229 del 19 giugno 1999, con riferimento all'area delle patologie in fase terminale e delle patologie cronico degenerative. Cio' premesso, le condizioni per il raggiungimento di ottimali risultati clinico-terapeutico-assistenziali sono: - la predisposizione di una rete di presidi diagnostico-terapeutici e riabilitativi, adeguati ai bacini di utenza e identificati a livello regionale nell'ottica, prevista dai livelli di cui al Piano sanitario nazionale. - la promozione e diffusione di protocolli validati, in base alle evidenze scientifiche, per migliorare la tempestivita' diagnostica per le principali patologie; - la promozione di programmi di informazione per i malati di cancro e le loro famiglie. Le informazioni devono riguardare la diagnosi, le opzioni terapeutiche, gli effetti collaterali della malattia e della terapia, le prospettive di guarigione e i centri di cura specializzati. Le informazioni dovranno essere chiare, comprensibili e disponibili in ogni fase del trattamento dalla diagnosi in poi; - la garanzia di un tempestivo accesso alle prestazioni, rendendolo coerente con la gravita' clinica e le necessita' assistenziali del singolo paziente; - l'attuazione dei principali percorsi assistenziali, per rendere agevolmente fruibili le strutture di degenza ordinaria e di day-hospital dedicate ai pazienti acuti in ambito ospedaliero; - la riduzione dell'inappropriatezza degli interventi; - l'implementazione di programmi di assistenza e cura, che garantiscano la continuita' terapeutica-assistenziale al malato oncologico, dall'inizio all'esito della malattia, attraverso una coerente integrazione dei diversi livelli di assistenza extraospedaliera, ambulatoriale ed ospedaliera, da attuarsi tramite la definizione di protocolli di comportamento ospedale- territorio; - la definizione di assetti organizzativi delle strutture di prevenzione, diagnosi e cura, articolati su diversi livelli di complessita' in funzione della complessita' della patologia oncologica; - l'integrazione multidisciplinare, che garantisca un approccio globale alle cure dei malati oncologici; - l'attivazione di strutture dedicate alle cure palliative, per potenziare gli interventi di terapia palliativa ed antalgica, anche inseriti in un contesto ospedaliero, quali strutture per post acuti, per quei pazienti che, seppur non piu' curabili, necessitano, per brevi periodi, del supporto di una struttura ospedaliera in grado di erogare assistenza complessa (in caso di episodi di emergenza intercorrente o di aggravamento con fenomeni di pregnanza clinica nella fase terminale), non realizzabile al domicilio del paziente o nelle strutture residenziali appositamente istituite. - la realizzazione dell'assistenza domiciliare integrata e dell'ospedalizzazione domiciliare, per quei pazienti che, secondo adeguati criteri clinico-biologici, presentano una mediana di sopravvivenza attesa di novanta giorni e necessitano al domicilio, con livelli diversi di complessita', di terapia del dolore o di controllo di altri sintomi. - la garanzia, per il paziente oncologico, della presenza costante di una struttura di riferimento. Con preciso riferimento ai livelli di assistenza individuati dal Piano sanitario nazionale l998\2000, al Dlgs 229 "Norme per la razionalizzazione dello SSN" del 19 giugno 1999 ed alle linee guida gia' pubblicate dal Ministero della Sanita' sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1996, si forniscono in questa sede le linee generali di indirizzo per l'assistenza ai paziente oncologico. 1) ASSISTENZA DISTRETTUALE Il Piano sanitario Nazionale 98\2000 precisa che, nell'ambito del nuovo assetto organizzativo del S.S.N,. il Distretto rappresenta un centro di servizi e prestazioni, in cui la domanda di salute e' affrontata in maniera unitaria e globale. Come specificato dal Decreto Legislativo 229, fatta salva l'autonomia organizzativa e normativa delle singole Regioni prevista dalle leggi vigenti, il Distretto e' struttura operativa dell'Azienda Usl, dotata di autonomia gestionale, realizzata nell'ambito dei programmi approvati dall'Azienda, tenendo conto dei piani per la salute di zona e dell'organizzazione dei servizi, definiti di comune intesa con le amministrazioni comunali. Il Distretto garantisce i servizi di assistenza primaria, ivi compresa la continuita' assistenziale, relativi alle attivita' sanitarie e socio-sanitarie, in quanto struttura operativa che meglio consente di governare i processi integrati tra istituzioni. L'art. 3 quater del Dlgs 229 stabilisce inoltre che la legge regionale disciplini l'articolazione in Distretti dell'Azienda sanitaria locale. Il Distretto e' individuato dall'atto aziendale, L'Azienda sanitaria locale, tramite il Distretto, svolge e garantisce i seguenti compiti: - assicura i servizi di assistenza primaria, relativi alle attivita' sanitarie e socio-sanitarie, nonche', il coordinamento delle proprie attivita' con quelle dei dipartimenti e servizi aziendali, inclusi i presidi ospedalieri, inserendole organicamente nel programma delle attivita' territoriali, basate sul principio dell'intersettorialita' degli interventi; - permette l'integrazione funzionale tra il territorio e l'ospedale, facilitando l'iter diagnostico terapeutico ed assistenziale del paziente, al quale deve essere assicurata una presenza costante di una struttura di riferimento; - garantisce, quindi, la continuita' assistenziale e la presa in carico medico-assistenziale e psicorelazionale del paziente oncologico sin dal momento della comunicazione della diagnosi, attraverso il necessario coordinamento e l'approccio multidisciplinare, in ambulatorio ed al domicilio del paziente tra i medici di medicina generale ed i servizi specialistici ed ambulatoriali, cosi' come tra i medici di medicina generale e le strutture ospedaliere, assicurando, in tal modo, la circolarita' delle informazioni tra specialisti, medici di base e personale sanitario e sociale. Ruolo del medico di medicina generale Nell'ambito dell'assistenza sanitaria di base, ricompresa nella macroarea dell'assistenza distrettuale, il medico di medicina generale ed il pediatra di libera scelta, nell'ambito della specifica attivita' clinica prevista dagli accordi collettivi nazionali e regionali, devono interagire, a vari livelli, con le strutture che svolgono attivita' in campo oncologico, per assicurare l'iter diagnosticoterapeutico e assistenziale del paziente oncologico, quali referenti che si devono integrare funzionalmente con gli specialisti di settore. In tale contesto possono pertanto rappresentare il punto di riferimento per l'assistito, per l'adeguata immissione nel circuito ospedaliero e la continuita' assistenziale, dopo la dimissione. Il medico di medicina generale assume un ruolo determinante nella diagnosi tempestiva delle neoplasie, cui e' legata, in buona parte, la possibilita' di successo terapeutico. Il suo contributo e' quindi strategico nel cercare di ridurre le diagnosi tardive. E' utile inoltre, a tal proposito, prevedere a livello regionale la definizione e adozione dei provvedimenti necessari per ridurre i tempi di attesa degli accertamenti diagnostici e le consulenze specialistiche e, piu' in generale, per favorire la comunicazione, tra medici di medicina generale e medici specialistici, e l'integrazione assistenziale tra ospedale e territorio. Il medico di medicina generale puo' svolgere un ruolo specifico nei programmi di follow-up dei pazienti oncologici, sempre tramite una stretta integrazione con gli specialisti del settore, anche al fine di privilegiare le prescrizioni di procedure diagnostiche necessarie ed appropriate in termini di efficacia e di rispetto della qualita' di vita. Per quanto attiene il ruolo svolto dal medico di medicina generale. nei confronti delle iniziative di prevenzione primaria e secondaria e delle attivita' connesse all'implementazione dei programmi di assistenza domiciliare integrata, si rimanda ai rispettivi capitoli del presente Piano. 2) ASSISTENZA OSPEDALIERA 2a) Ospedali per acuti L'assistenza ospedaliera, alla quale e' demandata la cura dei pazienti oncologici, si realizza tramite le specialita' che, nel loro insieme, definiscono l'oncologia clinica e precisamente l'oncologia medica, la radioterapia, la chirurgia. La terapia chirurgica dei tumori e' di primaria importanza nel controllo della malattia neoplastica. Peraltro la complessita' delle strategie terapeutiche richiede la massima integrazione fra la chirurgia e le altre discipline implicate nella terapia dei tumori maligni. Tale integrazione puo' realizzarsi anche favorendo, in strutture ospedaliere complesse, l'istituzione di chirurgie particolarmente dedicate al trattamento dei tumori maligni, quali le chirurgie oncologiche o le chirurgie ad orientamento oncologico. Per quanto attiene gli interventi in campo diagnostico, di caratterizzazione biologica e stadiazione, di riabilitazione e palliazione, questi sono realizzati attraverso il contributo di ulteriori specialita', integrate con l'oncologia clinica in strutture complesse quali i Dipartimenti oncologici. E' molto raccomandato che le prestazioni integrate di terapia oncologica siano erogate mediante attivita' clinico-assistenziali delle specialita' di oncologia medica, di chirurgia e di radioterapia.( vedi allegata n. 2) Con riferimento ai livelli uniformi, essenziali ed appropriati di assistenza ed all'articolazione organizzativa aziendale, prevista dal Decreto Legislativo 229, di cui agli articoli 3 comma 1-bis, 8 quater, 15 quinquies, 17 bis, le Regioni disciplinano, nell'ambito dei Piani oncologici regionali, l'organizzazione della rete dei servizi, tenuto conto delle articolazioni in ASL del territorio regionale, delle necessarie integrazioni delle specialita' di oncologia, chirurgia, radioterapia, e dell'adeguato supporto di servizi, nonche' dell'attivazione dell'organizzazione Dipartimentale. E' fortemente raccomandata la realizzazione di un efficace ed organico coordinamento a livello regionale di tutta l'attivita' oncologica, per garantire qualita', omogeneita' ed equita' di intervento, per promuovere il collegamento funzionale tra strutture territoriali e strutture di ricovero, secondo il sistema di rete. Considerate le differenti situazioni locali, fatta salva l'autonomia organizzativa e normativa delle singole Regioni, prevista dalle leggi vigenti, per quanto attiene l'assistenza ospedaliera si rimanda all'Allegato n. 1 al presente documento, fermo restando che l'individuazione dei modelli organizzativi ivi indicati rappresenta per le Regioni un indirizzo orientativo da adattare alle proprie esigenze di programmazione sanitaria. 3) LA RIABILITAZIONE ONCOLOGICA. Le linee guida emanate dal Ministero della sanita' per le attivita' di riabilitazione G.U. n. 124 del 3 0.5.1998) distinguono la riabilitazione in due settori: a) La riabilitazione intensiva, prevalentemente di tipo degenziale, b) La riabilitazione estensiva, che puo' essere attuata in ambito ospedaliero, nei reparti di lungodegenza riabilitativa, in strutture ambulatoriali, al domicilio del paziente ed infine in strutture riabilitative. Le succitate linee guida individuano anche la tipologia dei pazienti afferenti alla riabilitazione specialistica (neuromotoria, ortopedico-reumatologica, cardiologica, pneumologica). Pur riconoscendo l'indispensabilita' di un intervento riabilitativo in pazienti oncologici, per lo meno nella fascia di coloro i quali possono beneficiare di un recupero funzionale, al momento le evidenze scientifiche non suggeriscono l'identificazione di un settore specialistico autonomo di riabilitazione oncologica, mentre e' prevedibile l'afferenza dei pazienti oncologici, con turbe d'organo funzionali reversibili, ai diversi reparti di riabilitazione specialistica, eventualmente ricorrendo anche all'intervento riabilitativo multispecialistico. Occorre quindi garantire e promuovere l'accesso dei pazienti neoplastici ai reparti di riabilitazione, secondo lo specifico danno d'organo anatomofunzionale. Premesso cio' e' importante che, per diversi livelli di intensita' di riabilitazione, si provveda a definire opportuni percorsi e livelli di assistenza. Dalla fase intensiva, ove necessario, il paziente dovra' poter accede a strutture riabilitative con minore complessita' organizzativa. L'ultima tappa del processo riabilitativo dovra' essere garantita attraverso la riabilitazione ambulatoriale e domiciliare. Si raccomanda inoltre, vista la specificita' della malattia oncologica, di ricomprendere nel processo riabilitativo, che deve essere quanto piu' globale possibile, interventi atti a sostenere il recupero psico-relazionale dei pazienti oncologici. Obiettivo specifico intermedio no2 LE CURE EXTRAOSPEDALIERE ALLE PERSONE AFFETTE DA PATOLOGIA NEOPLSASTICA PREMESSA Le persone affette da patologie neoplastiche necessitano di continuita' di cure dalla diagnosi fino alla guarigione o alla morte; oltre al paziente oncologico l'attenzione deve essere dedicata ai familiari dello stesso. Un'assistenza di buona qualita' deve consentire al paziente di mantenere la sua posizione nell'ambiente lavorativo e socio familiare; quando cio' non e' possibile deve essere accolto in strutture adeguate alla natura dei problemi. Attualmente l'organizzazione dell'assistenza ai pazienti oncologici si scontra con il problema della divisione e distribuzione del lavoro in sottosistemi piu' o meno omogenei, con una frammentazione delle responsabilita' e delle referenze. L'esito e' un frequente accesso a prestazioni non appropriate, in particolare ospedaliere, maggiormente offerte dal sistema assistenziale e piu' radicate nella cultura popolare. L'efficacia dell'offerta dipende invece dall'integrazione dei servizi di rete e dalla possibilita' di identificazione di percorsi precisi da parte dell'utenza e dal riconoscimento di un unico canale di accesso per le cure extraospedaliere. Il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 affida al Distretto di base il compito di ricomporre, con coerenza, il sistema di offerta durante l'intero percorso di salute, malattia, disabilita' e morte di ogni malato. A) LE DIMENSIONI DEL PROBLEMA In Italia i tumori rappresentano circa il 30% delle cause di morte. E' possibile stimare in circa 270.000 i nuovi casi di tumore diagnosticati ogni anno in Italia e in circa 1.400.000 i pazienti con tumore. La sopravvivenza a cinque anni e' pari, per l'insieme dei tumori maligni, al 40%" (PSN 1998-2000). L'elevato numero di pazienti sottolinea la necessita' di prevedere percorsi che tengano conto: - della intensita' diagnostica e terapeutica espressa a livello ospedaliero, seppur non esclusivamente; - della durata e delle manifestazioni della storia clinica della malattia che, intrecciandosi largamente e lungamente con la quotidianita' di vita, producono riduzione dell'autonomia e dell'autosufficienza del malato. Pertanto i problemi che possono presentarsi riguardano aspetti: - sanitari; - psicologici e relazionali (grado di consapevolezza, di accettazione o di rifiuto della malattia e della terapia in corso) (dinamiche familiari); - informativi (offerta assistenziale); - sociali (sostegno nelle attività quotidiane, tutela dei membri deboli della famiglia, supporto amministrativo economico) - educativi (addestramento alla gestione del malato ed alla prevenzione dei problemi) - spirituali. La complessita' della storia delle persone affette da patologia oncologica consiglia un approccio valutativo che preveda di: - intercettare i bisogni espressi, cioè percepiti e comunicati chiaramente; - individuare i bisogni inespressi, cioè non trasformati in domanda in quanto l'utente non li percepisce (bisogni latenti); - individuare una risposta assistenziale adeguata (bisogni non comunicati); - individuare il bisogno di aiuto (bisogni inespressi o repressi); - prevenire i bisogni potenziali che potrebbero insorgere per l'evoluzione o gli esiti della patologia e dei problemi (bisogni non espressi chiaramente o rimasti inespressi. B) GLI OBIETTIVI ASSISTENZIALI Il ventaglio dei problemi e la loro commistione hanno un ruolo importante nel causare una riduzione della qualita' di vita dei pazienti oncologici e dei loro familiari e nel condizionare il livello di adesione al programma assistenziale. I servizi socio-sanitari devono, quindi, garantire un sistema di protezione integrato e duttile, che agevoli la dinamicita' dell'offerta assistenziale imposta dall'evoluzione della malattia, seguendo l'utente nel percorso di riabilitazione o di peggioramento. Occorre a tal proposito predisporre le opportune iniziative, atte a favorire i passaggi da una tipologia assistenziale all'altra, con possibilita' di ripristino della condizione precedente qualora il cambiamento si riveli inadeguato ed a promuovere la flessibilita' e quindi l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse umane e strumentali, conservando una referenza esplicita ed accessibile per tutta la durata della malattia. c) L'ASSETTO ORGANIZZATIVO C1) PRINCIPI Per rispondere agli obiettivi di efficacia e continuita' di cure ai malati oncologici, devono essere soddisfatti almeno i seguenti principi, propri delle cure primarie: - garanzia di una referenza unitaria e complessiva per il malato e per la sua famiglia, che eviti le soluzioni di continuo nell'attuazione del programma assistenziale; - competenza ed esperienza per l'assistenza al malato neoplastico in tutte le fasi della malattia, con un'attenzione particolare all'individuazione dei bisogni inespressi ed alla previsione di quelli potenziali; - comportamenti orientati all'integrazione e alla consulenza transdisciplinare; - sistema informativo destinato alla descrizione dei problemi e dei percorsi assistenziali, per documentare l'accessibilita' e l'efficienza dei servizi, nonche' per valutare la qualita' delle cure, correlando modalita' organizzative ed efficacia assistenziale; - attenzione, per garantire al malato e ai suoi familiari la possibilita' di espressione dei bisogni, delle emozioni degli stati d'animo, dei dubbi e delle difficolta'; - assicurare la partecipazione del malato alle decisioni che lo riguardano, rendendo disponibili informazioni precise, sufficienti e chiare; - sostegno delle motivazioni e consolidamento delle conoscente degli operatori, per limitare o prevenire l'esaurimento del personale (burn-out) La complessita', la variabilita' individuale e la dinamicita' dei problemi implicano l'approccio metodologico fondato su: - valutazione multidimensionale, razionalizzata mediante l'utilizzo di strumenti validati; - pianificazione integrata e personalizzata delle attivita', in coerenza con le risorse disponibili e secondo l'equo perseguimento degli obiettivi programmatici di carattere generale; - erogazione degli interventi che sia transdisciplinare, tempestiva, continua e di intensita' adeguata, applicando un processo decisionale improntato alla massima coerenza assistenziale. A tutela del malato e dei suoi familiari e' raccomandata la costituzione di Unita' di Valutazione Multidimensionali (U.V.M.) che, per i casi di particolare complessita' e gravita', nel rispetto del diritto di libera scelta dell'utenza, garantiscano in ogni Distretto: - la valutazione dei problemi; - la proposta, la predisposizione e la verifica periodica del piano di cura nel corso dell'evoluzione della malattia; - l'attuazione di un programma assistenziale integrato, personalizzato e coordinato in funzione dei bisogni, che garantisca al malato e ai suoi familiari, conseguito il loro consenso, l'informazione e l'educazione, nonche' il sostegno psicologico; - il raccordo con le strutture ospedaliere, gli hospice e le strutture residenziali; - il coinvolgimento, lo stimolo e il sostegno delle associazioni di volontariato attive nel settore dell'aiuto ai malati neoplastici. Considerando la numerosita' degli assistibili, la peculiarita' dei contenuti assistenziali e la corredata necessita' di formazione specifica degli operatori, e' necessaria la costituzione di nuclei transmurali, dedicati alle cure domiciliari e/o all'accoglimento in hospice, con modalita' organizzative ed erogative volte a conseguire l'integrazione del Distretto con le altre componenti del sistema di offerta. Qualora la ristrettezza delle risorse non consenta tale strutturazione, si raccomanda di prevedere la costituzione di nuclei interdistrettuali o almeno l'impegno specialistico ripartito su piu' Distretti. Per assicurare coerenza tra il momento valutativo e quello erogativo, le competenze dei diversi operatori assistenziali devono essere presenti nell'equipe valutativa della U.V.M., secondo necessita' in ragione della frequenza e della gravita' dei bisogni da soddisfare, C2) Modalita' assistenziali e criteri di eleggibilita' Tenuto conto dei principi organizzativi, il sistema di protezione socio-sanitaria ai malati oncologici si realizza, lungo tutto lo svolgimento della malattia, con diverse modalita' assistenziali. C2.1) Dimissioni protette La necessita' di continuazione domiciliare di interventi infermieristici, di prestazioni assistenziali non sanitarie, di riabilitazione fisica e psicologica e di cure palliative, oltre che la fornitura di ausili e presidi sono in genere prevedibili con congruo anticipo rispetto alla dimissione, rendendo di fatto possibile, nella maggior parte dei casi, la preventiva segnalazione al medico curante ed ai Servizi Distrettuali deputati, secondo procedure preventivamente concordate a livello locale. Durante il ricovero ospedaliero la segnalazione deve avvenire il piu' precocemente possibile, almeno dall'insorgenza della non autonomia non autosufficienza del paziente, al fine di consentire una valutazione tempestiva, coerente ed integrata delle condizioni di salute e dell'ambiente di vita del paziente, per garantire la continuita' assistenziale. Il trasferimento del malato da un reparto di diagnosi e cura ad un programma di assistenza extraospedaliera avviene per proposta dell'ospedale e deve essere gestito secondo le procedure concordate a livello distrettuale, che dovranno prevedere il coinvolgimento del medico di medicina generale e del servizio accettante. Le dimissioni protette devono essere garantite almeno ai soggetti che soddisfano simultaneamente i seguenti criteri: a) non autonomia / non autosufficienza, mediante l'applicazione di uno strumento di valutazione multidimensionale validato; b) necessita' di continuita' di cure e/o carenza di effettivo supporto familiare e/o altre problematiche socio-ambientali gravi. Le dimissioni protette sono inoltre raccomandate per i malati che, pur non soddisfacendo i precedenti criteri, necessitano di assistenza continuativa a causa di uno stato di sofferenza psicologica e/o spirituale. .sp, C2.2) Integrazione valutativo-terapeutica durante l'assistenza extra-ospedaliera Dopo le prime fasi di approfondimento diagnostico e trattamento ospedaliero, e' raccomandabile rivalutare la complessita' dei bisogni al fine di limitare l'insorgenza o l'evoluzione di problemi correlati alla cura della persona, alla gestione delle attivita' quotidiane e alle relazioni interpersonali. In questa fase della vita del paziente e del suo decorso clinico si raccomanda la circolarita' delle informazioni tra medico specialista, medico di medicina generale e operatori distrettuali secondo un set minimo di dati che consegua: - plausibilita' e coerenza terapeutica; - continuita' nei trattamenti di supporto e nell'assistenza di base; - coerenza dell'informazione al paziente e ai suoi familiari; - rigorosita' ed essenzialita' nel follow-up. A tal fine si raccomanda l'adozione di una cartella clinica integrata. La continuita' di cura specialistica extraospedaliera e' necessaria anche durante il trattamento della malattia in regime di day-hospital, ambulatoriale, domiciliare o residenziale ed assume le caratteristiche di consulenza specialistica, sia nel caso di richiesta estemporanea del medico di medicina generale, sia all'interno di un piano di intervento preventivamene concordato a livello distrettuale, di Assistenza Domiciliare Integrata. I criteri di eleggibilita' riguardano pazienti oncologici con: a) necessita' di trattamenti di supporto (nutrizione artificiale, terapia antalgica specialistica ecc.) o di monitoraggio clinico-assistenziale e/o follow-up; b) fragilita' psico-sociale. Infine, per pianificare coerentemente gli interventi assistenziali e' consigliabile almeno una visita socio-sanitaria al domicilio del paziente, da concordarsi con il medico di medicina generale e con il paziente, due settimane dopo la dimissione ospedaliera. Tale procedura e' utile, nonche' gradita, per malati oncologici che rispondono simultaneamente ai seguenti criteri: - esclusione dalla procedura per le dimissioni protette; - eta' uguale o superiore a 60 anni; - assenza o precarieta' del sostegno socio-familiare; - diagnosi di neoplasia da meno di 6 mesi. C2.3) Ammissione agevolata e protetta ai Servizi ospedalieri La complessita' dei bisogni dei pazienti oncologici consiglia la creazione di corsie preferenziali per l'eventuale accesso alle strutture ospedaliere, caratterizzate da modalita' facilitate, sia nel caso di ricovero ordinario, sia qualora si rendessero necessarie prestazioni specialistiche di diagnosi e cura, parificando, in quest'ultimo caso, le procedure a quelle riservate ai degenti in ospedale. In particolare, la procedura per le ammissioni protette e' raccomandata per pazienti che ottemperino contemporaneamente ai seguenti criteri: - rischio di peggioramento del quadro clinico in assistenza domiciliare o durante l'ospitalita' in strutture residenziali; - rispondenza ai criteri dei protocolli validati per la revisione dell'accesso e dell'utilizzo delle prestazioni ospedaliere. C2.4) Cure palliative domiciliari Secondo la definizione della Organizzazione Mondiale della Sanita', per cure palliative si intende una serie di interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati alla cura attiva, totale, di malati la cui malattia di base non risponde piu' a trattamenti specifici. Fondamentale risulta il controllo del dolore e degli altri sintomi e in generale dei problemi psicologici, sociali e spirituali. L'obiettivo delle cure palliative e' il raggiungImento della migliore qualita' di vita possibile per i malati e le loro famiglie. Le cure palliative sono attivamente offerte all'unita' di cura malato-famiglia attraverso un approccio transdisciplinare. Le cure palliative sono indicate: - per i malati diagnosticati inguaribili, che quindi non rispondono piu' ai trattamenti specifici, lasciando al naturale decorso la malattia, lenendo le sofferenze e migliorando la qualita' di vita; - in altre fasi del decorso clinico, particolarmente per i malati sottoposti a trattamenti impegnativi e disabilitanti, al fine di migliorare la qualita' di vita. Nel caso di un paziente da assistere al proprio domicilio, conseguitone il consenso e verificata la disponibilita' della famiglia, i criteri di eleggibilita' necessari e sufficienti per iniziare le cure palliative a domicilio sono: - terapeutico: assenza, esaurimento o inopportunita' di trattamenti specifici volti alla gestione o al rallentamento della malattia; - sintomatico: presenza di sintomi invalidanti con una riduzione del performance-status uguale od inferiore al 50% secondo la Scala di Karnofsky; - diagnosi di malattia neoplastica, certificata dal medico esperto in oncologia medica; - impossibilita' ad utilizzare le strutture ambulatoriali e di day hospital per la presenza di gravi sintomi invalidanti e/o per l'assenza di sufficienti supporti (non autosufficienza/non autonomia del paziente); - ambiente abitativo idoneo e supporto familiare sufficiente. Nell'ambito delle cure palliative, alla famiglia del malato e' offerto un adeguato supporto per affrontare meglio le difficolta' dell'assistenza continua al congiunto, della riorganizzazione dei ruoli, dei compiti familiari, della preparazione al lutto. L'offerta di cure palliative non puo' prescindere da alcune caratteristiche organizzative e funzionali prioritarie ed irrinunciabili quali un'ottimale terapia del dolore e dei principali sintomi; la certificata competenza professionale da parte del personale coinvolto nell'assistenza; la fornitura tempestiva di ausili e presidi appropriati, rispetto al bisogno della persona ed al contesto nel quale essi devono essere utilizzati; l'addestramento dei congiunti all'assistenza continua del malato, sostenuta da una particolare capacita' degli operatori domiciliari nelle tecniche educative. Una volta consolidate le caratteristiche precedenti, si auspica la realizzazione di: - reperibilita' infermieristica e medico-palliativa sulle 24 ore, per 7 giorni/settimana; - sostegno psicologico del malato e dei familiari; - protezione sociale per i membri del nucleo familiare a maggior rischio di disagio a causa delle condizioni e del decesso del malato. Le cure palliative domiciliari sono offerte secondo i livelli essenziali di assistenza previsti e tra loro integrantesi: - Assistenza Domiciliare integrata E' la modalita' assistenziale da garantire prioritariamente. E' erogata sotto la responsabilita' clinica del medico di medicina generale, attraverso l'applicazione della dinamica di lavoro di equipe, che preveda il concorso di un gruppo composto almeno dallo stesso medico di medicina generale dal personale distrettuale e dal medico esperto in cure palliative. La permanenza nel proprio ambiente abituale di vita, con riduzione delle giornate di degenza ospedaliera, puo' essere conseguita piu' facilmente mediante l'adozione di un'organizzazione del lavoro che contempli la valutazione multidimensionale degli assistiti e preveda periodiche riunioni d'equipe. - Ospedalizzazione a domicilio E' una modalita' assistenziale che garantisce l'effettuazione a domicilio di interventi palliativi, caratterizzati da un piu' elevato contenuto sanitario, conseguenti a situazioni cliniche di scompenso o di particolare complessita', tali da rendere necessario un intervento assistenziale, che copra l'intero arco delle 24 ore. L'O.D. E' subordinata alla tenuta di una cartella clinica, con compilazione di un diario giornaliero, ed E' caratterizzata dalla erogazione diretta delle prestazioni diagnostiche eseguibili al domicilio, dei farmaci, dei presidi ed ausili da parte delle U.U.O.O. ospedaliere. L'attivazione e la responsabilita' del servizio competono al dirigente medico della U.O. ospedaliera deputata, laddove presente dell'U.O. di cure palliative, che si raccorda a livello distrettuale con il medico di medicina generale, potendosi avvalere della collaborazione del personale del distretto secondo protocolli operativi concordati. Allo scopo di garantire un appropriato utilizzo delle risorse, l'ospedalizzazione a domicilio andra' attivata previa valutazione congiunta con il medico di medicina generale e il responsabile dell'equipe distrettuale delle effettive possibilita' operative offerte dall'assistenza domiciliare integrata. C2.5) Hospice L'Hospice e' una struttura dedicata "ai pazienti in fase terminale che necessitano di cure finalizzate ad assicurare ad essi e ai loro familiari una migliore qualita' della vita" (DM 28/9/1999) L'accoglimento in un hospice, oltre ad essere vincolato alla necessita' di trattamenti che non richiedano un ricovero presso UU.00. ospedaliere per pazienti acuti, e' subordinato alla presenza di almeno una delle seguenti condizioni: - assenza o non idoneita' della famiglia; - inadeguatezza della casa a trattamenti domiciliari; - impossibilita' di controllo adeguato dei sintomi al domicilio. L'erogazione dell'assistenza e' garantita da un'equipe transdisciplinare, la cui composizione minimale e' rappresentata dalle seguenti figure professionali: - medico esperto di cure palliative; - infermiere professionale; - psicologo; - addetto all'assistenza (O.S.S.); - personale ausiliario. All'interno dell'hospice e' auspicabile che sia garantita l'assistenza spirituale e l'integrazione del volontariato organizzato. L'Hospice ha modalita' organizzativo/strutturali specifiche, che differiscono da quelle vigenti per i reparti ospedalieri per pazienti acuti, che sono definite nel D.M. 28/9/1999 e nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20/1/2000 (Atto di indirizzo e coordinamento recante requisiti strutturali e tecnologici ed organizzativi minimi per i Centri Residenziali di Cure Palliative) D) I PROFILI DI RUOLO DEGLI OPERATORI Gli operatori dedicati alle cure extraospedaliere rivolte alle persone affette da malattia oncologica devono di base avere alcune caratteristiche comuni: - motivazione chiara ed esplicita ad assistere malati gravemente compromessi, anche con prognosi infausta a breve scadenza; - conoscenza adeguata dei problemi specifici legati alla patologia oncologica; - sensibilita' psicologica e capacita' di relazione con il malato e con i familiari; - attitudine al lavoro in equipe; - capacita' nel produrre e rendere disponibili informazioni utili all'equipe. Ferma restando la specificita' dei modelli organizzativi definiti a livello regionale a titolo orientativo sono descritti i seguenti compiti attribuibili alle figure sottoelencate Medico esperto in cure palliative: - responsabilita' clinica diretta per i pazienti, suscettibili di cure palliative, assistiti in regime di ospedalizzazione domiciliare; - gestione e responsabilita' clinica dei pazienti ricoverati in hospice; - consulenza clinica per gli operatori sanitari impegnati nell'assistenza, e, in modo particolare, per il medico di medicina generale; - supervisione e formazione continua del personale addetto alle cure palliative; - partecipazione alla verifica della efficacia, efficienza e qualita' delle cure erogate dal personale impegnato nelle cure palliative; - prescrizione collaudo di protesi e ausili; - relazione con i servizi ospedalieri, per il passaggio del paziente dalla fase di trattamento a quella palliativa e per eventuali ricoveri programmati. Oncologo medico: - responsabilita' clinica diretta per i pazienti, suscettibili di terapia oncologica specifica, assistiti in regime di ospedalizzazione domiciliare; - consulenza clinica oncologica per i pazienti ricoverati in hospice; - consulenza clinica per gli operatori sanitari impegnati nell'assistenza e in modo particolare per il medico di medicina generale; - supervisione e formazione continua del personale; - partecipazione alla verifica della efficacia, efficienza e qualita' delle cure erogate dal personale impegnato nelle cure palliative; - relazione con gli operatori di cure palliative, per il passaggio del paziente dalla fase di trattamento a quella palliativo e per eventuali ricoveri ospedalieri programmati. Medico nutrizionista: - valutazione dei bisogni nutrizionali del malato e studio delle modalita' di relativa copertura. Medico di Medicina Generale: - responsabilita' clinica diretta dei pazienti assistiti a domicilio ad esclusione di quelli in regime di ospedalizzazione domiciliare; - consulenza clinica per gli operatori sanitari domiciliari; - relazione con la famiglia. Medico di sanita' pubblica: - tutela metodologica nell'orientamento per problemi; - tutela di equa accessibilita' alle risorse del servizio; - valutazione economica del servizio, - valutazione complessiva dell'efficacia del servizio; - relazione con le strutture dell'Azienda - U.S.L. e con le strutture specialistiche. Infermiere professionale: - assistenza infermieristica; - addestramento e supervisione degli operatori addetti all'assistenza (O.S.S.); - addestramento e supervisione dei congiunti per l'assistenza continuativa al malato; - educazione sanitaria al malato e ai congiunti. Psicologo: - sostegno psicologico e relazione al malato e ai familiari; - supervisione, sostegno psicologico e contributo allo sviluppo e mantenimento di capacita' relazionali dell'equipe degli operatori preposti alle cure palliative domiciliari e residenziali; - partecipazione alla selezione e alla supervisione dei volontari, attivi nell'equipe; - contributo nella formazione del personale di assistenza. Fisioterapista: - attivita' riabilitativa di 2o livello diretta, focalizzata sul recupero delle attivita' della vita quotidiana; - adozione di tecniche riabilitative di 10 livello miranti al ripristino o al mantenimento dell'autonomia e dell'autosufficienza della persona, indipendentemente dal completo recupero della singola funzione; - addestramento e supervisione degli altri operatori e dei familiari per gli aspetti riabilitativi inerenti la mobilizzazione e la cura della persona; - valutazione e riorganizzazione dell'ambiente di vita, con particolare riferimento all'accessibilita' e alla fruibilita' di spazi e arredi. Assistente sociale: - analisi delle problematiche relative all'eventuale necessita' di sostegno economico e sociale del malato e della sua famiglia; - valutazione sulla necessita' di tutela dei membri deboli del nucleo familiare; Operatore addetto all' assistenza: - cura della persona e degli ambienti di vita; - supporto ai familiari nelle attività di base del malato; - interventi di mobilizzazione e contributo alle attività sanitarie secondo competenza. Volontario: - sostegno al malato; - sostegno ai familiari, anche nelle attivita' quotidiane; - sostegno organizzativo all'equipe di cure palliative. E) LIVELLI ESSENZIALI ASSISTENZIALI GARANTITI. L'organizzazione dell'assistenza extraospedaliera ai pazienti oncologici deve garantire almeno le cure palliative per i malati terminali. La definizione di terminalita' e' data dal contemporaneo rispetto dei seguenti criteri: - terapeutico: assenza, esaurimento o inopportunita' di trattamenti specifici volti alla gestione o al rallentamento della malattia; Obiettivo specifico intermedio no 3 PROMOZIONE DI PROGRAMMI DI SCREENING DI DOCUMENTATA EFFICACIA PER LA DIAGNOSI PRECOCE DEI TUMORI Il Piano sanitario nazionale 1998-2000 all'Obiettivo II "Contrastare le principali patologie" rileva che, al fine di contribuire a contrastare specifiche forme neoplastiche, sono da sviluppare, nei piani regionali ed aziendali e da estendere, su tutto il territorio nazionale, campagne di screening, di documentata efficacia, per la diagnosi di alcune patologie neoplastiche. Il Piano rileva inoltre la necessita' che, nell'attivazione dei predetti programmi, siano previsti il monitoraggio e la valutazione continua degli stessi; che sia garantita l'istituzione di un sistema di controllo di qualita' dei programmi medesimi, i quali devono prevedere, tra l'altro, la predisposizione di linee guida per la conferma diagnostica dei casi sospetti identificati ed il trattamento tempestivo dei casi confermati. Il Piano, nel fornire indicazioni sui livelli uniformi di assistenza, da assicurare in condizioni di uniformita' sul territorio nazionale alla totalita' dei cittadini, ricomprende nelle prestazioni che devono essere erogate dal S.S.N., senza oneri a carico dell'utente al momento della fruizione del servizio, le prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio e le altre prestazioni di assistenza specialistica, incluse in programmi organizzati di diagnosi precoce e prevenzione collettiva, realizzati in attuazione del PSN e dei PSR o comunque promossi o autorizzati, con atti formali, dalle regioni o provincie autonome. A tal fine e' opportuno che a livello di ciascuna regione, sia effettuata attivita' di: - monitoraggio - valutazione - formazione - coordinamento dell'attivita' di screening - definizione dei criteri di idoneita' per la selezione delle strutture preposte allo screening. Tali attivita' dovranno essere operativamente effettuate dal Centro Regionale di Prevenzione Oncologica ove presente, o da apposito organismo costituito in ambito regionale. A tale attivita' deve essere assicurato preventivamente un adeguato finanziamento per garantirne la continuita', rientrando l'attivita' di screening nei livelli uniformi di assistenza. La necessita' di migliorare e rendere piu' efficienti le prestazioni diagnostiche in popolazione sintomatica e asintomatica quindi di disporre di sufficienti competenze per l'esecuzione di approfondimenti nei casi selezionati dallo screening rende necessaria inoltre l'individuazione di idonee strutture di secondo livello. Una rete di tali strutture uniformemente distribuite sul territorio nazionale, potrebbe raffigurare il modello piu' valido per rispondere in modo tempestivo e corretto al bisogno specialistico specifico. A) PROPOSTE OPERATIVE IN TEMA DI PREVENZIONE SECONDARIA DEI TUMORI DELLA MAMMELLA 1) Premessa In tutti i paesi occidentali ed industrializzati il tumore della mammella ha raggiunto livelli di incidenza tali da rappresentare una vera e propria malattia sociale. In Italia, nel 1994 sono morte 11.343 donne per carcinoma mammario e si stima che ogni anno a piu' di 31.000 donne sia diagnosticata questa malattia (dati forniti dall'Associazione Italiana Registri Tumori). Le attuali conoscenze sull'eziologia del carcinoma mammario non consentono, purtroppo, di attuare interventi di prevenzione primaria tramite la rimozione di fattori causali. E' invece stata dimostrata, con metodi rigorosi, l'efficacia della prevenzione secondaria. Numerosi studi controllati hanno dimostrato che, sottoponendo una popolazione femminile, nelle fasce di eta' a maggior rischio di carcinoma mammario, ad un controllo mammografico periodico, la mortalita' per questa neoplasia diminuisce del 30-50%, grazie alla maggiore efficacia del trattamento terapeutico applicato in fase precoce di malattia. Per questo motivo, negli ultimi venti anni, si e' data particolare importanza alla possibilita' di controllare la mortalita' per carcinoma mammario con un intervento sistematico di diagnosi precoce. La risposta piu' efficace ed efficiente alla domanda di prevenzione per il carcinoma della mammella e' l'attivazione, in tutto il territorio nazionale, di programmi di screening mammografico di alta qualita', indirizzati alle donne nelle fasce d'eta' a maggior rischio, con priorita' per le donne in eta' compresa tra i 50 ed i 69anni. Le attivita' di diagnostica precoce, che richiedono l'integrazione funzionale di tutti i servizi connessi alla senologia, saranno effettuate in stretta collaborazione con le strutture della rete oncologica e con le strutture preposte alla valutazione epidemiologica, in modo da consentire il corretto monitoraggio dei programmi e l'assistenza adeguata dopo la diagnosi. E' inoltre fortemente raccomandata la costituzione di un Gruppo di coordinamento a livello regionale. 2. ATTUAZIONE DEL PROGRAMMA DI SCREENING E' necessaria l'attivazione in tutto il territorio nazionale di programmi di screening mammografico di alta qualita', indirizzati alle donne nelle fasce d'eta' a maggior rischio, compresa tra 50 e 69 anni. Per eta' inferiori ai 50 anni, sono in corso progetti dimostrativi (Eurotrial-40) in diverse regioni italiane per valutare flessibilita', controlli di qualita' e specificita' dello screening in questo gruppo di popolazione. Pertanto, le indicazioni provenienti dai progetti dimostrativi potranno essere la base per l'estensione dello screening nella fascia di eta' dai 40 ai 49 anni. L'obiettivo principale di un programma di screening per il carcinoma della mammella e' ottenere una riduzione significativa della mortalita' specifica con il miglior rapporto costo beneficio. Da studi condotti, si stima che un programma di screening mammografico, esteso a tutto il territorio nazionale, per la popolazione femminile di eta' compresa tra 50 e 69 anni, eviterebbe nell'arco di 30 anni circa 48.000 decessi per carcinoma mammario nelle donne oltre i 50 anni, raggiungendo una riduzione di mortalita' intorno al 13.5% su tutte le eta'. Cio' si tradurrebbe in un guadagno medio di 1650 vite per anno e di circa 14.500 anni di vita salvati nello stesso periodo. Attuare un programma di screening mammografico articolato a livello regionale, che coinvolga gradualmente tutto il territorio nazionale, e' una proposta concreta e percorribile. E' pero' necessario preliminarmente verificare l'esistenza di strutture e personale e promuovere le condizioni di fattibilita', efficienza e qualita', secondo quanto noto. In base ad alcune stime di spesa, il costo medio annuo di un programma di screening mammografico rivolto alle 6.700.000 donne in eta' compresa fra 50 e 69 anni, con periodicita' biennale, e' stimabile in un range compreso tra 93.6 e 107,1 miliardi di lire l'anno. Questo importo corrisponde a circa lo 0.20 % della spesa sanitaria nazionale, cioe' a circa 3.000 lire pro-capite e quindi a meno del 5% delle risorse pro-capite, assegnate dal fondo Nazionale alle Regioni per le attivita' di prevenzione. Rapportando il costo ai dati di efficacia sopra riportati, si puo' stimare, su un lungo periodo (30 anni) un costo medio compreso fra 6.6 e 11.5 milioni di lire per anno di vita salvato e tra 60 e 90 milioni per vita salvata. Questo intervento sanitario, se ben organizzato, gestito e controllato, presenta quindi un rapporto costo/beneficio verosimilmente piu' vantaggioso rispetto ad altri interventi gia' offerti alla popolazione italiana. La domanda spontanea di esami senologici di controllo e' in forte crescita nel nostro Paese e rappresenta comunque una spesa in atto, con un rapporto costi/benefici presumibilmente peggiore di quello ottenibile con un programma nazionale ben organizzato. Nell'attuare il programma di screening, occorre adottare i criteri illustrati nelle seguenti proposte operative. 2.1. Test di screening: Mammografia convenzionale in due proiezioni ad intervallo biennale. 2.2.Copertura della popolazione bersaglio: Si raccomanda di ottenere una copertura almeno del 70% delle donne residenti nell'area, di eta' compresa tra 50 e 69 anni, rispetto all'esecuzione di una mammografia ogni 2 anni. 2.3. Analisi delle risorse disponibili o acquisibili. .br. Presenza nell'area di competenza di: a) strutture mammografiche; b) personale tecnico addestrato per l'esecuzione degli esami mammografici; medici radiologi addestrati per la lettura di mammografie da screening; c) struttura senologica di 2o livello presso di cui poter eseguire gli esami di approfondimento indotti dallo screening; d) laboratorio di cito-isto-patologia per la lettura dei preparati citologici (su agoaspirato) e istologici (esami bioptici e trattamenti chirurgici) e) strutture chirurgiche, radioterapiche e oncologiche in grado di garantire diagnosi e terapie adeguate a tutte le donne che vi saranno indirizzate in seguito allo screening. 2.4. Bacino d'utenza e tipologia delle unita' operative per lo screening Allo scopo di ottimizzare l'utilizzo delle risorse di personale e strumentali, e' necessario definire un numero medio annuo di test di screening, tenendo conto che volumi di attivita' bassi favoriscono sprechi e non consentono di diagnosticare un sufficiente numero di casi, mentre un'eccessiva centralizzazione puo' comportare difficolta' di accesso alla popolazione. E' necessario che all'attivita' di screening radiologico sia connessa organizzativamente e strutturalmente, un'unita' di senologia per gli esami di approfondimento diagnostico sui casi selezionati allo screening. Per definire il rapporto tra mammografi fissi e mobili, la dimensione della popolazione generale, il bacino di utenza di ogni unita' di mammografia, bisogna tenere conto che circa il 30% della popolazione italiana vive in aree agricole, il rimanente 70% in aree urbane, di cui circa il 25% in citta' con 500.000 o piu' abitanti. In generale i centri di screening tipo potrebbero essere dotati di 2-3 mammografi (di cui almeno una fisso e corredato di un microfuoco) e della restante strumentazione, necessaria per gli approfondimenti diagnostici dei casi positivi al test (ecografia, citologia, ecc.). Il volume di attivita' dovrebbe essere compreso tra 10.000 e 20.000 esami annui ed il bacino di utenza servito tra i 200.000 e i 500.000 abitanti. Il personale deve essere quantificato in funzione dell'accesso dell'utenza (ad es. eventuale apertura nelle ore preserali e di sabato mattino) e dell'utilizzo delle strutture disponibili nell'arco di tutta la giornata. Sono da prevedere preferibilmente quindi doppi turni. In accordo con le linee guida europee, si raccomanda infine che, tenendo conto dell'importanza degli approfondimenti diagnostici, al fine di ottenere un'elevata predittivita' per carcinoma, nei casi inviati a biopsia chirurgica, gli approfondimenti stessi siano effettuati prevedendo l'integrazione funzionale dei servizi coinvolti nei percorsi diagnostico-terapeutici di interesse senologico, con la diretta partecipazione del radiologo incaricato della refertazione degli esami del programma di screening. 2.5. Struttura e gestione dei programmi di screening Le ASL e le strutture sanitarie identificate concorrono secondo le competenze specifiche alla programmazione e attuazione degli screening oncologici. In particolare l'ASL, a cui compete di garantire i livelli di assistenza definiti dalla programmazione sanitaria nazionale e regionale, ha il compito di: - promuovere, nell'ambito territoriale di competenza i programmi di screening, coerenti con il contesto epidemiologico e scientifico e le linee di indirizzo regionali, nazionali ed internazionali; - assicurare le risorse necessarie per la loro attuazione; - assicurare il coinvolgimento dei medici di medicina generale; - assicurare l'informazione e la sensibilizzazione della popolazione ed il coinvolgimento delle associazioni di volontariato; - assicurare la gestione e la valutazione dei programmi garantendo il sistema informativo ed il coordinamento operativo dei professionisti e delle strutture coinvolte; - programmare l'attivita' formativa, secondo quanto contenuto nel capitolo specifico. A livello regionale, e' necessario garantire il coordinamento per la pianificazione e la valutazione delle attivita' di screening, con i seguenti compiti: - pianificare sul territorio regionale l'attivazione di programmi di screening di alta qualita'; - effettuare la loro valutazione, utilizzando le opportune competenze epidemiologiche; - attuare programmi di formazione degli operatori, secondo i criteri stabiliti in sede nazionale; - attivare un programma di "controlli di qualita'" per le varie procedure organizzative, diagnostiche e terapeutiche cui dovranno attenersi i programmi di screening; - definire le modalita' di controllo, affinche' i livelli di qualita' siano mantenuti nel corso dell'attivita' (assicurazione di qualita); - stabilire le modalita' di esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria, conformemente alle indicazioni nazionali; - consultare i rappresentanti dell'utenza. 2.6. Risorse La continuita' del finanziamento per la conduzione del programma, per spese di investimento e di gestione, deve poter essere garantita prima dell'avvio dello stesso. Si raccomanda un accurato sistema di monitoraggio, con documentazione dei costi in ogni fase dell'intervento. Per migliorare l'organizzazione e pianificare la strategia d'intervento e' necessario definire parametri di riferimento quali ad esempio il costo per donna sottoposta a screening. 2.7. informazione della popolazione e promozione della partecipazione. La partecipazione della popolazione bersaglio e' uno dei requisiti per il successo di un programma di screening. Sforzi particolari dovrebbero essere fatti per coinvolgere le donne che non hanno mai eseguito una mammografia in passato. La partecipazione allo screening e' diversamente associata con l'eta', lo stato civile, lo stato socioeconomico, la frequenza di contatto con il sistema sanitario, etc. Paura delle radiazioni o del dolore alla compressione del seno durante il test, ansieta' per il risultato, paura del cancro, mancanza di fiducia nell'efficacia dello screening e della terapia, nel sistema sanitario, sono ostacoli alla partecipazione che dovrebbero essere valutati anche in relazione alle differenti situazioni locali, cosi' come le barriere come la distanza o gli orari, che diminuiscono l'accesso alle Unita' di screening. L'adesione della popolazione ad un programma di screening puo' essere aumentata in vari modi: adottando un invito personalizzato, con appuntamento prefissato ed a firma del medico di famiglia o di altre persone altamente reputate in una comunita', incoraggiando le non partecipanti ad aderire. L'uso dei mass-media puo' svolgere un ruolo importante per rimuovere le barriere alla partecipazione, informando la popolazione bersaglio sul programma, sulla sua organizzazione, su i suoi vantaggi ed i suoi limiti. In piccole citta' e in zone agricole, l'organizzazione della vita sociale (associazioni, circoli, parrocchie ecc.) puo' consentire di identificare specifiche opportunita' per informare le donne e promuovere la partecipazione. La pubblicita' attraverso i mass-media ha un effetto di breve durata e dovrebbe essere pianificata a intervalli regolari per rinforzare il messaggio. Giornali e stazioni radiotelevisive possono offrire spazi gratuiti per la pubblicita' e si possono trovare sponsor per finanziare l'informazione. Qualsiasi effetto di modifiche all'organizzazione del programma, idealmente dovrebbe essere valutato attraverso studi randomizzati e controllati. 2.8.Ruolo del medico di medicina generale Nell'ambito di un programma di screening mammografico di popolazione l'informazione e l'educazione sanitaria sono di fondamentale importanza. Il medico di medicina generale (MMG) e' il punto di riferimento per il cittadino e quotidianamente riceve richieste di informazioni, chiarimenti e consigli anche sulle possibili iniziative di prevenzione; egli inoltre stabilisce con i propri pazienti un rapporto fiduciario e continuo nel tempo. A livello europeo, il programma "Europa contro il cancro" ha ripetutamente raccomandato il coinvolgimento dei m.m.g. nell'ambito dei programmi di screening di popolazione. Studi condotti per valutare gli effetti di diverse modalita' di invito hanno dimostrato che anche nella realta' italiana una lettera a firma del m.m.g. puo' ottenere tassi di partecipazione piu' elevati. In Italia la convenzione con la medicina generale prevede la partecipazione dei m.m.g. ai programmi di screening. Schematizzando, il ruolo dei m.m.g. puo' essere riassunto come segue: - correzione delle liste in base ai criteri di inclusione (escludendo pazienti gia' affette da tumore o da gravi malattie); - attiva promozione della partecipazione nei confronti delle proprie assistite; - informazione mirata alle donne non aderenti; - "counselling" in tutte le fasi del programma e supporto psicologico, in particolare per le donne risultate positive al test. L'esperienza dei Paesi nord europei insegna che molte donne decideranno se aderire al programma e se seguire l'iter diagnostico suggerito dopo aver sentito il parere del proprio medico curante. L'attivazione di un programma di screening mammografico deve essere preceduta da un'adeguata formazione dei medici di medicina generale, organizzata secondo tecniche didattiche gia' sperimentate dalla SIMG per la formazione continua dei professionisti. 2.9. Protocolli per il counselling ed il supporto psicologico Oltre a predisporre gli strumenti per incentivare la partecipazione al test di screening, e' necessario mettere a punto e disporre di strumenti per il counselling ed il supporto psicologico per le donne che sono richiamate, per quelle che sono indirizzate verso accertamenti diagnostici invasivi o a cui e' diagnosticato il cancro. I livelli di ansieta' determinati da un richiamo devono essere adeguatamente gestiti sin dalla comunicazione del richiamo e durante l'iter diagnostico in stretta collaborazione con il medico di medicina generale. Il medico di medicina generale ed il personale che opera nel servizio, adeguatamente formato, possono svolgere un ruolo di adeguato supporto e consiglio. 2.10. Controlli di qualita' I controlli di qualita' devono essere applicati a tutte le varie fasi della procedura di screening, dal reclutamento e invito della popolazione target, alla esecuzione dei test di screening e degli esami di approfondimento, alla applicazione di protocolli di terapia e follow-up adeguati nei casi risultati positivi allo screening. Il programma "Europa contro il cancro" ha pubblicato le "Linee guida Europee per l'Assicurazione di Qualita' nello screening mammografico" in cui si sottolinea che "non dovrebbe essere intrapreso alcun programma di screening senza averne stabilito chiaramente gli obiettivi, o se non si dispone di personale adeguatamente formato e di un programma di Assicurazione di Qualita' adeguato" . Aspetti organizzativi. Il programma di controllo di qualita' dovra' verificare che requisiti quali disponibilita' e accuratezza delle liste anagrafiche, sistemi di invito-reinvito, adesione agli approfondimenti diagnostici, follow-up e qualita' della terapia siano soddisfatti e mantenuti nel tempo. Aspetti tecnici. Il controllo di qualita' dell'esame mammografico richiede competenze radiologiche e fisiche ed un'adeguata strumentazione. Il protocollo operativo e la frequenza dei controlli di qualita' sono chiaramente stabiliti nelle linee guida europee. La loro attuazione richiede quindi la necessita' di istituire in ambito regionale Centri di riferimento per il controllo della dose e qualita' dell'esame mammografico, a supporto delle attivita' di controllo di qualita' che sono svolte dai singoli programmi di screening e dalle Aziende sanitarie secondo la normativa vigente. Aspetti medici: Gli aspetti medici del programma possono essere cosi' suddivisi: a) informazione e educazione sanitaria (Medici di medicina generale); b) test di screening (radiologo); c) approfondimenti diagnosticano (oncologo - radiologo); d) diagnosi istopatologica (patologo), e) somministrazione della terapia adeguata (chirurgo, oncologo, radioterapista) nei casi identificati dal programma di screening. Per il radiologo che effettua la lettura dello screening, il primo indicatore di qualita' e' costituito dal tasso di richiamo per successivi approfondimenti diagnostici. Questi possono determinare un'ingiustificata ansia nelle donne richiamate per alterazioni falsamente corrette ed incidere sensibilmente sui costi complessivi del programma di screening. Si raccomanda di rispettare gli indicatori (proposti dal GISMa) per le classi d'eta' 50\69 anni (vedi allegato no3 tab. n. 1) 2.11. Pianificazione e valutazione Elemento fondamentale di un programma di screening e' la funzione d'organizzazione e di valutazione. Possiamo distinguere tale funzione a livello di centri di screening, riferiti ad una data area geografica, e a livello di piu' Centri (ad esempio di una regione). E' necessario che ogni centro di screening: - disponga di un sistema informativo con liste anagrafiche corrette e aggiornate di popolazione, possibilmente suddivisibili per medico di Medicina generale; - organizzi e gestisca un sistema di appuntamenti e provveda a reinvitare le donne non aderenti; - verifichi che le donne positive al test siano sottoposte ad accertamenti di secondo livello e che le donne con diagnosi di carcinoma mammario abbiano una terapia adeguata e tempestiva; - raccolga le informazioni di follow-up clinico ed epidemiologico, sui casi accertati; informazioni fondamentali per i casi di tumore della mammella sono: - tipo di intervento chirurgico; - diagnosi istologica; - stadio patologico secondo la classificazione T.N.M. E' importante comprendere nella rilevazione anche i casi di intervallo, vale a dire i tumori insorti in donne negative alla mammografia e prima del successivo invito; - tenga i collegamenti con i centri di riferimento per la terapia e con le altre strutture coinvolte nello screening (ad es. Registri Tumori, ecc.); - produca stime puntuali sull'adesione allo screening, sulle altre misure di processo e sugli indicatori precoci di efficacia riportati nella precedente tabella. Definizione di un sistema informatico. Al fine di svolgere queste attivita' e' necessaria definire sistemi informativi e produrre programmi di gestione computerizzata che, tenendo conto delle caratteristiche specifiche dei sistemi informativi esistenti a livello regionale, possano produrre indicatori di processo confrontabili a livello intra e inter regionale. E' probabile che, per questioni di scala, possa essere piu' conveniente produrre le stime relative a livello regionale piuttosto che a livello locale, o utilizzare il lavoro gia' svolto da altre strutture per l'intero territorio (ad esempio registri tumori, sistema regionale per la mortalita', dimissione ospedaliere, registri di patologia, ecc.). Strumenti utili per la valutazione dei risultati di un programma di screening mammografico sono i registri tumori, in subordine, i registri di patologia, e sistemi computerizzati di dimissione ospedaliera. Il 15% della popolazione italiana e' coperta dai registri tumori. La creazione di Registri di patologia mammaria a livello di popolazione dovrebbe essere presa in considerazione in funzione della valutazione di programmi di screening. E' necessario predisporre una rilevazione della disponibilita' e aggiornamento di anagrafi automatizzate, e dell'integrazione tra anagrafi ed elenco assistiti dai medici convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale. Inoltre l'adozione del Codice fiscale o di altro sistema di identificazione personale, esteso a tutto il territorio nazionale, potrebbe grandemente favorire il linkage tra diversi sistemi informativi e di conseguenza le attivita' di organizzazione e di valutazione degli screening. Sistemi di valutazione dell'intervento Devono essere individuati i centri di riferimento per la terapia del carcinoma mammario, cui indirizzare i casi individuati allo screening tramite collegamenti funzionali. Tale organizzazione e' un presupposto per l'adozione di una terapia tempestiva attuata in base a validati ed espliciti protocolli dei quali si devono dotare i centri di riferimento, in modo da non vanificare l'anticipazione diagnostica, conseguita dalla diagnosi precoce, e ridurre, con trattamenti inadeguati, la potenziale efficacia dello screening sulla qualita' e durata della vita. In questo modo sono inoltre facilitati il follow-up epidemiologico dei casi e l'accessibilita' alla documentazione clinica. 2.12. Formazione del personale Un'adeguata formazione degli operatori e' un momento essenziale per l'attivazione dei programmi di screening. Deve essere ben chiaro infatti che lo screening mammografico e' un mezzo efficace nel ridurre la mortalita' per carcinoma mammario con trascurabili effetti negativi, comunque presenti (p.es. sovradiagnosi, cancri di intervallo ecc.) a condizione che le varie procedure operative, dalla programmazione alla diagnosi e terapia, siano effettuate secondo standard ottimali di qualita'. Lo screening mammografico richiede competenze altamente specifiche, non sempre disponibili all'interno del servizio sanitario, ove normalmente si svolge attivita' diagnostica ed assistenziale rivolta a pazienti sintomatiche e non a persone in buono stato di salute. Infatti, per quanto riguarda piu' specificatamente il test di screening (mammografia), questo puo' differire dalla mammografia "clinica" in quanto a criteri di esecuzione (proiezione obliqua) e, senza dubbio, ne differisce sensibilmente in quanto ai criteri interpretativi. Il test di screening deve essere altamente sensibile per le lesioni di piccolo diametro, per garantire l'efficacia dei programmi rispetto all'obiettivo primario della riduzione di mortalita', e molto specifico, al fine di contenere, entro limiti rigorosi, i costi e gli effetti negativi. Va inoltre rilevato come il personale non medico assuma un ruolo particolarmente importante nella realizzazione dei programmi di screening e nel contatto con le donne partecipanti al programma. Gran parte del lavoro e' svolto, infatti, da personale non medico e la maggior parte delle donne avra' un rapporto diretto con tali operatori. 2.13. Criteri per la selezione dei centri di screening La necessita' di uniformare i programmi di screening italiani agli standard raccomandati in ambito europeo impone la selezione delle strutture, in modo che diano sufficienti garanzie di qualita'. In fase di selezione si dovra' tenere conto anche della disponibilita' di strutture assistenziali qualitativamente adeguate, in particolare per la terapia di forme iniziali diagnosticate allo screening (trattamenti conservativi, radioterapia ecc.). Il gruppo tecnico di lavoro che coordina il programma di screening avra' cura di definire a priori quale sia il numero minimo di strutture necessario, in funzione del valore atteso di rispondenza della popolazione, i criteri per la loro individuazione nonche' i requisiti e la composizione del gruppo tecnico che dovra' svolgere le verifiche. L'invito a candidarsi ad operare come centro di screening potra' coinvolgere tutte le strutture sanitarie del territorio dove e' svolto il programma senza alcuna preclusione se non quella di una fondata verifica di inidoneita' a svolgere le specifiche funzioni dello screening. Contestualmente all'invito a candidarsi le strutture sanitarie saranno informate preventivamente delle modalita' e dei tempi prescelti per effettuare la verifica e riceveranno la griglia di valutazione adottata. 2.14. Riservatezza dei dati Ogni programma di screening deve rispettare la normativa vigente in materia di trattamento dei dati sensibili come stabilito dalla legge 675 del 31 dicembre 1996 (Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento di dati personale), dal decreto legislativo 135 del 11 maggio 1999 e dal decreto legislativo 282 del 30 luglio 1999: ..... Il presente decreto.....individua alcune rilevanti finalita' di interesse pubblico, per il cui perseguimento e' consentito detto trattamento, nonche' le operazioni eseguibili e i dati che possono essere trattati. (DL 135, art. 1, comma 1, lettera b) ....si considerano di rilevante interesse pubblico le seguenti attivita' rientranti nei compiti del Servizio Sanitario Nazionale e degli altri organismi sanitari pubblici..... a) la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione dei soggetti assistiti dal servizio sanitario nazionale......... (DL 135, art. 17, comma 1, lettera a) B) PROPOSTE OPERATIVE IN TEMA DI PREVENZIONE SECONDARIA DEL CERVICO-CARCINOMA UTERINO. 1. PREMESSA La mortalita' per tumore dell'utero e' diminuita di oltre il 50% negli ultimi 40 anni, passando da 14 casi ogni 100.000 donne nel 1955 a 6 casi ogni 100.000 donne nel 1990. I dati ISTAT non differenziano tra morti attribuibili a carcinoma della cervice uterina e morti attribuibili a carcinoma del corpo dell'utero. Tuttavia, analisi di popolazione effettuate tenendo conto delle coorti di nascita, consentono una discriminazione almeno approssimativa, in quanto il tumore della cervice uterina ha un'insorgenza piu' precoce rispetto al tumore dell'endometrio. La riduzione di mortalita' e' stata osservata soprattutto nelle coorti piu' giovani, suggerendo indirettamente che gran parte di essa sia da attribuire alla diminuita mortalita' per tumore della cervice uterina. Attualmente si stima che ogni anno in Italia siano diagnosticati circa 3.600 nuovi casi di cervico-carcinoma e che si registrino almeno 1.700 morti per questo tumore. Al momento, non esistono indicazioni per interventi di prevenzione primaria per i tumori della cervice uterina, mentre sono molto chiare le indicazioni a favore di interventi di prevenzione secondaria. Il razionale per l'introduzione dello screening di popolazione per il cervicocarcinoma si basa sulla possibilita' di individuare la malattia in fase asintomatica, quando le probabilita' che questa sia in fase preinvasiva o invasiva iniziale sono piu' elevate. L'unico test di screening per i tumori della cervice uterina e' il Pap test. L'impiego del Pap test consente l'identificazione non solo di lesioni tumorali molto precoci, ma anche di lesioni preneoplastiche. Lo screening avrebbe pertanto il compito di ridurre sia la mortalita' per carcinoma, favorendone la diagnosi in una fase in cui il trattamento puo' essere efficace, sia l'incidenza della neoplasia invasiva attraverso il trattamento delle forme preneoplastiche. Le evidenze dell'efficacia dello screening, mediante Pap test, derivano dall'osservazione di variazioni temporali della mortalita' per tumore della cervice uterina in aree geografiche in cui siano stati attuati interventi attivi su fasce di popolazione piu' o meno ampie e da studi non randomizzati che hanno rilevato un'importante riduzione di incidenza di tumori invasivi nelle donne sottoposte a Pap-test. L'entita' della riduzione della mortalita' per carcinoma della cervice uterina in una determinata area geografica e' in funzione della percentuale di popolazione interessata dallo screening, della fascia d'eta' inserita nel programma e della partecipazione da parte della popolazione invitata. L'analisi dei diversi intervalli di re-screening adottati e delle diverse fasce d'eta' inserite nei programmi di popolazione ha fornito indicazioni che sono state utilizzate per calcolare l'efficacia teorica di diverse politiche di screening. 2. LO SCREENING CERVICO-VAGINALE IN ITALIA. ATTUAZIONE DEL PROGRAMMA. In Italia l'attivita' organizzata di screening citologico per il cervico-carcinoma non e' uniformemente distribuita sul territorio nazionale. Ugualmente variegato appare il panorama all'interno di ogni singola realta' regionale. Da un'indagine condotta nel 1997, emerge come in quell'anno solo il 13,5% delle donne italiane, tra i 25 e i 64 anni, fosse inserita in un programma organizzato di screening citologico, con una distribuzione prevalente al centro ed al nord Italia. La situazione si sta rapidamente evolvendo grazie all'implementazione di alcuni programmi a livello regionale, quest'estensione dei programmi di screening dovrebbe portare al 44,5 la percentuale di donne italiane 25-64enni cui e' offerto gratuitamente, ogni 3 anni, un Pap-test per la diagnosi precoce del cervico-carcinoma. Al di fuori dei programmi organizzati di screening citologico, si osserva la diffusione del cosiddetto screening spontaneo. E' stato stimato che, mediamente, in Italia sono effettuati circa 3.5 - 4.0 milioni di Pap test ogni anno. Cio' potrebbe significare che ogni anno una, ogni tre-quattro donne, di eta' compresa tra 25 e 64 anni esegue il test e che quindi il numero di test effettuati e' quasi sufficiente a garantire la copertura nella fascia d'eta' passibile di screening, adottando un intervallo triennale di re-screening. In realta', la quota di donne che esegue il Pap-test periodicamente e' ben piu' limitata e spesso questo gruppo fa un uso eccessivo dei test (test eseguiti annualmente o anche con maggiore frequenza). Esiste quindi una quota consistente della popolazione femminile che non ha mai eseguito il test o che lo esegue irregolarmente. Questa fascia di popolazione, che proprio per il fatto di non fare il Pap-test e' piu' a rischio di avere una diagnosi di carcinoma della cervice uterina, deve rappresentare il primo target di un programma di screening attivo. Di conseguenza e' necessaria l'attivazione su tutto il territorio nazionale di programmi di screening del cervico-carcinoma di alta qualita', favorendo il completamento del processo attualmente in atto. A tal fine, e' necessario verificare l'esistenza di personale e strutture e promuovere le condizioni di fattibilita', efficienza e qualita', secondo quanto noto. A tal proposito si riscontra la mancata identificazione di una specifica figura professionale cui attribuire le funzioni di citologo. Anche al fine di garantire una miglior qualita' delle prestazioni, il Ministero della Sanita', entro sei mesi, regolamentera' l'attribuzione di quest'attivita' e precisera' i criteri per l'identificazione delle suddette funzioni, provvedendo all'identificazione della o delle relative figure professionali idonee a svolgere con competenza questa funzione. Nell'attuare il programma di screening occorre adottare i criteri illustrati nelle seguenti proposte operative. Esse sono formulate sulla base delle "European Guidelines for quality assurance in cervical cancer screening - Europe against Cancer Programme" . 2.1. Test Il Pap test e' l'unico test di screening per il carcinoma della cervice uterina ed e' volto ad identificare le lesioni preinvasive ed il carcinoma invasivo iniziale della cervice uterina e non altre affezioni dell'apparato genitale femminile. 2.2. Programma di screening Si raccomanda di attivare un programma che raggiunga una copertura della popolazione femminile italiana tra 25 e 64 anni, pari all'85%, eseguendo un Pap test gratuito ogni 3 anni. I test gratuiti, non utilizzati secondo queste indicazioni, sono sconsigliati. Questi non devono comunque superare il 10% del totale previsto dai programmi organizzati e devono essere adeguatamente motivati. 2.3. Situazione attuale degli screening in corso e loro integrazione in un programma organizzato nel SSN. Prima di realizzare un programma di screening organizzato, si raccomanda di procedere ad un'analisi delle strutture esistenti a livello locale. E' necessario conoscere a priori la disponibilita' di: a) ambulatori e/o consultori dei distretti, presso i quali effettuare il prelievo cervico vaginale; b) personale per l'esecuzione dei prelievo (preferibilmente ostetriche, e, in assenza di tale figura professionale l'infermiera addetta al Distretto, previa frequenza di un corso specifico di formazione teorico-pratica; c) laboratori di cito-isto-patologia per la lettura dei preparati citologici ed istologici (esami di approfondimento - trattamenti chirurgici); d) strutture di 2o livello presso di cui eseguire indagini colposcopiche; e) esistenza di canali di raccordo tra queste strutture; f) strutture assistenziali in grado di eseguire un trattamento adeguato alla patologia diagnosticata. E' bene inoltre tenere presente che una "buona accoglienza" della donna invitata ad effettuare il test di screening gioca sicuramente a favore di un'immagine efficiente del programma. 2.4.Bacino di utenza Normalmente il bacino di utenza di un programma di screening citologico dovrebbe comprendere non meno di 250.000 abitanti. Bacini di utenza che offrano economie di scala ed efficienza amministrativa comprendono una popolazione variabile tra i 400 mila e i 700 mila abitanti. E' necessario che il bacino di utenza del programma sia sufficientemente vasto da garantire la stabilita' della popolazione e da includere le risorse necessarie non soltanto per il prelievo citologico, ma anche per tutte le fasi successive del programma, quali la valutazione dei preparati, gli esami di approfondimento per le utenti risultate positive al test, il follow-up dei casi con alterazioni e valutazione dei risultati. Alternativamente occorre identificare specifici centri di riferimento collocati al di fuori dell'area, con i quali stabilire rapporti di collaborazione. 2.5. Struttura e gestione dei programmi di screening Le ASL e le strutture sanitarie identificate concorrono secondo le competenze specifiche alla programmazione e attuazione degli screening oncologici. In particolare l'ASL, a cui compete di garantire i livelli di assistenza definiti dalla programmazione sanitaria nazionale e regionale, ha il compito di: - promuovere, nell'ambito territoriale di competenza i programmi di screening, coerenti con il contesto epidemiologico e scientifico e le linee di indirizzo regionali, nazionali ed internazionali; - assicurare le risorse necessarie per la loro attuazione; - assicurare il coinvolgimento dei medici di medicina generale; - assicurare l'informazione e la sensibilizzazione della popolazione ed il coinvolgimento delle associazioni di volontariato; - assicurare la gestione e la valutazione dei programmi garantendo il sistema informativo ed il coordinamento operativo dei professionisti e delle strutture coinvolte; - programmare l'attivita' formativa, secondo quanto contenuto nel capitolo specifico. A livello regionale, e' necessario garantire il coordinamento per la pianificazione e la valutazione delle attivita' di screening, con i seguenti compiti: - pianificare sul territorio regionale l'attivazione di programmi di screening di alta qualita'; - effettuare la loro valutazione, utilizzando le opportune competenze epidemiologiche; - attuare programmi di formazione degli operatori, secondo i criteri stabiliti in sede nazionale; - attivare un programma di "controlli di qualita'" per le varie procedure organizzative, diagnostiche e terapeutiche cui dovranno attenersi i programmi di screening; - definire le modalita' di controllo affinche' i livelli di qualita' siano mantenuti nel corso dell'attivita'; (assicurazione di qualita); - consultare i rappresentanti dei cittadini. 2.6. Risorse La continuita' del finanziamento per la conduzione del programma, per spese di investimento e spese di gestione, deve poter essere garantita prima dell'avvio dello stesso. Si raccomanda inoltre di realizzare un sistema di monitoraggio per documentare i costi di ogni fase. Per migliorare l'organizzazione e pianificare la strategia d'intervento, e' necessario definire parametri di riferimento quali il costo per donna sottoposta a screening o per test effettuato. 2.7. Informazione della popolazione e partecipazione La partecipazione della popolazione bersaglio e' un requisito fondamentale per il successo di un programma di screening. Bassi tassi di adesione diminuiscono il beneficio in termini di riduzione della mortalita' in tutta la popolazione piu' che lunghi intervalli tra test; e' quindi opportuno focalizzare l'attenzione soprattutto sulle donne che non hanno mai effettuato un Pap-test in passato. La partecipazione allo screening e' condizionata dall'eta', dallo stato civile, da quello socio-economico, dalla frequenza di contatto con il sistema sanitario, ecc. Paura per l'esecuzione del test, ansieta' per il risultato, paura del cancro, mancanza di fiducia nella efficacia dello screening e della terapia, nel sistema sanitario sono ostacoli alla partecipazione che dovrebbero essere valutati anche in relazione a differenti situazioni locali, cosi' come barriere che diminuiscono l'accessibilita' alle unita' di screening quali la distanza, gli orari, ecc. L'adesione della popolazione a un programma di screening puo' essere aumentata in vari modi: inviando inviti personali, con appuntamento prefissato ed a firma del medico di famiglia o di altre persone di riconosciuto prestigio nella comunita'. L'uso dei mass-media puo' svolgere un ruolo importante sia cercando di rimuovere le barriere alla partecipazione, sia informando la popolazione bersaglio sul programma e sulla sua organizzazione. In piccole citta' e in zone agricole l'organizzazione della vita sociale (associazioni, circoli, parrocchie, ecc.) puo' consentire di identificare specifiche opportunita' per informare le donne e promuovere la partecipazione. La pubblicita' attraverso i mass-media ha effetto per un breve periodo e dovrebbe essere pianificata a intervalli regolari per rinforzare il messaggio. Giornali, stazioni radiotelevisive possono offrire spazi gratuiti per la pubblicita' e si possono trovare sponsor per finanziare l'informazione. Ogni eventuale modificazione dell'organizzazione del programma idealmente dovrebbe essere valutata attraverso studi randomizzati e controllati. 2.8. Ruolo del medico di medicina generale L'informazione e l'educazione sanitaria sono di fondamentale importanza nell'ambito di un programma di screening cervico-vaginale di popolazione. Il medico di medicina generale (m.m.g.) e' il punto di riferimento per il cittadino e quotidianamente riceve richieste di informazioni, chiarimenti e consigli anche sulle possibili iniziative di prevenzione; egli inoltre stabilisce con i propri pazienti un rapporto fiduciario e continuo nel tempo. Il programma "Europa contro il cancro" ha ripetutamente raccomandato il coinvolgimento dei m.m.g. nell'ambito dei programmi di screening di popolazione. L'esperienza dei Paesi nord europei insegna che molte donne decideranno se aderire al programma e se seguire l'iter diagnostico suggerito dopo aver sentito il parere del proprio medico curante. Studi condotti per valutare gli effetti di diverse modalita' di invito hanno dimostrato come anche nella realta' italiana, il ruolo del m.m.g., nel firmare la lettera di invito, sia determinante per ottenere tassi di partecipazione piu' elevati. In Italia la convenzione con la medicina generale prevede la partecipazione dei m.m.g. ai programmi di screening. L'attivazione di un programma di screening cervico-vaginale deve essere preceduta da un'adeguata formazione dei medici di medicina generale, organizzata secondo tecniche didattiche gia' sperimentate dalla SIMG per la formazione continua dei professionisti. Schematizzando, il ruolo dei m.m.g. puo' essere riassunto come segue: a) correzione delle liste in base a criteri di eleggibilita' (escludendo pazienti gia' affette da tumore o da gravi malattie); b) attiva informazione nei confronti della popolazione; c) informazione mirata sulle donne non responders, soprattutto se richiamate per un approfondimento; d) "counselling" e supporto psicologico in tutte le fasi del programma, in particolare per le donne positive al test; e) segnalazione dei cancri di intervallo 2.9.Protocolli per il counselling ed il supporto psicologico E' necessario predisporre e mettere a punto strumenti per il counselling ed il supporto psicologico delle donne che sono richiamate per la ripetizione del test, per accertamenti diagnostici di secondo livello o per essere indirizzate alla terapia. 2.10. Controlli di qualita' del prelievo citologico Si raccomanda che la percentuale di campioni inadeguati, a causa dei prelievo, non superi il 5%. A tale scopo e' necessario effettuare, almeno annualmente, per ogni prelevatore, il monitoraggio della percentuale di campioni inadeguati e predisporre un nuovo training, per chi non rientri nello standard. E' importante che il personale addetto al prelievo sia periodicamente aggiornato sull'andamento del programma, con particolare riferimento agli esiti qualitativi del proprio operato. 2.11. Garanzia del trattamento E' indispensabile instaurare un sistema che eviti qualsiasi errore od omissione (fail safe mechanism - sistema di sicurezza intrinseca) nel garantire il trattamento ad ogni donna con una diagnosi che comporti un intervento terapeutico. A tal fine e' necessario che: - Le donne ricevano informazioni sul risultato del test e sulle azioni che e' necessario intraprendere direttamente, attraverso una comunicazione scritta. Bisogna mirare a contenere l'intervallo tra prelievo e comunicazione del risultato entro 3 settimane. - Il programma di screening adotti espliciti protocolli diagnostici e di followup dei campioni citologici anormali. Un programma di screening deve puntare al follow-up di tutti i campioni citologici anormali, da avviare all'esame colposcopico, e insoddisfacenti entro tre mesi. Si raccomanda che l'esame colposcopico avvenga presso presidi accreditati, ove operi personale addestrato e sottoposto ad un periodico controllo di qualita'. Si raccomanda di adottare l'attuale classificazione colposcopica internazionale. - Il programma di screening deve includere dettagliati protocolli per il trattamento delle lesioni preinvasive e del tumore invasivo della cervice. Le linee guida devono garantire che il trattamento sia offerto a tutte le donne che ne hanno bisogno. - Il trattamento ablativo e distruttivo deve essere preceduto da una verifica istologica. Una politica di ablazione con ansa a radiofrequenze, non preceduta da una biopsia mirata, e' accettabile solo se si verifica un'elevata conferma istologica a posteriori della presenza di lesioni intraepiteliali (>90%). Le direttive devono garantire, inoltre, che il trattamento offerto sia il piu' conservativo possibile, in misura accettabile dal punto di vista professionale, a parita' di risultati terapeutici. - Si deve assicurare il follow-up dopo il trattamento delle lesioni preinvasive, mediante la ripetizione periodica dei Pap test e della colposcopia, tenendo conto che la maggioranza dei preparati citologici anormali si osserva entro due anni dal trattamento. Si deve monitorare l'adeguamento del trattamento e dei follow-up a questi protocolli e fornire spiegazioni per l'eventuale mancato adeguamento. 2.12.Organizzazione e valutazione del programma Per una corretta organizzazione e al fine di valutare i risultati del programma ed il rispetto degli standard e dei protocolli adottati, e' fondamentale disporre: - di liste anagrafiche complete e aggiornate della popolazione bersaglio; - di un sistema di registrazione dei risultati dei Pap test, delle colposcopie, dei referti istologici relativi alle biopsie e alle lesioni preneoplastiche e neoplastiche avviate al trattamento. I casi di carcinoma invasivo, che si verificano nell'intera popolazione bersaglio devono essere rilevati, cosi' come i decessi, al fine di valutare i risultati del programma. La presenza di un Registro Tumori di popolazione consente di disporre di questa informazione con due o tre anni di latenza. Per svolgere adeguatamente queste attivita' e' necessario definire sistemi informativi e produrre programmi di gestione computerizzata che, tenendo conto delle caratteristiche specifiche dei sistemi informativi esistenti a livello regionale, possano produrre indicatori di processo confrontabili a livello intra e inter regionale (vedere tabella allegata). L'elaborazione di tali indicatori, al momento oggetto di ulteriori approfondimenti, fa riferimento all'esperienza dei vari programmi nazionali ed alle Linee guida europee per i controlli di qualita' dei programmi di screening citologico (nel capitolo " Monitoring the programme, tabulation of parameters"). Si raccomanda a tutti i programmi di fare riferimento a questa documentazione per pianificare e verificare la qualita' del proprio lavoro. 2.13. HPV L'uso di test per il virus del papilloma umano (HPV) mediante la ricerca del suo DNA in cellule cervicali esfoliate e' stato proposto sulla base dell'evidenza del ruolo di tipi "ad alto rischio" (16, 18, 31, 33, 45, 51, 52, 56) di HPV come agente eziologico del cervico-carcinoma uterino. Il notevole aumento della validita' delle tecniche disponibili ha consentito di dimostrare la presenza di HPV ad "alto rischio" in una percentuale elevata sia di tumori invasivi sia di lesioni intraepiteliali di alto grado (CIN 2-3) mentre la prevalenza pare bassa nella popolazione sana e moderata nelle lesioni di basso grado (CIN 1). Gli usi piu' promettenti paiono essere: - Come metodo di selezione secondaria delle donne da avviare alla colposcopia tra quelle con citologia di basso grado (LSIL - Low Squamous Intraepithelial Lesion) o borderline (ASCUS - Atypical Squamous Cells of Undetermined Significance). La gestione di queste donne e' resa attualmente difficile dal fatto che una proporzione non trascurabile di casi la cui citologia e' classificata di basso grado o borderline presenta di fatto alterazioni istologicamente di alto grado. Diversi studi indicano in modo coerente la capacita' del test per l'HPV di individuare una percentuale elevata di tali donne. Un'eventuale raccomandazione all'introduzione di tale approccio nella pratica corrente dovra' essere il risultato di una valutazione dei costi e benefici, basata su una revisione sistematica della letteratura e sull'analisi delle specificita' della situazione italiana. - la tipizzazione dell'HPV (mediante Hybrid capture II o PCR) in soggetti citologicamente negativi per la ridefinizione degli intervalli di screening. Questo approccio e' tuttora oggetto di ricerca e pertanto e' sconsigliato al di fuori di studi che comportino un rigoroso contesto di valutazione. E' indispensabile proseguire ricerche appropriate. 2.14. "Lettura automatica e preparati in strato sottile" Sono stati introdotti sul mercato sistemi di preparazione in strato sottile della citologia cervico-vaginale. Diversi studi dimostrano una sensibilita' non inferiore, e in generale superiore, a quella degli strisci preparati in modo tradizionale. Sono stati inoltre introdotti sistemi automatizzati per la lettura automatica di strisci cervico-vaginali preparati in modo tradizionale oppure in strato sottile. Alcuni sistemi effettuano una selezione automatica di una quota di strisci che possono essere considerati come negativi, senza ulteriori revisione da parte di citologi; altri selezionano i campi di ogni striscio piu' "sospetti"; alcuni combinano entrambi gli approcci. Tali sistemi hanno dimostrato una sensibilita' paragonabile a quella della lettura tradizionale ed alcuni sono approvati dall'F.D.A. per lo screening primario. Si ritiene necessario che per entrambe tali tecnologie (strato sottile e lettura automatica) sia svolta un'attivita' di technology assessment che ne determini il rapporto costo-beneficio al fine di pervenire a raccomandazioni sulla loro introduzione o meno in programmi organizzati di screening del cervico-carcinoma. 2.15. Refertazione, classificazione e archiviazione dei preparati citologici ed istologici Si raccomanda di classificare i preparati citologici secondo sistemi accreditati confrontabili e quelli istologici in base alla classificazione OMS, utilizzando il codice SNOMED. E' opportuno, inoltre, adottare ufficialmente tabelle di conversione tra diversi sistemi di classificazione. Si raccomanda infine di adeguare la responsabilita' medica del referto alle direttive CEE. La refertazione, la registrazione, l'archiviazione dei preparati devono essere automatizzate, utilizzando software e classificazioni compatibili e interfacciabili con i dati delle anagrafi dei comuni e con le anagrafi sanitarie. Per quanto riguarda l'archiviazione, e' consigliabile conservare i referti negativi per 5 anni e i non-negativi per 20 anni. E' consigliabile conservare i preparati istologici per 20 anni. 2.16. Valutazione e miglioramento di qualita' Allo scopo di garantire una prestazione di laboratorio di alto livello, si raccomanda di istituire procedure di controllo interno ed esterno quali: re-screening selezionato, re-screening percentuale (il sistema deve tenere conto dell'esperienza e dell'affidabilita' delle persone coinvolte), screening doppio, riesame della citologia precedente, semina, correlazione citoistologica e scambio di vetrini. Per una buona "valutazione e miglioramento di qualita'" interna e' essenziale un rapporto numero di tecnici/carico di lavoro soddisfacente. Si raccomanda che un citotecnico esegua lo screening primario di almeno 10.000 campioni cervicali l'anno. E' necessaria la presenza di un supervisore per ogni 3 esaminatori primari. Al fine di garantire un'adeguata qualita', e in particolare per garantire che ogni screener veda un numero adeguato di preparati positivi, un laboratorio non deve esaminare meno di 25.000 Pap-test l'anno. Tale dimensione puo' essere raggiunta anche mediante il consorziamento di diversi laboratori, a condizione che si garantisca la circolazione di tutti gli strisci positivi tra tutti gli screener, frequenti sessioni di revisione comune di preparati e la gestione in comune delle attivita' di valutazione e miglioramento di qualita'. In ogni caso laboratori di grandi dimensioni permettono una riduzione dei costi economici. Come controllo di qualita' esterno, si raccomanda di estendere la sperimentazione dei test di profitto avviata in Italia nell'ambito dello "European Community training programme for Cervical Cancer Screening". 2.17. Criteri per la selezione dei centri di screening Il gruppo tecnico di lavoro che coordina il programma di screening avra' cura di definire a priori quale sia il numero minimo di strutture necessario, in funzione del valore atteso di rispondenza della popolazione, i criteri per la loro individuazione nonche' i requisiti e la composizione del gruppo tecnico che dovra' svolgere le verifiche. L'invito a candidarsi ad operare come centro di screening potra' coinvolgere tutte le strutture sanitarie del territorio dove e' svolto il programma senza alcuna preclusione se non quella di una fondata verifica di inidoneita' a svolgere le specifiche funzioni dello screening . Contestualmente all'invito a candidarsi le strutture sanitarie saranno informate preventivamente delle modalita' e dei tempi prescelti per effettuare la verifica e riceveranno la griglia di valutazione adottata. 2.18.Formazione e aggiornamento del personale Al fine di raggiungere un elevato standard qualitativo ed un'elevata efficienza dello screening, il personale medico, ostetrico, infermieristico, tecnico e amministrativo, coinvolto nello screening, deve possedere una formazione di alto livello, deve partecipare a programmi di controllo di qualita' e avere un aggiornamento permanente. Devono essere definiti contenuti e modalita' per l'attuazione di corsi di formazione e devono essere identificati e accreditati centri di formazione, in base a specifici requisiti e criteri, in accordo con le Linee Guida della CEE. 2.19. Riservatezza dei dati Ogni programma di screening deve rispettare la normativa vigente in materia di trattamento dei dati sensibili come stabilito dalla legge 675 del 31 dicembre 1996 (Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento di dati personale), dal decreto legislativo 135 del 11 maggio 1999 e dal decreto legislativo 282 del 30 luglio 1999. Il presente decreto......individua......alcune rilevanti finalita' di interesse pubblico, per il cui perseguimento e' consentito detto trattamento, nonche' le operazioni eseguibili e i dati che possono essere trattati. (DL 135, art. 1, comma 1, lettera b) .......si considerano di rilevante interesse pubblico le seguenti attivita' rientranti nei compiti del servizio sanitario nazionale e degli altri organismi sanitari pubblici..... a) la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione dei soggetti assistiti dal servizio sanitario nazionale.... (DL 135, art. 17, comma 1, lettera a) C) PREVENZIONE SECONDARIA DEI TUMORI DEI COLON RETTO Premessa Il carcinoma colon-rettale (CCR) e' la seconda neoplasia per frequenza sia nei maschi sia nelle femmine. Nei Paesi della Comunita' Europea si contano infatti circa 130.000 nuovi casi di CCR e 90.000 morti ogni anno sono attribuibili a tale patologia. In Italia (1994), i nuovi casi diagnosticati ed i pazienti deceduti per anno per questa neoplasia erano rispettivamente circa 36.000 e 19.000. Le proiezioni per l'anno 2000 hanno ipotizzato un aumento sia dei casi incidenti, stimati intorno a 49.000 nuovi casi, sia della prevalenza, con un numero di pazienti con diagnosi di C.C.R. che salirebbe a 250.000. Benche' i risultati della terapia chirurgica siano buoni quando la lesione e' ancora confinata nella parete intestinale (stadio A di Dukes), la maggioranza dei pazienti sintomatici (80-85% dei totale) presenta tumori in stadio piu' avanzato, con conseguente diminuzione della sopravvivenza. La sopravvivenza a 5 anni di pazienti con tumore del colon-retto, globalmente considerati, non supera il 40%. L'89% dei pazienti con malattia localizzata alla parete intestinale e' vivo a 5 anni, ma la sopravvivenza scende al 58% in presenza di metastasi regionali e al 6% in caso di malattia disseminata. Si puo' stimare che un paziente con CCR perda in media da 6 a 7 anni di vita rispetto a quanto atteso. Inoltre, la terapia del CCR puo' determinare l'insorgenza di patologie invalidanti e una diminuzione della qualita' di vita per ablazioni d'organo, colostomie, chemioterapia e radioterapia, cui possono associarsi sintomi marcati. L'insieme di questi dati sottolinea la necessita' di realizzare modelli di prevenzione primaria e secondaria e di diagnostica precoce, al fine di ridurre l'incidenza e la mortalita' per questo tipo di neoplasia. Per quanto riguarda le prospettive di interventi di prevenzione primaria, l'evidenza disponibile, supportata dall'analisi descrittiva dell'andamento dell'incidenza del CCR nel corso degli ultimi decenni nelle diverse regioni italiane, suggerisce un ruolo eziologico della dieta nell'insorgenza di questo tumore. La tendenza alla riduzione del rischio nelle coorti di eta' piu' giovani (<45 anni), evidenziata dall'analisi dei dati di incidenza italiani, e' attribuita ai mutamenti delle abitudini alimentari verificatisi nel corso degli ultimi decenni. La pianificazione di campagne miranti a modificare le abitudini alimentari della popolazione appare pero' complessa, per le insufficienti informazioni sul ruolo dei singoli fattori eziologici coinvolti. Risulta inoltre difficile trasferire nella pratica le informazioni gia' acquisite, per l'insufficiente evidenza relativa alle metodologie piu' efficaci e accettabili per la conduzione di questo tipo di interventi. E' invece piu' concreta la possibilita' di realizzare programmi di screening e diagnostica precoce capaci di incidere significativamente sulla sopravvivenza e sulla mortalita' per CCR. Caratterizzazione del rischio A) Soggetti a rischio generico. L'incidenza di CCR e' molto bassa per soggetti di eta' inferiore ai 50 anni. Oltre questa eta' il rischio aumenta progressivamente in entrambi i sessi. I soggetti di eta' uguale o superiore a 50 anni, privi di sintomi o di specifici fattori di rischio, sono definiti soggetti a rischio generico per lo sviluppo di CCR. In tali soggetti, all'eta' di 50 anni, le probabilita' di sviluppare un CCR sintomatico nei successivi 12 mesi e' di 1 su 1800; all'eta' di 60 anni tale probabilita' e' di 1 su 550, per gli uomini, e di 1 su 800 per le donne. In generale, da 2 a 5 italiani su 100, a seconda del sesso e delle aree geografiche, si ammalano di CCR entro i 70 anni. B) Categorie a rischio elevato. Sono invece da considerare soggetti ad alto rischio per CCR coloro che presentano specifiche condizioni ereditarie: poliposi adenomatosa familiare (FAP), sindromi ereditarie non poliposiche (HNPCC) e la cancer family syndrome. Questo gruppo rappresenta una quota compresa tra il 5 e il 10% di tutti i casi di CCR. Altri gruppi ad alto rischio sono costituiti da soggetti con un familiare di 1o grado con CCR o adenoma insorti in eta' inferiore a 45 anni, o con storia personale di polipi adenomatosi, di CCR, o di pancolite ulcerosa con durata di malattia superiore ai 10 anni. La conoscenza e la diffusione dell'informazione su tali aspetti rappresenta un elemento di primaria importanza per definire la strategia di screening e diagnostica precoce nei soggetti a rischio generico e di sorveglianza nei soggetti a rischio elevato. Priorita' operative Alla luce delle sopracitate realta' epidermologiche, in considerazione dei piu' recenti dati disponibili attraverso la letteratura scientifica e della realta' socioeconomica e sanitaria del nostro Paese, sono state identificate le seguenti priorita' operative: A) delineare raccomandazioni per lo screening per il CCR in soggetti ad alto rischio; B) definire programmi di screening per il CCR nella popolazione generale, che dovranno essere redatti tenendo conto: - delle piu' recenti acquisizioni scientifiche in termini di riduzione di mortalita' in popolazioni sottoposte a screening mediante il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci e successiva indagine colonscopica nei soggetti positivi; - delle linee guida stabilite in altri Paesi della Comunita' Europea ed in Paesi extraeuropei o da Organismi Nazionali o Internazionali (Comunita' Europea, O.M.S.); - della necessita' di censire le Aziende Sanitarie nelle quali sono gia' state avviate iniziative preventive ed identificare quelle che intendono avviare nuove proposte; - della necessita' di elaborare un programma di intervento controllato mediante screening, da realizzare in aree selezionate dei Paese, in accordo con un modello operativo rigorosamente definito; - della necessita' di verificare la compliance, l'efficacia e l'efficienza della sigmoidoscopia "per se" nel ridurre l'incidenza e la mortalita' dei CCR; C) della necessita' di definire l'impatto derivante dall'introduzione di programmi di screening organizzati sulla popolazione italiana e sulle strutture sanitarie in termini di: - riduzione della mortalita' e/o della incidenza nella popolazione italiana in funzione di vari protocolli e test di screening adottabili; - costi e carichi di lavoro per i servizi (laboratorio, endoscopia, anatomia patologica, chirurgia, oncologia ed epidemiologia) derivanti dai test di screening, dai test di accertamento diagnostico, dalla terapia, dal follow-up clinico e dalla riabilitazione; - rapporto costi-benefici dei programmi organizzati di diagnosi precoce utilizzanti: - solo la ricerca del sangue occulto nelle feci; - solo la rettosigmoidoscopia; - l'una e l'altra in popolazioni o soggetti diversi. D) della necessita' di coinvolgere a pieno titolo i medici di medicina generale oltre alle strutture ospedaliere nella realizzazione dei programmi di cui ai punti A e B. Screening nella popolazione generale A) Test di screening Metodi efficaci per lo screening del cancro colo-rettale includono la ricerca del sangue occulto nelle feci e la rettosigmoidoscopia. Non vi e' un'evidenza sufficiente per determinare quale di questi due metodi sia piu' efficace, o se la combinazione della ricerca del sangue occulto con la sigmoidoscopia produca maggiori benefici, che l'uno dei due test da solo. Vi e' una buona evidenza scientifica per suggerire la ricerca del sangue occulto nelle feci con frequenza biennale. Studi controllati e randomizzati hanno evidenziato una riduzione significativa di mortalita' per CCR nei soggetti sottoposti a screening biennale con test al guaiaco. Tale riduzione e' piu' elevata (21%) utilizzando il test reidratato (che pero' induce un maggior numero di colonscopie), mentre si colloca intorno al 15-18% nei gruppi sottoposti a screening con test non reidratato. Una riduzione del 33% della mortalita' per CCR e' stata osservata in uno di questi studi nel gruppo sottoposto a screening annuale con test al guaiaco reidratato. L'evidenza, derivante da studi caso-controllo, condotti nell'ambito di programmi che utilizzano i piu' recenti test immunologici, e da studi che hanno confrontato direttamente la performance di questi test con quella del test al guaiaco, e' suggestiva per una maggiore accuratezza dei test immunologici. Questi ultimi risulterebbero piu' sensibili e specifici rispetto al test al guaiaco e garantirebbero un effetto protettivo piu' prolungato. Questi test non richiedono inoltre alcuna restrizione dietetica. L'evidenza disponibile derivata da studi osservazionali, e' suggestiva per un'efficacia della sigmoidoscopia come metodica di screening. Non e' al momento disponibile una stima precisa della riduzione di mortalita' e d'incidenza ottenibile con un intervento di screening basato sulla sigmoidoscopia. Inoltre non esista una evidenza scientifica adeguata per suggerire con quale frequenza. dovrebbe essere praticato lo screening sigmoidoscopico. E' attualmente in corso il follow-up dei soggetti reclutati nel trial multicentrico controllato e randomizzato di valutazione di efficacia della sigmoidoscopia "una tantum" (studio italo-inglese SCORE). Sulla base dei risultati di questo studio sara' possibile derivare una stima quantitativa piu' precisa dell'efficacia dello screening sigmoidoscopico. B) Programma di screening Pur essendoci evidenza di efficacia dello screening nel ridurre la mortalita' per carcinoma colorettale, allo stato attuale non esistono i presupposti per proporre un unico modello di intervento da estendere all'intero territorio nazionale. Le conoscenze sul potenziale impatto derivante da diversi protocolli e test di screening adottabili, in termini di costi e benefici, sono, infatti, insufficienti. Queste conoscenze sono indispensabili per definire con accuratezza un programma di screening del CCR per la popolazione italiana, stimarne le implicazioni organizzative e finanziarie e creare le premesse per la sua realizzazione. La valutazione di tali aspetti rappresenta quindi un obiettivo da perseguire in modo coordinato a livello nazionale. C) Valutazione dell'impatto di diversi protocolli e test di screening In base alle precedenti considerazioni e alle evidenze disponibili, si raccomanda di promuovere attivita' integrate di valutazione rispetto ai seguenti settori: - stima dell'effetto atteso sulla mortalita' e sull' incidenza di diversi protocolli e test di screening, clinicamente validati in funzione delle diverse caratteristiche di sensibilita' e specificita' dei test, della adesione e della copertura della popolazione. Tali stime richiedono sia un impegno sul piano valutativo, che utilizzi le evidenze disponibili, sia la conduzione di studi di intervento finalizzati all'acquisizione di informazioni non disponibili in Italia. - stima del carico di lavoro e dei costi, per le strutture sanitarie, derivanti dai test di screening, dai test di accertamento diagnostico, dalla terapia, dal follow-up clinico e dalla riabilitazione. Analogamente, tali stime necessitano di informazioni oggi solo parzialmente disponibili, da acquisire attraverso attivita' pilota. - stima del rapporto costo-beneficio, espresso nei termini degli usuali indicatori utilizzati in sanita' pubblica quali: costo per caso evitato, morte prevenuta, anno di vita salvato, anno di vita salvato corretto per qualita' della vita. Tale valutazione dovra' basarsi sulle risultanze delle prime due stime. Sorveglianza nei soggetti a rischio elevato A) In questo contesto il problema essenziale e' quello di identificare soggetti appartenenti a famiglie affette da FAP o da HNPCC, attraverso l'estensione e l'ottimizzazione di registri nazionali, poiche' il rischio di CCR per i figli di soggetti affetti da tali patologie e' molto elevato (50%). Accanto alla realizzazione dei test genetici, che al momento sono disponibili solo per la FAP e non in modo routinario, fondamentale appare la sorveglianza endoscopica. Nelle FAP si raccomanda una sigmoidoscopia flessibile ogni anno, dall'eta' di 10-15 anni sino a 30-35 anni, con successivo follow-up con colonscopia ogni 3 anni. Nell'HNPCC si raccomanda una colonscopia ogni 2 anni dall'eta' di 25 anni o iniziando 5 anni prima dell'eta' di insorgenza del cancro nel membro della famiglia colpito piu' precocemente dall'affezione. B) Per soggetti con un parente di 1o grado (padre, madre, sorella, fratello, figlia, figlio) affetto da CCR diagnosticato in eta' inferiore a 45 anni, o con due parenti di 1o grado con CCR ad ogni eta' (rischio aumentato di 6 volte) si raccomanda di valutare, anche sulla base delle recenti acquisizioni sperimentali di tipo genetico, l'opportunita' di una sorveglianza mirata le cui caratterizzazioni saranno oggetto di definizione da parte del gruppo operativo. C) Nei soggetti con storia personale di CCR, di adenoma o di malattia infiammatoria del colon, si raccomanda un follow-up con colonscopia in accordo a protocolli di sorveglianza gia' codificati. Per soggetti con adenomi del colon, di particolare interesse appaiono i modelli di intervento mediante chemioprevenzione ancora in fase di valutazione in studi sperimentali. In sede di Commissione oncologica nazionale, o in suo apposito Gruppo di lavoro, saranno valutate nuove metodiche di screening con riferimento sia ad altre patologie neoplastiche sia a quelle gia' oggetto di screening. Tale valutazione sara' finalizzata a indicare la sperimentazione necessaria, anche sotto il profilo di una valutazione di costi-benefici, per l'eventuale diffusione di altri screening a livello di popolazione. A questo proposito, si raccomanda che eventuali screening genetici per l'individuazione di soggetti ad aumentato rischio di sviluppare le neoplasie siano attentamente valutati ed applicati solo dopo che ne sara' stata dimostrata l'efficacia. Obiettivo specifico intermedio n. 4 PREVENZIONE PRIMARIA DEI TUMORI Premessa La ricerca scientifica degli ultimi anni ha messo in evidenza diversi fattori di rischio, che hanno importanza nella comparsa dei tumori. L'insorgenza del cancro, patologia ad eziologia multifattoriale, e' ascrivibile a molteplici fattori esogeni ed endogeni interagenti fra di loro. Si puo' affermare che una considerevole frazione dei tumori e' attribuibile ad abitudini personali, quali il fumo di sigaretta, l'alimentazione, l'esposizione alle radiazioni ultraviolette solari o artificiali, ad agenti virali o ad esposizioni ambientali (cancerogeni in ambiente di lavoro, radon negli ambienti domestici, radiazioni inquinamento atmosferico). Nel complesso una quota significativa di neoplasie sarebbe quindi evitabile modificando gli stili di vita e riducendo l'esposizione ambientale. Si stima, infatti, che solo 1/4 delle neoplasie incidenti sarebbe inevitabile nell'ipotetica assenza di influenze ambientali. La prevenzione primaria si fonda sul principio che, per diminuire il rischio di una malattia, occorre evitare o ridurre al minimo livello possibile l'esposizione agli agenti, che possono causare la malattia stessa o che possono contribuire ad aumentare il rischio di contraria. I risultati della prevenzione primaria nei riguardi delle malattie cronico degenerative, fra cui le malattie tumorali, non possono che rimanere peraltro per lungo tempo dei non eventi, quindi, per loro natura, non quantificabili. Questa condizione porta spesso a minimizzare l'importanza della prevenzione primaria, soprattutto laddove la valutazione quantitativa dei rischi e dei benefici nei confronti dell'esposizione a specifiche sostanze risulta difficoltosa. Pur non essendovi ragione valida per sostenere che l'attivita' cancerogena di certe sostanze chimiche rimanga circoscritta all'interno delle fabbriche o quella del fumo limitata all'aspirazione volontaria del fumo di tabacco, le difficolta' di dimostrare una significativita' statistica dei dati possono talora essere addotte come prova sufficiente di un'assenza di nocivita'. Cio' ha avuto come conseguenza che, sebbene l'evidenza epidemiologica abbia suggerito che anche livelli di inquinamento medi o relativamente bassi possono avere effetti nocivi sulla salute, si sia verificato che le concentrazioni ambientali di inquinanti direttamente correlati alla produzione e consumo di energia, alle attivita' di alcune industrie ed all'uso massiccio di alcuni prodotti industriali, primo fra tutti l'automobile, continuino ad aumentare. Il progredire delle conoscenze scientifiche sui meccanismi sottesi al processo multifattoriale e a piu' stadi della cancerogenesi e' di massima utilita', sia per il miglioramento dei mezzi diagnostici e terapeutici sia per l'affinamento delle iniziative di prevenzione primaria. E' quindi auspicabile che misure di prevenzione primaria siano prese sulla base di tutti gli elementi conoscitivi disponibili. Occorre essere consapevoli che non si puo' aspettare di ottenere una completezza di informazioni e di dati, che la tecnologia attualmente a disposizione non e' ancora in grado di fornire, per procrastinare l'adozione di misure di prevenzione. Infatti, occorre sottolineare che se la disponibilita' di chiare prove di cancerogenicita' di una esposizione impone un intervento preventivo, prove deboli o frammentarie non escludono affatto un'azione preventiva o cautelativa, se vi e' fondato sospetto di effetti irreversibili a lungo termine. LE PRIORITA' IN TEMA DI PREVENZIONE PRIMARIA Il Piano sanitario nazionale 1998\2000 considera tra gli obiettivi prioritari la promozione di comportamenti e stili di vita per la salute ed il miglioramento delle condizioni ambientali ed indica numerose azioni tese alla prevenzione primaria delle malattie, comprese le patologie oncologiche. Con specifico riferimento agli obiettivi, ed alle strategie indicate nel Piano sanitario nazionale, saranno di seguito trattati gli aspetti prioritari per l'attuazione di programmi di prevenzione primaria dei tumori, ai diversi livelli e nelle articolazioni funzionali del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.). Occorre peraltro sottolineare che l'attuazione di tali interventi presuppone la predisposizione e l'attuazione dei Piani per la Salute attraverso un'adeguata azione concertata dei vari settori delle Amministrazioni pubbliche, in particolare Regioni e Comuni, nonche' il coordinamento operativo di tutte le strutture che compongono il S.S.N. ai vari livelli (Ospedale, Distretto, Dipartimento di Prevenzione). Si sottolinea in particolare l'importanza di concertazioni istituzionali sulla politica del tabacco e sulle misure programmatiche per la protezione dei lavoratori e della popolazione generale. a rischio di amianto, ovvero nello sviluppo di politiche di trasporto che riducano la contaminazione ambientale delle aree urbane. Si sottolinea inoltre l'opportunita' che le attuali procedure e le attivita' che le strutture del S.S.N. svolgono nel campo della prevenzione, non solo oncologica, siano sottoposte ad una revisione periodica dell'efficienza ed efficacia, al fine di individuare un corpo strategico di iniziative effettivamente utili. Nell'individuare le priorita' degli ambiti d'intervento, e nel formulare le conseguenti raccomandazioni specifiche, sono stati seguiti i seguenti criteri: 1. Privilegiare gli interventi di prevenzione specificatamente previsti dal P.S.N. 1998-2000. 2. Privilegiare gli interventi verso quei fattori di rischio, per i quali vi e' una consolidata evidenza epidemiologica e/o sperimentale di cancerogenicita'. Cio' non esclude la predisposizione di azioni di prevenzione in via precauzionale, anche quando l'evidenza scientifica non e' definitiva e le prove sono ancora parziali. 3. Privilegiare quegli interventi di prevenzione per i quali esistono prove scientifiche d'efficacia nel ridurre l'esposizione della popolazione e/o nel ridurre la frequenza della malattia tumorale. In mancanza di revisioni sistematiche sull'efficacia, o in carenza di sperimentazioni controllate, e' indicata l'opportunita' di produrre valutazioni sistematiche di tipo quantitativo, ovvero si suggerisce di condurre sperimentazioni controllate nel contesto italiano, anche se la disponibilita' di queste ultime non puo' essere considerata in tutti i casi preliminare rispetto all'organizzazione di azioni di prevenzione. Ne discende che lo spettro degli interventi deve essere continuamente espanso, non ridotto. 4. Affrontare in modo prioritario il nodo delle diseguaglianze dello stato di salute e ridurre i differenziali sociali nell'esposizione agli agenti cancerogeni. 1) ABITUDINE AL FUMO Il Piano sanitario Nazionale, in linea con gli intenti degli organismi sanitari internazionali, ha introdotto la lotta al tabagismo tra gli obiettivi diretti a promuovere comportamenti e stili di vita per la salute. Oltre ad auspicare la drastica diminuzione del numero dei fumatori attraverso il perseguimento di alcuni obiettivi, il Piano pone inoltre l'accento sulla necessita' del rispetto della normativa esistente sul divieto di fumo. Dal momento che il fumo di sigaretta e' un importante fattore di sperequazione sociale nei confronti della salute, ogni intervento di cessazione del fumo, specialmente nei confronti dei gruppi sociali meno avvantaggiati, risponde all'obiettivo della riduzione delle diseguaglianze previsto dal P.S.N. La rilevanza del fumo in Italia La prevalenza dei fumatori attivi in Italia e' ancora molto elevata (33.1% - 17.3 % rispettivamente degli uomini e delle donne in eta' superiore ai 14 anni, dati riferiti all'anno 1997). La percentuale dei fumatori tra i 14 ed i 24 anni e' addirittura aumentata negli ultimi anni (17.4 % nel 1993 e 20.5% nel 1997) (ISTAT 1998). Il fumo e' altresi' diffuso negli adolescenti di entrambi i sessi. Infatti, il 9% di loro sono fumatori abituali. L'abitudine al fumo dei ragazzi dipende fortemente dall'esempio fornito dai genitori. Inoltre, piu' del 50% dei bambini e' correntemente esposto al fumo passivo nelle mura domestiche, soprattutto nella famiglie di condizione sociale piu' bassa. Sono attribuibili al fumo di tabacco in Italia circa 90.000 morti l'anno, di cui oltre il 25% e' compreso tra i 35 ed i 65 anni. Il fumo attivo rimane la principale causa di morbosita' e mortalita' nel nostro Paese, come in tutto il mondo occidentale. Al fumo sono attribuibili circa un terzo delle morti per cancro. Il fumo e' dannoso ad ogni eta', ma il rischio ad esso correlato di contrarre una patologia oncologica, e' strettamente dipendente dalla data di inizio di tale abitudine. Infatti, una persona che inizia a fumare a 15 anni ha una probabilita' tre volte superiore di ammalarsi di tumore rispetto ad un individuo che inizi a fumare all'eta' di 20 anni. L'esposizione a fumo passivo e' causa di aumento del rischio per tumore polmonare, infarto del miocardio e malattie respiratorie nei bambini. Il fumo delle madri durante la gravidanza causa una significativa riduzione del peso alla nascita ed e' responsabile di una quota considerevole delle morti improvvise del lattante, ha inoltre gravi conseguenze per lo sviluppo del lattante. A fronte ditali dati epidemiologici, la consapevolezza degli effetti negativi del fumo in Italia e' ancora sottostimata sia nella popolazione generale che tra il personale sanitario. Infatti, la prevalenza di fumatori tra i medici e' paradossalmente piu' elevata di quella della popolazione generale. L'efficacia degli interventi In base alle evidenze disponibili, esistono valide prove di efficacia su una serie di misure di controllo del tabagismo quali: - la politica dei prezzi; - l'abolizione della pubblicità diretta ed indiretta; - i provvedimenti di restrizione del fumo nei luoghi pubblici e di lavoro, quando a questi si accompagna un adeguato controllo; - il coinvolgimento dei mass-media nelle campagne educative; - la raccolta dell'informazione individuale sull'abitudine al fumo in tutti i contatti con il servizio sanitario; - l'effettuazione di un colloquio con il medico di base; - la terapia sostitutiva con nicotina; - gli interventi di supporto di gruppo. Le strategie per l'intervento Gli interventi sul fumo gia' realizzati in Italia sono sicuramente numerosi, ma hanno avuto carattere locale, poco integrato tra i servizi sanitari, educativi e di volontariato, che di volta in volta ne sono stati promotori. I momenti diversi dell'iniziazione e della dipendenza dal fumo richiedono azioni coordinate e competenze professionali complementari inserite in percorsi predefiniti e ben strutturati. Si raccomanda fortemente pertanto, di programmare interventi di carattere nazionale, che coinvolgano un vasto numero di soggetti rispetto all'ambito specifico del SSN, che affrontino in chiave strategica il tema del fumo, concertino in modo organico le azioni, forniscano linee di indirizzo tecnico, individuino le risorse occorrenti e monitorizzino i risultati. In tal senso un "Piano nazionale di lotta al fumo" dovrebbe prevedere azioni coordinate per: - prevenire l'acquisizione dell'abitudine al fumo tra i giovani; - favorire la cessazione del fumo tra i soggetti fumatori; - proteggere i non fumatori dall'esposizione a fumo passivo. Prevenire l'acquisizione dell'abitudine al fumo tra i giovani La politica del prezzo puo' avere sicuramente effetti positivi tra i giovani, ma puo' indurre un incremento delle vendite dei prodotti di contrabbando, che deve essere contrastata in modo deciso. Occorrera' inoltre concertare una valutazione di efficacia del divieto di vendita dei tabacchi ai minori di 16 anni. Gli interventi informativi e educativi in ambito scolastico sono indubbiamente importanti per informare sugli effetti negativi del tabacco. Gli interventi di prevenzione per i giovani saranno efficaci se lo stresso articolato mondo della scuola fornira' un esempio coerente, tramite l'assunzione di modelli comportamentali che bandiscano il fumo dalle mura scolastiche, se le strutture del SSN forniranno immagini negative del fumo, se i mezzi di comunicazione forniranno uguali messaggi. Appare opportuno che le amministrazioni regionali, in collaborazione con le istituzioni scolastiche, promuovano piani di interventi di educazione alla salute, rivolte ai ragazzi a partire dalla scuola dell'obbligo. Sono inoltre auspicabili attivita' di formazione degli insegnanti anche tramite la collaborazione delle strutture del S.S.N. quali ad esempio i Dipartimenti di prevenzione delle A.S.L.. L'impostazione degli interventi educativo-informativi rivolti ai giovani dovra' puntare sugli aspetti positivi di una vita libera da fumo, piuttosto che sui rischi alla salute da esso derivanti. Favorire la cessazione del fumo tra i soggetti fumatori E' affidata alla programmazione regionale l'implementazione di iniziative o programmi volti a favorire la cessazione del fumo nella pratica clinica ordinaria ospedaliera e territoriale. E' proponibile che, nell'ambito delle strutture del SSN, si costituiscano equipe multidisciplinari che programmino gli interventi e coordinino i percorsi per la promozione di momenti formativi, educativi e del trattamento dei soggetti fumatori. Un ruolo specifico nel programma di cessazione del fumo e' svolto dal medico di medicina generale, nei confronti dei propri assistiti. I medici di medicina generale vedono gran parte della popolazione assistita ogni due anni e possono personalizzare e ripetere gli interventi. In considerazione della dipendenza farmacologica, di cui soffrono molti fumatori, che necessita' di terapia sostitutiva della nicotina, trattamento la cui efficacia e' stata documentata, e' affidato al medico di base il compito di diagnosticare, con metodi standardizzati, lo stato di dipendenza da nicotina dei propri assistiti, al fine di indicare la terapia piu' adeguata per la disintossicazione. Appare peraltro opportuno adeguatamente sensibilizzare e formare i medici di medicina generale sui criteri diagnostici relativi alle caratteristiche della dipendenza e sulle linee guida piu' adeguate per facilitare la cessazione dell'abitudine al fumo. Proteggere i non fumatori dall'esposizione a fumo passivo Si rimanda ad un apposito e urgente intervento legislativo la chiara regolamentazione del divieto di fumo anche nei luoghi di frequentazione pubblica, esclusi dalla normativa vigente (bar, ristoranti, luoghi di lavoro confinati non aperti al pubblico). Per quanto attiene la normativa vigente sul divieto di fumo nei luoghi pubblici, si sottolinea l'attuale non rispetto delle norme nelle strutture del S.S.N. e nelle strutture scolastiche e di istruzione superiore. Raccomandazioni specifiche Nell'auspicare l'avvio di un Piano nazionale contro il tabacco, si raccomanda il completamento della normativa vigente per la regolamentazione del divieto di fumo negli esercizi pubblici (bar, ristoranti) e nei luoghi di lavoro chiusi, non aperti al pubblico, al fine di tutelare la salute dei lavoratori anche dall'esposizione al fumo passivo. Le Amministrazioni competenti dovrebbero esercitare idonee attivita' di stimolo e sorveglianza, al fine di garantire la piena applicazione ed il rispetto delle leggi vigenti. Si raccomandano inoltre interventi che assicurino il divieto di fumo in tutte le strutture sanitarie, pubbliche e private, in tutte le scuole di ordine e grado, nonche' il rispetto del divieto di vendita di sigarette ai minori di 16 anni. Si raccomanda inoltre l'avvio di campagne informativo-educative attraverso i mass-media e la scuola, caratterizzate da messaggi modulati a seconda della popolazione bersaglio. A livello regionale, dovrebbero essere definite le caratteristiche specifiche del piano di lotta al fumo delle strutture del S.S.N., in modo da garantire programmi strutturati di cessazione e l'idonea attivita' di formazione per tutte le figure professionali del S.S.N.. E' altresi' importante una capillare opera di informazione per favorire l'uso della terapia sostitutiva (Scheda n. 1). Sarebbe opportuno prevedere la realizzazione di iniziative di formazione e sensibilizzazione dei medici di medicina generale e dei pediatri di base, nonche' di tutto il personale sanitario, sulle problematiche del tabagismo e sulle modalita' di approccio al paziente tabagico. E', infatti, indispensabile che i medici di medicina generale, i pediatri di base, i ginecologi, e tutti gli operatori sanitari informino costantemente i pazienti sui danni del fumo e sui benefici della cessazione. Ogni intervento e suggerimento ai genitori nel periodo della gravidanza e perinatale puo' avere un impatto rilevante in termini di protezione dei bambini e rappresentare uno stimolo per smettere di fumare. Appare inoltre necessario concertare con i medici, gli operatori sanitari, organizzati nelle loro Associazioni ed Ordini Professionali, la introduzione nella pratica clinica di: - valutazione e registrazione sistematica nella documentazione clinica dell'abitudine al fumo dei pazienti; - "counseling" sistematico per tutti pazienti fumatori, con adeguato supporto ed assistenza con invito ai fumatori, quando necessario, a rivolgersi a centri specialistici per la cessazione del fumo; - raccomandazione ai fumatori che vogliono smettere l'adozione di un programma personalizzato di disassuefazione, consigliando quando necessario l'uso di una terapia sostitutiva della nicotina e fornendo informazioni accurate su questo tipo di terapia; - raccomandazione alle donne di smettere di fumare durante la gravidanza, con assistenza a smettere, quando lo richiedono. Per i Medici Competenti e gli operatori dei Servizi di Igiene e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro Tutto il personale addetto alla sicurezza nei luoghi di lavoro ha un ruolo importante per la promozione della salute, anche per quel che riguarda l'esposizione a fumo di tabacco ambientale. I lavoratori dovranno essere informati sui rischi attribuibili alla esposizione a fumo passivo e sulle conseguenze per la salute della esposizione contemporanea a piu' sostanze cancerogene. Il datore di lavoro, inoltre, dovra' essere informato degli obblighi derivanti dalla normativa vigente, nello specifico l'art. 9 DPR 303/56, art. 9 L. 300/70, art. 1, 4, 31 D.Lgs 626/94. SCHEDA I Consigli per l'uso della terapia sostitutiva della nicotina - Il trattamento con la terapia sostitutiva della nicotina puo' aiutare i fumatori a smettere di fumare, anche se questi hanno gia' provato senza successo - Interventi clinici controllati hanno dimostrato che l'uso della terapia sostitutiva, da parte dei fumatori che vogliono smettere di fumare, raddoppia la probabilita' di successo - La terapia sostitutiva non e' una cura magica. Non sostituisce le sigarette o la forza di volonta' di smettere di fumare. Durante il periodo di astinenza, questa terapia aiuta a non riprendere a fumare - La terapia sostitutiva fornisce nicotina in maniera lenta e meno soddisfacente rispetto alle sigarette ma e' sicura e da' meno dipendenza - La terapia sostitutiva contiene nicotina ma non contiene catrame o monossido di carbonio come il fumo di sigaretta. Non esiste nessuna evidenza che la nicotina sia causa del cancro - La terapia sostitutiva riduce ma non elimina i sintomi di irritabilita', depressione e desiderio di fumare tipici del periodo di astinenza - Pochissime persone diventano dipendenti della terapia sostitutiva. Alcuni ex-fumatori continuano questa terapia per un anno, il che e' per lo piu' dovuto al timore di riprendere a fumare - Per raggiungere risultati ottimali, la terapia sostitutiva dovrebbe essere usata in dosi adeguate e per un periodo sufficientemente lungo. I fumatori dovrebbero seguire le istruzioni indicate nel foglietto illustrativo e chiedere al farmacista informazioni piu' dettagliate sul prodotto 2) ALIMENTAZIONE ED ALCOOL Circa le abitudini alimentari il Piano sanitario nazionale fissa specifici obiettivi per adeguare l'Italia agli standard nutrizionali internazionalmente raccomandati, in quanto fattori in grado di aumentare la capacita' individuale a controllare, mantenere e migliorare lo stato di salute in generale e probabilmente, anche nei confronti delle patologie neoplastiche. Prove sulla cancerogenicita' o azione protettiva di costituenti dell'alimentazione Non ancora del tutto esaurienti prove scientifiche indicano che ad alcuni comportamenti alimentari (es. una dieta ricca in verdura e frutta) potrebbe essere associata una diminuzione importante del rischio di cancro. La relativa concordanza tra gli studi per alcune abitudini alimentari puo' quindi consentire l'elaborazione di linee-guida di pratica applicazione pratiche. Al contrario, per quanto riguarda le integrazioni alimentari con vitamine e/o elementi oligominerali, attualmente molto diffuse, non vi sono prove della loro efficacia per la prevenzione dei tumori, o addirittura e' dimostrato un effetto negativo. In ogni caso, non e' appropriato riportare tra le indicazioni di questi preparati la prevenzione del cancro. Per quanto riguarda le prove, relative all'effetto cancerogeno o protettivo di diverse abitudini alimentari, si riporta nella scheda n. 2 una valutazione di adeguatezza basata su rassegne sistematiche pubblicate nella letteratura internazionale. Tale classificazione del livello qualitativo delle prove puo' tradursi in raccomandazioni piu' specifiche che sono qui di seguito riassunte: - scegliere prevalentemente alimenti di origine vegetale, con un'ampia varieta' di verdura e frutta, legumi e cereali; - mangiare diverse porzioni al giorno di verdura e di frutta fresca, scegliendo varieta' di stagione; - mangiare diverse porzioni di cereali al giorno; - preferire prodotti non raffinati; (es. zucchero e farina non raffinati) - consumare regolarmente pesce, riducendo il consumo di carne rossa; - limitare il consumo di grassi, in particolare di origine animale (latte, burro, formaggio, carni); - evitare il consumo di cibi conservati sotto sale; - non lasciare per lungo tempo a temperatura ambiente cibi deteriorabili; - limitare il consumo di cibi cotti ad elevate temperature (alla griglia) o affumicati; - limitare il consumo di alcolici. A queste indicazioni si aggiunge la raccomandazione di controllare il peso, evitando sovrappeso ed obesita' attraverso un adeguato apporto calorico ed un appropriato livello di esercizio fisico. SCHEDA 2 Livello qualitativo delle prove sulla relazione tra alcune abitudini alimentari e prevenzione dei tumori Livello qualitativo Raccomandazione delle prove (A) adottare una dieta ricca di frutta e verdura (A) consumare alcolici solo in quantità moderate (B) adottare una dieta povera di grassi (meno del 30% delle calorie totali) (B) adottare una dieta povera di grassi saturi (meno del 10% delle calorie totali) (B) adottare una dieta povera di carne rossa (B) mantenere il peso forma (B) adottare una dieta ricca di fibre (B) ridurre i nitriti, le carni affumicate e i cibi conservati sotto sale (E) non è suggerito assumere preparati vitaminici, se non per patologie da carenza Nota - Livelli qualitativi di prova: A: un buon livello di prove suggerisce che l'intervento dovrebbe essere avviato B: le prove sono incerte o incomplete, ma suggeriscono che l'intervento dovrebbe essere avviato C: un livello insoddisfacente delle prove suggerisce che l'intervento non dovrebbe essere avviato, anche se può essere avviato sulla base di altre considerazioni (non scientifiche) D: prove incerte o incomplete suggeriscono che l'intervento non dovrebbe essere avviato E: un buon livello di prove suggerisce che l'intervento non dovrebbe essere avviato Pesticidi ed additivi Oltre alla relazione tra nutrienti e rischio di cancro, va considerato anche il problema dei pesticidi e degli additivi. Una stima degli effetti dannosi alle concentrazioni abitualmente presenti nei cibi italiani e' estremamente complessa. Sulla base dell'attuale legislazione e dei controlli effettuati nei paesi europei, la presenza di additivi o pesticidi non e' tale da contrastare il suggerimento di mangiare molte porzioni di frutta o verdura al giorno. Tuttavia le incertezze sono tali e il problema interessa una popolazione cosi' ampia, da richiedere specifici investimenti per la ricerca sulla tossicita' a lungo termine dei pesticidi. Si puo' fin da ora raccomandare, ai fini di riduzione dell'esposizione ad antiparassitari, in particolare per le fasce di popolazione piu' vulnerabili (come i bambini), di sbucciare la frutta fresca, o lavarla accuratamente, e di privilegiare il consumo di verdura e frutta coltivate con procedure biologiche o, quantomeno, con procedure di lotta ai parassiti guidata o integrata. Prove sull'efficacia degli interventi di educazione alimentare Il problema principale dell'educazione alimentare e' costituito dalla difficolta' di valutarne l'efficacia e quantificarne l'effetto sul lungo periodo. Da studi condotti, le strategie risultate piu' efficaci sono le seguenti: - prendere in considerazione gruppi a rischio o con abitudini particolari; - utilizzare metodi di autovalutazione; - partecipazione attiva dei destinatari dei messaggi; - la disponibilita' di cibi salutari nei ristoranti e nelle mense rinforza l'efficacia di messaggi; - la maggiore efficacia di una campagna si raggiunge se il programma e' orchestrato su diversi piani (politica dei prezzi, informazione univoca e chiara da parte dei mass-inedia, dei medici, della pubblicita) Le strategie per l'intervento I decreti legislativi 502 e 517 ed il decreto legislativo 229, agli art.7 bis, 7 ter, 7 quater, identificano nei Dipartimenti di Prevenzione delle ASL le strutture deputate alle attivita' di prevenzione primaria e di educazione alla salute. Inoltre, il D.M. 16/10/1998 "Approvazione delle linee guida concernenti l'organizzazione del Servizio di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione (SIAN) nell'ambito del Dipartimento di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali" gia' prevede che l'Area Funzionale Igiene della Nutrizione svolga, tra l'altro, interventi di prevenzione nutrizionale anche nell'ambito della ristorazione collettiva e diffonda le linee guida. Affinche' tali strutture garantiscano il rispetto degli obiettivi posti dal Piano Sanitario Nazionale, sono necessarie alcune tappe intermedie: - la definizione di obiettivi intermedi, entro i Piani Sanitari Regionali, la definizione di indicatori, per verificarne il raggiungimento (es. quale proporzione di persone, in diverse fasce di eta', sono state raggiunte da messaggi di educazione alimentare; quante mense sono state certificate per la loro adesione ad un programma preventivo di efficacia dimostrata, ecc.) - la definizione dei criteri di accreditamento dei Dipartimenti di Prevenzione, che includano la elaborazione di linee-guida articolate e basate sulle prove scientifiche, e di indicatori per la verifica della messa in atto delle linee-guida stesse. Non va peraltro sottovalutata l'esperienza specifica maturata in alcuni Dipartimenti Materno-Infantili sullo specifico problema dell'alimentazione. E' opportuno il coinvolgimento di tali strutture per la progettazione e l'implementazione dei programmi educativi. Nella stesura delle linee guida, e' necessario tenere presente che, accanto agli interlocutori obbligati rappresentati dal mondo della scuola e della ristorazione collettiva, occorre coinvolgere nelle attivita' preventive, dopo una fase di sperimentazione e di fattibilita', i medici di medicina generale, soprattutto per quanto riguarda il "counseling" nutrizionale nei soggetti ad alto rischio, in particolare obesi e sovrappeso. A tal proposito occorre notare che, mentre il "counseling" nei soggetti sovrappeso puo' seguire metodiche analoghe a quello dedicato agli abituali fumatori (non dipendenti) e ai bevitori non alcolisti, il trattamento dell'obesita'