(parte 3)
agli enti ed alle associazioni con riconosciute finalita'  di  tutela
degli  interessi  lesi  dal  reato  gli  stessi poteri spettanti alla
persona offesa non costituita parte civile.
   Il  diverso  ruolo assegnato alle rispettive categorie di soggetti
spiega perche', mentre la partecipazione al processo penale di quelle
indicate   nel   titolo  V  del  Progetto  del  1978  resta  comunque
condizionata  all'avvenuta  conclusione  della  fase  delle  indagini
preliminari   (con   esclusione,  quindi,  di  ogni  possibilita'  di
intervento prima dell'udienza preliminare), per quel che si riferisce
alla  persona  offesa  e agli enti "esponenziali" di interessi si sia
ritenuto di consentirne  la  partecipazione  soprattutto  nella  fase
delle  indagini  preliminari. L'indicata differenziazione, introdotta
sulla base del discrimine  collegato  alla  tipologia  dell'interesse
fatto  valere,  costituisce  un  canone concettuale decisivo anche al
fine di  verificare,  sul  piano  della  disciplina  processuale,  la
peculiarita'  del  ruolo assegnato alla persona offesa nel regime del
nuovo Progetto: un ruolo che vale a  conferirle  diritti  e  facolta'
(estesi  agli  enti  e alle associazioni "esponenziali" di interessi)
non attraverso una clausola  generale  (non  e'  certamente  tale  il
precetto  del  comma  1  dell'art.  89)  ma  a  mezzo  di  specifiche
attribuzioni di volta in volta indicate dalla legge (con  riferimento
alla  fase delle indagini preliminari: artt. 100, diritto di nominare
un difensore; 341, diritto di proporre istanza di procedimento;  360,
diritto di partecipare agli atti "garantiti" del pubblico ministero e
di prendere visione degli atti depositati a norma dell'art. 365; 392,
diritto di rivolgersi al pubblico ministero perche' questo formuli la
richiesta di incidente probatorio; 396 comma 3,  398  commi  1  e  3,
diritto  di  "partecipare"  all'incidente  probatorio;  398  comma 8,
diritto  di  prendere  visione  e  di  estrarre  copia   degli   atti
dell'incidente probatorio; 367, diritto all'informazione di garanzia;
403, diritto di partecipare alla  camera  di  consiglio  fissata  dal
giudice  che  non  ritenga,  allo  stato degli atti, di accogliere la
richiesta del pubblico ministero volta ad  ottenere  la  proroga  del
termine  per  le  indagini  preliminari;  406  comma  2, in relazione
all'art. 126, diritto di essere esaminata nell'udienza in  camera  di
consiglio  fissata  dal  giudice  che  non  ritenga  di accogliere la
richiesta di archiviazione  formulata  dal  pubblico  ministero;  405
commi 2 e 3, 406 comma 2, 407, 408, facolta' di richiedere che non si
proceda ad archiviazione senza avvisarla e  di  presentare  richiesta
motivata  di  prosecuzione  delle  indagini preliminari; 410 comma 1,
facolta'  di  richiedere  al   procuratore   generale   di   disporre
l'avocazione  delle  indagini  preliminari a norma dell'art. 409; con
riferimento alla fase processuale vera e propria: artt. 416 comma  1,
diritto   alla   notifica  del  decreto  di  fissazione  dell'udienza
preliminare; 425 comma 4, diritto a partecipare  a  tale  udienza  e,
qualora non sia stata presente, diritto alla notifica del decreto che
dispone il giudizio; 450,  diritto  alla  notifica  del  decreto  che
dispone  il  giudizio immediato; 498, facolta' di chiedere al giudice
del dibattimento di rivolgere domande ai  testimoni,  ai  periti,  ai
consulenti  tecnici  e  alle  parti private che si sono sottoposte ad
esame, nonche' l'ammissione di mezzi di prova utili  all'accertamento
dei fatti; 554, diritto alla notifica dell'avviso dell'udienza per il
giudizio abbreviato davanti al pretore; 565, facolta' di  richiedere,
con  atto  motivato,  al  pubblico ministero di proporre impugnazione
agli effetti penali).
   La  persona  offesa  resta,  percio',  puntualmente distinta dalla
parte privata e nei suoi confronti non trovano applicazione le  norme
che a questa si riferiscono. Peraltro, la coincidenza - certo, non di
rado, ricorrente - fra  la  persona  dell'offeso  e  la  persona  del
danneggiato,    mentre   nella   fase   del   processo   determinera'
l'applicazione della disciplina specificamente prevista per le  parti
private  diverse dall'imputato, nella fase delle indagini preliminari
costituira' il presupposto, conseguente all'esercizio dei  diritti  e
delle  facolta'  riconosciuti anche in tale fase alla persona offesa,
per la scelta della sede nella quale far valere  la  pretesa  civile,
tenuto  conto  del  principio  electa  una via stabilito dall'art. 74
comma 1.
 Illustrazione degli articoli.
   L'articolo  89 comma 1, dedicato alla persona offesa dal reato, si
ricollega direttamente all'art. 96 comma 1 del Progetto del 1978: una
norma  la  cui  conformita'  alla  legge-delega era stata decisamente
contestata (v. Parere della precedente Commissione consultiva, p. 96)
perche'  - fondandosi sulla direttiva 46 della legge-delega del 1974,
attributiva alle "parti private" della facolta' di presentare memorie
e di indicare elementi di prova (cfr. Relazione al Progetto del 1978,
p. 111) -  poteva  ingenerare  equivoci  sullo  stesso  inquadramento
concettuale  della  nozione  di  parte  privata e sulla tipologia dei
poteri ad essa conferiti: soprattutto nell'ambito di un  processo  di
tipo  accusatorio,  nel quale l'attribuzione di poteri ad un soggetto
che  non   rivesta   la   qualita'   di   parte   potrebbe   apparire
contraddittoria.
   La  direttiva  3 della delega del 1987, riconoscendo espressamente
anche alla persona offesa la facolta' "di indicare elementi di  prova
in  ogni  stato  e  grado  del procedimento", se, da un lato, ha reso
ormai obsoleta ogni  perplessita'  circa  i  poteri  del  legislatore
delegato  -  il  quale, anzi, dopo aver anticipato, su tale punto, la
legge di delegazione, e' stato da  questa  vincolato  a  dettare  una
previsione  analoga  a  quella  dell'art. 96 comma 1 del Progetto del
1978 - sembra aver  risolto,  dall'altro,  ma  in  senso  decisamente
negativo,  ogni problema circa la qualificazione della persona offesa
(ovviamente, purche' non costituita parte civile) come parte privata.
   Il  nuovo  Progetto,  inserendo  l'offeso  dal  reato in un titolo
autonomo rispetto  a  quello  dedicato  alle  parti  private  diverse
dall'imputato,  ha  appunto inteso sottolineare il ruolo peculiare ad
esso  assegnato  rispetto  al  danneggiato:  mentre  all'uno,   quale
titolare  dell'interesse  leso  dalla  norma  di  diritto sostanziale
violata, sono riconosciuti facolta' e diritti sin  dalla  fase  delle
indagini  preliminari,  all'altro  (nei  casi  in  cui  non sia anche
persona offesa) e' potenzialmente assegnato un ruolo processuale solo
in  quanto il procedimento sia pervenuto alla fase indicata nell'art.
78, cosi' da consentire la possibilita' della costituzione  di  parte
civile.
   L'ambito  dei  poteri  che,  nel  sistema del nuovo Progetto, sono
attribuiti  alla  persona  offesa,  sia  nella  fase  delle  indagini
preliminari sia nel corso del processo, ha, peraltro, reso necessario
un "aggiornamento" del comma 1 dell'art. 96 del  Progetto  del  1978,
occorrendo,  per  un  verso, precisare nell'art. 89 comma 1 del nuovo
Progetto che alla persona offesa sono riconosciuti diritti e facolta'
solo   in   quanto  espressamente  attribuiti  dalla  legge  (secondo
l'elencazione, per grandi linee prima riportata), per un altro verso,
conferire  ad  essa  le  facolta'  di  presentare  memorie durante le
indagini preliminari e in ogni  stato  e  grado  del  processo  e  di
indicare  elementi di prova sia durante le indagini preliminari (fase
in cui alla parte offesa  sono  conferite  maggiori  possibilita'  di
intervento) sia in ogni stato e grado del processo di merito.
   Si e' poi avvertita anche l'improrogabile necessita' di apprestare
forme di tutela delle c.d. vittime del  reato  nel  caso  in  cui  la
persona  offesa  sia  deceduta in conseguenza del reato stesso. A tal
fine e' stato riformulato il comma 3 all'art.  96  del  Progetto  del
1978,  divenuto  comma  3  dell'art.  89 (il corrispondente comma del
testo precedente e' ora divenuto - senza sostanziali modificazioni  -
comma  2 dello stesso art. 89), che, attraverso l'introduzione di una
clausola  generale,  consente,  sin   dalla   fase   delle   indagini
preliminari,  ai  prossimi congiunti della persona offesa deceduta in
conseguenza del reato, di esercitare gli stessi diritti e  le  stesse
facolta' attri buiti al loro dante causa.
   L'art.  96  comma  2  del Progetto del 1978 conferiva "agli enti e
alle associazioni  cui  la  legge  riconosce  fini  di  tutela  degli
interessi  lesi dal reato" le facolta' attribuite alla persona offesa
dal comma 1 dello stesso articolo, nonche' il diritto di proporre  al
giudice   istruttore   l'istanza   per   la  fissazione  dell'udienza
preliminare e il diritto di proporre al pubblico ministero  l'istanza
per  proporre  impugnazione contro la sentenza di proscioglimento, ai
fini dell'accertamento del reato, diritti riconosciuti  alla  persona
offesa dagli artt. 386 e 538 del precedente Progetto.
   La  norma, inserita per "consentire un'incidenza all'iniziativa ed
al contributo  probatorio  dei  gruppi  mediante  una  qualificazione
normativa  che,  attraverso  una  fictio  iuris, considera gli stessi
quali persone offese" (Relazione al Progetto del 1978, p. 112), venne
recisamente  contestata  dalla  precedente Commissione consultiva (v.
Parere,  p.  97)  che  ne  propose  la  soppressione   per   la   sua
"incongruenza con la delega e con il sistema".
   Ma,  anche  in  questo  caso,  il  progetto  del  1978 sembra aver
"anticipato"  le  scelte  del  legislatore  delegante.  Infatti,   la
direttiva  39  della  legge-del  poteri  spettanti  nel processo alla
persona  offesa  non  costituita  parte  civile,  ha  fornito  quella
espressa  base  normativa  (assente,  invece,  nella legge-delega del
1974) in grado, non solo di legittimare, ma di imporre, la previsione
di  una  attivita'  partecipativa  di  tali  enti  e associazioni. Le
prescrizioni della nuova legge-delega  hanno,  peraltro,  determinato
l'introduzione di un assetto normativo piu' organico nei confronti di
quello  risultante  dall'originario  precetto  che   li   riguardava,
occorrendo  desciplinare  sia  il  fondamento della legittimazione di
tali figure soggettive (troppo genericamente indicato,  nella  legge,
dal  Progetto  del  1978),  sia  i  tempi  e  le modalita' della loro
partecipazione al processo con riguardo ai quali il testo  precedente
non dettava alcuna disposizione.
   Con  l'articolo  90,  nella cui rubrica gli enti e le associazioni
sono definiti - attraverso una formula  sintetica,  peraltro  da  non
enfatizzare  quanto  al suo valore qualificativo, "rappresentativi di
interessi lesi dal reato" (formula poi ripetuta nel testo degli artt.
91 e 93) - la Commissione si e' anzitutto fatta carico di determinare
la fonte della loro legittimazione. A tale riguardo, il riferirsi del
legislatore  delegante al "riconoscimento" e' parso elemento in grado
di escludere che sia sufficiente per la partecipazione di tali figure
soggettive al processo penale l'autoattribuzione, ad opera di un atto
dell'ordinamento interno di essi, del perseguimento  delle  finalita'
di tutela degli interessi lesi dal reato.
   L'assenza  nella  direttiva  39  di  ogni  richiamo alla fonte del
riconoscimento  ha,  pero',  determinato  l'alternativa:  se  dovesse
essere  lo  stesso  codice  di  procedura  penale a stabilire, con la
fissazione  di  criteri  predeterminati  volti  ad  identificare   le
condizioni  di  legittimazione,  quali  enti o associazioni potessero
essere definiti "esponenziali" dei  detti  interessi;  ovvero  se  il
riconoscimento  dovesse riconnettersi ad una espressa designazione di
volta in volta operata da una norma di legge.
   La  prima  soluzione, seguendo una linea gia' tracciata - sia pure
ad altri fini - dalle leggi in  materia  di  danno  ambientale  e  di
sofisticazioni   alimentari,   ha   indicato   come   condizioni  del
riconoscimento (verificabili dal giudice mediante una semplice  opera
di  ricognizione), da un lato, l'assenza di ogni scopo di lucro negli
enti e nelle associazioni, dall'altro, la base democratica  del  loro
ordiinamento  interno  nonche'  la continuita' e la rilevanza esterna
della loro azione.
   La  seconda soluzione ha, invece, fatto riferimento, per un verso,
alla necessita' che il riconoscimento dovesse riconnettersi  a  fonti
normative,  primarie  o subprimarie, ma comunque specifiche e, per un
altro verso, alla necessita' che (soprattutto) nei  casi  in  cui  il
riconoscimento  derivi  da  un  atto  amministrativo o regolamentare,
fosse compito del codice designare le condizioni di operativita'  del
riconoscimento stesso.
   L'una  soluzione  e'  parsa  di  non  agevole  praticabilita'  per
l'obiezione  -  difficilmente  superabile  -  che  il  riconoscimento
resterebbe solo in apparenza riservato al codice di procedura penale,
in realta' assoggettandosi  l'accertamento  dei  presupposti  per  la
legittimazione  alla  valutazione  del  giudice  penale,  abilitato a
verificare, sulla base di  criteri  non  sufficientemente  rigidi  e,
quindi, nell'esercizio di un potere sostanzialmente discrezionale, la
sussistenza delle condizioni richieste per il riconoscimento: con  il
rischio  di perpetuare le stesse incertezze attualmente riscontrabili
in tema di legittimazione alla costituzione di parte civile da  parte
di centri plurisoggettivi di imputazione.
   L'altra  soluzione  e' parsa anch'essa di difficile utilizzazione,
non potendo richiedersi, di volta in volta, data  la  vastita'  e  la
eterogeneita' degli interessi aggredibili da ogni singola fattispecie
criminosa e l'impraticabilita', almeno allo stato,  dell'adozione  di
un sistema "tabellare", l'intervento del legislatore per ogni singolo
atto di riconoscimento.
   Si   e'  ritenuto  peraltro,  che,  in  via  di  principio,  fosse
preferibile la seconda  alternativa:  e'  stata  cosi'  adottata  una
formula ("in forza di legge") capace di ricollegare sempre alla legge
l'attribuzione della legittimazione ma,  al  contempo,  in  grado  di
consentire  l'utilizzazione  di fonti subprimarie, come regolamenti o
atti amministrativi, quali strumenti di piu' agevole  verifica  delle
singole  condizioni: purche' tali atti siano emanati in esecuzione di
una legge e fermo restando il potere del giudice penale di  sindacare
la   legittimita'   del   riconoscimento   operato   dalla   pubblica
amministrazione.
   Si  e'  inoltre stabilito che il riconoscimento non possa avvenire
se  non  in  forza  di  una  legge  "statale":  sia  per  la  diretta
connessione   della   legittimazione   partecipativa   delle   figure
soggettive in esame con la materia penale  sia  per  dettare  criteri
uniformi, sul punto, per tutto il territorio nazionale. E', peraltro,
evidente  che  una  legge  regionale  potra'  utilmente  operare   il
riconoscimento,  ma  solo in quanto emessa in esecuzione di una legge
dello Stato.
   Sara',   peraltro,   ulteriore   compito  della  legge  quello  di
predeterminare le categorie di interessi da "privilegiare" attraverso
il riconoscimento degli enti "rappresentativi": interessi comunque da
individuare sulla base di scelte vincolate informate al principio  di
partecipazione  in  funzione delle esigenze del pluralismo (interessi
collettivi, diffusi, etc.).
   Un  solo  requisito  si  e'  riservato  alla predeterminazione del
codice di rito penale: l'assenza, cioe', di ogni scopo  di  lucro  di
ordinamento  interno; un requisito che il giudice dovra', di volta in
volta, verificare senza rimanere vincolato dalle  prescrizioni  degli
atti, e che, fra l'altro, e' stato predisposto al fine di allontanare
anche il minimo sospetto di una strumentalizzazione della prestazione
del  consenso  della persona offesa per manovre non trasparenti tanto
da parte di chi presta il consenso tanto da parte di chi lo richiede.
   Si  e' ampiamente dibattuto circa l'opportunita' di autorizzare la
partecipazione al processo di enti o  associazioni  che  siano  stati
riconosciuti  posteriormente alla commissione del fatto. La soluzione
positiva e' stata sostenuta  con  argomentazioni  di  sicuro  effetto
(richiamando,   ad   esempio,  l'utilita'  di  rendere  possibile  la
legittimazione  partecipativa  di  figure  soggettive   appositamente
costituite   per   proteggere  le  vittime  di  gravissimi  fatti  di
terrorismo o di criminalita' organizzata), ma la  soluzione  negativa
ha  finito  col  prevalere,  sia  per  assicurare  l'introduzione nel
processo solo di enti  che,  in  relazione  alla  loro  preesistenza,
offrono  maggiore  garanzia  di  serieta',  sia  perche',  di  norma,
soprattutto per  i  fatti  piu'  gravi,  la  tutela  degli  interessi
collettivi  o  diffusi  colpiti  dal  reato  trovera'  un  centro  di
riferimento gia' costituito.
   La  direttiva  39,  prima  parte, nell'estendere agli enti ed alle
associazioni i poteri spettanti nel processo all'offeso dal reato, ha
determinato la necessita' di affrontare il problema della fase in cui
tali figure soggettive devono ritenersi legittimate ad intervenire.
   Dal raffronto della detta parte della direttiva con la direttiva 3
seconda parte, emerge, infatti - almeno sul piano lessicale - la  non
puntuale  contestualita' circa il termine a quo la persona offesa, da
un lato, e gli enti "esponenziali", dall'altro, possono esercitare  i
poteri   loro   attribuiti.  Mentre,  con  riguardo  alla  prima,  la
legge-delega  riferisce  l'esercizio  della  facolta'   di   indicare
elementi  di  prova  e  di  presentare  memorie  ad  "ogni  stato del
procedimento", con riguardo ai  secondi  -  omettendo  ogni  menzione
dello  stato o del grado - riferisce il conferimento dei detti poteri
al "processo", espressione  che,  nel  sistema  della  nuova  delega,
sembra  alludere  alla  sola  fase  successiva alla conclusione delle
indagini preliminari.
   Su  tale  base, ci si era in un primo tempo orientati nel senso di
fissare il termine a quo per l'intervento delle figure soggettive  in
esame - in analogia con quanto previsto dall'art. 78 relativamente al
termine  per  la  costituzione  di  parte  civile  -  con   l'udienza
preliminare. Cio' anche considerando che l'assoluta equiparazione fra
la persona offesa e gli  enti  "esponenziali"  di  interessi  avrebbe
potuto  ostacolare il sollecito svolgimento della fase delle indagini
preliminari, nella  quale  i  poteri  della  persona  offesa  non  si
esauriscono  in  quelli  indicati  nella  direttiva  3  (e 51), ma si
estendono a ricomprendere le  facolta'  sia  di  prendere  cognizione
degli  atti  c.d.  "garantiti" del pubblico ministero e della polizia
giudiziaria sia, soprattutto, di nominare un difensore anche al  fine
di assistere all'incidente probatorio (con l'eventualita', in caso di
perizia, di nominare un proprio consulente tecnico):  per  le  stesse
esigenze di celerita' era stata, fra l'altro, esclusa la possibilita'
per  le  parti  private  diverse  dall'imputato  di  partecipare   al
procedimento prima dell'udienza preliminare.
   A  questa  presa  di  posizione, apparentemente piu' conforme alla
lettera della direttiva 39, si e' obiettato  che  agli  enti  e  alle
associazioni  rappresentativi degli interessi lesi dal reato e' stata
consentita la partecipazione al procedimento penale  in  funzione  di
un'opera  di  "adesione"  o di "controllo" rispetto all'attivita' del
pubblico  ministero:  un'opera  che  risulterebbe   irrimediabilmente
compromessa  laddove  si  impedisse  l'intervento  dei  detti enti ed
associazioni alla fase delle indagini preliminari.
   Si   e'   ancora   osservato,  a  favore  di  una  interpretazione
"estensiva" della legge-delega, che l'art. 96 comma  2  del  progetto
del  1978,  norma  anticipatrice  della  direttiva  39, attraverso il
richiamo al comma 1 dello stesso articolo, attribuiva  agli  enti  ed
alle   associazioni   con  riconosciute  finalita'  di  tutela  degli
interessi lesi dal reato le facolta' conferite  alla  persona  offesa
anche  prima  dell'udienza  preliminare, e che le critiche rivolte al
comma 1 con riguardo alla persona offesa si incentravano  soprattutto
sulla   necessita'   che  questa  -  rispetto  ai  cui  poteri  opera
l'estensione - dovesse essere posta in condizione  di  esercitare  le
sue  facolta'  sino a che fosse giustificabile una sua collaborazione
informale con l'accusa, vale a dire, sino all'udienza preliminare. Ed
e' apparso singolare che di una cosi' decisiva inversione di tendenza
rispetto  al  Progetto  del  1978  non  vi  sia  traccia  nei  lavori
preparatori  della  nuova  legge-delega,  nonostante  il  legislatore
delegante abbia ampiamente dibattuto il tema della legittimazione  di
tali figure soggettive.
   Quanto,   poi,   al  rilievo  che  la  partecipazione  degli  enti
"esponenziali"  di  interessi  alla  fase   antecedente   all'udienza
preliminare avrebbe potuto gravare oltre misura le indagini, e' stato
non difficile obiettare, da  un  lato,  che  tali  figure  soggettive
restano  titolari  di una pretesa di natura penale e, dall'altro, che
il riferimento dell'ambito dei loro poteri ai  corrispondenti  poteri
della  persona  offesa  pare in grado di evitare quell'"affollamento"
delle indagini preliminari che aveva fatto escludere, a suo tempo, la
costituzione di parte civile per tale fase.
   Si  e'  percio',  ritenuto che l'ostacolo risultante dalla lettera
della  direttiva  39  non  fosse   comunque   decisivo:   o   perche'
l'espressione   "processo"   puo'  aver  rappresentato  una  semplice
improprieta' lessicale  della  legge  di  delegazione  o  perche'  la
direttiva  in  parola si e' limitata ad equiparare la posizione degli
enti e delle associazioni alla posizione della  persona  offesa  solo
per  le fasi diverse dal giudizio (con riguardo al quale la direttiva
39,  seconda  parte,  impone  la  previsione  di  "particolari  forme
d'intervento"  e,  quindi, l'attribuzione di maggiori poteri) e dalle
indagini preliminari (con riguardo alle quali la posizione degli enti
e  delle  associazioni puo' soltanto non eccedere l'ambito dei poteri
attribuiti alla persona  offesa,  senza  che  cio'  debba  comportare
l'esclusione  di ogni loro possibilita' di intervento). Sulla base di
tali considerazioni,  si  e'  modellata,  anche  per  la  fase  delle
indagini  preliminari,  la  posizione degli enti e delle associazioni
con riconosciute finalita' di tutela degli interessi lesi  dal  reato
sullo  schema dei poteri attribuiti in tale fase alla persona offesa.
   Per  il giudizio (la regola non vale, pero', anche per il giudizio
abbreviato,  appartenente,  secondo  la   legge-delega,   al   genere
dell'udienza  preliminare),  con  riguardo  al  quale la direttiva 39
impone la previsione di particolari forme di intervento di tali  enti
o  associazioni, in un'apposita disposizione (l'art. 504 comma 6), si
e' attribuito agli enti "esponenziali" di interessi la facolta' - non
conferita   alla   persona   offesa   -  di  chiedere  la  lettura  o
l'indicazione degli atti, secondo quanto previsto dai commi 1 e 4 del
detto art. 504.
   Nella  formulazione  dell'art.  90, l'art. 96 comma 2 del Progetto
del 1978 ha potuto  costituire  un  modello  ampiamente  percorribile
tanto e' che, sul punto - salvo adattamenti di ordine formale - si e'
seguita la linea tracciata da tale precetto.
   Disposizioni speciali sono state dettate per il dibattimento oltre
che dal citato art. 504 comma 6, dall'art. 498, mentre nell'art. 565,
e'  stato  poi  conferito agli enti e alle associazioni il diritto di
richiedere al pubblico ministero  di  proporre  impugnazione  a  ogni
effetto penale.
   Con   riguardo  all'udienza  preliminare,  alla  quale  le  figure
soggettive in esame possono partecipare anche con l'assistenza di  un
difensore (v. art. 100 comma 2), si e' ritenuto che - atteso l'ambito
dei poteri ad essi attribuito e la loro funzione  "adesiva"  rispetto
alla  posizione  della persona offesa - la trasformazione del rito da
ordinario   in   abbreviato   non   comporti   ne'   la   preclusione
dell'intervento  nel caso previsto dall'art. 434 comma 2, ne' la loro
estromissione dal processo nel caso previsto dall'art. 434 comma 3.
   E'  ovvio, infine, che, appartenendo la procedura di archiviazione
alla fase delle indagini preliminari, spettino  anche  in  tale  fase
alle  associazioni  e  agli  enti  gli stessi diritti attribuiti alla
persona offesa. Tanto risulta espresso  dall'ultima  parte  dell'art.
90,  il  quale  si  limita  a  riconoscere "in ogni stato e grado del
processo di merito, i diritti e le facolta' attribuiti  alla  persona
offesa dal reato".
   Con  l'articolo  91, e' stata data attuazione a quella parte della
direttiva 39 che subordina l'esercizio delle facolta' e  dei  diritti
spettanti  agli  enti ed alle associazioni con riconosciute finalita'
degli interessi lesi  al  costante  consenso  della  persona  offesa,
consenso da prestarsi a non piu' di una di tali figure soggettive.
   La prescrizione della quarta parte della direttiva 39, stando alla
quale il consenso della persona offesa non puo'  "essere  prestato  a
piu'  di  uno  degli  enti  o  associazioni  di  cui  sopra", nel suo
collegamento con la terza parte della stessa direttiva, ha, peraltro,
imposto  di individuare il numero di tali figure soggettive che nella
fase antecedente al dibattimento possono esercitare la  richiesta  di
consenso.  La  lettera  della  quarta  parte  della  detta  direttiva
parrebbe prescindere dal numero degli enti e delle  associazioni  nei
confronti  dei  quali  la  persona offesa puo' prestare il consenso e
richiedere  esclusivamente  che  il  potere  di  compiere   atti   di
iniziativa sia conferito, di volta in volta, soltanto ad uno di essi:
con la possibilita', quindi, che un  altro  atto  d'iniziativa  possa
essere  assunto  da  un  diverso  ente  o  associazione.  Ma un esame
sistematico delle indicate due parti della  direttiva  ha  indotto  a
seguire  la piu' razionale linea interpretativa in base alla quale il
"costante consenso" della persona  offesa  implica  l'unicita'  della
figura  soggettiva,  sia  in  relazione  alla  sua  introduzione  nel
processo sia in  relazione  alla  possibilita'  di  assumere  singole
iniziative:  rispetto,  ovviamente,  ad  una  sola persona offesa; e'
chiaro che, se le gli offesi sono piu', ferma restando la  necessita'
del  consenso  da  parte  di  ciascuno  di  essi, la potenzialita' di
introduzione degli interessi  dovra'  essere  commisurata  al  numero
delle persone offese.
   La   corrispondenza   tra   l'offeso   dal   reato   e   l'ente  o
l'associazione,  oltre  che  puntualmente  in  linea  con  la   ratio
sottostante  alla  direttiva  39,  e'  sembrato l'unico meccanismo in
grado, da un lato, di evitare  stasi  processuali  provocate  proprio
dalla prestazione del consenso e, dall'altro, di scongiurare anche il
sospetto che ogni  atto  di  iniziativa  possa  divenire  oggetto  di
"contrattazione"  tra la persona offesa e l'associazione o l'ente: si
e' operata, in tal modo, anche un'opportuna delimitazione dell'uso di
strumenti   convenzionali,  la  cui  previsione  era  stata  ritenuta
necessaria  dalla  legge   delega   solo   perche'   l'indiscriminato
riconoscimento  della  legittimazione  ad  intervenire da parte degli
enti rappresentativi sarebbe potuto risultare non gradito al titolare
dell'interesse leso dal reato.
   Allo  scopo  di  evitare  la  possibilita' di facilmente intuibili
meccanismi che possono gravare oltre misura il  procedimento  penale,
si  e'  ritenuto di interpretare l'aggettivo "costante" come riferito
non al compimento di ogni singolo atto ma come  consenso  persistente
fino a prova contraria. Il venir meno del consenso e' stato, percio',
subordinato ad un atto di revoca della  persona  offesa:  una  revoca
che,  al  fine  di  sopprimere  la  possibilita'  di  ogni "pattizia"
sostituzione con altra figura soggettiva, preclude la possibilita' di
prestare il consenso a qualsiasi altro ente o associazione (oltre che
a quello cui il consenso era stato originariamente prestato).
   La  necessita'  di  impedire,  poi,  ogni  "concorsualita'" tra le
figure soggettive in parola, ha indotto a privilegiare,  in  caso  di
consenso  prestato  a piu' associazioni od enti, anziche' il criterio
della "priorita'" - in se' equivoco, atteso il regime formale cui  e'
condizionata  la  prestazione  del  consenso, e, comunque, non sempre
rispondente  all'interesse  della  persona  offesa  -   il   criterio
dell'assoluta inoperativita' del consenso stesso.
   Il  detto regime formale, applicabile, ai sensi del comma 3, anche
alla   revoca   (una   revoca   "presunta"   potrebbe   non    essere
sufficientemente  univoca) e' stato imposto, oltre che per assicurare
il  massimo  rigore  alla  prestazione  del   consenso,   anche   per
responsabilizzare   la  persona  offesa  in  ordine  alla  importanza
dell'atto che compie.
   In  base  alla  clausola generale fissata dall'art. 89 comma 3, e'
evidente - senza che  occorresse  un'apposita  previsione,  la  quale
avrebbe  potuto,  anzi, costituire fonte di equivoci - che qualora la
persona offesa sia deceduta in  conseguenza  del  reato,  i  prossimi
congiunti  di  essa  saranno  legittimati a prestare il consenso, sia
congiuntamente sia disgiuntamente.
   Le  concrete  modalita'  di esercizio dei diritti e delle facolta'
attribuite agli enti "esponenziali" di interessi sono state  previste
dall'articolo  92  nelle  forme dell'intervento davanti all'autorita'
che procede (pubblico ministero o giudice), richiedendosi,  nel  caso
di  intervento  avvenuto  fuori  udienza,  che  il  relativo atto sia
notificato alle parti.
   Nell'articolo  93,  e'  stato  fissato  fino  al  compimento degli
adempimenti  previsti  dall'art.  478  il   termine   ad   quem   per
l'intervento:  secondo  uno  schema  che  si  adatta  puntualmente al
sistema preclusivo previsto per la costituzione e l'intervento  delle
parti private diverse dall'imputato.
   Nell'articolo  94,  infine,  sotto  la  rubrica "provvedimenti del
giudice", si e' disciplinata  la  dichiarazione  di  inammissibilita'
dell'intervento,  una  dichiarazione che potra' essere pronunciata di
ufficio o su opposizione delle parti riproducendo  cosi',  sul  piano
formale,  un  regime  modellato sugli istituti della esclusione della
parte civile, del responsabile civile e del civilmente obbligato  per
la pena pecuniaria.
                              TITOLO VII
                              DIFENSORE
Premessa.
   Come  gia'  nel  Progetto  preliminare  del  1978,  la  disciplina
normativa  del  difensore  risulta,  rispetto  a  quella  del  codice
vigente,   semplificata  e,  insieme,  arricchita  in  ragione  delle
esigenze del nuovo processo "di parti",  della  sua  dinamica  e  dei
corrispondenti  nuovi  contenuti della funzione difensiva. Il maggior
numero di articoli (e dei commi all'interno di ciascuno  di  questi),
attraverso  cui essa si esprime (rispetto a quel Progetto), evidenzia
innanzi tutto che si e' avvertita la  opportunita'  di  un  ulteriore
sviluppo  delle  scelte  di  allora, alla luce sia delle osservazioni
della  precedente  Commissione  consultiva,  sia  del  dibattito  sul
"ruolo"  del  difensore nel processo penale, quale si e' approfondito
in questo  tempo  in  diverse  sedi,  particolarmente  nei  congressi
dell'avvocatura,  sia,  infine,  del contenuto di talune disposizioni
(per esempio, in tema di "garanzie di liberta' del  difensore")  che,
pur   essendo   incluse  nei  progetti  di  riforma  dell'ordinamento
professionale forense  tuttora  in  attesa  di  esame  da  parte  del
Parlamento,   ben  possono  (e  forse  piu'  opportunamente)  trovare
collocazione gia' nel codice di procedura penale.
   All'interno  di  tale  sviluppo  di  scelte, la Commissione non ha
potuto non avvertire come talune problematiche (quella,  ad  esempio,
della  "autodifesa",  che  tanto aveva impegnato le discussioni degli
anni 70) hanno perduto nel tempo, almeno in parte, la loro carica  di
"drammaticita'",  mentre altre, anche per il ritardo nella attuazione
delle  necessarie  leggi  collaterali  al   codice,   l'hanno   vista
accresciuta  (quella,  ad  esempio,  della  difesa di ufficio e della
necessita' di assicurarne l'effettivita'), onde  si  e'  ritenuto  di
ripensare e ridefinire, per questi aspetti, la precedente disciplina.
   In  secondo  luogo, e' stato necessario rivedere, in parte, talune
norme in conseguenza della differente struttura  del  nuovo  processo
rispetto  a quello delineato dal Progetto del 1978 (basti pensare, ad
esempio, alla scomparsa degli "atti istruttori",  ai  tempi  dilatati
delle   indagini   preliminari   e   alla  diversa  disciplina  della
"informazione di garanzia") e dettarne  compiutamente  talune  altre,
alla  stregua  del  diverso  contenuto  delle  direttive  della nuova
legge-delega, in tema di autonomia del  procedimento  disciplinare  e
della  relativa  decisione  per  abbandono  della difesa e in tema di
colloqui del difensore con l'imputato in custodia cautelare.
Illustrazione degli articoli.
   Le  prime due disposizioni del titolo VII riguardano la nomina del
difensore (rispettivamente: di fiducia e di ufficio).
   L'articolo 95, stabilisce che il diritto di nominare difensori (in
numero non maggiore di due)  spetta  all'imputato.  Ma,  per  effetto
della   estensione  dei  diritti  spettanti  all'imputato,  quale  e'
prevista dall'art.  62,  tale  diritto  compete  anche  alla  persona
indiziata,  a  quella  nei  cui  confronti  e'  disposta  una  misura
cautelare e,  infine,  alla  persona  nei  riguardi  della  quale  si
svolgono indagini preliminari.
   Ovvio  e'  che  il diritto di nominare difensori, nella fase delle
indagini preliminari, sia coordinato con il compimento di atti cc.dd.
"garantiti",  vale a dire di atti ai quali il difensore ha diritto di
assistere o per i quali, addirittura, ha diritto di essere  avvisato,
siano essi compiuti d'iniziativa dalla polizia giudiziaria ovvero dal
pubblico ministero (si rammenta, al riguardo, che la "informazione di
garanzia"  deve  essere  inviata  dal  pubblico  ministero  "sin  dal
compimento del primo  atto  al  quale  il  difensore  ha  diritto  di
assistere").
   E', tuttavia, da considerare che il compimento di atti "garantiti"
-  implicanti,  appunto,  la  suddetta  "informazione"  -   e'   solo
eventuale;  che,  d'altra  parte, la durata della fase delle indagini
preliminari puo' giungere, di norma, sino a sei mesi; e che,  durante
questo  tempo  non  trascurabile,  la  persona nei cui confronti sono
svolte indagini e che ha motivo di ritenersi oggetto delle medesime -
quantunque  non  destinataria  di una "informazione di garanzia" - ha
essa pure interesse a rendere formale presso  l'autorita'  procedente
una assistenza difensiva, se non altro per l'esercizio della facolta'
di presentare memorie o istanze. Anche a questa persona,  dunque,  e'
attribuito  il diritto di nominare difensori, secondo una specifica e
non irrilevante implicazione della citata norma in tema di estensione
dei diritti dell'imputato.
   Nella  parte  "dinamica" del codice sono, poi, dettate varie norme
per rendere edotto del diritto il titolare del medesimo: si veda,  ad
esempio,  quelle  in  tema  di dichiarazioni indizianti (art. 63), di
informazione di garanzia (art. 367), di  avvertimento  al  fermato  e
all'arrestato (art. 384).
   Le   formalita'   della   nomina  sono  le  piu'  semplici:  o  la
dichiarazione all'autorita' procedente ovvero l'atto  sottoscritto  e
trasmesso  con  raccomandata (non e' prevista alcuna autenticazione o
certificazione di  autografia  della  sottoscrizione,  che  sarebbero
risultate  formalita'  gravose,  spesso  incompatibili  con l'urgenza
dell'atto, e  comunque  superflue  a  fronte  della  possibilita'  di
agevoli riscontri).
   In  difetto  di  nomina  del  difensore  di  fiducia ovvero quando
l'assistenza fiduciaria venga comunque a mancare, l'imputato  e',  in
base  al  disposto  dell'articolo  96,  assistito  da un difensore di
ufficio.
   E'  evidente  che  questa  assistenza  spetti  anche  alla persona
indiziata e a quella nei cui confronti sono compiuti atti di indagine
"garantiti";  non  spetta, invece, nell'ipotesi residua, quando cioe'
si  tratti  di  persona  nei  cui  confronti  si  svolgono   indagini
preliminari  attraverso  atti  diversi da quelli "garantiti", poiche'
questo  renderebbe  necessario  introdurre  -  contro   una   precisa
direttiva della legge-delega - la informazione di garanzia da inviare
per il solo fatto dello svolgimento di tali indagini.
   Sul  tema  della  difesa  di  ufficio si e' svolto un approfondito
dibattito per ricercare e definire un congegno  normativo  capace  di
corrispondere alla direttiva 105 della legge-delega, la quale impegna
ad adeguare l'istituto a criteri che garantiscano l'"effettivita'" di
tale tipo di difesa.
   E'  stata,  da  una  parte  dei commissari, ribadita l'esigenza di
escludere che la nomina possa in qualsiasi modo, diretto o indiretto,
essere  correlata ad una scelta del pubblico ministero, che, rispetto
all'imputato, e' l'"altra parte". Ne'  -  si  e'  aggiunto  -  sembra
opportuno  configurare, almeno in "prima battuta" una nomina da parte
del  giudice,  ancorche'  sulla  base  di   elenchi   di   "turnisti"
predisposti  dal consiglio forense, essendo noto come il difensore di
turno abbia dato scarsi o addirittura scadenti risultati e come,  del
resto,   l'osservanza  degli  elenchi  non  costituisca,  secondo  la
giurisprudenza,  un  requisito  di   validita'   della   nomina.   E'
controproducente nascondersi, alla luce della esperienza, che sovente
i difensori di ufficio sono nominati senza  alcun  rispetto  ne'  dei
criteri di rotazione ne', soprattutto, della necessita' di assicurare
all'imputato l'assistenza piu' valida, in rapporto alla natura e alla
gravita'  dell'imputazione  e alla complessita' del procedimento. Non
sono rari i casi di nomine fatte per assecondare esigenze  eterogenee
rispetto  a  quella  della  effettivita'  della  difesa.  E  si  deve
rammentare che quasi sempre si ricorre al difensore  di  ufficio  per
gli imputati piu' sprovveduti e dotati di minori risorse economiche e
che, per contro, nel nuovo processo la  difesa  richiedera'  maggiore
impegno e professionalita'.
   Si  era,  di  conseguenza,  proposto  -  alla  stregua di cio' che
prevede, quantomeno per la fase istruttoria, la legge francese  -  di
affidare  la  designazione  del  difensore  di  ufficio al presidente
dell'ordine forense, secondo criteri (in particolare,  in  base  alla
predisposizione   di  elenchi  e  di  "turni  di  reperibilita'")  da
specificare nelle disposizioni di attuazione;  e,  solo  in  caso  di
omessa  tempestiva  designazione, ad evitare rallentamenti o ritardi,
di prevedere la nomina da parte del giudice.
   A  cio'  e' stato, tuttavia, obiettato che il sistema risulterebbe
in pratica inadatto rispetto alle esigenze di celerita' proprie quasi
sempre  delle indagini preliminari (la stessa necessita' di ricorrere
ogni volta al giudice per la nomina  potrebbe  costituire  motivo  di
ostacolo o di ritardo).
   Si  e' fatta, a questo punto, palese l'opportunita' di individuare
un congegno, da un lato, piu' rapido  e  piu'  duttile  (in  modo  da
consentire  in tutti i casi e senza indugio alla polizia giudiziaria,
al  pubblico  ministero  e  al  giudice  di  compiere  le  rispettive
attivita'  quand'anche  per esse sia prevista l'assistenza difensiva)
e, dall'altro, capace di escludere scelte discrezionali,  tanto  piu'
da parte di soggetti collocati in contrapposizione dialettica a colui
che necessita di detta assistenza.
   Tale congegno e' quello che risulta dall'art. 96.
   Viene  meno,  innanzi  tutto, il concetto tradizionale di "nomina"
del difensore di ufficio, intesa, appunto, come scelta discrezionale.
   L'imputato,  privo  del  difensore  di fiducia, e' assistito da un
difensore di ufficio, i cui criteri di nomina - all'espresso fine  di
garantire  l'effettivita' della difesa - sono stabiliti dal consiglio
dell'ordine forense d'intesa con il presidente del  tribunale,  sulla
base di elenchi di difensori e di turni di reperibilita'.
   I  singoli  ordini  forensi  sono  in  questo  modo  impegnati  ad
esercitare istituzionalmente quella tutela della funzione  difensiva,
spesse  volte  rivendicata  dall'avvocatura,  e,  in particolare, non
tanto  a  formare  burocraticamente,  come  oggi,  meri  elenchi   di
difensori "turnisti", destinati ad essere ignorati, ma a determinare,
mediante le intese con  il  presidente  del  rispettivo  tribunale  e
soprattutto  con  riguardo alla peculiarita' delle diverse situazioni
locali, la disciplina della nomina. Quanto piu' questa sara'  precisa
e   specifica,   tanto  minori  saranno  le  possibilita'  di  scelte
discrezionali, fino al limite anche di  una  loro  esclusione,  cosi'
che,  ove si presenti la necessita' di dare all'imputato l'assistenza
di  un  difensore  di  ufficio,  questa  possa   essere   pressocche'
automatica, limitandosi l'autorita' procedente semplicemente alla sua
"individuazione".
   Appunto  in  questa  prospettiva, e' stato stabilito (comma 3) che
"il giudice, il pubblico  ministero  e  la  polizia  giudiziaria,  se
devono  compiere  un  atto  per il quale e' prevista l'assistenza del
difensore e  l'imputato  ne  e'  privo,  danno  avviso  dell'atto  al
difensore individuato sulla base dei criteri indicati nel comma 2.
   Quanto  alle  conseguenze  processuali dell'inosservanza di questi
criteri, si e' preferito non dettare una norma specifica e  lasciare,
invece,  che  il  problema  sia  risolto  in  sede giurisprudenziale.
Invero, una soluzione unitaria appare difficile a individuarsi ed e',
invece,  configurabile  una  gamma  di  soluzioni  in  rapporto  alla
maggiore o minore specificita' della disciplina e alla qualita' delle
inosservanze.
   E'  stata, piuttosto, avanzata una opzione - che potra' essere, se
del caso, espressa in sede di norme di attuazione - per istituire una
forma  di  controllo  sull'osservanza  dei  criteri  (prevedendo,  ad
esempio, che dei casi in cui sia procurata all'imputato  l'assistenza
di un difensore di ufficio siano informati entro un congruo termine o
periodicamente  il  presidente  del  tribunale   ed   il   presidente
dell'ordine  forense) e altresi' per stabilire che l'inosservanza dei
criteri stessi costituisce illecito disciplinare.
   A  rafforzare il principio, secondo cui il difensore di ufficio e'
quello predeterminato e individuato nei sensi ora detti, il  comma  4
dell'art.  96  stabilisce  che  l'incarico resta affidato allo stesso
soggetto anche se non sia stato  reperito  o  non  sia  comparso.  In
questo caso, residua la possibilita' per il giudice o per il pubblico
ministero (non, ovviamente, per la polizia  giudiziaria,  che  dovra'
rivolgersi  al  secondo,  suo  naturale  referente) di designare, con
evidenti  margini  di  discrezionalita'  o  di   casualita',   "altro
difensore  immediatamente reperibile", il quale, tuttavia, agisce nei
limiti di un "sostituto", cioe' fin che non intervenga  il  primo  ad
esercitare la funzione difensiva.
   Sempre  in chiave di promozione della effettivita' della difesa di
ufficio vanno lette le disposizioni del comma  5  dell'art.  96,  che
stabiliscono  l'obbligo  per  il  difensore di ufficio di prestare il
patrocinio ed il  principio  della  immutabilita'  del  difensore  di
ufficio (non sostituibile se non per giustificato motivo).
   Infine,  ad  assicurare  l'effettivita'  della difesa, deve essere
stabilito che in ogni caso l'attivita' del difensore di  ufficio  sia
retribuita.  Cio'  sara'  oggetto  di  una norma di attuazione, nella
quale potra' essere previsto che gli onorari e le spese della  difesa
di   ufficio   siano  determinati  dal  giudice  secondo  le  tariffe
professionali; che in caso di assoluzione siano posti a carico  dello
Stato,  se l'imputato si trova nelle condizioni per essere ammesso al
patrocinio per i non abbienti; che in caso di condanna siano posti  a
carico  del  condannato; che, se l'obbligato non adempie, l'ammontare
degli importi stabilito dal giudice costituisce onere deducibile  dal
reddito professionale.
   L'ultimo  comma dell'art. 96, infine, ribadisce il principio della
sussidiarieta' della difesa di ufficio, stabilendo che  il  difensore
di  ufficio  cessa  dalle  funzioni,  non  appena  venga  nominato un
difensore di fiducia.
   L'articolo  97,  detta  la  disciplina  del  "patrocinio  dei  non
abbienti", un istituto assunto a connotato specifico del  diritto  di
azione  e  di  difesa  dall'art.  24 comma 3 Cost., e che deve essere
particolarmente garantito nel nuovo processo penale. La  legge-delega
lo  richiama  espressamente  (alla  direttiva  21,  che  riproduce la
direttiva 18 della  legge-delega  del  1974),  prevedendo  che  possa
esservi  ammessa  "la  persona  danneggiata dal reato che dichiari di
volersi costituire parte civile". Se  cio'  vale  per  chi  e'  parte
eventuale  e pur sempre secondaria - sotto il profilo degli interessi
- del processo penale, e'  evidente  che  si  considera  pacifico  ed
indiscutibile  il patrocinio dell'imputato non abbiente, che e' parte
necessaria e principale.
   Certo,  la  legge-delega  fa riferimento ad una apposita, emananda
legge, collaterale al codice e non  a  quella  vigente  sul  gratuito
patrocinio  (che condiziona l'ammissione alla probabilita' dell'esito
favorevole della causa). Nello  stesso  tempo  esige  che  il  codice
riprenda  tale  richiamo,  indicando  i  soggetti  che possono essere
ammessi al gratuito patrocinio.
   Nel  Progetto  del  1978 si era provveduto con una disposizione di
attuazione (art. 24). Ora si e' preferito dettare una specifica norma
nel  corpo  del codice stesso: al danneggiato che intende costituirsi
parte civile sono  stati  equiparati,  oltre  ovviamente  l'imputato,
anche  il  responsabile civile (secondo una linea interpretativa gia'
suggerita dalla precedente Commissione  consultiva)  e  l'offeso  dal
reato,  cui  e'  stato  assegnato  nel  nuovo  processo  un  ruolo di
controllo dell'operato del pubblico  ministero,  come  risulta  dalle
direttive 38, 39, 50 e 51 della nuova legge-delega.
   La   Commissione  ha  rilevato  l'opportunita'  che,  in  sede  di
elaborazione della legge sul patrocinio per i non abbienti, si  tenga
conto  che la possibilita' della ammissione deve essere prevista, per
l'imputato e per l'offeso dal reato, gia' in relazione alle  indagini
preliminari,  ancorche' non siano compiuti atti "garantiti" e non sia
stata inviata l'informazione di garanzia.
   Salve  due  lievi  variazioni  formali,  l'articolo 98, in tema di
"estensione al difensore dei  diritti  dell'imputato",  riproduce  il
testo dell'art. 99 del Progetto del 1978.
   Al  difensore  spettano  facolta'  e  diritti  identici  a  quelli
attribuiti all'imputato (a meno che la legge li riservi espressamente
soltanto a questo: vedasi, ad esempio, in tema di impugnazioni l'art.
564,  con  particolare  riguardo   all'impossibilita'   di   proporre
impugnazione  da  parte  del  difensore  di  ufficio  del contumace).
Peraltro, il difensore non puo' porsi in contrasto  con  la  volonta'
dell'imputato,  onde, nel conflitto tra loro, prevale la volonta' del
secondo, che puo' privare di effetti l'atto  del  difensore,  purche'
cio'  avvenga  con  espressa  dichiarazione  scritta  e  prima che il
giudice  abbia  emesso  un  provvedimento  sull'atto  medesimo.   Una
controdichiarazione  intervenuta  in  un  momento  successivo sarebbe
priva di effetti (il che,  fra  l'altro,  giova  ad  evitare  che  un
conflitto  apparente tra imputato e difensore si trasformi in un modo
di eludere l'imperativita' della norma).
   L'articolo  99,  dedicato  alla difesa delle "altre parti private"
riprende  la  disciplina  del  Progetto  del  1978,   con   ulteriori
adeguamenti,  anche lessicali, a quella della difesa e rappresentanza
delle parti nel processo civile, trattandosi, in definitiva, di parti
che  agiscono  nell'ambito  di  un  rapporto  civilistico,  ancorche'
inserito nel processo penale.
   Al  fine  di evitare un eccessivo "affollamento" si e' ritenuto di
limitare la difesa ad un solo difensore, che, dovendo  essere  munito
di procura speciale, rappresenta la parte a tutti gli effetti e puo',
quindi, compiere e ricevere per essa tutti gli atti del processo  che
non le siano espressamente riservati.
   Il  conferimento  della  procura speciale e' stato modellato sullo
schema dell'art. 83 c.p.c.
   Si  e'  anche stabilito in sintonia con quanto dispone, in tema di
notificazioni, l'art. 154 del nuovo  Progetto  che  il  difensore  e'
domiciliatario ex lege della parte.
   Le  facolta' e i diritti riconosciuti all'offeso dal reato rendono
evidente che a questo soggetto deve essere assicurata la possibilita'
di  nominare  un  difensore.  A  tanto provvede l'articolo 100, che a
seguito dell'attribuzione di tali diritti e facolta' agli enti e alle
associazioni  con  finalita' di tutela degli interessi lesi dal reato
(v. art. 90), estende a tali figure soggettive anche  il  diritto  di
nominare un difensore.
   L'articolo 101, concernente "i sostituti dei difensori", ripropone
il corrispondente articolo del  Progetto  del  1978,  al  quale  sono
stati,  peraltro,  apportati  alcuni ritocchi al fine di precisare la
figura e l'ambito delle facolta' e degli obblighi del sostituto. Cio'
anche   in  considerazione  sia  del  maggiore  impegno  dell'ufficio
difensivo nel  nuovo  processo  sia  della  conseguente,  prevedibile
maggiore  frequenza  con  la  quale  il  difensore sara' costretto ad
avvalersi di sostituti.
   Innanzi  tutto,  come  risulta  dalla  generalita' della norma, la
possibilita' di  designare  un  sostituto  e'  conferita  a  tutti  i
difensori  di  ognuna  delle  parti;  quindi, potra' farsi sostituire
anche il difensore fiduciario  dell'imputato  che  abbia  gia'  anche
altro difensore fiduciario e altresi' il difensore di ufficio; potra'
farsi  sostituire  il  difensore  dell'offeso  dal  reato  (e  quello
dell'ente  "esponenziale")  ed  altresi'  il  difensore  di una parte
privata diversa dall'imputato.
   E'  da  considerare, da un lato, che l'istituto della sostituzione
non solo non ha dato luogo ad inconvenienti, ma si e' mostrato spesso
assai  utile (e anche piu' si mostrera' tale) e, d'altro lato, che il
rapporto parte-difensore e' di  natura  essenzialmente  privatistica,
onde  non  sembrano doversi prevedere vincoli o interferenze la' dove
la parte nulla  obbietti  al  fatto  che  alla  sua  difesa  provveda
temporaneamente   un   sostituto  del  difensore  nominato.  Che  se,
viceversa,  non  gradisse  la  sostituzione,  potrebbe  provvedere  a
nominare  altro difensore. E se si trattasse di difensore di ufficio,
potrebbe chiedere che fosse sostituito con altro.
   Si  e'  ritenuto opportuno non fissare limiti alla sostituibilita'
con riguardo alla qualita'  dell'impedimento  (si  rammenta  che  nel
Progetto  del  1978  la  si  prevedeva  solo  in  caso di impedimento
"legittimo"  e  che  la  Commissione  consultiva  aveva  proposto  di
prevedere,  invece, che l'impedimento dovesse essere "giustificato").
A parte le ben note difficolta' di dare  un  contenuto  preciso  alla
nozione    di    "impedimento   legittimo"   ovvero   "giustificato",
specialmente  quando  l'impedimento  riguardi  il  difensore,  e   di
individuare le modalita' del relativo accertamento, si e' considerato
come piu' opportuno che la qualita' dell'impedimento  che  giustifica
la  sostituzione  rilevi  non  tanto sull'efficacia processuale della
medesima quanto, piuttosto, sul piano  deontologico,  trattandosi,  a
ben vedere, di un problema di disciplina professionale.
   Quanto agli aspetti temporali, si e' stabilito che la designazione
del sostituto possa essere fatta "per" il caso  di  impedimento  (con
cio' volendo sottolineare che possa avvenire anche preventivamente) e
"per tutta la durata" dell'impedimento stesso. Con  questa  locuzione
si  e' inteso, per un verso, rendere esplicito che la sostituzione ha
dei limiti temporali e, per altro verso, che, tuttavia,  tali  limiti
non   possono   essere   determinati  aprioristicamente  ne'  debbono
necessariamente  coincidere  con  determinate   cadenze   o   momenti
processuali,   ma   devono   essere   commisurati   ai  tempi  stessi
dell'impedimento, siano essi piu' o meno lunghi.  E'  noto  come  nel
sistema  oggi  vigente una certa linea giurisprudenziale informata ad
estremo rigore adduca la regola - che non sembra  corrispondere  alle
esigenze  della  realta'  concreta  - secondo cui la sostituzione non
potrebbe valere, ad esempio, per tutta la  durata  del  dibattimento.
Tale  interpretazione  non  sara' piu' praticabile alla stregua della
nuova norma, in base  alla  quale  la  sostituzione  dovrebbe  essere
considerata     legittima     finche'     permanga     l'impedimento,
indipendentemente dalla sua  durata;  salva  sempre,  ovviamente,  la
possibilita'   della  parte  di  revocare  la  nomina  del  difensore
fiduciario  e  di  rivolgersi  ad  altri  ovvero   di   chiedere   la
sostituzione del difensore di ufficio.
   Il  sostituto  deve,  poi,  agire nella pienezza dei diritti e dei
doveri del difensore. In tale senso dispone il comma 2:  un  precetto
cosi'  generale  e  onnicomprensivo  da rendere superflua l'esplicita
previsione anche del diritto di proporre impugnazione.
   In  sede  di  disposizioni  di  attuazione  saranno opportunamente
previste le formalita' per la designazione del sostituto.
   E'  stato  dibattuto ampiamente il tema delle garanzie di liberta'
del difensore, nella consapevolezza che in un processo  di  parti  la
funzione  difensiva,  al  pari  di  quella  di  accusa,  deve  essere
fortemente tutelata e che,  dunque,  era  necessario  dare  contenuti
concreti  e  specifici  alla  direttiva  4  della legge-delega. Ne e'
risultato l'articolo 102,  nel  quale,  sotto  la  rubrica,  appunto,
"Garanzie  di liberta' del difensore" si e' ritenuto, in primo luogo,
di raccogliere varie disposizioni che nel  Progetto  del  1978  erano
distribuite   in   varie  altre  norme:  in  tema  di  ispezioni,  di
perquisizioni, di sequestri,  di  intercettazione  di  comunicazioni.
Cio' rende piu' palese che si tratta di disposizioni tutte coordinate
alla tutela della funzione difensiva.
   Esse  sono,  poi,  state arricchite nei contenuti, avendo presenti
anche  talune  proposte  dei  Progetti  di  riforma  dell'ordinamento
professionale forense.
   In  particolare,  sono stati fissati i presupposti che legittimano
le ispezioni e le perquisizioni negli studi dei difensori,  le  quali
possono  essere  eseguite  solo:  quando  il  difensore  ovvero altro
soggetto che svolge stabilmente attivita' nello studio  e'  imputato,
limitatamente  ai fini dell'accertamento del reato attribuito; quando
occorre rilevare  tracce  o  altri  effetti  materiali  del  reato  o
ricercare cose o persone specificamente predeterminate.
   Circa   i  sequestri,  il  comma  2  dell'art.  102  riproduce  il
corrispondente testo del Progetto del 1978, in base al quale e' fatto
divieto  di  procedere  ai medesimi presso i difensori e i consulenti
tecnici, quando riguardino carte  e  documenti  relativi  all'oggetto
della  difesa,  salvo che costituiscano corpo del reato. A sua volta,
il comma 6 dello stesso articolo riproduce dall'art. 247 comma 3  del
Progetto  del  1978  il divieto di sequestro e di ogni altra forma di
controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore,
in  quanto  riconoscibile  dalle  prescritte  indicazioni, a meno che
l'autorita' giudiziaria non abbia fondato motivo di ritenere  che  si
tratti di corpo del reato.
   In  tema  di  intercettazione di conversazioni e comunicazioni, il
comma 5 dell'art. 102 riprende dall'art. 258 comma 3 del Progetto del
1978  il  divieto  relativo  a  quelle  dei difensori, dei consulenti
tecnici e dei loro ausiliari e a quelle dei medesimi con  le  persone
assistite.  E'  stato,  pero', eliminato, in quanto ritenuto fonte di
equivoci e di  incertezze,  il  limite  concernente  l'oggetto  delle
conversazioni, essendo comunque implicito che il divieto non riguarda
indiscriminatamente tutte le  conversazioni  di  chi  riveste  quelle
qualifiche  e  per  il  solo  fatto  della  qualifica, ma soltanto le
conversazioni che attengono alla funzione esercitata.
   Con  riguardo  ancora  alle  ispezioni,  alle  perquisizioni  e ai
sequestri, la Commissione aveva esaminato l'opportunita' di riservare
il  relativo  potere  al  giudice,  alla  stregua  di  cio'  che gia'
risultava nel Progetto del  1978.  Il  che  avrebbe  certamente  dato
rilievo  ad  una ulteriore garanzia. Si e', peraltro, considerato che
il giudice non ha poteri di indagine e  che  sarebbe,  quindi,  assai
improprio,  nel  nuovo  sistema (dal quale e' scomparsa la figura del
giudice istruttore) riservare al giudice il compimento di  attivita',
appunto,  d'indagine,  quali  sono  quelle  in  esame. Si e', quindi,
preferito  (comma  4)   consentirle   al   pubblico   ministero   con
l'autorizzazione  del  giudice,  dando  vita,  in  tal  modo,  ad una
disciplina  particolare,  analoga  a  quella  generale  in  tema   di
intercettazione  di  comunicazioni  (v. art. 267). E' stato, inoltre,
previsto (comma 3) un  preventivo  avviso  al  consiglio  dell'ordine
forense  per  consentire  al  presidente ovvero ad un suo delegato di
assistere alle operazioni; nel qual caso, ha diritto di avere, se  la
richiede, copia del provvedimento.
   L'inosservanza  di  tutte  queste  disposizioni  a  garanzia della
liberta' del difensore implica, per quanto dispone l'art. 102  ultimo
comma, la inutilizzabilita' dei risultati delle attivita' compiute.
   In  un'apposita  norma,  l'articolo 103, sono stati disciplinati i
colloqui del difensore con l'imputato in custodia cautelare.
   Per  dare attuazione alla direttiva 6 della nuova legge-delega, si
e' considerato, in primo luogo, che -  contrariamente  a  quanto  era
previsto nella legge-delega del 1974 (direttiva 4) - l'interrogatorio
dell'imputato in custodia  cautelare  non  puo'  piu'  costituire  il
momento discriminante fra il tempo in cui sono impediti e il tempo in
cui sono consentiti i colloqui con il  difensore.  L'esame  dell'iter
legislativo  che  ha  condotto  alla modifica del testo precedente e'
particolarmente eloquente in proposito. La nuova opzione, del  resto,
si  accorda con la natura di strumento di difesa dell'interrogatorio,
sottolineata dall'ultima parte  della  direttiva  5,  oltre  che  con
l'esigenza   di   riconoscere,  in  un  sistema  di  piu'  accentuata
"accusatorieta'", il diritto di consultarsi con il difensore anche in
funzione dell'interrogatorio e, quindi, "prima" di esso. Appare cosi'
testualmente superato il rilievo - sul quale si fondava la  direttiva
4  del  1974  -  secondo  cui  il  differimento dei colloqui al tempo
successivo al primo interrogatorio trovava ragione  nell'esigenza  di
assicurare la "parita' delle armi" fra le parti (pubblico ministero e
difensore), non potendosi ammettere, in  quanto  espressione  di  una
disparita',  un  "contatto"  del  difensore  anteriormente  a  quello
realizzabile dal pubblico ministero,  appunto,  con  l'interrogatorio
(il  rilievo,  peraltro,  trascurava che non appare configurabile una
"parte-difesa" impersonata dal difensore,  ma  una  "parte-imputato",
cui  deve  essere  assicurato  il  diritto  di difesa, anche mediante
l'assistenza "tecnica" di un difensore). Di conseguenza, il diritto a
colloqui  immediati,  cioe' sin dal momento di inizio dell'esecuzione
della misura o subito dopo, deve essere la regola.
   Al  comma  1 si afferma, dunque, il diritto in parola con riguardo
all'imputato  (indiziato)  in  custodia  cautelare.  Al  comma  2  e'
configurato  lo  stesso  diritto per la persona arrestata o fermata a
norma dell'art. 382, diritto che sorge subito  dopo  l'arresto  o  il
fermo.  E'  chiaro  che,  avendo  questo  diritto  il  suo fondamento
esclusivo nella legge, non sono necessari permessi  o  autorizzazioni
particolari  per  esercitarlo  in  concreto.  E'  sembrato,  percio',
inutile  aggiungere  l'inciso   "senza   specifica   autorizzazione",
figurante nel comma 1 dell'art. 102 del Progetto del 1978.
  Per  contro,  il differimento dell'"esercizio" di tale diritto, per
un tempo non superiore a sette giorni - quale pure e' previsto  dalla
nuova  direttiva  -  deve  essere disciplinato come una eccezione. E'
parsa,  tuttavia,  inopportuna  una   esasperata   tipizzazione   "in
positivo" dei casi di differimento e preferibile, invece, lasciare la
valutazione in concreto  al  giudice,  secondo  una  discrezionalita'
"vincolata"   ad   alcuni   limiti   (ulteriori,  rispetto  a  quello
"temporale" gia' indicato dalla delega e che,  peraltro,  attiene  al
quantum  del  differimento,  allorche'  si  sia  gia'  considerato di
disporlo). Si e' ritenuto (comma 3) che esso  debba,  innanzi  tutto,
corrispondere  ad  esigenze  cautelari della sola fase delle indagini
preliminari; in  secondo  luogo,  che  debba  trattarsi  di  esigenze
"specifiche"   ed   "eccezionali",   come   tali   da  indicarsi  nel
provvedimento.
   Esiste,  poi,  un  limite  "in  negativo", che non si e' giudicato
conveniente esprimere in una norma, ma che discende dal  sistema:  la
dilazione  non  puo'  essere  disposta  per impedire di consultare il
difensore per l'udienza di convalida del fermo o dell'arresto  ovvero
per l'interrogatorio. Indubbiamente, tenuto conto che i termini entro
cui deve essere svolta tale  udienza  e  quelli  entro  cui  si  deve
provvedere   all'interrogatorio   sono  inferiori  a  quello  massimo
possibile della dilazione, vi  saranno  certamente  casi  in  cui  la
dilazione   stessa   avra'   come   conseguenza  di  impedire  quelle
consultazioni. Ma deve  trattarsi  di  una  mera  conseguenza  di  un
provvedimento giustificato da altre ragioni.
   E'   chiaro   comunque  che  solo  la  effettiva  specificita'  ed
eccezionalita' di queste ragioni impedira' una  prassi  generalizzata
di   differimenti,   la  quale  finirebbe  per  rendere  il  congegno
peggiorativo rispetto a quello che  sarebbe  risultato  ancorando  il
diritto  ai  colloqui  al  momento immediatamente successivo al primo
interrogatorio.
   Il  provvedimento  con  cui  il giudice, su richiesta del pubblico
ministero, dispone il  differimento  deve  essere  motivato,  appunto
perche' sia dato conto delle ragioni di conformita' del caso concreto
ai presupposti legali.
   Assai delicato e' parso il problema del soggetto cui attribuire il
potere di differimento in caso di arresto  e  di  fermo.  Ragioni  di
coerenza  sistematica  avrebbero postulato di attribuirlo, esso pure,
al giudice; ma cio' nel concreto lo avrebbe reso impraticabile. Lo si
e',  dunque,  attribuito  al  pubblico  ministero, ovviamente con gli
stessi presupposti,  ma,  in  piu',  solo  fino  al  momento  in  cui
l'arrestato  o  il fermato e' posto a disposizione del giudice (comma
4). Il fatto di porre  la  persona  a  disposizione  del  giudice  fa
comunque  cessare  gli  effetti della dilazione disposta dal pubblico
ministero, restando, peraltro, salva la possibilita' per  il  giudice
di disporre altra dilazione, nei limiti temporali residui rispetto al
termine massimo di sette giorni.
   Nelle  disposizioni di attuazione sara' stabilito che il difensore
per conferire con la persona in custodia cautelare ha libero  accesso
ai luoghi in cui essa e' custodita; inoltre, che copia del decreto di
differimento e' consegnata a chi esercita la custodia  ed  esibita  a
chi richiede il colloquio.
   Con  l'articolo 104, si e' disciplinato, alla luce della direttiva
4 della legge-delega (essa pure  in  parte  di  contenuto  nuovo:  v.
direttiva  3 della delega del 1974), l'abbandono della difesa, cui e'
stato assimilato il rifiuto della  difesa  di  ufficio  (inteso  come
violazione dell'obbligo previsto dall'art. 96 comma 5).
   Al  comma  1  e'  fissata  la  competenza  esclusiva del consiglio
dell'ordine. Si e' preferito, qui  e  altrove,  fare  riferimento  al
consiglio dell'ordine "forense" - e non dell'ordine "degli avvocati e
dei procuratori" - tenuto conto che nei fatti questa  distinzione  e'
ormai  estremamente ridotta ed e' destinata ad essere abolita in sede
di riforma dell'ordinamento professionale  ed  in  attuazione  di  un
orientamento  ormai  univoco  nell'ambito  dei  paesi della Comunita'
europea.  Del  resto,  dalla  direttiva  4  e'  stata  eliminata   la
distinzione  (presente,  invece, nella direttiva 3 della legge-delega
precedente).
   Al  comma 2 e' stabilita l'autonomia del procedimento disciplinare
rispetto al procedimento penale in cui siano avvenuti  l'abbandono  o
il  rifiuto. Al comma 3 e' prevista l'inapplicabilita' delle sanzioni
disciplinari  nei  casi  di  abbandono  o  di  rifiuto  motivati   da
violazione dei diritti della difesa, purche' il consiglio dell'ordine
li consideri, sotto qualsiasi profilo, "giustificati". In  linea  con
il principio di autonomia del procedimento disciplinare, "la causa di
non sanzionabilita'" prevista dal comma 3  puo'  essere  riconosciuta
anche  se la violazione dei diritti della difesa e' stata esclusa dal
giudice. Dal che risulta chiaramente, per un  verso,  l'insussistenza
di  ogni  rapporto  di  pregiudizialita'  tra  procedimento  penale e
procedimento   disciplinare   e,   per    un    altro    verso    (ma
conseguentemente), l'insussistenza di ogni efficacia nel procedimento
disciplinare della decisione del giudice penale sul fatto che ha dato
motivo  all'abbandono  o  al  rifiuto  della  difesa.  Tutto  cio' in
attuazione della direttiva 4 della legge-delega anche per la parte in
cui   si   sottolinea,   accanto   all'autonomia   del   procedimento
disciplinare, quella della relativa "decisione".
   Con  il  comma  4,  a  naturale  corollario delle prescrizioni ora
illustrate, si e' imposto  all'autorita'  giudiziaria  un  dovere  di
rapporto  al  consiglio  dell'ordine;  un  dovere  che si e' ritenuto
conveniente estendere oltre i casi di abbandono e  di  rifiuto  della
difesa,  facendo  carico  all'autorita'  giudiziaria  di  riferire al
consiglio dell'ordine ogni altra violazione, da parte del  difensore,
dei  "doveri di lealta' e di probita' nel procedimento", analogamente
a quanto e' stabilito dall'art. 88 comma 2 c.p.c. Nel nuovo  processo
penale  "di  parti"  -  in  cui  la funzione difensiva e' caricata di
compiti nuovi e diversi rispetto a quelli tradizionali di un processo
"inquisitorio"  (si pensi, ad esempio, alla ricerca ed individuazione
delle fonti di prova, ai possibili "contatti" con le  medesime,  alla
escussione probatoria diretta, etc.), devono essere assicurate, da un
lato, la liberta' e  l'autonomia  del  difensore  e,  dall'altro,  il
rigoroso   rispetto   delle   regole   di   deontologia.  Il  giudice
disciplinare  deve,  dunque,  essere  "attivato"  ad  esercitare   il
controllo  e,  quando  occorre, in piena autonomia di valutazioni, la
repressione degli illeciti.
   Con  il  comma  5,  infine,  e' stata inserita una norma analoga a
quell'art.  132  del  codice  vigente,  che  riguarda   gli   effetti
processuali  dell'abbandono  della  difesa  sia  delle  parti private
diverse dall'imputato sia dei  soggetti  alle  medesime  assimilabili
(offeso  dal  reato, enti "esponenziali"). E' stato ribadito che tale
abbandono  non  impedisce  in  alcun  caso   la   continuazione   del
procedimento  e  non  interrompe  l'udienza  (gli effetti processuali
dell'abbandono o del rifiuto della difesa dell'imputato,  discendono,
invece,  dalle varie norme in tema di obbligatorieta' dell'assistenza
difensiva e, nei congrui  casi,  da  quelle  in  tema  di  difesa  di
ufficio).
   All'articolo  105 comma 1 e' enunciato il principio secondo cui la
difesa di piu' imputati puo' essere assunta  da  un  unico  difensore
comune,  con  il  limite,  tuttavia,  che le rispettive posizioni non
siano tra loro "incompatibili" (si e' preferito questo  termine  alla
espressione  "in conflitto" che era stata adottata nel corrispondente
articolo del Progetto del 1978).
   E'  chiaro  che  in  questo  caso alcune o tutte le difese possono
essere danneggiate, onde la  disposizione  tende  a  tutelare  ancora
l'effettivita' della difesa.
   D'altra  parte, la valutazione dell'"incompatibilita'" - che pure,
gia' alla luce di una norma deontologica, deve essere  fatta  con  il
massimo  scrupolo  in  primo  luogo  dal  difensore - non puo' essere
lasciata esclusivamente a costui, se non altro a causa degli  effetti
dell'incompatibilita'  stessa sulla validita' degli atti processuali.
   E'  parso, quindi, opportuno prevedere una procedura per rilevarla
ed eliminarla. Innanzi tutto, quando il giudice  ovvero  il  pubblico
ministero   rilevano   una  situazione  di  incompatibilita',  devono
indicarla, esporne i motivi  e  fissare  un  termine  per  rimuoverla
(comma  3). Cio' consente di richiamare l'attenzione degli imputati o
del difensore, che non se ne siano avveduti o l'abbiano trascurata, e
di  indurli  a  provvedere,  in  modo - per cosi' dire - fisiologico,
cioe' attraverso la rinuncia a talune difese da parte  del  difensore
ovvero  la  revoca dello stesso e la libera scelta di altri difensori
fiduciari da parte degli imputati.
   Ove,  peraltro, l'incompatibilita' non sia rimossa in questo modo,
e' previsto (comma 3)  il  potere  del  giudice  di  dichiararla  con
ordinanza  e  di  provvedere  alle  necessarie  sostituzioni "a norma
dell'articolo 96".
   Questo  potere  spetta parimenti al giudice anche nella fase delle
indagini preliminari, essendo chiaro che non  sarebbe  conforme  alla
"parita'  delle  armi" tra accusa e difesa e alle rispettive sfere di
autonomia ammettere una interferenza  del  pubblico  ministero  sulla
organizzazione  della  difesa. Si e', quindi, previsto (comma 4) che,
ove l'incompatibilita' sia opinata dal pubblico ministero, questi  ne
richieda  la  rimozione  al  giudice,  il  quale  provvede dopo avere
sentito le parti interessate.
   L'articolo  106,  riproduce,  nella  sostanza,  la  corrispondente
disposizione del Progetto del 1978, concernente la  "rinunzia"  e  la
"revoca"  del  difensore, dettando, peraltro in modo esplicito, anche
il "diniego"  (o  "non  accettazione")  dell'incarico  da  parte  del
difensore  nominato.  Non  sono,  invero,  infrequenti  i casi in cui
persone imputate o indiziate  nominano  un  difensore  senza  essersi
prima assicurate la sua disponibilita' ad assumere l'incarico, mentre
deve essere chiaramente riaffermata la liberta' dell'avvocato di  non
accettare l'incarico stesso.
   In  definitiva,  la  nomina  dispiega  piena  efficacia solo se e'
accettata (il che nella maggior parte dei casi, non essendo  previste
forme   particolari,   avverra'   in   modo  tacito  o...  per  fatti
concludenti, cioe' con il compimento da parte del difensore  nominato
di   qualche   atto).  Quando  non  abbia  compiuto  atti  implicanti
accettazione tacita, il difensore puo' dichiarare che non accetta  la
nomina   semplicemente  comunicando  questa  sua  volonta'  contraria
all'autorita' procedente e alla persona che tale nomina ha fatta.
   In  ragione della natura personale e fiduciaria dell'incarico, sia
l'imputato sia  il  difensore  possono  in  qualsiasi  momento  farlo
cessare,  il primo mediante revoca, il secondo mediante rinuncia (che
pure deve essere comunicata all'autorita' procedente e all'imputato),
per  le  quali  la  legge  processuale non puo' richiedere condizioni
particolari  (l'eventuale  arbitrarieta'   della   rinuncia   potendo
rilevare, nei congrui casi, sotto il profilo deontologico e dovendosi
pure fare salvi, tanto nel caso  di  rinuncia  quanto  in  quello  di
revoca, i profili civilistici di eventuali inadempienze).
   La liberta' di revoca e di rinuncia, tuttavia, non deve ostacolare
il corso del processo, onde si e' previsto (commi 2  e  3)  che  esse
abbiano  effetto  solo  quando  l'imputato risulti assistito da altro
difensore (fiduciario ovvero di ufficio) e  sia  decorso  il  termine
eventualmente richiesto dal nuovo difensore e a lui accordato.
   La  previsione,  appunto,  del  diritto  di chiedere e ottenere un
termine  a  difesa  e'  contenuta  in  un  apposito  nuovo  precetto,
l'articolo  107,  che  recepisce una proposta fatta dalla Commissione
consultiva sul Progetto del 1978.
   Al  difensore  che  subentri  ad  altro  difensore  il quale abbia
cessato  dalle   funzioni   per   rinuncia,   revoca,   abbandono   o
incompatibilita'  e' dato un termine congruo di almeno tre giorni per
consentirgli di prendere cognizione degli atti e  di  informarsi  sui
fatti oggetto del procedimento.
   Coordinando  questa  disposizione con quella dell'art. 106, appare
chiaro che  questo  termine  non  produce  effetto  paralizzante  sul
procedimento  nei  casi di rinuncia e di revoca; puo', invece, averne
nei casi di abbandono della difesa o di sostituzione di difensori per
incompatibilita'.
   Si  e'  infine,  esaminato il problema dell'attuazione dell'ultima
parte della direttiva 102  della  legge-delega,  secondo  cui,  anche
quando - per l'appartenenza dell'imputato o di un'altra parte privata
ad una minoranza linguistica riconosciuta  -  sussista  l'obbligo  di
interrogatorio e di esame, di redazione degli atti loro indirizzati e
dei verbali nella loro madrelingua,  essi  hanno  sempre  diritto  di
nominare  il  difensore  a  prescindere  "dall'appartenenza  etnica e
linguistica dello stesso".
   E'  sembrato  di dovere interpretare questa direttiva nel senso di
una riaffermazione della piena liberta' nella scelta  del  difensore,
che  non  deve essere condizionata ne', tanto meno, vincolata neppure
dalla necessita' di impiego di una determinata lingua nel  compimento
delle attivita' processuali.
   Si  e',  peraltro,  considerato  che tale piena liberta' di scelta
risulta dal sistema, oltre che dalle disposizioni  sulla  nomina  del
difensore fiduciario e sulla designazione di quello di ufficio, anche
in rapporto a quelle in tema di uso della lingua negli atti  (v.,  in
particolare,  l'art.  108),  sicche'  una  specificazione ulteriore -
certamente opportuna - potra' essere espressa da una  apposita  norma
di attuazione.
                               LIBRO II
                                 ATTI
   Il  libro  II,  dedicato  agli atti, e' quello la cui impostazione
sistematica e' meno innovativa. Se infatti si fa un confronto tra  la
suddivisione  in  titoli  di tale libro e la ripartizione in capi del
titolo IV  del  libro  I  dell'attuale  codice  (artt.  137-218),  si
constata  una analoga successione degli istituti disciplinati, con la
esclusione degli ultimi due capi del codice  vigente,  dedicati  alle
disposizioni  generali  sulle impugnazioni (spostate nel libro IX del
Progetto) ed agli incidenti di falso  (istituto  non  confermato  dal
Progetto  per  le  ragioni  spiegate in relazione alla disciplina dei
documenti come mezzi di prova).
   Per  il  resto,  il  titolo  I  del  presente  libro (disposizioni
generali) comprende la materia dei capi I e IV  dell'attuale  codice,
mentre  la  vigente  disciplina  degli  interpreti (artt. 326-331) e'
stata qui spostata dalla attuale collocazione in tema  di  istruzione
formale.
   Pur  nella  somiglianza  di  struttura  sistematica,  il  Progetto
contiene rilevanti  innovazioni  rispetto  al  codice  vigente  nella
concreta  disciplina  soprattutto della documentazione degli atti (la
cui intitolazione e' stata sostituita a quella attuale di "  processi
verbali   "   anche   per   evidenziare  la  scelta  di  tecniche  di
documentazione  diverse  dal  tradizionale  verbale),  nonche'  degli
istituti  delle  notificazioni  e  delle  nullita', essenziali per il
concreto funzionamento del processo.
   L'intitolazione  del  libro (" atti ", anziche' " atti processuali
") trova la propria giustificazione nella considerazione che  diverse
disposizioni   di   esso   sono   applicabili   anche  alle  indagini
preliminari, e quindi si riferiscono ad attivita'  che  precedono  la
instaurazione  del  vero  e  proprio processo, inteso nella accezione
tecnica che si precisera' (nella premessa al libro V).
                               TITOLO I
                        DISPOSIZIONI GENERALI
   Il titolo I del libro II del codice ha un contenuto corrispondente
nelle grandi linee alle norme che il codice vigente detta nel capo  I
(artt.  137-145)  e  nel  capo IV (artt. 162-165) del titolo dedicato
agli atti processuali.
   L'articolo  108,  dopo  aver  confermato  nel comma 1 il principio
(contenuto nel vigente art. 137) per cui gli  atti  del  procedimento
penale  devono  essere compiuti in lingua italiana, attua nel comma 2
la direttiva 102 della  legge-delega,  che  conferisce  ai  cittadini
italiani  appartenenti  ad  una minoranza linguistica riconosciuta il
diritto di essere interrogati ed esaminati  nella  loro  madrelingua,
con  redazione  del  relativo  verbale  anche in tale lingua. Poiche'
trattasi di un diritto, questa disciplina e'  stata  ricollegata,  in
linea  generale (salvo il contrario disposto di leggi speciali), alla
richiesta del cittadino alloglotto. Anche gli atti  del  procedimento
che  a  quest'ultimo vanno inviati successivamente alla sua richiesta
devono essere tradotti nella sua lingua.
   Il  presupposto  della  richiesta  informale  dell'interessato per
l'esercizio del diritto attribuitogli dal comma  2,  per  quanto  non
espressamente   previsto  nella  direttiva  102,  si  ricollega  alla
inesistenza di registrazioni  pubbliche  sulla  appartenenza  ad  una
minoranza  linguistica, tali da rendere conoscibile questa situazione
all'autorita' procedente. Come  si  diceva,  e'  fatta  espressamente
salva  una  diversa disciplina stabilita (per determinate minoranze o
anche  in  linea  generale)  da  leggi  speciali  e  da   convenzioni
internazionali.
   Come  e'  affermato  gia'  nella legge-delega, le disposizioni sul
bilinguismo degli atti compiuti dal (e nei confronti  del)  cittadino
appartenente   ad   una   minoranza  linguistica  riconosciuta  hanno
carattere territoriale, nel senso che esse  sono  applicate  soltanto
dalla  autorita'  giudiziaria  (di  primo  grado o di appello) avente
competenza su un territorio ove e' insediata (sia pure in  parte)  la
minoranza tutelata.
   L'ultima  parte  della  direttiva  102,  concernendo il diritto di
difesa, sara' disciplinata in sede di norme di attuazione.
   I  quattro  articoli  successivi del Progetto sono sostanzialmente
conformi ad articoli del codice vigente. In particolare gli  articoli
109  e  110  corrispondono agli artt. 139 e 140, e gli articoli 111 e
112 corrispondono agli artt. 162 e 163.
   Profondamente  innovativo (rispetto al vigente art. 164) e' invece
l'articolo 113  del  Progetto,  che  da'  attuazione,  unitamente  al
successivo  art.  329,  alla direttiva 71 della delega. Mentre l'art.
113 disciplina il divieto di pubblicazione,  l'art.  329  prevede  il
segreto  delle  indagini preliminari, pur contenendo qualche norma in
tema di pubblicazione che si e' collocata sotto quest'ultimo articolo
perche'  strettamente conseguente ai poteri del pubblico ministero in
tema di segreto.
   Il  principio  fondamentale  della  materia  e'  posto nel comma 1
dell'art. 113:  gli  atti  coperti  dal  segreto  (quelli  dei  quali
l'imputato  non  abbia  conoscenza  ne' il diritto di conoscerli) non
possono essere pubblicati ne' in se stessi, ne' nel  loro  contenuto.
Una  volta  cessato  il  segreto (con la conoscenza o la possibilita'
giuridica di conoscenza dell'imputato, salvo il potere  del  pubblico
ministero   di   eliminare   anticipatamente  il  segreto  ovvero  di
prolungarlo, nelle due diverse ipotesi disciplinate  dall'art.  329),
permane  il  divieto  di pubblicazione in conformita' alla previsione
della legge-delega (" divieto di pubblicazione degli atti  depositati
a norma del n. 58 ").  Secondo il nuovo sistema processuale, infatti,
gli atti delle indagini preliminari che sono inseriti  nel  fascicolo
del  pubblico  ministero  devono  essere  conosciuti  dal giudice del
dibattimento  solo  attraverso   le   contestazioni   dibattimentali,
sicche',  se  se  ne  consentisse  la  pubblicazione  prima di questo
momento, si determinerebbero di fatto una  distorsione  della  regola
processuale   ed   una  anticipata  e  non  corretta  formazione  del
convincimento del giudice
   A  stretto rigore, la delega, nella direttiva sopra trascritta, si
riferisce agli atti del fascicolo del pubblico ministero, e non anche
a  quelli del fascicolo per il dibattimento (previsti nella direttiva
57). V'e' pero' da osservare che soltanto alla  fine  delle  indagini
preliminari si ha la formazione del fascicolo del pubblico ministero,
nel quale va a confluire il maggior numero  degli  atti  compiuti  in
tale fase. Non e' facile ne' opportuno, pertanto, operare distinzioni
rispetto al divieto di pubblicazione  nell'ambito  degli  atti  delle
indagini preliminari.
   Si  ritiene,  pero',  che  non  si possa pretendere un sostanziale
silenzio stampa sino a quando non venga  celebrato  il  dibattimento.
Una   regola  che  cio'  imponesse  produrrebbe  inevitabilmente  una
situazione analoga a quella attuale,  caratterizzata  dalla  generale
disapplicazione delle regole scritte.
   Al  fine  di  evitare  il  cennato inconveniente si e' limitato il
divieto di pubblicazione degli atti  non  piu'  coperti  dal  segreto
all'atto,  e  non  anche  al  suo  contenuto. Ed invero il giudce del
dibattimento, se puo' essere influenzato  dalla  pubblicazione  degli
atti   veri  e  propri,  e'  in  grado  di  non  fondare  il  proprio
convincimento su notizie di stampa piu' o meno generiche e  prive  di
riscontri documentali riguardanti il contenuto di atti.
   Sulla  base  delle scelte di fondo ora illustrate, il comma 2 pone
il limite finale del divieto di pubblicazione (nel senso ridotto  che
si  e'  detto)  degli  atti  non piu' coperti dal segreto. Il divieto
sussiste sino a quando non sono  terminate  le  indagini  preliminari
ovvero,  quando  si  tiene  l'udienza preliminare, sino al termine di
tale udienza. Qualora poi alle  indagini  ovvero  all'udienza  faccia
seguito  la  celebrazione del dibattimento, il divieto permane fino a
quando il singolo atto  non  sia  utilizzato  per  le  contestazioni,
venendo  a  cessare  in  ogni caso con la pronuncia della sentenza di
appello.
   In  termini  concreti,  gli  atti  delle  indagini  e dell'udienza
preliminari restano soggetti al divieto di pubblicazione fino  a  che
non  siano  emessi i provvedimenti che escludono la instaurazione del
processo (decreto di archiviazione) o lo  concludono  anticipatamente
(sentenza  di non luogo a procedere, sentenza che applica una pena su
richiesta, sentenza di merito nell'udienza preliminare) o fino a  che
non sia divenuto esecutivo il decreto di condanna, ovvero, in caso di
emissione  di  provvedimenti  che   determinano   il   passaggio   al
dibattimento  (giudizio  direttissimo,  giudizio immediato o rinvio a
giudizio), fino a che gli atti medesimi non siano utilizzati.
   In tal modo il divieto di pubblicazione e' circoscritto al massimo
possibile e viene fatto  cadere  man  mano  che,  in  relazione  allo
svolgersi del processo, non ha piu' ragione d'essere.
   Va  sottolineato  che,  per  gli  atti  che  le parti non dovranno
utilizzare neppure in dibattimento, il divieto di pubblicazione cade,
come si e' detto, con la pronuncia della sentenza di appello, in modo
da consentire, comunque, all'opinione pubblica un  controllo  sociale
anche  sul  comportamento delle parti (a particolarmente del pubblico
ministero) che non abbiano utilizzato  atti  che  avrebbero,  invece,
potuto  utilizzare. Si pensi, per esempio, al caso in cui il pubblico
ministero d'udienza,  per  carenze  professionali,  abbia  omesso  di
utilizzare per le contestazioni atti rilevanti.
   Questo  controllo  sociale  non  deve,  pero',  risolversi  in una
violazione delle regole che disciplinano i controlli endoprocessuali.
Fino  a  quando,  attraverso  la  rinnovazione  del  dibattimento  in
appello, e' possibile la  utilizzazione  di  atti  nel  processo,  e'
opportuno che su questi atti permanga il divieto di pubblicazione, al
fine di evitare la elusione delle garanzie previste dal codice per il
compimento delle attivita' dibattimentali.
   Data  la  pubblicita'  del  giudizio,  e'  ovvio  che gli atti del
dibattimento siano, invece, immediatamente pubblicabili, salvo che il
dibattimento   stesso  si  sia  svolto  a  porte  chiuse  perche'  la
pubblicita' poteva nuocere al  buon  costume  o  all'interesse  dello
Stato  ovvero ancora alla riservatezza dei testimoni o delle parti in
ordine a fatti non direttamente  rilevanti  per  l'imputazione  (casi
previsti  dall'art. 466, commi 1 e 2 richiamati nel comma 3 dell'art.
113). La tutela di tali  esigenze  impone,  altresi',  di  prevedere,
nelle   stesse   ipotesi,   la   possibilita'   che  il  giudice  del
dibattimento, sentite le parti, disponga il divieto di  pubblicazione
degli  atti anteriori al dibattimento anche successivamente alla loro
utilizzazione per le  contestazioni  e  anche  dopo  la  sentenza  di
appello.
   In  tutti  i  casi  indicati  di dibattimento a porte chiuse - nei
quali quindi il divieto di pubblicazione continua a permanere - si e'
stabilita   la   cessazione   del  divieto  non  solo  alla  scadenza
tradizionale dei termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato
(settanta  anni  dopo  la  data della conclusione del procedimento ai
sensi  dell'art.  21  comma  2  del  decreto  del  Presidente   della
Repubblica   30  settembre  1963,  n.  1409),  in  conformita'  della
previsione contenuta nel vigente art. 164 n. 3, ma anche in una nuova
ipotesi.  Si  e'  ritenuto,  infatti,  che in moltissimi casi, in una
societa' in profonda e continua trasformazione  come  la  nostra,  il
termine  di  settanta  anni  puo'  essere eccessivo o inutile, se non
dannoso, e che, a distanza di dieci anni dalla sentenza irrevocabile,
sia  opportuno dare al ministro di grazia e giustizia la possibilita'
di valutare se le esigenze poste a base del divieto perdurino  ancora
o siano, nel frattempo, venute meno.
   Il comma 4 da' attuazione alla direttiva 71 relativa al divieto di
pubblicazione delle generalita' e dell'immagine dei minorenni. Tenuto
conto  che  la  delega  lascia  al  legislatore delegato il potere di
dettare  la  "disciplina"  del  divieto,  si  e'  ritenuto  opportuno
prevedere  che  il  divieto  cessa con la maggiore eta' della persona
tutelata.  Possono,  poi,  presentarsi   ipotesi   nelle   quali   la
pubblicazione  degli  atti  potrebbe  corrispondere all'interesse del
minorenne; si e' percio' prevista la possibilita' di un consenso alla
pubblicazione idoneo a fare venire meno il generale divieto.
   L'articolo 114 da' attuazione all'ultima parte della direttiva 71,
con la quale si obbliga il legislatore delegato alla  "previsione  di
sanzione per la violazione del divieto di pubblicazione".
   Si  e'  ritenuto  che  questa direttiva non autorizzi una modifica
dell'art. 684 c.p.  D'altro  canto  la  previsione  di  una  sanzione
processuale   e'   apparsa   impraticabile  potendo  essa  comportare
conseguenze  pregiudizievoli  per  parti  e  soggetti  estranei  alla
violazione   e,  viceversa,  conseguenze  favorevoli  per  lo  stesso
responsabile dell'illecito. Altrettanto impraticabile e'  apparsa  la
ipotesi  di  una  sanzione  amministrativa  pecuniaria comportante la
necessita' di prevedere un procedimento  amministrativo  parallelo  a
quello  penale,  condotto  con  la  procedura prevista dalla legge 24
novembre 1981,  n.  689,  ovvero,  ancora  peggio,  con  un  apposito
procedimento da disciplinare in questa sede.
   Le  considerazioni che precedono hanno determinato la scelta della
sanzione disciplinare a carico di tutti i soggetti per i  quali  essa
e'  configurabile.  Si  tratta  dei soggetti indicati nel comma 1. Il
loro ambito, se non e' tale da ricomprendere tutti i possibili autori
della  violazione, e' sufficientemente esteso, poiche' esso comprende
magistrati  e  personale  giudiziario  ausiliario,  personale   della
polizia   giudiziaria,  avvocati,  procuratori  e  professionisti  in
genere, periti e consulenti tecnici, giornalisti e pubblicisti,  ecc.
Per i soggetti diversi rimane l'applicabilita' dell'art. 684 c.p. che
l'art. 114 comma 1 fa espressamente salvo unitamente agli altri reati
previsti dal codice penale (articoli 326, 323, ecc.).
   Va,  infine,  osservato  che l'art. 114 sanziona la violazione del
divieto di rivelazione in tutte le ipotesi in cui questo  divieto  e'
previsto,  e  quindi non solo in quelle di cui all'art. 113, ma anche
nelle due situazioni contemplate dall'art. 329.
   Mentre  l'articolo  115  del Progetto corrisponde all'art. 165 del
vigente  codice,  gli  articoli  116  e  117  danno  attuazione  alle
disposizioni della direttiva 30 della legge-delega. Tali disposizioni
hanno inteso mantenere  i  due  istituti  introdotti,  negli  attuali
articoli  165-  bis  e 165- ter, dal decreto 21 marzo 1978 convertito
nella legge 18 maggio 1978, n. 191.
   Il   primo   di   questi  istituti  concerne  la  trasmissione  di
informazioni e di copie di atti tra autorita'  giudiziarie  (articolo
116).  La limitazione ai "casi determinati" contenuta nella direttiva
30 si  e'  estrinsecata  nella  previsione  che  questa  trasmissione
avviene a favore del pubblico ministero nei soli casi in cui gli atti
richiesti sono necessari per il compimento delle indagini preliminari
(il   che  presuppone  l'avvenuto  inizio  delle  indagini,  onde  la
trasmissione non puo' avere, tra l'altro, la finalita' di prevenzione
che e' considerata nell'articolo successivo).
   L'articolo  117  riguarda  la trasmissione di atti ed informazioni
scritte  al  ministro  dell'interno   quando   essi   sono   ritenuti
indispensabili  ai fini di prevenzione di determinati delitti (quelli
per i quali e' obbligatorio l'arresto in flagranza).
   L'articolo  118  del Progetto corrisponde all'art. 143 del vigente
codice, mentre trova piu' appropriata collocazione nell'articolo  119
il  contenuto  dell'attuale  art.  159, che, essendo relativo ai c.d.
testimoni ad atti processuali, attiene alla disciplina generale degli
atti processuali.
   L'articolo  120  ripete, nel comma 1, il disposto del vigente art.
145 mentre, nel  comma  2,  da'  attuazione  all'ultima  parte  della
direttiva  3,  relativa  all'obbligo  del giudice di provvedere senza
ritardo e comunque entro un termine prestabilito (fissato in quindici
giorni,  quando  una  specifica  diversa  disposizione non prevede un
termine diverso). La citata direttiva si riferisce anche alla persona
offesa,  i  cui diritti sono stati globalmente disciplinati nell'art.
89.
    L'articolo   121   (procura   speciale   per   determinati  atti)
corrisponde all'attuale art.  136  che  e'  collocato  nella  sezione
relativa  ai  difensori,  mentre  il procuratore speciale puo' essere
anche un soggetto diverso dal difensore.
   Differente  collocazione  ha  ricevuto  anche  la disciplina delle
dichiarazioni e richieste di persone detenute o internate, rispetto a
quella  che  oggi  ha  l'art. 80. L'articolo 122 si riferisce infatti
agli   atti   provenienti   da   qualsiasi   parte   (anche   diversa
dall'imputato)  che  sia  detenuta  o  internata. Il comma 2 di detto
articolo, poi, disciplina, con disposizione innovativa, la  ricezione
delle  dichiarazioni  rese  da  chi sia sottoposto all'arresto o alla
detenzione domiciliare ovvero custodito in un luogo di cura.
   L'ultimo   articolo   del  titolo  I  (articolo  123)  corrisponde
all'attuale art. 154 (obbligo di osservanza delle norme processuali).
Il  comma 2 sostituisce con una disposizione di principio l'analitica
ed  incompleta  disciplina  contenuta  nel  secondo  e  terzo   comma
dell'art. 154.
   Giova  infine  avvertire  che  il  Progetto  non contiene le norme
generali sul giuramento (art. 142) in quanto tale formalita' e' stata
soppressa,  mentre le norme sulla eliminazione degli iscritti anonimi
(art. 141), sull'oralita' degli esami ed  interrogatori  (art.  138),
sull'accompagnamento  coattivo di persone diverse dall'imputato (art.
144) e sull'acquisizione di atti di procedimenti diversi  (art.  144-
bis) sono state collocate altrove.
                              TITOLO II
                   ATTI E PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE
   Il titolo II riproduce per la maggior parte le disposizioni che il
codice vigente detta negli artt. 146-154 sotto la rubrica "degli atti
e dei provvedimenti del giudice".
   L'articolo  124,  oltre a riportare il contenuto dell'attuale art.
148, recepisce anche il disposto del primo  comma  del  vigente  art.
153,  relativo  ai  provvedimenti deliberati dal giudice in camera di
consiglio. E' utile avvertire che  il  contenuto  del  secondo  comma
dell'art.  153  sara'  collocato  tra  le disposizioni di attuazione.
Nell'articolo si e' mantenuta la previsione, gia' presente  nell'art.
148,  secondo  cui  la  motivazione  dei provvedimenti del giudice e'
prescritta " a pena di nullita'". Ovviamente questa  regola  generale
va   coordinata   con   i   principi  desumibili  dal  sistema  delle
impugnazioni,   i   quali   possono   comportare   che   il   giudice
dell'impugnazione  sostituisca  con  la  propria  motivazione  quella
assente del provvedimento impugnato.
   L'articolo 125 riporta che il contenuto dell'attuale art. 147, con
la  sola  sostituzione  del  termine   "segretario"   a   quello   di
"cancelliere".   La  normativa  sul  personale  delle  cancellerie  e
segreterie giudiziarie e' possibilmente mutata rispetto al periodo in
cui   fu  emanato  il  codice  vigente.  Questo  personale  comprende
attualmente una pluralita' di categorie di  funzionari  e  impiegati,
sulle  cui  mansioni  e'  opportuno  che il codice non intervenga, ma
lasci libero il campo alla disciplina speciale, soggetta a  mutamenti
non   prevedibili.  Per  raggiungere  questo  risultato  il  Progetto
precisera'  in  una  disposizione  di  attuazione  che   il   termine
"segretario"   designa  qualsiasi  impiegato  abilitato  dal  proprio
ordinamento ad esercitare la funzione di assistenza del  giudice  nel
compimento  degli  atti  processuali.  Sara'  in  tal  modo chiaro il
termine usato dall'art. 125 e da altri articoli del  Progetto  ha  un
significato  diverso  da  quello che esso assume nell'ordinamento del
personale  delle  cancellerie  giudiziarie,  ove  esso   indica   una
particolare  qualifica (non diversamente dal termine di cancelliere).
   L'articolo   126   costituisce   una  importante  innovazione  del
Progetto. Esso regola il procedimento  in  camera  di  consiglio,  al
quale diverse norme relative a singoli istituti del codice operano un
rinvio. Il procedimento e' modellato su quello oggi previsto per  gli
incidenti di esecuzione.
   L'articolo 127 semplifica l'attuale disposto dell'art. 151, mentre
l'articolo 128  ricalca  il  vigente  art.  152,  pur  se  ne  limita
l'operativita'  al  vero  e  proprio processo, e non anche all'intero
procedimento. Nella fase  delle  indagini  preliminari,  infatti,  le
situazioni  previste  nell'art.  128  determinano l'archiviazione per
infondatezza della notizia di reato (art. 405) ovvero per  gli  altri
casi previsti (art. 408).
   Una  prima applicazione della normativa sul procedimento in camera
di consiglio (art. 126) si e' prevista per la  correzione  di  errori
materiali;  il  che  ha  permesso  di  dettare  nell'articolo 129 una
disciplina piu' stringata e, nello stesso  tempo,  piu'  completa  di
quella  contenuta  nell'attuale  art. 149 (gia' integrata e corretta,
peraltro, dalle  sentenze  della  Corte  costituzionale  n.  83/69  e
122/72).
   Mentre l'articolo 130 del Progetto ripete il contenuto del vigente
art. 146, sensibilmente innovato  -  sia  nei  contenuti,  sia  nella
collocazione   -   e'   il  successivo  articolo  131,  che  concerne
l'accompagnamento coattivo dell'imputato. Se e' indubbio  che  questo
provvedimento  importa una restrizione della liberta' personale, esso
non puo' peraltro inquadrarsi nell'ambito delle misure di coercizione
personale   considerate   nelle   direttive   59   e  seguenti  della
legge-delega. Da tali misure l'accompagnamento coattivo  si  distacca
per  la  sua finalita' di diretto contributo "positivo" all'attivita'
di indagine e di accertamento. E' utile, al riguardo, tenere presente
che  una  analoga  forma di accompagnamento e' prevista nell'art. 132
del Progetto - cosi' come nell'attuale codice (art. 144)  -  anche  a
carico  di  soggetti  nei  cui  confronti non esiste alcun indizio di
colpevolezza, quali i testimoni ed i periti renitenti.
   Di questa peculiarita' dell'accompagnamento coattivo dell'imputato
e' espressione  non  solo  la  collocazione  che  l'istituto  ha  nel
Progetto  (diversa  da  quella  del vigente art. 261), ma altresi' la
previsione della sua ammissibilita' anche per i reati non gravi, tali
cioe'  da  non rientrare tra quelli per i quali la direttiva 59 rende
possibile l'adozione di misure di coercizione personale.
   Per  converso,  se non si vuole che la misura esca dalla sua ratio
giustificativa, e' necessario  puntualizzarne  in  modo  estremamente
rigoroso (e, anche qui, con specificazioni del tutto diverse rispetto
a quelle concepibili per le misure  disciplinate  nel  libro  IV)  le
modalita' applicative.
   L'art.  131  precisa,  innanzitutto,  la  situazione che legittima
l'accompagnamento coattivo: la  presenza  dell'imputato  deve  essere
necessaria  per il compimento di determinati atti che il giudice puo'
compiere (nell'incidente probatorio, nell'udienza preliminare  o  nel
dibattimento):   ricognizioni   personali,   confronti,  perizia.  Il
provvedimento, disposto con decreto motivato, e' inoltre  subordinato
al  fatto  che  l'imputato  sia  stato invitato a comparire e non sia
comparso senza un legittimo impedimento.
   Ma  essenziali  sono  ancor  piu' le garanzie inerenti alla durata
della misura, al fine  di  evitare  che  essa  si  trasformi  in  una
criptocustodia. Si e' al riguardo stabilito che l'accompagnamento non
puo' durare oltre il  compimento  dell'atto  per  il  quale  esso  e'
disposto  e per gli atti allo stesso conseguenziali, sempre che anche
per questi ultimi sussista il requisito della necessita' di  presenza
dell'imputato.  Una  norma  di chiusura garantisce che i'imputato non
puo' in ogni caso essere trattenuto per piu' di ventiquattro ore.
   Successivo alla disposizione sull'accompagnamento dell'imputato e'
l'articolo  132  relativo  all'accompagnamento  coattivo   di   altre
persone.   La   nuova   collocazione   della  disposizione,  oltre  a
sottolineare     maggiormente     la     specifica     strumentalita'
dell'accompagnamento   coattivo   anche  in  questa  sua  dimensione,
consente un rinvio, di immediata percezione, alle norme  di  garanzia
della persona accompagnata, stabilite dall'articolo precedente.
   Devesi,  infine,  avvertire  che  gli  artt.  131  e  132, essendo
inseriti nel  titolo  dedicato  ai  provvedimenti  del  giudice,  non
riguardano  il  pubblico  ministero, il cui potere di accompagnamento
dell'indiziato  e  delle  altre  persone  e'  previsto,  con  qualche
particolarita', nella disciplina sulle indagini preliminari.
                              TITOLO III
                      DOCUMENTAZIONE DEGLI ATTI
   In  tema  di  documentazione  degli  atti  la  direttiva  8  della
legge-delega stabilisce: "adozione  di  strumenti  opportuni  per  la
documentazione    degli    atti    processuali;    previsione   della
partecipazione di ausiliari tecnici nel  processo  per  la  redazione
degli  atti  processuali  con  adeguati  strumenti, in ogni sua fase;
possibilita' che  il  giudice  disponga  l'adozione  di  una  diversa
documentazione degli atti processuali in relazione alla semplicita' o
alla  limitata  rilevanza  degli  stessi  ovvero   alla   contingente
indisponibilita'   degli   strumenti   o  degli  ausiliari  tecnici".
Direttive complementari sono le direttive 1 "massima  semplificazione
nello  svolgimento  del  processo  con  eliminazione  di  ogni atto o
attivita' non essenziale" e 2 "adozione del metodo orale"
   Poiche'  la  direttiva 8 si riferisce ad "ogni fase" del processo,
si  e'  dettata  nel  libro  II   una   disciplina   generale   della
documentazione, la quale va integrata con le disposizioni particolari
relative all'udienza preliminare e al dibattimento. La documentazione
degli  atti  del  pubblico  ministero  trova,  invece,  una  autonoma
disciplina nell'ambito della normativa sulle indagini preliminari.
   La  scelta  chiaramente  espressa  dalla legge-delega e' quella di
privilegiare  per  quanto  e'  possibile  l'impiego  di  tecniche  di
documentazione  diverse  dalla  redazione tradizionale del verbale in
caratteri comuni. Si e' ritenuto di esprimere questa scelta  sin  dal
primo  articolo  con  cui  si  apre  il titolo, ove sono enunciate le
modalita' normali di documentazione (articolo 133): il verbale  viene
redatto  con  la  stenotipia,  e quindi esso e' in grado di riportare
integralmente gli atti  assunti  nel  processo;  qualora  non  ci  si
avvalga  della  stenotipia, al verbale tradizionale (redatto cioe' in
forma riassuntiva) si affianca la riproduzione fonografica, che e' un
mezzo  di  documentazione integrativa del verbale. In ogni caso, alla
normale   documentazione   potra'   affiancarsi    la    riproduzione
audiovisiva,  nei  casi  in  cui  essa  sara'  ritenuta  dal  giudice
assolutamente indispensabile.
   Gli   articoli   successivi   disciplinano  le  singole  modalita'
enunciate dall'art. 133, dopo che l'articolo 134 ha dato  la  nozione
di  verbale.  Questo  articolo condensa la normativa oggi distribuita
tra gli articoli 155 e 158. L'art. 155, infatti,  e'  stato  ritenuto
inutilmente  definitorio,  e si e' preferito fare emergere la nozione
del verbale attraverso la sua funzione piuttosto  che  attraverso  la
sua   descrizione,   e  quindi  facendo  perno  sulla  sua  efficacia
probatoria.
   E' parso, poi, opportuno dilatare l'enunciazione dell'attuale art.
155 (che lo limita alle "operazioni compiute" ed alle  "dichiarazioni
ricevute"),  poiche'  il  verbale puo' far fede anche di quanto viene
compiuto da soggetti diversi  dal  pubblico  ufficiale,  ed  altresi'
della  realta'  che  viene  constatata e descritta in termini statici
(uno spunto in tal senso e' gia' racchiuso nell'art. 2700 c.c.).  Per
questo  si  e'  parlato  di  documentazione  di  "quanto  il pubblico
ufficiale ha fatto o ha constatato o e' avvenuto in sua presenza".
   Correlativamente,  si  e'  eliminata  la  disposizione,  contenuta
nell'attuale art. 158, secondo la quale il verbale "non pregiudica la
libera  valutazione  da parte del giudice dei fatti attestati o delle
dichiarazioni ricevute nel verbale medesimo".  Tale  precisazione  e'
apparsa superflua, dal momento che il verbale deve bensi' documentare
gli atti, ma non e' esso stesso  fonte  di  prova,  di  modo  che  e'
implicita la libera valutazione di quanto e' in esso racchiuso.
   L'articolo  135, nel comma 1, recepisce la parte dell'attuale art.
156  dedicata  al  giudice,   con   la   sostituzione   del   termine
"cancelliere"  con  quello  di  "segretario",  di cui sono state gia'
indicate le ragioni in relazione all'art. 125 del Progetto.
   Il comma 2 pone la regola della redazione del verbale con il mezzo
della stenotipia. Questa previsione deve  ritenersi  comprensiva  del
possibile   uso  della  stenografia,  dato  che  la  stenotipia  puo'
considerarsi una stenografia a macchina.
   Nelle  disposizioni  di attuazione si dovra' percio' precisare che
per  stenotipia  si  intende  qualunque  mezzo  tecnico  che  impiega
caratteri   diversi  da  quelli  comuni.  Alla  stenotipia  verranno,
altresi', parificati  gli  altri  mezzi  tecnici  che  assicurano  la
riproduzione integrale delle dichiarazioni orali.
   Il  comma  3  dell'art.  135  consente al giudice di affiancare al
segretario che non possiede le  necessarie  competenze  tecniche  per
l'uso   della   stenotipia   personale   ausiliario   anche  estraneo
all'amministrazione della giustizia.
   L'articolo  136  riproduce nel comma 1 l'attuale dizione del primo
comma dell'art. 157, con minime  variazioni  di  forma.  Il  comma  2
unifica  il  capoverso  del  vigente  art.  157  e  le parti salienti
dell'art. 302, essendo apparsa  inopportuna  la  frantumazione  della
disciplina  in  varie sedi. Il terzo e quarto comma dell'attuale art.
157 sono, invece, trasfusi nell'articolo 137.
   Ambedue gli articoli (136 e 137) si riferiscono al verbale redatto
con il mezzo della stenotipia, di cui l'articolo successivo (articolo
138)  disciplina  la  trascrizione in caratteri comuni. Quando questa
attivita' non puo' essere effettuata da chi ha redatto il verbale, la
scelta    della    persona    a   cui   affidarla   (anche   estranea
all'amministrazione  della  giustizia)  e'  rimessa  al  giudice.  La
trascrizione  deve avvenire, di regola, in un tempo ristretto, mentre
per il dibattimento e' previsto un tempo meno breve (art.  477  comma
2), trattandosi normalmente di verbale di maggiore ampiezza.
   Poiche'  il  verbale e' costituito dalla documentazione realizzata
con la stenotipia, mentre la successiva trascrizione e' il frutto  di
una  operazione di conversione effettuata a posteriori, una eventuale
divergenza tra i due atti non pone alcun problema, in  quanto  e'  al
primo che, ovviamente, deve essere accordata la prevalenza.
   Particolare  attenzione  e'  stata  dedicata alla disciplina della
riproduzione fonografica, sulla base della previsione che essa, sotto
forma  di  registrazione,  sara'  prevedibilmente  la  modalita' piu'
frequente di  documentazione.  Questa  considerazione  non  priva  di
giustificazione  la  disciplina  del  titolo  imperniata,  come si e'
visto, sul verbale stenotipico. La verbalizzazione e' una  narrazione
che   non   puo'  essere  confusa  con  la  riproduzione  fonografica
dell'atto, la quale puo' integrare, ma non sostituire del  tutto,  la
prima.
   L'impiego  del mezzo tecnico di registrazione, da effettuarsi ogni
qualvolta non si redigera' il verbale stenotipico (fatti salvi i casi
particolari  previsti  nell'art.  140),  si  accompagna pertanto alla
redazione contestuale del  verbale  in  forma  riassuntiva  (articolo
139).  Sul contenuto di questo verbale il comma 2 non pone previsioni
specifiche, limitandosi ad imporre la sola indicazione del momento di
inizio  e  di  quello  di cessazione delle operazioni di riproduzione
fonografica o audiovisiva.
   L'elasticita'  della previsione normativa si comprende se si tiene
presente la soluzione data al problema del rapporto tra contenuto del
verbale e risultato della registrazione. Al riguardo si e' confermato
il rapporto che gia' oggi e' possibile desumere dall'ultimo comma del
vigente  art. 496- bis (divenuto sostanzialmente il comma 3 dell'art.
139). Se il prodotto  della  registrazione  si  e'  formato  in  modo
compiuto  ed intelligibile, e' parso illogico accordare prevalenza al
verbale riassuntivo, il quale e' suscettibile di errori od  omissioni
estranei  alla  documentazione  fonografica. Se, invece, quest'ultima
non ha avuto effetto o  non  e'  chiaramente  intelligibile,  diventa
inevitabile  attribuire  al  verbale  convenzionale  piena  efficacia
probatoria.  Tale  disciplina  vale  anche  quando  la  registrazione
fonografica sia solo parzialmente imperfetta: l'inintelligibilita' di
una  parte  non  puo'  evidentemente  togliere  valore   alla   parte
perfettamente  riuscita,  e  percio'  si  e' stabilito che il verbale
convenzionale fa prova nella parte in cui la registrazione non  abbia
avuto effetto o non sia chiaramente intelligibile.
   Il contenuto in concreto del verbale in forma riassuntiva (redatto
dal  segretario)  dipendera',  percio'  a  seconda  dei  casi,  dalla
maggiore o minore affidabilita' delle operazioni di registrazione (di
competenza  di  personale  tecnico  posto  sotto  la  direzione   del
segretario),  nel  senso  che la prevedibile buona riuscita di queste
operazioni rendera' possibile la massima riduzione del contenuto  del
verbale  sino alle sole indicazioni di inizio e fine delle operazioni
medesime. In tal modo la  prassi  potra'  conciliare  i  vantaggi  in
termini  di  velocita'  e  fedelta' offerti dalla registrazione con i
costi  che,  in  termini  di  verbalizzazione  tradizionale,  occorre
sopportare   per   evitare  il  pericolo  dell'assenza  di  qualsiasi
documentazione derivante da una registrazione non riuscita.
   I  successivi  commi  dell'art.  139  disciplinano la trascrizione
delle registrazioni. Essa, effettuata di regola da personale  tecnico
giudiziario,  puo'  anche  essere  affidata  dal  giudice a personale
estraneo all'amministrazione della  giustizia.  Il  comma  5  da'  la
possibilita'  al  giudice  di  non  disporre  la  trascrizione  della
registrazione quando vi sia il consenso delle parti (per esempio: nel
caso in cui la sentenza non venga impugnata).
   Nelle   disposizioni   di   attuazione  verranno  disciplinate  le
attivita' di custodia e le eventuali successive  utilizzazioni  delle
registrazioni  fonografiche, nei casi in cui non sia stata effettuata
la trascrizione, ovvero si dubiti  della  conformita'  di  questa  al
testo registrato.
   L'articolo  140 da' attuazione all'ultima parte della direttiva 8,
prevedendo le tre ipotesi nelle quali non  si  fa  ricorso  ne'  alla
stenotipia ne' alla registrazione. In tali ipotesi si redige soltanto
il verbale tradizionale, sulla cui stesura si e' affidato al  giudice
un  generale potere di vigilanza. Infatti, poiche' la verbalizzazione
riassuntiva introduce degli elementi di interpretazione rispetto alla
realta'  oggettiva, e' utile inserire in essa un controllo, che avra'
normalmente efficacia dialettica, poiche' al potere  del  giudice  si
accompagnera'  un  collaterale  intervento  delle  parti,  in modo da
garantire la migliore fedelta' possibile della documentazione.
   L'articolo  141  non  diverge  dall'attuale  art. 160 se non nella
previsione  del  possibile  impiego  del  mezzo  meccanico  anche   a
proposito   delle   dichiarazioni  orali  delle  parti,  che  non  si
inquadrano in un atto processuale, ma che sono comunque "attinenti al
processo".
   Infine  l'articolo  142  prevede circoscritte ipotesi di nullita',
coordinate con  la  disciplina  delle  nullita'  dettate  nella  sede
generale corrispondente.
                              TITOLO IV
                        TRADUZIONE DEGLI ATTI
   Il  titolo  IV riproduce senza sostanziali variazioni gli articoli
che il codice vigente  dedica  agli  interpreti  (artt.  326-331).  A
differenza  del codice attuale, che colloca le norme sugli interpreti
tra quelle sull'istruzione formale relative alla prova,  il  Progetto
prevede  la  relativa  disciplina  fra  le  disposizioni  sugli  atti
processuali, considerando che l'interpretazione non e'  un  mezzo  di
prova  e  che l'opera dell'interprete non si rende necessaria solo in
occasione del compimento di atti di acquisizione probatoria.
   L'articolo  143 comma 1, conferendo allo straniero che non conosce
la  lingua  italiana  il  diritto  di  fruire  gratuitamente  di   un
interprete per comprendere l'accusa formulata contro di lui e seguire
il compimento degli atti processuali a cui partecipa, si uniforma, in
attuazione    della   legge-delega,   agli   impegni   internazionali
sottoscritti dall'Italia a questo riguardo (art. 6 n. 3 lett. a )  ed
e)  della  Convenzione  europea  sui  diritti dell'uomo; art. 14 n. 3
lett. a ) ed f) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici).
   Le  disposizioni  citate  considerano chi non comprende ovvero non
parla la lingua utilizzata nel processo: queste due  situazioni  sono
unificate  nella  espressione  "non  conosce" impiegata dall'art. 143
commi 1 e 2.
   L'articolo  144,  relativo  alla  incapacita'  ed incompatibilita'
dell'interprete, corrisponde al primo comma dell'attuale art. 328.
   L'articolo   145   modella   la  disciplina  della  ricusazione  e
dell'astensione dell'interprete sugli analoghi istituti previsti  per
il perito dall'art. 223 del Progetto.
   L'articolo  146 corrisponde all'attuale art. 329, con le modifiche
conseguenti alla soppressione della formalita' del giuramento.
   Anche  l'articolo  147,  relativo  al  termine  per  la traduzione
scritta  ed  alla  sostituzione  dell'interprete,  si  conforma  alla
disciplina  stabilita  per  il  perito  dall'art.  231  del Progetto.
Poiche',  secondo   il   comma   2   dell'art.   147,   la   condanna
dell'interprete  sostituito  al  pagamento di una sanzione pecuniaria
amministrativa e' attribuita  sempre  alla  competenza  del  giudice,
occorrera',   nelle   disposizioni  di  attuazione,  disciplinare  le
modalita' di intervento del giudice  (che  e'  tenuto  previamente  a
sentire   le   discolpe   dell'interprete)  nell'ipotesi  in  cui  la
sostituzione sia stata disposta  dal  pubblico  ministero  nel  corso
delle  indagini  preliminari  a seguito della nomina effettuata dalla
stessa autorita'.
                               TITOLO V
                            NOTIFICAZIONI
Premessa.
   Malgrado  l'istituto  delle notificazioni costituisca uno dei temi
piu' complessi e delicati del processo, in quanto deputato a  fungere
da  equilibrato  momento  di catalisi tra l'esigenza di assicurare la
conoscenza effettiva dell'atto e quella di stabilire il regime  della
conoscenza  legale  come  generatrice  degli effetti processuali, nei
primi disegni di legge-delega ben  scarsa  attenzione  gli  e'  stata
riservata,  salvo  taluni  fugaci  accenni  nei  lavori  preparatori,
attenti solo ad evidenziare la precedenza che doveva essere riservata
alle  notificazioni  di  atti  in  materia  penale.  Un  mutamento di
prospettiva ha quindi rappresentato la legge-delega 3 aprile 1974, n.
108 che, alle direttive 8 e 70, fisso' alcuni princi'pi direttivi, da
un lato sancendo la "semplificazione del sistema delle notifiche  con
possibilita'   di  adottare  anche  nuovi  mezzi  di  comunicazione",
dall'altro la "previsione di  particolari  garanzie  del  rito  della
irreperibilita',  con la precisazione rigorosa della procedura per la
ricerca  dell'imputato"  nonche'  la  "ammissibilita',  in  sede   di
incidente   di  esecuzione,  di  una  valutazione  sul  merito  della
procedura   seguita,   con   eventuale   restituzione   in    termini
dell'imputato  ai  fini dell'impugnazione". Di tale nuova prospettiva
si  rese  quindi  interprete  il  Progetto  preliminare   del   1978,
introducendo  nuovi strumenti operativi e modificando radicalmente la
logica del  sistema  all'epoca  vigente  che,  imponendo  continue  e
defatiganti  ricerche  dell'imputato,  determinava preoccupanti stasi
processuali. Venne  pertanto  integralmente  recepita  la  disciplina
prevista dalla l. 8 agosto 1977, n. 534 e sussunta l'opinione secondo
la quale nel nuovo processo l'indiziato e l'imputato dovevano  essere
"chiamati  a  collaborare  lealmente per una sollecita costituzione e
prosecuzione del rapporto processuale" attraverso l'indicazione,  sin
dal  primo  contatto  con  la  polizia  giudiziaria o con il pubblico
ministero, del luogo in cui  intendevano  ricevere  le  notificazioni
degli atti, con l'onere di comunicare le relative variazioni.
   L'attuale  delega,  alle  direttive  9  e  80,  ha pedissequamente
riprodotto le gia' citate direttive 8 e 70  della  delega  del  1974,
introducendo  nella  direttiva  81 il principio che "l'imputato debba
dichiarare  o  eleggere  il  proprio  domicilio   e   tempestivamente
comunicare   all'autorita'   che  procede  le  relative  variazioni".
Principio, come si e' detto, gia' normativamente ricevuto dalla l.  8
agosto 1977, n. 534 e recepito dal Progetto preliminare del 1978.
   Malgrado  un  cosi' marcato consolidarsi del legislatore delegante
attorno  alle  indicate   linee   portanti   che   devono   sostenere
l'impalcatura   delle  notificazioni  del  nuovo  codice  di  rito  e
nonostante, quindi, l'apparente assenza di elementi di novita', si e'
ritenuto,  per  piu'  ragioni,  di  introdurre una serie di modifiche
all'attuale disciplina, allo scopo precipuo di adeguare l'istituto de
quo alle esigenze di celerita', garanzia e pariteticita' che il nuovo
modello processuale postula. Accanto a cio', e' parso indispensabile,
da  un lato, recepire gli spunti innovativi offerti da varie sentenze
della Corte costituzionale e, dall'altro, assicurare  una  esauriente
attuazione  dei  princi'pi posti a base di pronunce e determinazioni,
assunte, anche di recente, in sede internazionale.
   In  tale  quadro  d'assieme,  un  prioritario  rilievo assumono le
modifiche apportate al  regime  della  dichiarazione  o  elezione  di
domicilio.  Pur  mantenendosi, infatti, il principio della necessaria
"collaborazione" dell'imputato o indiziato nell'indicare il luogo  in
cui  ricevere  gli  atti,  al  fine  di  evitare  lunghe e non sempre
efficaci  ricerche,  frequente  causa  di  ritardi  cosi'   come   di
sostanziale   elusione   delle   garanzie   difensive   nei  casi  di
irreperibilita'  solo  formale,  si  e'  ritenuto  di  articolare  un
meccanismo  che  differenzia  i  tempi  di tale onere, stabilendo dei
correttivi  al  vigente  regime,  secondo   il   quale   l'originaria
dichiarazione - effettuabile in una fase preprocessuale - mantiene la
sua validita', con le gravi  conseguenze  che  ne  scaturiscono,  per
tutta  la  durata  del  procedimento.  Infatti,  e' sembrato coerente
rispetto al nuovo schema processuale, evitare che la dichiarazione  o
elezione  di  domicilio  effettuata  presso  la polizia giudiziaria o
davanti al pubblico ministero mantenga automaticamente  valore  anche
per  la  fase  giurisdizionale  e  quindi piu' corretto prevedere che
l'invito a dichiarare o eleggere il domicilio  per  le  notificazioni
debba  essere  ripetuto  dal  giudice,  il  quale  ultimo  formulera'
l'avvertimento circa le  conseguenze  che  dall'ottemperanza  o  meno
dell'invito  vengono  a derivare. Procedimento, quello descritto, che
sotto un ulteriore profilo elimina il rischio - non infrequente nella
pratica  -  che l'imputato sia pregiudicato nell'effettiva conoscenza
degli atti per non aver seguito,  anche  a  distanza  di  tempo,  gli
sviluppi  di  una  indagine,  a causa dell'originaria dichiarazione o
elezione di domicilio effettuata in una fase in  cui  la  natura  dei
fatti  addebitati  e  la  relativa  qualificazione giuridica potevano
essere ammantate di ambigua genericita'.
   In  stretta correlazione con le finalita' di cui si e' detto ed in
ossequio all'univoco tenore della direttiva 80 della delega, e' stata
prevista  una disciplina particolarmente rigorosa in tema di ricerche
dell'imputato, prodromiche al rito della irreperibilita'. L'imputato,
infatti,  andra'  ricercato necessariamente in una serie di luoghi in
cui e' piu' verosimile possano essere acquisite notizie circa la  sua
attuale   residenza   o   dimora,   fermo   restando,   comunque,  il
potere-dovere di ricercarlo anche altrove, in rapporto alle emergenze
del caso concreto. Laddove, poi, le ricerche risultassero infruttuose
nonostante la particolare estensione delle medesime, in  sostituzione
della tradizionale procedura del deposito in cancelleria o segreteria
e del conseguente avviso, e'  stato  previsto  che  la  notificazione
venga  eseguita mediante consegna al difensore. Il rito del deposito,
infatti, e' stato concordemente ritenuto un procedimento  a  garanzia
solo formale, che determina, per di piu', un ingiustificato dispendio
di attivita', giacche' il cancelliere rimette l'atto all'organo della
notificazione  e  quest'ultimo lo restituisce al primo con una fictio
iuris di discutibile ragionevolezza, che certo mal si concilia con le
direttive  di  semplificazione  delle  forme  processuali in generale
(direttiva 1)  e  del  sistema  delle  notificazioni  in  particolare
(direttiva 9).
   In  un  codice destinato a scandire in tempi celeri l'espletamento
delle varie attivita' processuali, alcune  delle  quali  previste  ad
horas,  non  poteva  certo mancare l'impiego, introdotto da una ormai
non recente novellistica, di mezzi rapidi di notificazione, quali  il
telefono  ed  il  telegrafo.  Nella  medesima  prospettiva  e'  stata
avvertita  l'esigenza  di  continuare  ad   utilizzare   la   polizia
giudiziaria  per  la  attivita' di cui si tratta, prevedendone, anzi,
l'impiego necessario  per  le  notificazioni  di  atti  del  pubblico
ministero  nella  fase delle indagini preliminari. Le stesse esigenze
tende poi a soddisfare l'introduzione di una norma che consente l'uso
di  mezzi  tecnici  particolari  e  "innominati"  per  le notifiche a
persone diverse  dall'imputato.  In  una  realta',  quale  e'  quella
contemporanea, che vede un sempre piu' generalizzato impiego di forme
nuove di telecomunicazioni, e' sembrato necessario non  porre  limiti
aprioristici  alla  possibilita'  di utilizzare tali nuovi mezzi, sia
per coerenza con la delega, sia per fornire al processo strumenti che
ne consentano uno svolgimento al passo coi tempi.
Illustrazione degli articoli
  E'   parso   opportuno   disciplinare   in   articoli  separati  le
notificazioni richieste dal pubblico ministero e dalle parti  private
(artt.  151 e 152) per esigenze di ordine sistematico e di prevedere,
all'articolo 148, gli organi e le forme delle notificazioni  eseguite
per  disposizione  del giudice. Come si e' gia' evidenziato nei cenni
introduttivi, e' stata mantenuta la possibilita' di  avvalersi  della
polizia  giudiziaria  quale  organo delle notificazioni a prescindere
dai limiti previsti nel vigente art. 166 c.p.p., rimettendo  peraltro
al  giudice  di  valutarne  "la  necessita'". La prassi ha infatti da
tempo  dimostrato  il  proficuo  contributo  offerto  dalla   polizia
giudiziaria  nel  campo  delle notificazioni, in considerazione della
articolata conoscenza e controllo del territorio.  Per  altro  verso,
poi,  la possibilita' di avvalersi della polizia giudiziaria risponde
anche ad esigenze  di  speditezza,  essendo  l'organo  deputato  allo
svolgimento delle "ricerche" prodromiche alla irreperibilita'.
   In  ossequio  alla  direttiva concernente la semplificazione delle
forme, e' stata prevista, al comma 4, la consegna  diretta  di  copia
dell'atto   all'interessato   da   parte   della   cancelleria   come
equipollente della notificazione. Finalita',  quelle  indicate,  alle
quali   ugualmente   risponde  il  comma  5,  che  recepisce  l'ormai
tradizionale istituto degli avvisi de praesenti.
   Con   l'articolo   149,  si  e'  ritenuto  opportuno  limitare  la
possibilita' delle notificazioni a mezzo del telefono o del telegrafo
ai  luoghi  indicati  nei  commi 1 e 2 dell'art. 157 prescindendo dal
fatto che gli stessi risultino o meno dagli  elenchi  ufficiali,  per
evitare  problemi di ordine formale ove l'utenza sia stata cambiata o
non sia stata inserita negli elenchi. Correlativamente, al  comma  2,
si  e'  introdotta  la  previsione  concernente l'obbligo di annotare
sull'originale dell'avviso i rapporti tra chi riceve la comunicazione
ed   il  destinatario  della  stessa.  Il  comma  4  prevede  che  la
notificazione abbia effetto dal momento in cui  e'  evvenuta,  ma  e'
parso  necessario - quale verifica della serieta' della comunicazione
telefonica - mantenere l'obbligo di immediata  conferma  telegrafica.
Ovvie  esigenze  di  ordine  garantistico  hanno indotto ad escludere
l'imputato dal novero dei soggetti  che  possono  essere  avvisati  o
convocati  con tali mezzi, analogamente a quanto attualmente previsto
dall'art. 167- bis c.p.p.; inoltre, il ricorso al telefono  e'  stato
limitato,  stanti  le  particolarita' che connotano l'impiego di tale
mezzo  di  comunicazione  specie   per   quanto   riguarda   l'esatta
individuazione del destinatario, ai soli casi urgenti.
   La  formulazione  dell'articolo 150 ricalca nelle linee essenziali
il testo  dell'art.  151  c.p.c.  Come  si  e'  gia'  avuto  modo  di
osservare,  l'introduzione  di una norma "aperta" sembra opportuna in
rapporto  alla  evoluzione  tecnologica,  che  consente  di  ritenere
verosimile una larga diffusione di mezzi di telecomunicazione diversi
da quelli attualmente previsti nel campo delle notifiche. La norma e'
stata  elaborata  tenendo  conto  dei seguenti princi'pi: 1) le forme
"innominate"  di  notificazione  devono  riguardare  persone  diverse
dall'imputato;  2)  il  decreto  del  giudice  deve essere pedissequo
all'atto da notificare; 3) le modalita' secondo le quali la  notifica
deve  essere eseguita sono funzionalmente volte a prevedere l'impiego
di mezzi tecnici atti a garantire la conoscenza  dell'atto  da  parte
del destinatario.
  Considerata  la  posizione  del pubblico ministero nello schema del
nuovo processo e tenuto conto degli stretti rapporti  funzionali  che
lo  legano  alla polizia giudiziaria, e' sembrato opportuno demandare
in via  esclusiva  a  quest'ultima  le  notificazioni  richieste  dal
pubblico  ministero  nella  fase delle indagini preliminari (articolo
151). E' stata inserita nel comma 4 la possibilita' per  il  pubblico
ministero  di  emettere  il decreto di irreperibilita', con efficacia
peraltro limitata alle notificazioni degli atti dello  stesso  organo
ed  alla  fase delle indagini preliminari. I commi 2 e 3 disciplinano
forme di notificazioni analoghe a quelle previste dall'art. 148 commi
4 e 5.
   Per le notificazioni richieste dalle parti private (articolo 152),
al fine di consentire un risparmio di attivita' per gli organi  delle
notificazioni  e  snellire  la  procedura,  e'  stata  prevista, come
equipollente,  la  comunicazione  dell'atto  a  cura  del   difensore
mediante  raccomandata  con avviso di ricevimento. Nelle disposizioni
di  attuazione  verra'  disciplinato  l'obbligo  del   difensore   di
documentare  la  spedizione  mediante  deposito della copia dell'atto
inviato con la relativa attestazione di  conformita',  nonche'  della
ricevuta di ritorno.
   L'articolo  153 reca l'importante novita' di consentire alle parti
e ai difensori di provvedere direttamente alla notifica degli atti al
pubblico   ministero,   mediante   consegna   al   segretario.  Nelle
disposizioni di attuazione andra' poi disciplinata la  certificazione
del segretario circa la data della avvenuta consegna e la persona che
l'ha eseguita. In termini non dissimili si articola il  regime  della
comunicazione  al pubblico ministero degli atti del giudice, previsto
dal comma 2.
   La  disciplina delle notificazioni alla persona offesa, alla parte
civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato per la  pena
pecuniaria  e' stata ricompresa in una apposita norma (articolo 154),
in quanto le notificazioni stesse devono essere eseguite, di  regola,
secondo  le forme stabilite per la prima notificazione all'imputato e
secondo le  modalita'  stabilite  dalle  norme  di  procedura  civile
qualora   si   tratti   di   persone  giuridiche,  enti  o  pubbliche
amministrazioni. Per quanto riguarda la persona  offesa,  sono  state
anche  disciplinate  le  ipotesi  della  irreperibilita'  o della sua
residenza o dimora all'estero, allo scopo di consentire  il  concreto
esercizio  dei  relativi diritti. Considerato che la parte civile, il
responsabile civile ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria
devono all'atto della costituzione nominare un difensore, e' sembrato
opportuno   stabilire   che   le   notificazioni   avvengano   presso
quest'ultimo.  E'  stata  invece  prevista  la notificazione mediante
deposito in cancelleria nel caso in cui il responsabile civile  o  il
civilmente  obbligato,  citati  ma  non costituiti, abbiano omesso di
dichiarare o eleggere il  domicilio  ovvero  se  la  dichiarazione  o
l'elezione sia risultata insufficiente o inidonea.
   L'articolo  155  prevede la possibilita' che la notificazione alle
persone offese avvenga per pubblici annunzi, quando  l'impiego  delle
forme ordinarie appaia difficile per il numero rilevante dei soggetti
interessati,   ovvero   per   l'impossibilita'    di    identificarli
compiutamente  (in  questo secondo caso la notificazione per pubblici
annunzi avverra' soltanto per quelli non  identificati).  Per  quanto
concerne  le  modalita' della notifica, sono stati seguiti gli stessi
criteri del processo civile, con una eccezione: e' sembrato eccessivo
richiedere,  in  sede penale, l'autorizzazione del capo dell'ufficio,
considerato che in tale sede la notifica non viene sollecitata da una
parte  privata,  ma disposta direttamente dalla autorita' procedente.
Si e' percio' ritenuto sufficiente il  provvedimento  motivato  della
autorita'  medesima,  tenuto  anche conto del fatto che tale forma di
notifica non riguarda un soggetto principale del processo penale,  ma
soggetti  secondari  che  solo eventualmente potranno diventare parti
processuali,  in  quanto  danneggiati  dal   reato,   attraverso   la
costituzione di parte civile. Altra modifica rispetto alla disciplina
prevista dal codice di  procedura  civile  riguarda  la  soppressione
dell'inciso  relativo  alla  pubblicazione  dell'estratto  sul foglio
degli  annunzi  legali,  formalita'  che   e'   sembrata   superflua,
considerato che l'estratto viene inserito nella Gazzetta ufficiale.
   Nell'articolo  156,  e'  stato mantenuto, al comma 1, il principio
generale che le notificazioni  all'imputato  detenuto  sono  eseguite
mediante  consegna  a mani proprie presso il luogo di detenzione. Nel
comma 2 sono state disciplinate le ipotesi del  rifiuto  di  ricevere
l'atto  e quella della temporanea assenza dall'istituto penitenziario
(permesso, regime di semiliberta', autorizzazione al lavoro esterno):
in tali ipotesi e' sembrato opportuno prevedere la consegna dell'atto
al direttore  dell'istituto  o  a  chi  ne  fa  le  veci,  stabilendo
l'obbligo   di   darne   immediata  conferma  all'interessato.  Nelle
disposizioni di attuazione andranno poi disciplinate le modalita' per
documentare   l'attivita'   svolta   dal   direttore   per  informare
l'interessato  della  avvenuta  notificazione.  Tenuto  conto   delle
particolarita'  insite  nello  stato  di  detenzione  o di arresto in
luoghi  diversi  dagli  istituti  penitenzia  (detenzione  e  arresto
domiciliare  in  luogo  di  cura e simili) e' stato operato un rinvio
alla disciplina prevista dall'art. 157, ferma restando la  prevalenza
che  assume  la  notificazione  mediante  consegna  a  mani proprie e
l'impossibilita', stabilita dal comma 5, di ricorrere al  rito  degli
irreperibili.  Semplici  esigenze  di  chiarezza,  rese necessarie da
taluni rilievi formulati a margine della consimile  disposizione  del
Progetto  del  1978, hanno consigliato la enunciazione che compare al
comma 4, la quale, in sostanza, ricalca  il  comma  2  dell'art.  168
c.p.p.  L'ultimo  comma,  come  gia'  richiamato e conformemente alla
sentenza  della  Corte  costituzionale  23  febbraio  1970,  n.   25,
stabilisce  che in nessun caso le notificazioni all'imputato detenuto
- risulti o meno tale stato degli atti possono essere eseguite con il
rito degli irreperibili.
   La  disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto
(articolo 157) riproduce, pressocche' integralmente, quella  prevista
dall'art.  169  c.p.p.,  cosi'  come  modificato dalla l. 20 novembre
1982, n. 890. Due le novita' di maggior rilievo. Anzitutto, e'  stato
previsto,  al  comma  6, che qualora non sia possibile procedere alla
consegna dell'atto per assenza del  destinatario  e  mancanza  ovvero
inidoneita'  o  rifiuto  di  altri  soggetti  legittimati  a ricevere
l'atto, l'organo della notificazione deve procedere  nuovamente  alla
ricerca  dell'imputato  tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2.
Previsione, quella di cui si tratta,  resa  indispensabile  per  piu'
considerazioni:  da  un  lato,  infatti,  e'  fin  troppo  verosimile
l'assenza dal luogo di  abitazione  nel  corso  della  giornata,  per
attendere  alle  ordinarie  occupazioni;  dall'altro,  la presenza di
conviventi e' un dato meramente eventuale; sotto  un  terzo  profilo,
poi,  la  figura  del  portiere tende ad essere residuale rispetto ad
altre  forme  di  collaborazione,  e  percio'  stesso   sempre   piu'
difficilmente riscontrabile nella pratica. A tale fine e per maggiore
garanzia,  in  una  apposita  disposizione   di   attuazione   verra'
disciplinato  l'obbligo  per l'ufficiale giudiziario di effettuare il
secondo accesso in orari diversi, che tengano conto delle occupazioni
del  destinatario  e  della  natura  del  luogo (es. ufficio, negozio
ecc.). Altra novita' rispetto all'attuale disciplina e' rappresentata
dal fatto che, ove la consegna sia effettuata alla persona convivente
o al portiere, la stessa deve essere eseguita, per intuibili esigenze
di  riservatezza,  in  plico  chiuso.  In  tal  caso, la relazione di
notificazione viene redatta all'esterno del plico stesso.
   L'articolo  158,  collocato per ragioni sistematiche dopo la prima
notificazione all'imputato non detenuto, limita la particolare  forma
di notificazione concernente l'imputato in servizio militare al primo
atto da notificare e sempre che il relativo stato risulti dagli atti.
Quando  la  consegna personale non e' possibile, l'atto e' notificato
presso l'ufficio del comandante: quest'ultimo - analogamente a quanto
avviene    in    tema    di   notificazione   all'imputato   detenuto
temporaneamente assente dall'istituto penitenziario - e' tenuto, poi,
ad informare immediatamente l'interessato con il mezzo piu' celere.
   Nelle  disposizioni  di  attuazione  andranno anche in questo caso
disciplinate le modalita'  per  documentare  l'attivita'  svolta  dal
comandante  per informare l'interessato della avvenuta notificazione.
   L'articolo  159  regola  le  notificazioni all'imputato in caso di
irreperibilita'. Come gia' evidenziato nella parte  introduttiva,  la
disciplina  delle  nuove ricerche dell'imputato e' stata notevolmente
ampliata rispetto a quella vigente. Le modifiche di  maggior  rilievo
consistono  anzitutto nell'aver reso obbligatorie, ai fini di maggior
garanzia, le ricerche dell'imputato presso il luogo  di  nascita,  di
ultima  residenza  anagrafica,  di  ultima  dimora  e  quello  in cui
abitualmente esercita l'attivita' lavorativa, luoghi in cui  e'  piu'
verosimile  possano  essere  acquisite  utili notizie, nonche' presso
l'amministrazione carceraria centrale; previsione, quest'ultima,  che
sancisce  normativamente  una  procedura  che,  anche a seguito delle
sentenze della Corte costituzionale,  e'  da  tempo  divenuta  prassi
costante. In secondo luogo, e' stato introdotto al comma 1 l'avverbio
"particolarmente", allo scopo di  non  rendere  esaustiva,  e  quindi
limitativa,  l'indicazione  dei  luoghi  ove ricercare l'imputato, il
tutto, come e' ovvio, in  funzione  di  una  maggiore  efficacia  del
delicato e grave procedimento.
   Come  gia' rilevato, in luogo del deposito in cancelleria e' stato
previsto  che  la  notificazione  all'irreperibile   venga   eseguita
mediante  consegna  al  difensore,  in  tal  modo  evitando la doppia
formalita' del deposito e dell'avviso.
   La  formulazione  dell'articolo 160 tiene conto, ovviamente, della
soppressione della  fase  istruttoria  e  delle  diverse  ipotesi  di
chiusura  delle  indagini preliminari, mentre, al comma 2, sono stati
recepiti  i  princi'pi   contenuti   nelle   sentenze   della   Corte
costituzionale n. 54 del 22 marzo 1971 e n. 197 del 28 luglio 1976.
   L'articolo  161  mutua  la  sua  struttura  dalla ormai collaudata
disciplina prevista dall'art. 171 c.p.p. Tuttavia, e come si e'  gia'
avuto  modo  di  rilevare,  si  e'  ritenuto che, date le conseguenze
previste per l'imputato solo al giudice dovesse essere attribuito  il
potere  di  dare "l'avvertimento" circa gli oneri che incombono sullo
stesso  imputato  in  ordine  alla  dichiarazione,  elezione   ovvero
determinazione  del  domicilio  per  le  notificazioni.  Resta fermo,
ovviamente, il potere-dovere della polizia giudiziaria e del pubblico
ministero  di  invitare  la persona nei confronti della quale vengono
svolte le indagini a  dichiarare  o  eleggere  il  domicilio  per  le
notificazioni,  allo  scopo di consentire alla medesima di fornire le
opportune indicazioni sin dal primo contatto  con  gli  organi  della
indagine.  Nel terzo periodo del comma 4 e' stato previsto il ricorso
alle forme ordinarie quando risulta che l'imputato non e' stato nelle
condizioni  di  comunicare il mutamento del luogo dichiarato. Formula
che, da un lato, tempera le gravi conseguenze previste dalla norma in
presenza  di  fatti  incolpevoli,  dall'altro sollecita la necessaria
collaborazione,   eliminando   possibili   abusi.   Come   in   altre
disposizioni,  infine,  alla forma di notificazione mediante deposito
e' stata sostituita quella piu' snella della consegna al difensore.
   L'articolo 162 detta disposizioni circa le forme con le quali deve
essere data comunicazione del domicilio dichiarato o eletto  e  delle
eventuali variazioni: sono state in gran parte riprodotte le omologhe
previsioni contenute nell'art. 171  c.p.p.  vigente.  Come  in  altre
disposizioni, e' stato attribuito al difensore il potere di attestare
l'autenticita'  della  sottoscrizione  dell'imputato.   In   apposita
disposizione  di  attuazione sara' disciplinato l'obbligo di indicare
il domiciliatario all'atto della elezione di domicilio.
   L'articolo  163 contiene una norma di rinvio, giacche' richiama le
disposizioni  previste  dall'art.  157  anche  per  le  notificazioni
eseguite a norma degli artt. 161 e 162.
   L'articolo 164 prevede che la determinazione del domicilio a norma
degli artt. 161 e 162 e' valida per ogni stato e grado del  processo,
salva, ovviamente, l'ipotesi dell'imputato detenuto.
   L'articolo 165 prevede che le notificazioni all'imputato latitante
o evaso vengano eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o,
in   mancanza,   a   quello  di  ufficio,  dal  quale  l'imputato  e'
rappresentato ad ogni effetto.
   L'articolo   166  detta  disposizioni  in  tema  di  notificazioni
all'imputato interdetto o infermo di mente e si e'  previsto  che  la
notificazione  oltre  che  al tutore o curatore speciale debba essere
eseguita anche nei confronti  dell'interdetto  e  dell'incapace,  non
potendosi  aprioristicamente  escludere che gli stessi siano in grado
di  rendersi  conto  della  natura  e  del  contenuto  dell'atto   da
notificare.
   L'articolo  167  si  limita  a richiamare, per le notificazioni ai
soggetti diversi da quelli fin qui indicati, le disposizioni previste
dai  commi  1,  2,  3,  4  e 7 dell'art. 157, salvi i casi di urgenza
previsti dall'art. 149.
   L'articolo  168 disciplina in maniera analitica il contenuto della
relazione di  notificazione,  al  fine  di  consentire  un  effettivo
controllo  sulla  regolarita'  della  stessa. La norma, anche se piu'
dettagliata, non si discosta molto dal vigente art. 176 c.p.p.
   Con  l'articolo  169,  che  recepisce  i princi'pi contenuti nelle
sentenze della Corte costituzionale n. 31/65, n. 70/67 e  n.  177/74,
e' stato riprodotto il regime attualmente previsto dall'art. 177- bis
c.p.p. Novita' di rilievo e' tuttavia rappresentata  dal  fatto  che,
laddove l'imputato non provveda a dichiarare o eleggere domicilio nel
territorio dello Stato nel congruo termine  di  trenta  giorni  dalla
ricezione  dell'invito,  in  luogo  della  emissione  del  decreto di
irreperibilita' previsto dalla vigente disciplina,  si  e'  stabilito
che  le  notificazioni  sono eseguite mediante consegna al difensore.
Sulla scorta  di  condivisibili  affermazioni  giurisprudenziali,  e'
apparso  infatti  irragionevole  prevedere  il richiamo al decreto di
irreperibilita' (che ha efficacia limitata alla fase in cui e'  stato
emesso)  per  disciplinare  una  situazione  di  fatto,  come  quella
dell'imputato di cui sia nota la residenza o  la  dimora  all'estero,
che  con  la  irreperibilita'  in  senso  stretto  non ha nulla a che
vedere. Correlativamente, si e' stabilito che la disciplina  prevista
dal  comma  1  si applica anche nei confronti dell'imputato che, gia'
dichiarato irreperibile, risulti essersi trasferito all'estero.
   Recependo  taluni princi'pi formulati da organismi internazionali,
e' stato previsto, al comma 3, che l'invito a dichiarare  o  eleggere
domicilio nel territorio dello Stato deve essere redatto nella lingua
dell'imputato straniero, se dagli atti non risulta che  egli  conosca
la  lingua  italiana.  Si e' ritenuto, poi, di dover conferire valore
precettivo alle considerazioni svolte nella motivazione della  citata
sentenza  della  Corte  costituzionale  n. 177 del 19 giugno 1974, in
ordine  alle  ricerche  da  svolgere  anche  all'estero,  nei  limiti
consentiti dal diritto internazionale.
Conseguentemente  e'  stata  prevista  al  comma 4 l' cui al comma 1,
disponendosi in tal caso l'obbligo di esperire ricerche  anche  fuori
del  territorio  dello Stato, nei limiti consentiti dalle convenzioni
internazionali, prima di emettere il decreto di irreperibilita'.
   Si  e'  stabilito,  infine (comma 5), di prevedere che l'invito di
cui al comma 1 debba essere rivolto  anche  nel  caso  in  cui  venga
disposta  la  custodia  cautelare,  laddove risulti che l'imputato e'
detenuto all'estero; cio' al fine di consentire  all'imputato  stesso
di  esercitare  il diritto di difesa in relazione al procedimento del
quale puo' essere totalmente all'oscuro, malgrado dagli atti  risulti
la sua detenzione all'estero.
   L'articolo  170  riproduce  il vigente art. 178 c.p.p. E' sembrato
opportuno mantenere senza limiti la  possibilita'  di  utilizzare  il
servizio  postale  quale  mezzo  di notificazione, non essendo emerse
controindicazioni di un qualche pregio.
   Le  ipotesi di nullita' della notificazione (articolo 171) sono in
gran parte identiche a quelle previste dall'art. 179  c.p.p.  Novita'
di  rilievo  sono  l'ipotesi di nullita' per l'omesso avvertimento di
cui all'art. 161 commi 2  e  3,  quando  la  notificazione  e'  stata
eseguita  mediante  consegna  al  difensore,  e quella prevista dalla
lettera h), concernente l'inosservanza delle prescrizioni del giudice
in tema di notificazioni "a forma libera" (art. 150).
                              TITOLO VI
                               TERMINI
   Le  innovazioni  apportate alla disciplina dei termini processuali
riguardano quasi  esclusivamente  l'istituto  della  restituzione  in
termini, che la legge-delega ha espressamente menzionato in relazione
al potere di impugnazione dell'imputato giudicato in  contumacia  che
non  abbia avuto conoscenza del provvedimento da impugnare (direttiva
82) ed in relazione all'opposizione al decreto penale  (direttiva  46
ultima parte).
   Non  concerne,  invece,  la  materia  qui trattata la direttiva 80
della legge-delega, secondo la quale deve collegarsi al giudicato  la
restituzione  in  termini  in caso di accertata inosservanza di norme
imposte  per  l'emissione  del   decreto   di   irreperibilita'.   La
specificita'  della  materia, che in sostanza configura un'ipotesi di
contestazione  del  giudicato,  ha  consigliato  l'inserimento  della
relativa regolamentazione tra gli incidenti di esecuzione.
   In  ordine  alle  singole  disposizioni del titolo, l'articolo 172
richiama, con alcuni miglioramenti formali, le disposizioni contenute
negli  artt.  180  e  181 del codice vigente. L'unificazione discende
dalla considerazione che anche la determinazione  del  momento  della
scadenza   del   termine   stabilito  per  presentare  dichiarazioni,
depositare documenti o  compiere  atti  in  un  ufficio  giudiziario,
costituisce  una  di  quelle regole generali che la norma, secondo la
rubrica, intende enunciare.
   L'articolo  173  corrisponde  all'art. 182 del codice vigente. Nel
comma 1, pero', si e' inserita una disposizione di carattere generale
sull'individuazione  dei  termini  stabiliti  a pena di decadenza, la
quale e' analoga a quella prevista dal  codice  di  procedura  civile
(art. 152 comma 2).
   L'articolo  174 ricalca la norma dell'art. 183 del codice vigente.
Tuttavia, mentre per il prolungamento  del  termine  di  comparizione
dell'imputato  residente  in  Italia  si  e'  provveduto ad adeguarne
l'entita'  alle  mutate  condizioni  delle  vie  e   dei   mezzi   di
comunicazione  fissando  al contempo il limite massimo di tre giorni,
per cio' che si riferisce all'imputato  residente  all'estero  si  e'
inteso  stabilire  dei parametri di commisurazione, individuati nella
distanza e nei  mezzi  di  comunicazione  utilizzabili,  al  fine  di
sottrarre   alla   discrezionalita'  del  giudice  la  determinazione
dell'entita' del prolungamento del termine.
   L'articolo    175    apporta    diverse   innovazioni   ampliative
dell'istituto della restituzione nel termine. Il comma  1  amplia  la
sfera  dei  soggetti  legittimati  ad  ottenere  la  restituzione nel
termine: non piu' soltanto le parti private, secondo  quanto  dispone
il  primo comma del vigente art. 183- bis, ma anche i difensori ed il
pubblico ministero.
   Quanto  a  quest'ultimo,  per  la  precisione,  la disposizione in
esame,  col  farne  espressa  menzione,  analogamente  alla   formula
contenuta  nell'art.  126  del  codice  del  1913, svolge un ruolo di
semplice chiarificazione, giacche' anche attualmente  nessuno  dubita
che  il  pubblico  ministero  possa  essere  restituito  nel  termine
scaduto.
   Non cosi', invece, quanto ai termini stabiliti a pena di decadenza
per il compimento di attivita' processuali  di  esclusiva  pertinenza
del difensore. E' noto infatti che, nonostante reiterati tentativi di
interpretare il riferimento alle sole parti di cui  al  vigente  art.
183-   bis,   nel   senso   di  includervi  anche  il  difensore,  la
giurisprudenza e'  consolidata  sulla  soluzione  negativa.  Cio'  ha
indotto  ad  accogliere  la  tesi  piu'  estensiva  sulla  base della
elementare  considerazione  che  anche   le   attivita'   processuali
riservate  al  difensore  sono  sempre  funzionali  all'esercizio  di
diritti spettanti alla parte sulla  quale  soltanto,  in  definitiva,
verrebbe a ricadere l'ingiustificato pregiudizio per l'impossibilita'
di ammettere il suo difensore alla restituzione in termini.
   La  soluzione  prescelta  consentira' di rispondere agevolmente ad
altri  quesiti.  A  parte  l'ovvia  legittimazione  del  difensore  a
proporre  richiesta  di restituzione per un termine inosservato dalla
parte, anche oggi riconosciuta dalla giurisprudenza, e' logico che ad
identica  conclusione si dovra' giungere quando nel termine stabilito
a pena di decadenza il compimento dell'atto spetti,  alternativamente
o  separatamente,  alla parte ed al difensore. Nel primo caso, che si
verifica quando la legge fa generico riferimento  alla  parte,  resta
ferma la rilevanza del solo impedimento riguardante quest'ultima, che
dovra' dimostrare anche  l'intervenuta  impossibilita'  di  conferire
l'incarico  al  difensore;  se,  invece,  l'incarico  vi e' stato, il
difensore potra' utilmente addurre  il  suo  impedimento,  ma  dovra'
anche  provare  l'impossibilita'  di  informare la parte. Nel secondo
caso, che si verifica quando la legge assegna distinti  termini  alla
parte  ed  al  difensore,  sia unico o meno il momento della relativa
decorrenza, sara' rilevante il solo impedimento di  chi  richiede  la
restituzione nel termine.
   Per  quanto  riguarda i presupposti della restituzione, l'art. 175
conferma, in linea generale, quelli oggi previsti del caso fortuito e
della forza maggiore, ma, nel comma 2, ad essi aggiunge - nei casi di
maggior rilievo considerati, come si e' visto, dalla legge-delega  la
mancata  conoscenza effettiva del provvedimento da impugnare da parte
dell'imputato contumace o del condannato con decreto  penale,  sempre
che  questa  mancata  conoscenza  non  sia da attribuirsi a colpa del
soggetto che chiede la restituzione.
   Altro  ampliamento dell'istituto deriva dal comma 3, ove l'attuale
divieto di restituzione nel termine per piu' di una volta  nel  corso
del  procedimento  e' stato mitigato rendendolo operativo nell'ambito
di ciascuno dei gradi del processo. Lo sbarramento opera, ovviamente,
in  modo autonomo per la parte e per il suo difensore, trattandosi di
soggetti legittimati differenti.
   Dal  comma  3  in  poi  l'art.  175  regola il procedimento per la
decisione sulla richiesta di restituzione nel termine. Al riguardo le
norme  attualmente  vigenti sono state modificate al fine di renderle
applicabili anche alla nuova ipotesi  di  restituzione  prevista  nel
comma  2,  la  quale  si  fonda  su  un diverso presupposto. A questa
particolare  ipotesi  si  riferisce  anche  il  comma  8  che   rende
irrilevante  rispetto  alla prescrizione del reato il tempo di durata
del procedimento occorso per la restituzione, qualora questo  si  sia
concluso in senso favorevole per il richiedente.
   L'articolo  176  stabilisce il principio che, in ossequio anche ad
esigenze di economia processuale, la  restituzione  nel  termine  non
puo'  mai  determinare  regressione  del  processo: alla rinnovazione
degli  atti  provvedera'  sempre  il  giudice  che  ha  disposto   la
restituzione,  ovviamente  in  quanto  possibile. Inoltre, poiche' la
incolpevole inosservanza del termine stabilito a  pena  di  decadenza
determina una interruzione del contatto del legittimato col processo,
gli atti suscettibili di rinnovazione non possono  essere  tutti,  ma
solo quelli ai quali la parte aveva diritto di assistere.
   Il comma 2 contiene una naturale deroga alla predetta regola della
non regressione per il caso  di  restituzione  nel  termine  disposta
dalla  corte  di  cassazione.  Nonostante  essa  in questo caso possa
decidere anche nel merito, la rinnovazione degli atti non potra'  che
competere a quel giudice di merito dinanzi al quale si svolsero senza
la consentita presenza del legittimato.
                              TITOLO VII
                               NULLITA'
Premessa.
   Nella legge-delega 3 aprile 1974, n. 108 il sistema delle nullita'
era regolato dalla direttiva 6  che  si  limitava  a  disporre:  "non
incidenza  dei  vizi meramente formali degli atti sulla validita' del
processo; insanabilita' delle nullita' assolute".
   Dai  lavori  preparatori si ricava che tale disposizione intendeva
espressamente: a) sancire il principio  della  irrilevanza  dei  vizi
meramente  formali,  in  linea  con quanto disposto dalla direttiva 1
della medesima legge, che  prescriveva  la  "massima  semplificazione
nello  svolgimento  del  processo  con  eliminazione  di  ogni atto o
attivita' non essenziale"; b) enucleare la categoria  delle  nullita'
assolute,  dichiarandole  espressamente  insanabili;  c) rimettere al
legislatore  delegato  la  determinazione  delle  varie  ipotesi   di
nullita', specificandone la natura.
   Problema  lasciato  aperto  dal  legislatore delegante del 1974, e
vivamente dibattuto in seno alla  Commissione  redigente,  fu  quello
relativo  all'opportunita'  di  introdurre,  in  forza  del contenuto
precettivo della prima parte della citata direttiva 6, un sistema  di
nullita'   imperniato   sul   criterio  della  lesivita'  sostanziale
dell'atto nullo, cioe' un sistema in cui,  pur  in  presenza  di  una
difformita'  dell'atto  rispetto  alla  fattispecie  legale,  non  si
producesse alcuna nullita', qualora l'atto avesse raggiunto lo scopo,
nonostante il vizio di forma.
   La  soluzione recepita nel Progetto preliminare del 1978 fu quella
di escludere l'adozione generalizzata  del  criterio  contenutistico,
realizzando, per converso, il principio della "non incidenza dei vizi
meramente formali degli atti sulla validita' del  processo"  mediante
la  previsione  di  un  ampio  regime  di  decadenze e sanatorie e la
drastica limitazione dei casi di nullita' assolute.
   L'altra   questione   di   fondo   lasciata  impregiudicata  dalla
legge-delega del 1974 - se,  cioe',  sostituire  la  categoria  delle
nullita'   di   ordine  generale  con  un  diverso  schema  normativo
imperniato  soltanto  su  nullita'  speciali,  di  volta   in   volta
qualificate assolute o relative - venne risolta nel Progetto del 1978
negativamente, dopo un primo tentativo in  senso  opposto.  Si  prese
atto,  al  riguardo,  del fatto che una comminatoria in via specifica
delle singole ipotesi di nullita' avrebbe appesantito  eccessivamente
la   struttura   del  nuovo  codice  e,  soprattutto,  sarebbe  stata
inevitabilmente incompleta e, percio', rischiosa.
   Va  osservato  infine  che  il  Progetto  del  1978,  i cui lavori
preparatori si conclusero quando non era ancora entrata in vigore  la
l.  8  agosto  1977, n. 534 (che ha recato le note modifiche all'art.
185 c.p.p.), ha conservato la tradizionale distinzione delle nullita'
in  assolute  e  relative  senza  considerare l'adozione di una terza
categoria analoga a quella poi introdotta dall'art. 6 della legge ora
citata.
   Piu' articolata e' la direttiva in materia di sanzioni processuali
contenuta nella direttiva 7 della nuova legge-delega che - nella  sua
formulazione   definitiva,   frutto  di  una  travagliata  gestazione
parlamentare -  prescrive  al  legislatore  delegato  la  "previsione
espressa  sia  delle  cause  di  invalidita'  degli  atti  che  delle
conseguenti sanzioni processuali, fino alla nullita' insanabile per i
vizi  di  capacita' e costituzione del giudice, per le violazioni del
diritto all'intervento, alla assistenza e alla  rappresentanza  delle
parti e per altri casi predeterminati".
   Dato  atto  che,  con  il testo ora riportato, la delega ha inteso
affermare il principio  di  tassativita'  sia  dei  vizi  invalidanti
l'atto  processuale  che  del  tipo  di  conseguenze  che  ne debbono
scaturire,  sono  stati  esaminati  due  problemi  interpretativi  di
carattere generale. Ci si e' chiesto innanzitutto se la previsione di
sanzioni  processuali  "fino  alla  nullita'   insanabile"   riguardi
soltanto  "i  vizi  di  capacita'  e  costituzione  del giudice" o si
riferisca  anche  alle  "violazioni   del   diritto   all'intervento,
all'assistenza  e  alla  rappresentanza  delle parti e per altri casi
predeterminati". Il dubbio era  sorto  a  seguito  della  intervenuta
soppressione,  nel  corso dei lavori parlamentari (Senato, Assemblea,
Seduta del 20 novembre 1986), della virgola dopo le parole  "nullita'
insanabile".   E'  stato  pero'  facile  osservare  come  dai  lavori
preparatori emerga chiaramente che non si e'  voluto  operare  alcuna
distinzione  nel  trattamento  delle  violazioni  sopra indicate alle
quali vanno quindi collegate le stesse conseguenze.
   Il  secondo  problema  riguarda  il  significato  e  la portata da
attribuire  alla  previsione  di  sanzioni  processuali  "fino   alla
nullita'  insanabile" per i casi ivi previsti. Posto che la direttiva
puo' essere interpretata nel senso dell'obbligo di  prevedere  sempre
la  nullita'  insanabile  per  tutti  i  vizi  ivi indicati ovvero di
prevedere anche detta nullita' per i vizi medesimi,  si  e'  ritenuta
piu'  corretta  e aderente ai princi'pi ispiratori del nuovo processo
tale seconda soluzione.  E'  chiaro  infatti  che  sarebbe  oltremodo
gravosa  per  un  sollecito  ed  efficace  svolgimento  del  processo
l'insanabilita' di ogni vizio concernente l'intervento,  l'assistenza
e la rappresentanza di tutte le parti.
   A  tal  punto  e'  stata  presa  in  considerazione  la disciplina
stabilita dai commi 2 e 3 dell'art. 185 c.p.p.  per  le  nullita'  di
ordine  generale,  con  particolare  riguardo  alla  categoria  delle
nullita' variamente definite come "a regime intermedio"  o  "assolute
affievolite" o "relativamente assolute".
   Tali   nullita',   previste  appunto  dal  citato  comma  3,  sono
rilevabili anche di  ufficio  ma  non  in  ogni  stato  e  grado  del
procedimento sibbene entro tempi determinati. Come e' noto, detraendo
dalle nullita' generali previste dall'art. 185 comma 1 c.p.p.  quelle
dichiarate  insanabili  dal comma 2, risulta che le nullita' a regime
intermedio riguardano la partecipazione  del  pubblico  ministero  al
procedimento,  nonche' l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza
dell'imputato, fatta eccezione per la sua "omessa citazione" e per la
"assenza"  del  difensore nel dibattimento; si discute poi se in tale
categoria debbano farsi o meno rientrare le nullita'  concernenti  la
"nomina" del giudice e quelle attinenti al "numero" dei componenti un
collegio giudicante.
   La  "riforma" dell'art. 185 c.p.p. operata dall'art. 6 l. 8 agosto
1977, n. 534, e che ha  introdotto  la  categoria  delle  nullita'  a
regime  intermedio,  ha  inteso corrispondere all'esigenza di un piu'
rapido ed efficace svolgimento del processo, senza compromettere  gli
interessi fondamentali dei relativi soggetti.
   Partendosi  dalla constatazione, che la direttiva 7, come e' stato
gia' notato, non obbliga  il  legislatore  delegato  a  prevedere  la
nullita'  insanabile  per  ogni  vizio  concernente la capacita' e la
costituzione  del  giudice  e  per  ogni   violazione   del   diritto
all'intervento,  all'assistenza  e  alla rappresentanza delle parti e
per altri casi predeterminati, ma si limita a stabilire l'obbligo  di
prevedere  anche  la  nullita'  insanabile per le irregolarita' sopra
indicate, si e' deciso di utilizzare, per quanto opportuno e  con  le
forme  piu'  idonee,  accanto  alle nullita' insanabili, la categoria
delle nullita' risultante dall'attuale art. 185 comma 3 c.p.p. In tal
modo verranno tutelati i fondamentali interessi in gioco nel processo
penale, sara' evitata la proliferazione di vizi insanabili  e  verra'
colmato  lo  scarto  eccessivo  tra  le  nullita' assolute e le altre
nullita' di ordine generale sottoposte, nel Progetto preliminare  del
1978, al regime delle nullita' relative (art. 172).
Illustrazione degli articoli
   L'articolo 177 riproduce, salve poche modifiche di forma, la norma
stabilita  nell'art.  184  c.p.p.  che  enuncia   il   principio   di
tassativita',  nel  senso  che  occorre  una espressa comminatoria di
legge,  formulata  in  via  generale  o  in  relazione  a  specifiche
disposizioni,  perche'  l'inosservanza  delle  prescrizioni  di legge
assurga a causa di nullita'.
   L'articolo  178  contiene  la  previsione delle nullita' di ordine
generale seguendo, con il comma 1, lo schema normativo delineato  dal
primo  comma  dell'art.  185  c.p.p.  Il comma 2 riguarda materia non
trattata espressamente ne' dall'art. 185 c.p.p. ne' dall'art. 170 del
Progetto del 1978 e della quale ci occuperemo fra breve.
   Va  innanzitutto  ricordato  che  per  il combinato disposto degli
artt. 178, 179 e 180 il sistema qui seguito si  distingue  da  quello
adottato  nel  Progetto  del 1978 in quanto configura come nullita' a
regime  intermedio  quelle  che,  menzionate  nell'art.  170  ma  non
comprese   nelle  nullita'  insanabili  previste  dall'art.  171,  si
risolvevano in nullita' relative.
   Quanto  al  contenuto  del  comma  1  dell'articolo  in  esame  va
osservato che nella lettera a),  difformemente  dal  n.1)  del  primo
comma dell'art. 185 c.p.p. e dall'art. 170 del Progetto del 1978, non
si  fa  piu'  riferimento  alla  "nomina"  del  giudice,  oltre  alle
condizioni  di  capacita'  e  al  numero  dei  giudici  necessario  a
costituire i collegi giudicanti. Premesso che neppure la direttiva  7
menziona  la  nomina,  facendo  riferimento  solo  alla  capacita'  e
costituzione del giudice, il discorso va correlato col  disposto  del
comma  2 dell'articolo di cui ci occupiamo. Si deve infatti osservare
che se per "nomina" del giudice si intende semplicemente l'ammissione
alle   funzioni   giurisdizionali,  si  rientra  nella  capacita'  di
esercizio "generica" e quindi  nelle  "condizioni  di  capacita'  del
giudice" espressamente menzionate nella lettera a).
   Se  invece,  seguendo una contrastata corrente giurisprudenziale e
dottrinale, si ritiene che il concetto di nomina comprende  anche  la
destinazione  del  giudice  agli  uffici  giudiziari  e  alle sezioni
nonche' la formazione dei collegi, si rientra nel disposto del  comma
2 dell'articolo in esame che esclude nullita' di qualsiasi specie per
l'inosservanza delle disposizioni che regolano queste materie.
   Con  tale esclusione ci si e' uniformati ai rilievi espressi dalla
Commissione per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario  al  nuovo
processo  penale  e al processo minorile, per la quale una previsione
di nullita' (non importa di quale specie)  per  la  violazione  delle
norme  riguardanti  le  disposizioni  da  ultimo accennate si sarebbe
negativamente  riflettuta  su  delicate  questioni   di   ordinamento
giudiziario. Fra l'altro, considerata l'attuale situazione normativa,
sarebbe stato necessario disciplinare l'assegnazione  dei  magistrati
agli  uffici,  alle  loro interne articolazioni e ai collegi, nonche'
definire i criteri per l'assegnazione dei processi alle  sezioni,  ai
collegi e ai giudici, in modo da consentire appunto il giudizio sulla
violazione delle relative norme da parte del giudice delle  nullita'.
Senza  parlare poi delle interrelazioni che si potrebbero determinare
tra procedure amministrative, eventuale contenzioso  e  questioni  di
nullita' del processo penale.
   Va  rilevato  altresi'  che  con  la  lettera  c) dell'art. 178 la
comminatoria in  via  generale  delle  nullita'  per  violazione  dei
diritti  della  difesa,  e'  estesa  dall'imputato  alle  altre parti
private costituite (parte  civile,  responsabile  civile,  civilmente
obbligato  per la pena pecuniaria) e comprende espressamente anche la
citazione in giudizio dell'offeso dal reato e  del  querelante.  Cio'
sia  in  ossequio alla direttiva 7 che in materia fa riferimento alle
parti  e  non  al  solo  imputato,  sia  a  tutela  dei  diritti  che
immancabilmente  vanno  riconosciuti  anche all'offeso dal reato e al
querelante. Il che peraltro non  comporta  una  assoluta  parita'  di
trattamento, come risultera' dal successivo art. 179.
   Va   comunque  sottolineato  il  particolare  rilievo  che  assume
l'inserimento delle nullita' riguardanti  la  citazione  in  giudizio
dell'offeso  dal  reato e del querelante nel novero delle nullita' di
ordine generale. Senza richiamare le complesse  questioni  che  hanno
preceduto  e  seguito  la  sentenza  della  Corte  costituzionale  20
dicembre  1968,  n.  132   con   la   quale   e'   stata   dichiarata
l'illegittimita'  dell'art. 422 c.p.p. "nella parte in cui prevede la
sanatoria della nullita'  di  cui  all'art.  412  stesso  codice,  in
relazione  al  precedente  art.  408, anche nei confronti della parte
civile, dell'offeso dal  reato  e  del  querelante",  e'  sufficiente
rilevare  che  il  passaggio della nullita' in parola dalla categoria
delle  nullita'  relative,  come  fino   ad   oggi   ritenuto   dalla
giurisprudenza,  a  quella delle nullita' intermedie, consentira' una
piu'  puntuale  applicazione  dei  principi  enunciati  nella  citata
sentenza della Corte.
   L'articolo  179  individua  e  disciplina  le  nullita'  assolute,
caratterizzate dall'insanabilita'  e  dalla  rilevabilita'  anche  di
ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
   Quanto  all'area  di  applicazione,  l'articolo  in esame, oltre a
prevedere che il carattere assoluto possa essere attribuito a singole
figure  di nullita' da specifiche disposizioni di legge, individua le
ipotesi di nullita' di ordine  generale  che  sono  soggette  a  tale
regime.  Come  emergera'  dall'esame dell'art. 180, le fattispecie di
nullita' previste dall'art. 178 e non rientranti in quelle menzionate
dall'art.  179,  confluiscono  nella  categoria delle c.d. nullita' a
regime intermedio.
   Non  sara'  inutile rilevare che la direttiva 7 non fa riferimento
alla  nullita'  "assoluta",  ma  alla  nullita'  "insanabile";   cio'
perche',  come  si  ricava  dai  lavori  preparatori della Camera dei
Deputati (atto n. 691, 21 ottobre 1983), "una modifica  di  forma  ha
eliminato,  al  punto 6" (ora 7) "il riferimento alla categoria delle
nullita' assolute che avrebbe  potuto  ingenerare  equivoci  dopo  le
modifiche  apportate al regime delle nullita' dalla l. 8 agosto 1977,
n. 534".
   Circa   l'individuazione  delle  nullita'  assolute,  va  rilevato
innanzitutto che sono  state  incluse  in  tale  categoria  tutte  le
nullita'  previste  dall'art.  178  comma  1 lettera a), cioe' quelle
riguardanti le condizioni di capacita' del  giudice  (nel  senso  che
gia' si e' detto) e il numero dei componenti i collegi.
   Per le disposizioni concernenti l'attivita' del pubblico ministero
si e' limitata l'attribuzione del carattere  assoluto  alle  nullita'
concernenti  l'iniziativa  nell'esercizio  dell'azione penale. In tal
modo, identico a quello stabilito dall'art. 185 comma  2  c.p.p.,  le
nullita'  concernenti  la  partecipazione  del  pubblico ministero al
procedimento sono state fatte rientrare nella categoria di  quelle  a
regime intermedio.
   Criteri  ulteriormente  riduttivi  sono  stati  applicati  per  le
ipotesi previste dalla lettera c) dell'art. 178. Innanzitutto non  e'
stata prevista alcuna nullita' assoluta per le violazioni concernenti
l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza  delle  parti  private
diverse  dall'imputato  nonche'  la citazione in giudizio dell'offeso
dal reato e del querelante. Tale orientamento  e'  stato  determinato
dal   rilievo   che   la   tutela  dei  diritti  di  detti  soggetti,
opportunamente  garantita  con   l'inserimento   delle   ipotesi   di
violazione  nel  novero  delle  nullita' di ordine generale, non deve
necessariamente  avere  intensita'  uguale  a  quella  concernente  i
diritti  dell'imputato;  e  cio'  in rapporto alle diverse rispettive
posizioni. In proposito la Corte costituzionale ha dichiarato che "il
presidio   predisposto   per   le   garanzie  difensive  puo'  essere
legittimamente di diversa intensita' e d'altra parte la differenza di
trattamento  non  contrasta col principio di eguaglianza in quanto la
collocazione e la situazione processuale delle parti  private  da  un
lato  e  dell'imputato dall'altro non sono sullo stesso piano" (Corte
cost., 3 luglio 1975, n. 172). Per queste ragioni si e' ritenuto  che
la   tutela   assicurata  ai  diritti  delle  parti  private  diverse
dall'imputato con il regime  previsto  dall'art.  180  sia  idonea  a
contemperare le esigenze difensive delle stesse con la prospettiva di
un sollecito ed efficace processo.
   Per  quanto riguarda l'imputato, e' rimasta insanabile la "omessa"
citazione che va intesa come riferita non al  solo  dibattimento,  ma
anche  a  momenti  diversi,  come,  ad esempio, l'udienza preliminare
(art. 416). Si deve aggiungere fin d'ora che  tale  sistema  e'  piu'
favorevole  all'imputato  rispetto a quello previsto nel Progetto del
1978. Infatti, secondo la disciplina in esame, l'omessa citazione  e'
in  ogni  caso  insanabile,  mentre  nel Progetto era sanabile con la
comparizione dell'imputato o la sua rinuncia a  comparire  (art.  175
comma 1).
   La  insanabilita'  e'  pure  prevista  per le nullita' concernenti
l'assenza del difensore "nei  casi  in  cui  ne  e'  obbligatoria  la
presenza".  E'  stata quindi ritenuta sufficiente la garanzia ridotta
ai casi ivi specificati, considerando  che  l'assenza  del  difensore
nelle  ipotesi  diverse  dara'  luogo  comunque  a  nullita' d'ordine
intermedio.
   L'articolo  180  e'  gia'  stato  sostanzialmente illustrato nelle
osservazioni via via formulate per gli articoli  precedenti.  Qui  e'
sufficiente   notare  che  le  nullita'  di  ordine  intermedio  sono
rilevabili anche di ufficio, non pero' in  ogni  stato  e  grado  del
procedimento  ma  nei termini stabiliti dall'articolo in esame (salvo
quanto si dira' per l'art.  182);  mentre,  per  l'espresso  richiamo
contenuto  nell'art.  182,  non  possono essere eccepite da chi vi ha
dato  o  e'  concorso  a  darvi  causa  ovvero   non   ha   interesse
all'osservanza della disposizione violata.
   Per  quanto  riguarda in particolare i termini entro i quali dette
nullita' vanno eccepite o rilevate si osserva che mentre  per  l'art.
185  comma  3 c.p.p., il termine scade, per quelle verificatesi nella
"istruzione", una volta che siano state  compiute  le  formalita'  di
apertura del dibattimento, l'articolo in esame protrae il termine per
le nullita' incorse nelle fasi che  hanno  preceduto  l'apertura  del
dibattimento,  alla  chiusura  del dibattimento di primo grado; se si
sono verificate nel giudizio, il termine scade con  la  chiusura  del
dibattimento  del  grado successivo. In proposito va ricordato che la
"chiusura" del dibattimento interviene con la relativa  dichiarazione
pronunciata  dal  presidente  quando  siasi "esaurita la discussione"
(art. 517).
   L'articolo 181 individua, al comma 1, con sistema "ad esclusione",
le nullita' a  cui  e'  attribuito  il  carattere  relativo.  Con  la
locuzione  "nullita'  diverse  da  quelle previste dall'articolo 178"
intende escludere, come e' chiaro, sia quelle assolute che  quelle  a
regime  intermedio.  Naturalmente,  vanno  pure  escluse le "nullita'
definite assolute da specifiche  disposizioni  di  legge"  menzionate
nell'art.  179  comma  2.  Relative  sono  pertanto  le  nullita' non
riconducibili all'art. 178 e  non  definite  assolute  da  specifiche
disposizioni di legge.
   Lo  stesso  comma  1,  (il  quale  afferma che tali nullita' "sono
dichiarate su eccezione di parte") va inteso nel  senso  che  possono
essere  dedotte  solo  dalla  parte (che ha interesse alla osservanza
della disposizione violata:  art.  182)  e  non  sono  rilevabili  di
ufficio.  Cio'  in  coerenza  anche  con il carattere accusatorio che
distingue il nuovo processo.
   I  commi successivi determinano i limiti cronologici entro i quali
la parte deve, nelle  diverse  fasi  del  procedimento,  eccepire  la
nullita'  relative. Detti termini sono stabiliti a pena di decadenza,
secondo quanto disposto dall'art. 182 comma 2.
   Come  si  legge  nella  Relazione  al  Progetto  del  1978, la non
rilevabilita' di ufficio delle nullita' relative e quindi  il  potere
riconosciuto in materia soltanto alle parti, ha posto il problema "di
impedire che una parte strumentalizzi tale  suo  potere  di  chiedere
l'invalidazione  di  un  atto ritardando la proposizione dell'istanza
con l'intento di allungare i tempi processuali".  Il  problema  venne
risolto  "oltre  che  con  la  previsione  di un sistema di decadenze
legate ai singoli stadi procedurali, con  l'attribuzione  al  giudice
del  potere  di  assegnare  alle  parti,  nel  corso  degli  atti  di
istruzione (l'unica fase, cioe', in cui un tale  potere  acquisti  un
rilievo   apprezzabile)  un  termine  anticipato  rispetto  a  quello
previsto  ex  lege  per  la  deduzione  delle  nullita'  istruttorie"
(Relazione, p. 153 e 154). Per tale motivo, nell'art. 173 comma 4 del
Progetto del 1978 venne disposto: "Il giudice che  rileva  una  delle
predette  nullita'  puo'  assegnare alle parti interessate un congruo
termine entro il quale chiedere la declaratoria della nullita'".
   Tale  disposizione  venne  pero'  criticata  da  qualche Consiglio
giudiziario, in quanto poteva implicitamente essere  intesa  come  un
"incitamento  a  sollecitare  eccezioni  di nullita'" e risultava "in
contrasto con la posizione di terzieta' del giudice". Si e'  pertanto
ritenuto,  sia  per  i  motivi ora riferiti, sia per la non eccessiva
ampiezza dei termini previsti, di non  riprodurre  il  rimedio  sopra
indicato.
   L'articolo  182  dispone,  nel  comma 1, limiti alla deducibilita'
delle nullita', valevoli sia per  le  relative  (con  il  riferimento
all'art.  181) che per quelle a regime intermedio (con il riferimento
all'art. 180): le nullita' in parola non possono essere  eccepite  da
chi  abbia dato o sia concorso a dare causa alla nullita' o non abbia
interesse all'osservanza della disposizione di  cui  si  denuncia  la
violazione.  Si  tratta,  come  e'  chiaro,  della  disposizione oggi
prevista dall'art. 187 comma 2 c.p.p.;  solo  che  mentre  in  questo
articolo   la  materia  era  inserita  nel  quadro  delle  "sanatorie
generali", nel Progetto e' piu' esattamente prevista in via autonoma.
Infatti,   se  per  comune  accezione  si  intende  come  "sanatoria"
l'elemento nuovo che nasce da un atto o comportamento successivo e si
combina con l'atto irregolare in modo da sostituire l'elemento la cui
mancanza ha dato luogo alla nullita', e' chiaro che  detta  qualifica
non puo' essere attribuita alle ipotesi ora menzionate.
   La  seconda  parte  del  comma  1,  estendendo all'intero arco del
processo  la  disposizione  che  l'art.   471   c.p.p.   riserva   al
dibattimento,  pone a carico della parte che assiste al compimento di
un atto l'onere di dedurre immediatamente le eventuali  nullita'.  Se
la  parte  non  ha  assistito al compimento dell'atto, la nullita' va
eccepita, per  quelle  a  regime  intermedio,  nei  termini  previsti
dall'art.  180  e,  per  le  nullita'  relative,  nei  termini di cui
all'art. 181.
   L'ultimo  comma  dichiara,  con norma di carattere generale, che i
termini per rilevare o eccepire le nullita' sono stabiliti a pena  di
decadenza.
   L'articolo  183, applicabile alle nullita' a regime intermedio e a
quelle  relative,  disciplina  le  cause  di  sanatoria.   Esso,   in
corrispondenza  con  quanto  previsto  dall'art.  187 comma 3 c.p.p.,
contempla i seguenti fatti:  la  rinuncia  espressa  ad  eccepire  la
nullita'  o  l'accettazione  anche  tacita  degli  effetti dell'atto;
l'esercizio  della  facolta'  a  cui  l'atto  omesso  o   nullo   era
preordinato.  Con  quest'ultima previsione si e' individuata la causa
di sanatoria enunciata in chiave di "raggiungimento dello scopo".  Si
e'   ritenuto   opportuno   modificare   la   formula   per  ancorare
l'operativita' della  sanatoria  al  dato  inequivoco  dell'esercizio