effettivo della facolta' tutelata dalla norma violata anziche' a quello, vago e incerto, del raggiungimento dello scopo. L'articolo 184 si distingue dal corrispondente articolo del Progetto del 1978 in quanto non ne ha riprodotto il secondo comma che estendeva la sanatoria della comparizione o della rinunzia a comparire, al caso di "omissione" dell'atto di citazione. Il testo attuale dell'art. 184, interpretato anche alla luce dell'art. 179 comma 1, per il quale sono insanabili e rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullita' "derivanti dalla omessa citazione dell'imputato", comporta quindi che la comparizione di questo non varra' a sanare l'omessa citazione. Considerata poi la fondamentale importanza, ai fini della difesa, della citazione a comparire al dibattimento, si e' ritenuto opportuno far si' che il termine cui ha diritto l'imputato comparso al solo fine di far rilevare la nullita' della citazione medesima non possa essere inferiore a quello previsto in via ordinaria dall'art. 425. L'articolo 185, che disciplina gli effetti della dichiarazione di nullita', si adegua, con il comma 1, al disposto dell'art. 189 c.p.p. secondo cui la nullita' di un atto rende invalidi quelli "consecutivi" che da esso dipendono. Anche se il corrispondente articolo del Progetto del 1978 aveva soppresso il termine "consecutivi" riducendo la formula agli "atti che dipendono" da quello dichiarato nullo, si e' ritenuto opportuno conservare l'espressione tradizionale come la piu' idonea a esprimere quel rapporto di dipendenza causale e necessaria, logica e giuridica, che deve intercorrere fra l'atto successivo e quello dichiarato nullo. Aderendo invece all'art. 176 del Progetto del 1978, e' stata omessa, in quanto superflua, la seconda parte del primo comma dell'art. 189 c.p.p. nella quale si dichiara che la nullita' della notificazione "rende nullo il decreto di citazione". E' evidente infatti che nella fattispecie complessa (a formazione successiva) della "citazione", costituita dal decreto e dalla sua notifica, la nullita' di quest'ultima rende il primo incapace di raggiungere lo scopo assegnatogli dalla legge. I commi 2 e 3 riguardano la dichiarazione di nullita', la rinnovazione dell'atto e la eventuale conseguente regressione del procedimento. Quanto alla rinnovazione dell'atto dichiarato nullo, va osservato che essa e' prevista solo se necessaria e possibile. E' appena il caso di osservare che essa risultera' "non necessaria" qualora gli elementi che doveva fornire l'atto nullo siano stati acquisiti aliunde o qualora l'evolversi del processo abbia dimostrato l'inutilita' dell'atto; risultera' "impossibile" quando non esistano piu' gli elementi indispensabili per la sua ripetizione. Cio' che maggiormente interessa rilevare e' il fatto che se la rinnovazione non presenta particolari problemi qualora venga disposta dallo stesso giudice che ha compiuto o dinnanzi al quale e' stato compiuto l'atto nullo, puo' risultare invece complessa se la dichiarazione di nullita' avviene in una fase diversa rispetto a quella in cui la nullita' si e' consumata. Quest'ultima ipotesi pone infatti il problema della regressione del processo dalla fase in cui la nullita' e' dichiarata a quella in cui si e' verificata. Ad evitare, per quanto possibile, l'eccessiva dilatazione che il fenomeno della regressione spesso assume, ci si e' ispirati al criterio - gia' seguito dal Progetto del 1978 - che il processo deve regredire alla fase in cui si e' verificata la nullita' solo nel caso in cui il compimento dell'atto nullo rientra nell'esclusivo potere del giudice di tale fase. Il che vale per i cosiddetti atti propulsivi, a cui si riferisce il comma 3, che peraltro fa salve diverse disposizioni di legge; non vale invece per gli atti di acquisizione probatoria, per i quali il comma 4 esclude un qualsiasi effetto di regressione e che pertanto, quando sia necessario (cioe' si tratti di prove utili e rilevanti ai fini della decisione) e possibile (cioe' si tratti di prove oggettivamente ripetibili), debbono essere rinnovati - salvo ovviamente per la Corte di cassazione - dallo stesso giudice che ha dichiarato la nullita'. L'articolo 186 disciplina la materia oggetto dell'art. 186 c.p.p. non limitando pero' la normativa alla sola imposta sul bollo ma facendo riferimento a qualsiasi imposta e tassa. LIBRO III PROVE Il tema della prova e' risultato tra i piu' impegnativi, per la grande importanza che la disciplina dei modi e degli strumenti di convincimento del giudice assume nel sistema del nuovo processo penale. Il carattere accusatorio del nuovo ordinamento processuale - pur con tutte le riserve che derivano dalla polivalenza della formula nel linguaggio degli studiosi e degli operatori giudiziari - non puo' non tradursi quanto meno in una piu' incisiva ingerenza delle parti nel momento di formazione della prova, e quindi, in una maggiore attenzione sul piano legislativo al rispetto, da parte del giudice, delle norme che descrivono il procedimento probatorio. Avendo la nuova legge-delega riconfermato l'opzione per il modello processuale accusatorio, l'impianto del libro III non si discosta sensibilmente da quello del Progetto preliminare del 1978. Possono quindi essere riconfermate le linee di ricostruzione del sistema espresse nella precedente Relazione. E' stata cosi' mantenuta l'adesione alle tre direttrici di fondo che caratterizzarono l'impegno di esercizio della delega nel 1978 relativamente alla materia delle prove. La prima riguarda la creazione di una sostanziale unita' delle regole probatorie e la scelta della collocazione del corpus normativo che vi si riferisce in seno al codice. Smembrata in due tronconi inseriti rispettivamente nel libro dell'istruzione e, in minor misura, in quello sul giudizio, la disciplina del fenomeno probatorio non riesce nel codice vigente a guadagnarsi tutta l'attenzione che merita da parte dell'interprete, indotto a privilegiarne l'aspetto "procedurale". Nel Progetto la materia e' invece raggruppata in una compatta articolazione che da' il dovuto rilievo al "diritto delle prove penali": dall'osservanza delle forme e del modus procedendi in questo settore dipende l'accertamento della colpevolezza dell'imputato, non soltanto la sorte di una tappa interlocutoria della vicenda processuale. Ripudiata la frantumazione della normativa, le norme sulle prove avrebbero potuto essere inserite nel libro sul giudizio, in modo da sottolineare il legame inscindibile tra prova e dibattimento, connotato qualificante del nuovo processo. Si e', pero', preferito collocare il nuovo corpus di norme nella prima parte del codice, in un libro a se', destinato a seguire quello degli atti processuali, cosi' da segnalare il valore tutto particolare che gli strumenti del convincimento rivestono a fronte degli atti che danno impulso od esauriscono lo svolgimento del processo. La seconda direttrice di fondo seguita nell'elaborazione della materia emerge dalla scelta in favore di una normativa generale sulle prove. Piu' che mai carente si presenta, sotto questo profilo, il testo del codice vigente la cui reticenza e' testimoniata dalle norme che alludono solo incidentalmente od indirettamente (cfr. artt. 158 e 308 c.p.p.) ad un principio basilare, come quello del libero convincimento del giudice, che esige invece una esplicita formulazione, del resto presente in tutte le codificazioni moderne (v. art. 427 c.p.p. francese; (Paragrafo) 261 Strafprozessordnung della Repubblica Federale di Germania). Il dissolvimento delle regole sulla prova nel nostro diritto processuale penale ha origini che non e' certo possibile scandagliare in questa sede. Val la pena, tuttavia, di ricordare come gia' sul finire del secolo scorso fosse apparsa chiaramente, agli occhi dei riformatori del processo penale, l'esigenza di reagire a questo orientamento, in modo da restituire al diritto probatorio il posto centrale che gli competeva nella regolamentazione legislativa. Nel progetto di un nuovo codice di procedura penale redatto sul finire del secolo scorso da Garofalo e Carelli, due tra i principali esponenti della Scuola positiva, si lamentava che il codice allora vigente contenesse una normativa lacunosa, limitata in sostanza a "disposizioni quasi regolamentari sul modo di raccogliere gli elementi di prova". E la ragione di questa evasivita' veniva lucidamente individuata in questo modo: "a poco a poco, come reazione alle esagerazioni della teoria della prova legale si e' infiltrata l'opinione che la convinzione del giudice penale non debba essere determinata da alcuna norma, debba essere solo la conseguenza di una impressione e quasi di una ispirazione imprecisabile". Nel codice di procedura penale del 1930 la situazione non e' cambiata di molto. E' parso percio' necessario mettere a frutto i risultati del rifiorire degli studi sulla prova nel processo penale, unitamente alle chiare indicazioni della legge-delega, per fornire un quadro preciso dei precetti generali cui si ispira la regolamentazione del fenomeno probatorio. Il "diritto alla prova", rafforzato nel sistema della legge-delega dalla particolare tecnica dell'esame incrociato (cfr. direttive 69, 72, 73 e 75), assume nell'ottica del legislatore delegante un rilievo cosi' rimarchevole da far pensare che non sia corretto relegarlo nella serie delle disposizioni dedicate alla disciplina analitica dei singoli mezzi, ma che sia invece necessario elevarlo al rango di disposizione generale accanto a quelle norme che formano l'ossatura logica o fissano le garanzie costituzionali del procedimento probatorio. Il terzo profilo dell'orientamento sistematico seguito investe la classificazione delle norme secondo la dicotomia mezzi di prova mezzi di ricerca della prova. Al riguardo, non si e' mancato di rilevare, nel corso del dibattito in Commissione, il rischio di ricadere in partizioni che vengono ad incidere su una materia da sempre contrassegnata da usi linguistici fluttuanti ("prova", "fonte di prova", "mezzo di prova") nell'ambito dei quali non e' certamente facile pervenire a risultati soddisfacenti sul piano della nomenclatura. Tuttavia, poiche' lo stesso legislatore delegante ha mostrato una decisa propensione ad introdurre graduazioni nella tipologia dei veicoli probatori (v., ad esempio, nella direttiva 31, la qualificazione di "fonte di prova" riservata all'oggetto delle operazioni compiute dalla polizia giudiziaria e, nella direttiva 52, la locuzione "elementi ai fini della decisione" in sede di udienza preliminare), e' sembrato corretto prospettare una distinzione che ha un duplice fondamento, logico e tecnico-operativo. Sotto il primo profilo, non si puo' infatti contestare che tutti i mezzi di cui si tratta nel titolo II del libro III (esame dei testimoni e delle parti; confronti; ricognizioni; esperimenti giudiziali; perizia; documenti) si caratterizzano per l'attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione. Al contrario, i mezzi di ricerca della prova non sono di per se' fonte di convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitudine probatoria. L'ispezione mette capo all'acquisizione di un indizio, cosi' come la perquisizione ed il sequestro possono condurre all'apprensione materiale di una res sulla quale si puo' fondare il convincimento del giudice. In maniera analoga opera l'intercettazione telefonica che consente di venire a conoscenza di dichiarazioni rilevanti per il processo. Dal punto di vista tecnico-processuale, i mezzi di ricerca della prova si caratterizzano altresi' in quanto, mirando a far penetrare nel processo elementi che preesistono all'indagine giudiziaria, si basano sul fattore sorpresa e non consentono percio', per loro stessa natura, il preventivo avviso ai difensori quando sono compiuti nella fase delle indagini (una importante eccezione e' pero' costituita dagli atti di ispezione, per i quali l'art. 363 prescrive l'avviso: si e' infatti interpretata in tal senso la volonta' del legislatore delegante, espressasi in una significativa modifica della direttiva 38, intervenuta nel passaggio del testo dalla Camera al Senato). La prova e' in questi casi precostituita, non deve cioe' essere formata nel processo, come per le testimonianze, le perizie e gli esperimenti giudiziali, etc. La cura del legislatore cade dunque pressocche' interamente sui modi di ricerca e di acquisizione e non sulle modalita' di assunzione, come per gli atti appartenenti alla prima classe. Non v'e' dubbio che tutte le disposizioni contenute nel libro III trovino applicazione nella fase del dibattimento e nell'incidente probatorio, che la legge-delega ha costruito come anticipazione della plena iurisdictio all'interno delle indagini preliminari (v. Relazione sen. Coco al Senato, p. 10; Relazione on. Casini alla Camera dei deputati, p. 11). Problema piu' complesso e piu' delicato, alla luce delle direttive tracciate dal Parlamento, e' quello di determinare l'ambito di operativita' delle norme sulle prove nel corso delle indagini preliminari e in sede di chiusura delle stesse, sia per quanto attiene all'attivita' della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, sia per quanto riguarda i provvedimenti demandati dal nuovo sistema al giudice. Sul punto, l'impegno ad un approfondimento delle linee di fondo desumibili dall'intero impianto della legge-delega ha consentito soluzioni volte a fondere esigenze di funzionalita' e coerenza del sistema con l'aderenza al modello processuale messo a punto dal Parlamento. Pur nella fedelta' alla nomenclatura della legge-delega che ricollega il concetto di prova alle attivita' propriamente giurisdizionali, utilizzando invece le locuzioni "fonti di prova" (direttive 31 e 52) ed "elementi" (scilicet: di prova) (direttive 3, 44, 52, 59) relativamente agli atti ed ai provvedimenti inseriti nelle indagini preliminari (v., ad es. artt. 291 comma 1 e 348 in rubrica; art. 418 comma 2), non si e' ritenuto che la "degradazione lessicale" operata dal legislatore delegante volesse esprimere un totale ripudio di qualsiasi disciplina dell'attivita' probatoria nella fase anteriore al dibattimento. E' sembrato invece che il vero intendimento del Parlamento fosse quello di escludere la diretta ed immediata utilizzabilita' degli atti compiuti fuori dal giudizio ai fini della decisione sul merito dell'imputazione. Di qui due importanti corollari. Anzitutto le disposizioni contenute nel libro III si osservano, in quanto applicabili, in sede di emissione di provvedimenti coercitivi e nell'udienza preliminare, la' dove il giudice preposto alla fase anteriore al dibattimento (art. 328) esercita una sorta di semiplena iurisdictio, o perche' manca il contraddittorio (art. 291) o perche' l'intervento delle parti non si esplica con quella pienezza di poteri che e' tipica del dibattimento (art. 419 comma 8 relativo all'udienza preliminare). Nonostante la giurisdizionalita' imperfetta che caratterizza questi momenti, gli strumenti di convincimento del giudice devono rispondere ai parametri fissati nelle disposizioni del libro III. Cosi' non potra' essere disposta la custodia cautelare dell'indiziato nel caso in cui la richiesta dal pubblico ministero si basi, ad esempio, sui risultati di una intercettazione telefonica eseguita senza autorizzazione e non convalidata (art. 267 comma 2). Allo stesso modo non potra' essere emesso il decreto che dispone il giudizio, a seguito dell'udienza preliminare, qualora il pubblico ministero ponga a fondamento della sua richiesta i documenti acquisiti mediante una perquisizione illegittima, compiuta in violazione dell'art. 102. Parzialmente diversa e' la posizione del pubblico ministero che procede alle indagini. Nel servirsi dei mezzi di ricerca della prova disciplinati dal titolo III, egli e' tenuto a fare applicazione delle norme ivi contenute, come risulta anche dal ricorrente uso della formula "autorita' giudiziaria" nei testi normativi (cfr. artt. 244 comma 2, 247 comma 3 e 253 comma 3). Si tratta del resto di quegli atti non ripetibili che la direttiva 57 della legge-delega consente di far rifluire nel dibattimento, cosi' da renderne palese l'utilizzabilita' ai fini della pronuncia nel merito. Per quanto riguarda invece i mezzi di prova (titolo II), il destinatario delle relative norme e', in linea generale, solo il giudice, sia perche' al pubblico ministero e' fatto divieto di assumere alcuni di questi mezzi (ricognizioni, esperimenti giudiziali: a contrario ex art. 390), sia in quanto nelle norme che regolano l'attivita' del pubblico ministero esiste una autonoma disciplina di atti omologhi a quelli previsti nel presente libro (cfr. art. 360: accertamento tecnico corrispondente alla perizia art. 361: individuazione di persone e di cose, corrispondente alle ricognizioni; art. 362: interrogatorio di persona imputata di reato connesso, corrispondente all'esame previsto dall'art. 210; art. 375: audizione di persona informata sui fatti, corrispondente alla testimonianza). Infine, per quanto attiene ai confronti, va ricordato che si tratta di atto cui e' legittimato il pubblico ministero (direttiva 37) - come risulta dall'art. 363 comma 1 - e che ad esso in forza della tipicita' dell'atto, e' applicabile la disciplina delineata dagli artt. 211 e 212. Quanto alle disposizioni generali (titolo I), la loro applicabilita' alle attivita' della polizia giudiziaria e del pubblico ministero va verificata tenendo conto della struttura delle singole disposizioni. TITOLO I DISPOSIZIONI GENERALI Il titolo I si apre con una norma (articolo 187) che dovrebbe assolvere una duplice funzione: rispetto al testo del codice vigente, da un lato, segnalare l'abbandono di una formula giustamente definita frutto di un'iperbole, come quella contenuta nell'attuale art. 299 c.p.p., secondo cui il giudice istruttore deve compiere "tutti e soltanto quegli atti" che appaiono "necessari all'accertamento della verita'"; dall'altro, fissare il significato di una locuzione usata dalla stessa legge-delega (v. direttiva 75: "oggetto delle prove") che acquista un grande rilevo ai fini della applicazione delle norme sull'esame diretto da attuarsi in dibattimento e nell'incidente probatorio. Sotto il primo profilo, non si vuol certamente accreditare l'idea che il nuovo processo non tenda all'accertamento della verita', obiettivo fra l'altro richiamato sia pur incidentalmente dalla stessa legge-delega nella direttiva 73. Piuttosto, facendo della imputazione il nucleo centrale in cui viene a risolversi l'oggetto della prova, si e' voluto elevare un baluardo nei confronti delle deviazioni interpretative scaturite dalla formula dell'art. 299 codice vigente che, riferite al giudice istruttore, ma estesa nella sua valenza operativa anche alla fase dibattimentale, e' divenuta l'emblema del principio inquisitorio. Nel sistema della legge-delega non e' piu' concepibile che il giudice del dibattimento non abbia confini nel suo accertamento, cosi' da impegnarsi nell'accertamento di fatti e circostanze diversi da quelli dedotti nell'imputazione dal pubblico ministero. Ne' e' pensabile che la spinta alla ricerca della verita' possa condurre, come oggi avviene, alla proliferazione di nuove imputazioni nei confronti di nuovi soggetti in modo da paralizzare ogni accertamento proprio nell'ambizione di una completezza che e' praticamente irraggiungibile in un unico contesto (di qui la revisione dei criteri in tema di connessione dei procedimenti messa a punto con l'art. 12). Non sarebbe del resto possibile mantenere la nozione di accertamento della verita' ai fini operativi di istituti, come l'esame diretto, che esigono criteri di rilevanza predeterminati ex lege e non stabiliti in concreto dal giudice a seconda dell'ottica suggeritagli dallo svolgimento delle indagini. Nella formula dell'art. 187 si riassume, dunque, il catalogo degli episodi che costituiscono il thema decidendum: su di essi si deve imperniare l'attivita' di accertamento del giudice. Accanto all'imputazione, si e' richiamata la classe dei fatti riguardanti la punibilita' del soggetto, al fine di ricomprendere tutti quegli episodi che, sebbene non contestati, possono delinearsi nel corso del processo a seguito di iniziative d'ufficio o di richieste delle parti: si pensi alle attenuanti, alle cause di giustificazione, alle cause speciali di esenzione della punibilita' nonche' alla dichiarazione di abitualita' ed alla conseguente applicazione della misura di sicurezza. Con la locuzione "i fatti che si riferiscono all'imputazione" (cfr. invece art. 178 del Progetto 1978: "i fatti o le circostanze") si e' voluto alludere anche alla prova indiziaria, cioe' ai c.d. fatti secondari da cui si puo' risalire a quelli oggetto dell'accusa. Il comma 2 estende l'oggetto della prova ai c.d. "fatti processuali" (accertamento di nullita', domicilio o residenza dell'imputato, rapporti di convivenza ai fini delle notificazioni). Il Progetto del 1978 non conteneva una simile previsione, ritenuta superflua, ma si e' ritenuto di non trascurare questo profilo della disciplina poiche' talvolta l'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali riveste un carattere di estrema delicatezza. Nel comma 3 dell'art. 187 si e' apportata una leggera variante alla formulazione della seconda parte del comma 1 dell'art. 299 codice vigente: il richiamo ai "danni prodotti dal reato" come oggetto di accertamento e' stato espunto in quanto ricompreso nella locuzione del comma 1 dell'articolo ("fatti che si riferiscono all'imputazione"). L'articolo 188 recepisce una disposizione gia' inserita tra le regole generali in tema di interrogatorio dell'imputato, dove l'art. 71 comma 2 reca una formula dello stesso tenore. Lo sdoppiamento si e' reso necessario al fine di sottolineare l'estraneita' dell'interrogatorio alla tematica delle prove. Dalle due norme parallele risulta cosi' assicurata, sull'intero fronte dei possibili interventi dell'autorita', la tutela della liberta' morale del cittadino di fronte a mezzi coercitivi della volonta' o a tecniche di subdola persuasione. L'accento cade soprattutto su narcoanalisi, lie detector, ipnosi e siero della verita' che si ritiene debbano essere banditi dalla sede processuale anche per la scarsa attendibilita' che viene loro generalmente riconosciuta. Un'analoga disposizione, in tema di interrogatorio dell'imputato, e' contenuta nell'art. 136 a) della Strafprozessordnung della Repubblica Federale di Germania. L'articolo 189 regola l'assunzione delle prove non previste espressamente dalla legge, cosi' lasciando intendere che il sistema non recepisce il principio di tassativita' senza peraltro ignorarne la portata garantistica. Il Progetto del 1978 aveva invece escluso l'utilizzabilita' di prove atipiche od innominate nell'intento di rafforzare le garanzie difensive dell'imputato in relazione a mezzi di accertamento dei fatti di reato la cui acquisizione potrebbe condurre ad errori od abusi (ad es., tavole d'ascolto idonee ad intercettare conversazioni tra presenti). Riesaminatosi il problema in tutti i suoi profili di politica e tecnica processuale, si e' scelta una strada intermedia che consente al giudice di assumere prove non disciplinate dalla legge ma lo obbliga a vagliare, a priori, che queste siano, al tempo stesso, affidabili sul piano della genuita' dell'accertamento e non lesive della liberta' morale della persona. Verificata l'ammissibilita' del mezzo di prova atipico, il giudice dovra' poi regolarne in concreto le modalita' di assunzione cosi' da rendere conoscibile in anticipo alle parti l'iter probatorio. E' sembrato che una norma cosi' articolata possa evitare eccessive restrizioni ai fini dell'accertamento della verita', tenuto conto del continuo sviluppo tecnologico che estende le frontiere dell'investigazione, senza mettere in pericolo le garanzie difensive. Il comma 1 dell'articolo 190 enuncia il principio forse piu' emblematico del nuovo rito accusatorio. La regola generale secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte ribalta l'attuale modello inquisitorio imperniato sulla iniziativa del giudice. Essa estende la sua portata operativa tanto nella fase dibattimentale, quanto nell'incidente probatorio e nell'udienza preliminare (cfr. artt. 390 e 419 comma 2). Il comma 2, nell'introdurre, come eccezione alla regola, l'ipotesi di iniziativa officiosa del giudice, richiama quelle disposizioni che, per singoli mezzi di prova (v. ad es. art. 195 comma 2 in tema di testimonianza indiretta) ovvero in relazione alla fase dibattimentale (v. art. 500), attribuiscono al giudice il potere di supplire all'inerzia delle parti. Rispetto al Progetto del 1978, il nuovo sistema risultante dalle scelte del Parlamento si presenta con caratteri che ne accentuano la natura di processo di parti sul terreno probatorio. Abolito il giudice istruttore, cui la delega del 1974 attribuiva una immutata iniziativa in materia di acquisizione delle prove, la fase anteriore al dibattimento si connota ora per l'assoluta esclusione di ogni potere inquisitorio del giudice per le indagini preliminari, sia nel corso del loro svolgimento (incidente probatorio), sia in sede di chiusura delle stesse (udienza preliminare). La direttiva 73 della legge-delega ("potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova") ha invece ampliato, per la fase dibattimentale, quella iniziativa probatoria ex officio che l'art. 478 comma 2 del Progetto 1978 gia' prevedeva, escludendone peraltro l'operativita' in relazione ai sequestri, alle perquisizioni ed alle testimonianze. Non risulta comunque mutata la fisionomia complessiva del dibattimento poiche' la sua struttura di fondo lascia intendere che i poteri ex officio rivestono un ruolo residuale e suppletivo rispetto alla carenza d'iniziativa delle parti. Il comma 1 dell'art. 190 enuncia i parametri della valutazione di ammissibilita' della prova che si articolano su un duplice piano: in iure, con riguardo ai divieti probatori; in facto, in relazione alla pertinenza della prova al thema decidendum ricavato in base ai criteri fissati dall'art. 187 (cfr. direttiva 9 della legge-delega). Il concetto di manifesta "estraneita'" della prova, enunciato dalla direttiva 69 della legge-delega, e' stato interpretato come richiamo alla nozione di sovrabbondanza dei mezzi di prova, nozione questa gia' impiegata nel lessico processuale (v. artt. 420 c.p.p. e 245 c.p.c.). E poiche' la direttiva 75 della legge-delega fa uso del termine "superfluo", proprio in relazione al fenomeno probatorio, si e' ritenuto preferibile utilizzare quest'ultimo in considerazione della sua stretta affinita' semantica con l'aggettivo "sovrabbondante". La locuzione "senza ritardo" (v. direttiva 69) mira a rendere obbligatoria per il giudice una decisione sulla richiesta di prova separata dalla pronuncia che conclude la fase dibattimentale. Il vigente art. 305 c.p.p., concernente i soli provvedimenti del giudice istruttore, non esclude una riserva del giudice da sciogliere in sentenza. Per il dibattimento manca poi un'analoga disposizione, sicche' la prassi vede moltiplicarsi i casi di omessa pronuncia sulle istanze di prova (si pensi alla consolidata giurisprudenza che sana il silenzio sull'istanza di rinnovazione del dibattimento in appello mediante lo schema della motivazione implicita) determinando un grave pregiudizio per la difesa che non e' posta in grado di conoscere subito se potra' avvalersi di una certa prova per suffragare le proprie argomentazioni in fatto. Nel nuovo testo tale prassi dovrebbe essere stroncata, in modo da rafforzare il diritto alla prova nella sua dimensione di diritto di conoscere prima della decisione finale il quadro probatorio di cui il giudice potra' servirsi ai fini del suo convincimento. Il comma 3 dell'articolo 190 da' attuazione alla direttiva 72 della legge-delega estendendone la portata operativa anche ai provvedimenti che non ammettono le prove richieste dalle parti. La norma sul diritto alla controprova, applicabile al dibattimento (cfr. direttiva 75 della legge-delega), e' stata invece collocata nel libro sul giudizio (art. 489). Nello stabilirsi (articolo 191) che le "prove illegittimamente acquisite" sono "inutilizzabili", si e' inteso designare un fenomeno tipico conseguente alla ammissione di prove vietate in contrapposizione alla "nullita'", riservata alla violazione delle forme degli atti processuali. Non si tratta di una novita' in senso assoluto. Legislazione, dottrina e giurisprudenza hanno negli ultimi anni mostrato una chiara propensione a designare con tale nome la sanzione per i vizi del procedimento probatorio, nella consapevolezza degli inconvenienti derivanti dall'uso dello schema della nullita' nel settore del diritto probatorio. Basta ricordare il disposto dell'art. 304 comma 3 codice vigente (introdotto dalla l. 5 dicembre 1969, n. 932) in forza del quale "non possono comunque essere utilizzate" le dichiarazioni rese da persone esaminate in qualita' di testimoni, quando emergano indizi di reita' a loro carico e non sia stato nominato un difensore. Analogamente la norma dell'art. 226 - quinquies c.p.p. (introdotta dalla l. 8 aprile 1974, n. 98) stabilisce che "non si puo' tener conto" delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge. In giurisprudenza assume un particolare rilevo la sentenza n. 34/ 1973 della Corte costituzionale che ha tratto dall'intero sistema garantistico della Costituzione un divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni telefoniche non consentite dalla legge, divieto che ha evidentemente trovato una pronta eco nella legge del 1974. Quanto alla dottrina processual-penalistica, non sono pochi gli autori che hanno avvertito una profonda insoddisfazione circa il modo di operare della nullita' in rapporto a divieti probatori che il regime delle sanatorie costringe a ritenere come non scritti, quando e' acquisita una prova contra legem (ad es. testimonianza di un coimputato del medesimo reato: art. 348 comma 3 c.p.p.) ed il vizio non viene tempestivamente eccepito. Gia' nel Progetto Carnelutti si prevedeva, sulla scia di questo dibattito, che "quando una prova e' formulata mediante atti vietati dalla legge, il giudice non puo' tenerne alcun conto" (art. 62 comma 2). Anche la legge-delega, sulla scia dell'art. 182 del Progetto del 1978, ha recepito in piu' parti la categoria della inutilizzabilita', sia pure in contesti diversi che fanno riferimento ora ad una sorta di mancanza o perdita di legittimazione del pubblico ministero in ordine al compimento di certi atti di indagine (v. direttiva 37, per le intercettazioni non convalidate; direttiva 48 ultima parte), ora ad un vizio intrinseco dell'atto tale da impedirne l'uso ai fini della decisione (v. direttiva 36: "atti suscettibili di utilizzazione probatoria", in relazione ai divieti di utilizzazione, "processuale" ed "agli effetti del giudizio", fissati dalla direttiva 31 per le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria in particolari circostanze). Mettendo a frutto questo ampio fermento di idee convergente in una precisa direzione, si e' delineato un regime normativo che esclude in via generale l'utilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di uno specifico divieto probatorio. Anche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l'inutilizzabilita' puo' desumersi dall'art. 191 comma 1 la' dove siano configurabili veri e propri divieti probatori. A titolo d'esempio si possono ricordare l'art. 197, in materia di incompatibilita' a testimoniare, e l'art. 234 comma 3, concernente documenti su voci correnti nel pubblico. Al di la' della diversa espressione adottata ("non possono essere assunti come testimoni"; "e' vietato") ricorre in entrambi i casi un divieto probatorio, trasgredito il quale scatta la sanzione prevista dall'art. 191 comma 1: i risultati della prova non sono in alcun modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che sia il comportamento della parte interessata a far rilevare la violazione (v. il disposto del comma 2 nonche' l'art. 599 comma 1 lett. c). Allo stesso trattamento devono essere assoggettati gli atti che singole norme definiscono inutilizzabili (cfr., ad esempio, art. 195 comma 3; art. 271). L'articolo 192 conferma la scelta in favore del principio del libero convincimento del giudice di cui offre una formulazione che in parte ricorda il disposto dell'art. 116 c.p.c. Decisamente nuovo e', pero', il raccordo tra convincimento del giudice e obbligo di motivare: su un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo, come la liberta' di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovar risalto nella motivazione; sotto un profilo piu' strettamente operativo, il nesso vuol far risaltare il contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione delle risultanze processuali e nella indicazione dei criteri di valutazione (massime d'esperienza) utilizzati per vagliare il fondamento della prova (cfr. anche art. 539 comma 1 lett. e). Il comma 2 introduce nel diritto processuale penale una regola operante nel processo civile in virtu' dell'art. 2729 c.c. E' sembrato opportuno che in una materia di cosi' grande rilievo come quella investita dal giudizio penale intervenga una regola che serva da freno nei confronti degli usi arbitrari e indiscriminati di elementi ai quali, sul piano logico, non e' riconosciuta la stessa efficacia persuasiva delle prove. Con la disposizione racchiusa nel comma 3 si e' inteso fissare una regola di giudizio destinata ad operare con riguardo alle dichiarazioni rese dai coimputati del medesimo reato o di un reato connesso. E' ben noto il dibattito che attorno a questo tema si e' sviluppato negli ultimi anni tra operatori e studiosi del processo che hanno insistito sulla necessita' di circondare di maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da chi e' coinvolto negli stessi fatti addebitati all'imputato o ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale. Sulla scia delle esperienze dei paesi in cui vige il sistema accusatorio, nel quale la valutazione della accomplice evidence e' accompagnata dalla c.d. corroboration, e raccogliendo altresi' le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha sancito il principio del necessario riscontro probatorio della chiamata di correo, si e' ritenuto di formulare la norma in chiave di regola sulla valutazione delle prove, escludendo cosi' che le dichiarazioni del chiamante in correita' possano qualificarsi ex lege come elementi probatori inutilizzabili. Il concetto di "valutazione unitaria" postula l'impegno del giudice ad indicare nella motivazione del provvedimento le prove o gli indizi che corroborano la chiamata di correo. Ne deriva che l'omesso esame degli elementi capaci di offrire il riscontro alle dichiarazioni incriminanti si traduce in un difetto di motivazione, rilevabile anche davanti al giudice di legittimita' a norma dell'art. 599 comma 1 lett. e). L'articolo 193 riproduce, con una formulazione piu' restrittiva, il disposto dell'art. 300 c.p.p. stabilendo che i limiti di prova propri della legge processuale civile si osservano solo nella decisione delle questioni pregiudiziali civili attinenti allo stato di famiglia e di cittadinanza (v. art. 3). A seguito dell'orientamento assunto dalla Commissione sul tema degli incidenti di falso (che si e' deciso di non disciplinare espressamente al fine di far intendere come nel nuovo processo il giudice penale possa disattendere anche il contenuto di atti assistiti da efficacia privilegiata ex art. 2700 c.c.), i limiti di prova dettati dalla legge civile non dovranno trovare applicazione a differenza di quanto oggi risulta dal combinato disposto degli artt. 215 e 308 c.p.p. - nemmeno in relazione agli atti pubblici (per la disciplina che ne consegue, v. sub art. 241). TITOLO II MEZZI DI PROVA CAPO I TESTIMONIANZA L'articolo 194, dopo aver fatto rinvio alla regola generale per la determinazione dell'oggetto dell'esame testimoniale, contiene una serie di norme tutte attinenti ai limiti dell'oggetto di tale prova, che il codice attuale raccoglie, impropriamente, assieme ad altre (art. 349 commi 2, 3, 4 e 5), sotto la rubrica "Regole per l'esame testimoniale". In particolare, il comma 2 prevede alcuni temi d'esame finalizzati a valutare la credibilita' del testimone e, in corrispondenza alla seconda parte del comma 5 dell'attuale art. 349 c.p.p., la personalita' dell'offeso dal reato. L'articolo 195, che si richiama alla direttiva 2 della legge-delega ("adozione del metodo orale"), circonda delle dovute cautele la testimonianza indiretta, al fine di consentire una cosi' delicata forma di testimonianza solo quando sia reso possibile un qualche controllo sulla fonte della conoscenza. Pur tuttavia, una volta fatta salva la condizione minima che la testimonianza de relato in tanto e' utilizzabile in quanto venga indicata la persona o il documento da cui e' stata tratta la conoscenza delle circostanze riferite (cfr. ultimo comma), la regola generale trova un opportuno temperamento per il caso che la persona dalla quale il testimone ha conosciuto cio' su cui depone non possa essere esaminata nello stesso processo per morte, sopravvenuta infermita' fisica, irreperibilita' od assenza dal territorio dello Stato (comma 3). L'assunzione del testimone che abbia una diretta conoscenza dei fatti e' doverosa solo quando una parte ne faccia richiesta. L'inosservanza di un simile obbligo comporta l'inutilizzabilita' delle dichiarazioni rese de relato. Resta salva, invece, la legittimita' dell'uso della testimonianza indiretta quando manchi la richiesta di parte ed il giudice ritenga di non attingere alla fonte diretta delle informazioni (cfr. comma 2). Il disposto del comma 4 da' attuazione alla direttiva 31 della legge-delega che mira a garantire, ad un tempo, l'oralita' della prova e il diritto di difesa. La norma del comma 6 costituisce un necessario corollario di quanto prescritto negli artt. 200 e 201 senza il quale la tutela delle situazioni di segretezza considerate in queste ultime disposizioni, fuori dei casi di comportamenti incompatibili con il mantenimento del segreto, potrebbe essere facilmente aggirata in non poche e non infrequenti ipotesi (cfr. del resto, gia' nel vigente codice, l'art. 319 comma 3 e, ancor piu' chiaramente, l'art. 246 comma 1 c.p.p. del 1913). Sotto la rubrica "capacita' di testimoniare" l'articolo 196 disciplina, nel comma 1, l'idoneita' giuridica ad assumere la veste di testimone, che al pari dell'art. 348 c.p.p. vigente, si riconosce ad "ogni persona", mentre nel comma 2 si prevedono i modi per accertare la capacita' fisica e mentale di un soggetto ad assolvere l'ufficio di testimone, prescrivendosi che tali accertamenti debbono essere disposti quando siano necessari per valutare la credibilita' delle dichiarazioni testimoniali e che si debbono svolgere con i mezzi consentiti dalla legge nelle varie disposizioni concernenti le attivita' di prova. Nell'ultimo comma e' scandito il rapporto fra capacita' giuridica e capacita' psico-fisica a testimoniare: l'accertamento negativo in qualsiasi grado della prima non pregiudica in alcun modo la seconda e spetta in ogni caso al giudice valutare in concreto la credibilita' dei testimoni, come gia' e' statuito nel comma 2 dell'art. 348 c.p.p. Con l'articolo 197 si e' inteso porre una normativa precisa dei casi di incompatibilita' con l'ufficio di testimone, che non trovano esplicita ed organica disciplina nel codice vigente. Nella lettera a) del comma 1 si e' previsto, diversamente da quanto disposto nell'art. 348 comma 3 c.p.p., che "i coimputati dello stesso reato o di un reato connesso a norma dell'articolo 12" non possano essere assunti come testimoni, soltanto sino a che conservino tale loro qualita'. Oltre questo limite, contrassegnato dalla pronuncia della sentenza irrevocabile di proscioglimento, assoluzione o condanna, si e' ritenuto che la persistenza dell'incompatibilita' a testimoniare per tali soggetti non sarebbe giustificata da ragioni di tutela contro autoincriminazioni (gia' apprestata in via generale dall'art. 198 comma 2) e sottrarrebbe inopportunamente una fonte probatoria alla libera valutazione del giudice, ledendo il diritto alla prova degli altri imputati, che dal persistere della limitazione si vedrebbero privati di un mezzo probatorio talora non altrimenti sostituibile. Si e' ritenuto di tener ferma questa disposizione, gia' contenuta nel Progetto del 1978 (art. 188), considerando che l'interesse di un soggetto in ordine all'oggetto del processo non deve essere, di per se', motivo di esclusione della sua testimonianza, ma puo' solo costituire uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice si deve avvalere nell'apprezzare l'attendibilita' della prova. Ne' puo' indurre a riproporre la normativa oggi vigente (art. 348 comma 3 c.p.p.) la considerazione che soggetti condannati con sentenza divenuta irrevocabile possono strumentalizzare la loro testimonianza per precostituirsi una prova nuova su cui fondare una domanda di revisione: tale domanda, infatti, e' soggetta a una previa delibazione, idonea a stroncare simili eventualita', del resto assai remote. Quanto al problema della acquisizione del contributo probatorio del coimputato, in caso di separazione di procedimenti connessi, si e' riesaminata la normativa tracciata dal Progetto del 1978, imperniata sulla testimonianza "volontaria" (esame a richiesta) (cfr. art. 188 comma 2 del Progetto 1978), concludendosi un lungo dibattito in seno alla Commissione con l'adesione ad un orientamento non dissimile da quello previsto dagli art. 348- bis e 450- bis del codice vigente. E' sembrato preferibile, alla luce della necessita' di rendere piu' incisivi ed efficaci gli strumenti per l'accertamento della verita', non consentire al coimputato di paralizzare la richiesta della parte che sollecita la sua audizione, mediante la negazione del consenso a rendere le dichiarazioni. La disciplina dell'interrogatorio della persona imputata di reato connesso contro cui si procede separatamente (artt. 210 e 362, concernenti, rispettivamente, la fase del dibattimento e quella delle indagini preliminari) viene cosi' a delineare un assetto diverso rispetto a quello fissato per i casi di processo cumulativo ove il divieto di assumere la testimonianza sancito dalla lett. a) e la norma che attribuisce all'imputato il diritto di sottoporsi all'esame in dibattimento solo quando lo ritenga compatibile con il suo interesse difensivo (art. 208) impediscono al pubblico ministero di chiamare il coimputato a rendere dichiarazioni sul fatto del correo contro cui si procede nel medesimo giudizio. Anche in tema di parte civile (art. 197 lett. b) e' stata modificata la norma accolta nel Progetto del 1978 che aveva statuito l'incompatibilita' di questo soggetto ad assumere l'ufficio di testimone in quanto portatore nel processo di un interesse personale (art. 188 n. 2). Si e' ritenuto che la rinuncia al contributo probatorio della parte civile costituisce un sacrificio troppo grande nella ricerca della verita' processuale. L'art. 208, in tema di esame delle parti, stabilisce ora chiaramente che alla persona che agisce in sede penale per richiedere il risarcimento del danno o le restituzioni spetta il diritto a non essere sottoposta all'esame solo quando non vi sia la necessita' di assumerne le dichiarazioni nella veste di testimone. Nella lettera c), generalizzando espressamente all'intero arco del procedimento la norma oggi posta dall'art. 450 comma 2 c.p.p. in relazione alla fase dibattimentale, e' previsto che chi svolge o ha svolto determinate funzioni (giudice, pubblico ministero, segretario) non possa assumere la qualita' di testimone, mentre e' lasciato alle norme relative alle specifiche funzioni di regolare i casi ed i limiti in cui del loro esercizio non si debba investire chi abbia deposto come testimone nello stesso processo (cfr., quanto alla funzione di giudice, l'art. 35 ultimo comma). In sede di disciplina della testimonianza non si e' fatto alcun cenno al perito ed all'interprete: si e' ritenuto che rispetto a queste funzioni debba considerarsi prevalente quella di testimone e che percio', salvo a risolvere in via interpretativa gli specifici casi che si dovessero presentare, l'unica norma che si deve affermare e' nel senso dell'ostacolo a nominare perito od interprete chi debba essere chiamato a deporre come testimone (cfr. art. 222 lett. d) e 144 lett. b). Nessun cenno e' stato fatto al consulente tecnico, perche' si e' ritenuto che a tale qualifica, risalente ad un atto di parte, non possa essere attribuito rilievo alcuno nella materia in esame (cade percio' l'esigenza di riprodurre la norma dell'attuale art. 323 comma 3 c.p.p.). Quanto al difensore, si e' ritenuto che la disciplina dell'incompatibilita' trovi la propria sede normativa nell'ordinamento forense, essendo in gioco anche profili di deontologia professionale che non possono trovare regolamentazione nel codice di procedura penale. L'articolo 198 statuisce, nel comma 1, i tre ordini di obblighi che in via generale fanno carico al testimone, mentre enuncia, nel comma 2, la cosiddetta garanzia contro l'autoincriminazione. Nell'articolo 199 e' delineata la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti con alcune varianti rispetto alla normativa attuale (art. 350 c.p.p.). Anzitutto la locuzione "possono astenersi dal deporre" e' stata sostituita con la formula "non possono essere obbligati a deporre" per sottolineare che esiste un divieto probatorio la cui violazione rende inutilizzabile la prova a norma del comma 1 dell'art. 191. E' stata poi estesa la previsione di questa ipotesi di esenzione dall'obbligo testimoniale a soggetti (coloro che sono legati all'imputato da vincolo di adozione od affiliazione, il convivente more uxorio, nonche' i casi di divorzio e di annullamento del matrimonio, nei limiti, pero', previsti nel comma 3) che, nell'attuale realta' sociale, sono legati all'imputato da vincoli di intensita' uguale, nella sostanza, di quelli intercorrenti fra l'imputato e, alcune delle persone indicate nell'art. 307 c.p. Cio' vale, in particolare, per il convivente more uxorio, situazione a proposito della quale la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 6/1977, ha segnalato che il legislatore se ne debba far carico in sede di ius condendum; ne' si vede come l'introduzione del divorzio possa far ignorare tale situazione sino a considerarla immeritevole di un riconoscimento del tipo in questione. Nemmeno la complessita' del relativo accertamento appare decisiva per indurre a mutare di avviso: tale accertamento in sede penale non puo' essere piu' difficoltoso di quanto lo sia in altri settori nell'ordinamento, in cui pure si impone, ne' puo' costituire un valido motivo per negare rilevanza giuridica a situazioni che di fatto esistono. Il riferimento, in questo comma, al coniuge separato dell'imputato e' evidentemente in funzione limitativa del comma 1, di per se' comprensivo del coniuge, essendosi ritenuto che per quel soggetto la facolta' di astensione debba essere contenuta entro i limiti dei fatti verificatisi od appresi durante la convivenza coniugale. Tra i fatti che determinano il venir meno della facolta' di astensione si e' espressamente prevista, accanto alla denuncia ed alla querela, la proposizione dell'istanza di procedimento. Inoltre, a proposito delle situazioni in cui offeso dal reato sia un prossimo congiunto, al fine di ovviare ad una anomalia dell'art. 350 c.p.p. comma 2, gia' segnalata in dottrina, si e' dato rilievo a queste due precise ipotesi: quella in cui offeso dal reato sia lo stesso testimone prossimo congiunto dell'imputato, e quella in cui offeso dal reato sia un prossimo congiunto non necessariamente dell'imputato, ma del testimone (a sua volta prossimo congiunto dell'imputato). Infatti, se nella prima ipotesi, essendo all'imputato addebitato di aver commesso un reato in danno del testimone suo prossimo congiunto, vengono meno ragioni di tutela di quei motivi d'ordine affettivo che giustificano la facolta' di astensione, nella seconda ipotesi la concessione della facolta' di astensione non ha piu' ragion d'essere, posto che analoghi motivi d'ordine affettivo sono individuabili per il testimone nei confronti del proprio prossimo congiunto offeso dal reato e richiedono d'essere tutelati mediante l'obbligo testimoniale. Per il caso di omesso avviso da parte del giudice, si e' ritenuto di far derivare tout court la nullita' della deposizione (comma 2), per evitare che un onere di eccepire l'omissione gravi su persone per lo piu' ignare della facolta' d'astensione. Quanto al segreto professionale, nella lett. a) del comma 1 dell'articolo 200 si e' usata un'unica espressione che, ricalcando la dizione dell'art. 8 comma 1 Cost., ricomprenda tutte le confessioni religiose e, omettendo il richiamo ai "culti ammessi" nello Stato, non consenta piu' interpretazioni restrittive del tipo di quelle adottate per l'attuale art. 351 n. 1 c.p.p., da alcuni riferito alle sole religioni (ebraica, evangelica, ortodossa, copta ed islamica) dichiarate "culti ammessi" dall'art. 1 della l. 24 giugno 1929, n. 1159. Nel comma 1 si e' precisato che tutti i soggetti elencati nella disposizione non possono esimersi dal deporre quando abbiano l'obbligo di riferire specificamente all'"autorita' giudiziaria" e non, come dice la disposizione oggi vigente, all'"autorita'" in genere. Con l'ultimo comma si e' data attuazione alla direttiva 70 della legge-delega, prevedendosi il segreto giornalistico in ordine alla fonte delle notizie raccolte nell'esercizio della professione con la duplice limitazione che si tratti di giornalisti professionisti e che siano in gioco notizie di carattere fiduciario, le uniche per le quali la legge professionale prescrive l'obbligo del segreto. Nel caso in cui il giornalista si rifiuti di rivelare la fonte della notizia, la sua deposizione non puo' essere acquisita ne' le notizie sono in alcun modo utilizzabili ai fini della decisione (art. 195 comma 7); se cosi' non fosse, infatti, si avrebbe l'ingresso di una testimonianza indiretta senza che si sia in grado di conoscere e, se possibile, di controllare la fonte di quanto riferito. In tema di segreto di ufficio, l'articolo 201 presenta sostanzialmente tre innovazioni rispetto alla normativa vigente. Si e' precisato, anzitutto, che l'esenzione del dovere di testimoniare motivata dall'esistenza di un segreto di ufficio non opera nei casi in cui sussiste l'obbligo di riferire il fatto all'autorita' giudiziaria. Si e' specificato, inoltre, che la segretezza e' riconosciuta soltanto ai fatti la cui divulgazione e' contraria all'"interesse della pubblica amministrazione", da valutarsi secondo le regole proprie dell'attivita' amministrativa. Infine, si e' esteso anche a questo campo il potere di sindacato del giudice (v. del resto, analogamente, in tema di documenti, l'art. 342 ultimo comma c.p.p.), che potra' vertere su entrambi gli elementi che concorrono a determinare il segreto di ufficio: che si tratti di fatti conosciuti per ragioni di ufficio e che la loro divulgazione pregiudichi l'interesse della pubblica amministrazione. La disciplina delineata nell'articolo 202 per il segreto di Stato da' attuazione alla direttiva 70 della legge-delega. Solo per il concetto di "segreto di Stato" l'articolo in esame fa implicito rinvio alla l. 24 ottobre 1977, n. 801. Nel resto la normativa e' modellata seguendo la formulazione letterale della legge-delega che si discosta dal disposto dell'art. 193 del Progetto del 1978, imperniato sul divieto di esaminare qualsiasi testimone su notizie oggetto del segreto di Stato indipendentemente dalla sua qualita' di pubblico ufficiale, pubblico impiegato od incaricato di pubblico servizio. Anche nel comma 4 e' stata recepita la dizione della legge-delega, ricalcata sulla falsariga della l. n. 801/1977. Evidentemente la normativa proposta vale per il caso in cui il giudice ritenga necessaria la testimonianza di chi oppone il segreto: in caso contrario, il giudice e' dispensato dall'inoltrare la richiesta di conferma al presidente del Consiglio, ma cio' equivale a una revoca dell'originario provvedimento di ammissione della testimonianza. Si e' stabilito un termine di sessanta giorni entro il quale il presidente del Consiglio deve provvedere a confermare o no il segreto, precisando la conseguenza (che invece non e' esplicitata nella l. n. 801/1977) dell'infruttuosa scadenza del termine in chiave di mancata conferma del segreto. Si e' previsto, in ossequio alla sentenza n. 86/1977 della Corte costituzionale, che il presidente del Consiglio con il provvedimento di conferma del segreto comunichi al giudice le "ragioni essenziali" che stanno a fondamento del segreto. La disciplina delineata nell'articolo 203 per gli informatori della polizia giudiziaria riproduce nella sostanza quella vigente. Si e' solo meglio precisato il divieto di acquisire le informazioni di soggetti rimasti ignoti e non esaminati a loro volta come testimoni. In un primo tempo la Commissione aveva eleborato una disciplina ben piu' innovativa, ispirata alle seguenti considerazioni. Posto che non sarebbe stato in ogni caso opportuno, mediante l'imposizione tout court di un obbligo di rivelare i nomi di tali soggetti, privare la polizia di un utile strumento d'investigazione, si era ritenuto necessario ricercare un congegno che, rispetto alla normativa vigente, garantisse, nei limiti del possibile, contro l'eventualita' che la facolta' di non rivelare i nomi degli informatori fosse usata per sottrarre al processo mezzi di prova favorevoli all'imputato o portasse di fatto all'impunita' di complici. A tal fine, scartata la soluzione di far conoscere al giudice i nomi degli informatori in camera di consiglio, poiche' avrebbe sottratto al contraddittorio processuale ogni possibilita' di controllo sulla loro fonte, introducendo una grave disarmonia rispetto alla regola generale dettata nell'art. 195, si era ricercata una soluzione che tenesse conto dei rapporti che il nuovo sistema processuale dovrebbe prefigurare fra pubblico ministero e polizia giudiziaria accentuando la dipendenza di questa da quello. Confermato quindi il divieto per il giudice di obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria a rivelare i nomi dei propri informatori, si era previsto che le notizie da questi fornite venissero comunicate in forma orale (e non scritta, per evitare che ne restasse traccia) al pubblico ministero con il potere per quest'ultimo di ordinare che gliene fossero rivelati i nomi solo quando avesse giudicata necessaria la loro testimonianza. L'esclusione di una simile disciplina non puo' comunque essere interpretato come divieto per il pubblico ministero di avvalersi ai fini delle indagini delle notizie acquisite dalla polizia giudiziaria attraverso i suoi informatori, ferma l'inutilizzabilita' delle stesse da parte del giudice per le indagini preliminari nei provvedimenti richiestigli dall'organo dell'accusa. L'articolo 204 riproduce, nello stesso tenore letterale, la direttiva 70 della legge-delega nella parte in cui esclude l'operativita' di qualsiasi segreto (professionale, di ufficio o di Stato) in relazione a fatti, notizie o documenti riguardanti reati diretti all'eversione dell'ordinamento costituzionale. Il comma 1 dell'articolo 205, mentre risolve in senso positivo la discussa questione della capacita' testimoniale del Presidente della Repubblica, deroga, entro un limite ben preciso, alle modalita' ordinarie di assunzione della prova testimoniale di questo soggetto, prevedendo tassativamente il luogo in cui la testimonianza deve essere assunta. Il comma 2, anzitutto, circoscrive l'ambito delle persone che possono essere sentite presso il loro ufficio, anziche' dove si svolge il giudizio. Ribalta, pero', i termini della normativa posta nel comma 1 del vigente art. 356 c.p.p. in quanto stabilisce che, in linea di principio, anche la testimonianza di questi soggetti sia assunta nei modi ordinari, ma consente che gli stessi chiedano di essere esaminati non gia' in un qualsiasi "luogo indicato dal testimone", come recita la disposizione attuale, bensi' nella sede in cui esercitano il loro ufficio per esigenze di "continuita' e regolarita'" della loro funzione (formula desunta dalla sentenza n. 76/1968 della Corte costituzionale). Ad analoga considerazione si ispirano le innovazioni introdotte nel comma 1 dell'articolo 206 per l'esame di agenti diplomatici e di incaricati di missione diplomatica all'estero. Il comma 2 di questo articolo riproduce, invece, la stessa norma contenuta nell'art. 356 ultimo comma c.p.p. vigente. Il trattamento processuale della falsa testimonianza e' previsto nell'articolo 207. Tale disposizione presenta, rispetto alla disciplina attuale, profonde innovazioni, che per un verso fanno proprie le serrate critiche rivolte dai settori piu' qualificati della dottrina alla normativa del codice Rocco e, per un altro verso, sono conseguenti alla struttura del nuovo processo penale. Sotto quest'ultimo profilo, si e' tenuto presente il fatto che, sia per il giudice per le indagini preliminari, che non e' investito di alcun potere di iniziativa istruttoria, sia per il giudice del dibattimento, che vedra' formarsi il materiale probatorio nello svolgersi di questa stessa fase, non sara' possibile far ricorso ad una "verita'" probatoria gia' acquisita per valutare nel corso del processo una singola testimonianza in termini di veridicita'-falsita'. Tale constatazione ha sconsigliato di riprodurre meccanismi del tipo di quelli vigenti, che rimettono l'accertamento di una falsita' testimoniale o ad un giudizio immediato, inscenato quando non si e' ancora esaurita l'istruzione probatoria di cui tale testimonianza e' parte integrante (v. del resto l'implicita esclusione di questa disciplina nella direttiva 74 della legge-delega) o ad un autonomo processo penale condotto da altro giudice, sottraendo addirittura la valutazione di una prova al giudice del processo nel quale essa debba essere utilizzata. Si e' pertanto ritenuto che la soluzione piu' naturale, sotto tutti gli aspetti, sia di introdurre una netta separazione fra valutazione della testimonianza ai fini della decisione nel processo in cui e' stata resa ed eventuale persecuzione penale del testimone che abbia deposto il falso, attribuendo al giudice del primo processo il solo compito di dare al pubblico ministero notizia del reato quando ne ravvisi gli indizi in sede di valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio acquisito. E' peraltro evidente che, anche in assenza di una tale notitia criminis, il pubblico ministero potra' promuovere l'azione penale contro il testimone in base a una propria autonoma valutazione di falsita' della deposizione e in qualsiasi momento: percio', anche prima che il processo in cui il teste ha deposto sia stato concluso con sentenza irrevocabile e, al limite, mentre e' ancora in corso il relativo dibattimento. In seno alla Commissione si e' posto il problema se quest'ultima eventualita' possa essere fonte di inconvenienti, ma si e' poi ritenuto che tali situazioni (per ovviare alle quali, del resto, occorrerebbe procrastinare ogni iniziativa del pubblico ministero alla conclusione con sentenza irrevocabile del processo principale, con il rischio di una impunita' di fatto per i testimoni falsi) non sono da guardarsi con preoccupazione; un'iniziativa assunta dall'ufficio del pubblico ministero in assenza di un impulso del giudice o, addirittura, in presenza di una decisione del giudice che abbia prestato credito al testimone, si presenterebbe di fatto svalutata e percio' inidonea a esercitare preoccupanti pressioni sul testimone. Infine, e' appena da segnalare che, a differenza degli artt. 359 ultimo comma e 458 ultimo comma del codice vigente, si e' omessa ogni disposizione in materia di termini per la ritrattazione, poiche' la disciplina dettata dal codice penale a tale proposito e' suscettibile di adattamento automatico alla nuova normativa processuale. CAPO II ESAME DELLE PARTI Gli articoli 208, 209 e 210 disciplinano il nuovo istituto dell'esame delle parti che, previsto dalla direttiva 73 della legge-delega per l'imputato, non poteva non essere esteso alle altre parti private. Esso e' chiamato a sostituire l'interrogatorio dibattimentale e, come risulta dal fatto di essere inserito nel libro delle prove, ha natura di mezzo di prova. Per le ragioni che hanno indotto ad attribuire alla parte civile il duplice ruolo che risulta dall'art. 208, si veda quanto anticipato nell'illustrazione dell'art. 197. Per quanto riguarda i soggetti, specie l'imputato, che sono destinatari del diritto costituzionale di difesa, l'esame delle parti si differenzia per piu' aspetti dalla testimonianza. In primo luogo e' volontario, perche' vi si fa luogo solo a richiesta degli stessi soggetti da esaminare ovvero quando essi vi consentono. Inoltre, non cade sotto la comminatoria delle sanzioni penali e della disciplina processuale (art. 207) di cui e' oggetto la falsa testimonianza. D'altro canto, una volta che una parte ha chiesto l'esame diretto, essa non e' piu' in grado di sottrarsi alle domande che le vengono formulate (e qui sta il fondamento del valore squisitamente probatorio dell'atto) tanto che ogni rifiuto di rispondere - di cui deve farsi menzione nel verbale - assumera' legittimamente il valore di argomento di prova. Cio' vale, naturalmente, nei limiti in cui le domande non rientrino fra quelle vietate dall'art. 491, che l'art. 209 espressamente richiama. Nell'esame della parte civile, del responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria operano i limiti previsti in tema di testimonianza indiretta (art. 195). Si e' ritenuto che tale prescrizione non fosse estensibile all'imputato poiche', data la peculiare posizione di questo soggetto, e' importante a piu' effetti acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta. L'esame delle parti trova applicazione solo nella fase dibattimentale, mentre nelle indagini preliminari del pubblico ministero e nell'udienza preliminare si fa luogo ad interrogatorio (artt. 72, 363 e 418 comma 2). Si e' gia' detto, a proposito dell'art. 197, che all'esame del coimputato del medesimo reato o di reato connesso contro cui si procede separatamente e' stato dato un assetto normativo analogo a quello risultante dagli art. 348- bis e 450- bis del codice vigente. L'ultimo comma dell'art. 210 apporta peraltro alla attuale disciplina una variante di cospicuo significato: le dichiarazioni rese dal coimputato non possono essere utilizzate contro di lui, anzitutto nel processo separato pendente a suo carico. CAPO III CONFRONTI Non ravvisandosi serie ragioni per il mantenimento dell'attuale disciplina nel medesimo capo inerente le ricognizioni (artt. 360 364 c.p.p.), si e' attribuita ai confronti collocazione autonoma (articoli 211 e 212). I presupposti non sono sostanzialmente dissimili dagli attuali, mentre la norma sulle modalita' risulta piu' dettagliata rispetto all'art. 364. La struttura dell'istruzione dibattimentale dovrebbe rendere scarsamente operante questo mezzo di prova (cfr., pero', art. 500) al di fuori della fase delle indagini preliminari. CAPO IV RICOGNIZIONI La sostanza della disciplina (articoli 213 - 215) non e' dissimile da quella vigente (artt. 360 - 363 c.p.p.). Una marcata diffidenza verso l'attendibilita' dei risultati di questo mezzo di prova e l'esigenza di assicurare nella maggior misura possibile il rispetto di regole dirette ad evitare esiti influenzati e precostituiti, hanno indotto ad accentuare una regolamentazione minuziosa delle attivita' preliminari alla ricognizione vera e propria e dello svolgimento di questa: naturalmente, con particolare riguardo al riconoscimento di persone. L'essenzialita' dei relativi adempimenti - indispensabili, anche se insufficienti da soli ad assicurare piena attendibilita' a tale mezzo di prova - ha imposto negli artt. 213 e 214 la previsione della sanzione di nullita', anche soltanto per la mancata menzione in verbale del loro svolgimento. Dalla ricognizione come mezzo di prova tipico va tenuta distinta l'individuazione di persone o cose disciplinata dall'art. 361, con riguardo alle sole indagini del pubblico ministero, in attuazione della direttiva 37 della legge-delega. La diversa efficacia dell'"individuazione" rispetto alla "ricognizione" e' messa in luce dalla formula "per la immediata prosecuzione delle indagini", che compare nell'esordio dell'art. 361. Nel comma 2 dell'art. 214 non e' stata riprodotta la disposizione che figura nell'art. 360 comma 3 del codice vigente, cosi' da far intendere che le cautele dirette ad impedire intimidazioni od influenze da parte della persona sottoposta a ricognizione possono essere applicate anche nel dibattimento. L'ultimo comma dell'art. 214 autorizza il giudice ad utilizzare mezzi di documentazione dell'atto diversi dal verbale al fine di rendere possibile una piu' precisa ricostruzione delle modalita' di svolgimento quando occorre avvalersi dei risultati della ricognizione in sede decisoria. Nell'articolo 216 e' stato disciplinato il genus delle ricognizioni di voci, suoni od altri oggetti di percezione sensoriale (profumi, odori, etc.) ribaltando l'orientamento espresso sul punto dal Progetto del 1978 che aveva inteso bandire, mediante il principio di tassativita', forme di atti ricognitivi diversi rispetto a quelli tradizionali aventi ad oggetto persone o cose. E' sembrato che il rinvio alla norma che regola gli atti preliminari alla ricognizione di persona (art. 213 comma 1) costituisca parametro adeguato a garantire l'attendibilita' della operazione probatoria. La clausola di riserva "in quanto applicabili" sottolinea l'inevitabilita' di particolari accorgimenti nel modus procedendi che il giudice dovra' fissare, prima del compimento della ricognizione, ispirandosi ai criteri enunciati nell'art. 189, applicabile in via analogica ad un mezzo di prova che conosce solo una semiplena regolamentazione nel dettato legislativo. Nell'articolo 217 l'uso della nozione di "oggetto" in contrapposizione a quella di "persona" mira a far intendere che la disciplina della pluralita' di ricognizioni si estende anche alle cose suscettibili di percezione sensoriale cui fa riferimento l'art. 216 comma 1. CAPO V ESPERIMENTI GIUDIZIALI E' parsa corretta una collocazione autonoma - specie trattandosi di "mezzo di prova" anziche' di "mezzo di ricerca di prova" rispetto all'attuale previsione nello stesso capo concernente le ispezioni (artt. 309 - 313 c.p.p.). Presupposti e struttura dell'esperimento non si presentano sostanzialmente dissimili (articolo 218 commi 1 e 2), a parte qualche precisazione. In ordine alle modalita' dell'esperimento (articolo 219), e' parsa necessaria una maggior specificazione, nonche' la previsione della nomina di un "esperto" per la materiale esecuzione di operazioni richiedenti specifiche attitudini o conoscenze: beninteso, si e' al di fuori dell'ambito della perizia, pur potendo ovviamente l'esperimento determinare la necessita' di tale mezzo di prova. I commi 3 e 4 demandano al giudice i provvedimenti volti a garantire che l'operazione probatoria sia effettuata senza ledere gli interessi delle persone che vi sono coinvolte e senza pregiudicare esigenze di ordine pubblico. CAPO VI PERIZIA Soltanto alla perizia, tra i diversi mezzi di prova, la legge-delega dedica una specifica previsione, enunciando, nella direttiva 10, una serie di principi: "riordinamento dell'istituto della perizia, assicurando la massima competenza tecnica e scientifica dei periti, nonche', nei congrui casi, l'interdisciplinarita' della ricerca peritale e la collegialita' dell'organo cui e' affidata la perizia; tutela dei diritti delle parti rispetto alle perizie; previsione di sanzioni a carico del perito in caso di ingiustificato ritardo nel deposito della perizia". Questo particolare rilievo dell'istituto ha indotto a superare rapidamente la questione, pur affacciata, sulla riconducibilita' dello stesso al genus "mezzo di prova" piuttosto che ad un mezzo di valutazione della prova, nel riflesso che non ne deriveranno comunque apprezzabili conseguenze pratiche. In primo luogo, e' parso che, per la formula usata nella legge-delega ("riordinamento dell'istituto della perizia") e per la mancanza di indicazioni in tal senso, il legislatore delegante non pretendesse profonde innovazioni concettuali e strutturali. La disciplina proposta e' stata, di conseguenza, ricalcata su quella vigente, salve, beninteso, le varianti imposte sia specificamente dalla direttiva 10, sia dai principi generali della stessa delega, primo fra tutti il criterio direttivo prioritario della "massima semplificazione" (direttiva 1). Questo criterio e' parso particolarmente significativo rispetto ad un istituto, ripetutamente indicato - e non sempre a torto - come fonte di ritardi, cui non hanno potuto porre rimedio ne' la "novella" del 1955 ne' le innovazioni introdotte con le leggi 15 dicembre 1972, n. 773 e 8 luglio 1980, n. 319. Analogamente alla tecnica seguita nel tracciare la disciplina degli altri mezzi di prova, la norma d'apertura del capo VI ha tentato di delineare, con una formula riassuntiva, i presupposti di ammissibilita'. L'articolo 220 comma 1, che rappresenta il risultato di questo tentativo, intende esprimere una serie di aspetti, talora differenziantisi dal corrispondente art. 314 comma 1 del codice vigente. In primo luogo, ne risulta che la perizia puo' essere disposta anche di ufficio (cfr. l'art. 190 comma 2), indipendentemente dalla richiesta delle parti (vedi anche l'art. 224 comma 1 e la specificazione dell'art. 500). L'espressione "la perizia e' ammessa quando occorre svolgere indagini" intende sottolineare due aspetti: da un lato, la obbligatorieta' del ricorso allo strumento tecnico, ribadendosi cosi' quella che era stata la piu' significativa innovazione della riforma del 1955; dall'altro, e sempre in questo ordine di idee, un ampliamento dell'ammissibilita' della perizia rispetto ai confini piuttosto angusti che derivano, con il vigente art. 314 comma 1, da una enunciazione in termini di "necessarieta'". La variante espressiva adottata ("quando occorre svolgere indagini") e' parsa idonea ad attenuare il rigore imposto dalla dizione della norma attuale ("qualora sia necessaria una indagine"), nella sempre maggior consapevolezza dell'anacronismo dell'idea esasperata dello "iudex peritus peritorum". Resta, ovviamente, devoluto al giudice il riesame critico sull'elaborazione peritale, nel contraddittorio delle parti. In un primo luogo, e con riferimento al tipo di attivita' che sono devolute al perito per ragioni di specifiche cognizioni, si e' preferito scindere l'attuale e generico termine di "indagine" (art. 314 comma 1) nella duplice specificazione, anche in via alternativa, di "indagini" e "valutazioni", per indicare rispettivamente, lo svolgimento di accertamenti e la formulazione di giudizi, gli uni e gli altri qualificati da esperienze e cognizioni di ordine tecnico. Cio' e' stato fatto nel convincimento che, se pure normalmente l'attivita' del perito si svolge in entrambe dette direzioni, ben puo' risultare sufficiente soltanto nell'una piuttosto che nell'altra direzione. In certi tipi di perizia, infatti, puo' diventare istituzionale l'esigenza di limitare il settore delle indagini stricto sensu, in quanto la prospettazione di valutazioni rappresenterebbe una esorbitanza dai compiti del perito, con invasione - illegittima anche se richiesta dallo stesso giudice della sfera riservata alla decisione giudiziale. Riprendendo l'indicazione espressa dalla direttiva 10 della legge-delega, e del tutto corrispondente allo svolgimento dei lavori preparatori, si e' riprodotta la distinzione quanto al tipo di cognizioni che e' necessario acquisire attraverso la perizia tra competenze "tecniche" e "scientifiche". Rispetto alla formulazione piu' ristretta dell'art. 314 comma 1 ("cognizioni di determinate scienze") e' parso necessario dare atto del piu' ampio ambito applicativo dell'istituto conseguente al continuo estendersi di tecniche sempre piu' differenziantisi e sofisticate. Si e' anche ritenuto di dover prevedere esplicitamente le competenze "artistiche", tenuto conto della considerazione che la perizia artistica non richiede necessariamente conoscenze "scientifiche o tecniche". Secondo la piu' rigorosa accezione del termine, infatti, le valutazioni artistiche possono essere di tutt'altra natura, come provano le ricorrenti questioni sull'articolo 529 comma 2 c.p. D'altra parte, proprio la circostanza che l'art. 9 l. 20 novembre 1971, n. 1062 abbia previsto, nonostante la dizione del vigente art. 314 c.p.p., una perizia "artistica", conferma l'opportunita' della enunciazione espressa. L'articolo 221 attua l'indicazione contenuta nella direttiva 10 della legge-delega circa la piu' idonea competenza tecnica e scientifica dei periti, nonche', nei congrui casi, la interdisciplinarita' della ricerca peritale e la collegialita' dell'organo cui e' affidata la perizia. Un primo profilo, inerente l'individuazione della categoria di soggetti fra i quali nominare il perito, e' stato risolto, in linea principale, con il criterio della scelta tra gli iscritti negli appositi albi (art. 221 comma 1) rinviandosi alle disposizioni di attuazione, sulla falsariga di quanto disposto nel codice di procedura civile, la disciplina dell'iscrizione stessa. La scelta e' parsa obbligata, una volta che gia' la legge-delega del 1974 non aveva recepito la proposta di "istituzione di un ruolo organico di periti... che svolgano attivita' professionale esclusivamente per conto dell'autorita' giudiziaria" ed una volta che la Commissione non ha aderito al suggerimento di una obbligatoria iscrizione negli appositi albi. Si e' considerato che l'iscrizione a domanda, a seguito di accurato controllo e con una perdurante opera di vigilanza, offra sufficienti garanzie di competenza. E' pero' parso indispensabile, con particolare riguardo alle ipotesi di indagini di accentuata specializzazione oppure per i casi di insufficente disponibilita' di periti iscritti negli albi, ammettere che la scelta cada su altri esperti, purche' forniti di particolare competenza nella specifica disciplina. Il comma 1 contiene anche la previsione che, in caso di perizia dichiarata nulla, il giudice debba di regola affidare il nuovo incarico a diverso perito. La Commissione aveva dapprima valutato se costruire l'ipotesi come causa di incompatibilita' ovvero come causa di astensione. Da ultimo si e' ritenuto piu' appropriato collocare la disposizione nell'ambito della disciplina della nomina del perito. Tenuto conto delle difficolta' pratiche che in determinati casi potrebbero esserci di reperire un diverso perito, si e' peraltro preferito formulare la norma in termini elastici. L'esigenza di collegialita' e di interdisciplinarita' e' stata espressa correlando la prima soltanto ad accertamenti "di notevole complessita'", la seconda alle sole materie che richiedono "distinte conoscenze in differenti discipline" (comma 2). Si e' adottata una formula che vuole ricomprendere anche specifiche e differenziate competenze in diversi settori di una disciplina, pur considerata tradizionalmente unitaria. Poiche' la legge-delega non ha riprodotto la direttiva 9 della delega del 1974 concernente "l'effettivo giudizio sulla personalita' dell'imputato" ed ha pure lasciato cadere la previsione della perizia criminologica (v. direttiva 10 legge-delega del 1974), si e' resa necessaria l'eliminazione di tutte quelle disposizioni che, nel Progetto del 1978, regolavano l'attivita' peritale avente ad oggetto qualita' psichiche indipendenti da cause patologiche (perizia psicologica, perizia criminologica, v. artt. 209 comma 2 e 212 del Progetto 1978). La disciplina del conferimento dell'incarico peritale per quesiti di natura psichiatrica o medico-legale verra' delineata nelle disposizioni di attuazione. Le disposizioni in tema di incapacita' ed incompatibilita' (articolo 222), di astensione e di ricusazione (articolo 223), sono sostanzialmente ricalcate sulla disciplina vigente, con qualche variante di facile comprensione. Va soltanto rilevata, a proposito della ricusazione, l'ammissibilita' della relativa dichiarazione anche dopo che il perito abbia cominciato a prestare il suo ufficio, a differenza di quanto prevede il vigente art. 315- bis comma 1. L'innovazione e' parsa opportuna - oltre che in linea con la direttiva di "tutela dei diritti delle parti" - purche' si tratti di motivi sopravvenuti ovvero conosciuti successivamente, e con l'ovvio limite temporale che il perito non abbia fornito il proprio parere (art. 223 comma 3). Gli articoli da 224 a 229 disciplinano le modalita' di conferimento dell'incarico e di svolgimento delle operazioni peritali. Si tratta, per lo piu', della riproposizione dello schema vigente, con varianti soltanto formali, si' che sembra superfluo soffermarvisi. Vanno piuttosto ricordate, come innovazioni riallacciantisi in special modo al punto 1 della legge-delega, le modalita' inerenti lo svolgimento della relazione peritale. Anche nella formulazione della norma (articolo 227 comma 1) viene privilegiata la risposta orale immediata. Naturalmente non si e' potuto prescindere dalle ipotesi in cui cio' non sia oggettivamente possibile a causa della complessita' dei quesiti e, conseguentemente, del numero e della difficolta' delle indagini. L'art. 227 soddisfa la relativa esigenza, con una serie di correttivi intesi a neutralizzare richieste ingiustificate e, comunque, dilazioni inutili. A parte la possibilita' di immediata sostituzione del perito, e la prorogabilita', per una sola volta e per breve periodo, del termine per la risposta nel solo caso di "particolare complessita'", si e' accordata preferenza ad una risposta orale, anche se rinviata; strumento utile per evitare sterili sovrabbondanze, legate al concetto stesso di relazione scritta. Si e', in tal modo, realizzata anche una piu' diretta partecipazione del perito all'attivita' processuale, in vista di una maggiore efficacia dell'esame diretto, che la direttiva 73 della legge-delega impone anche per il perito in sede dibattimentale; e si e' consentita, inoltre, un'immediata verifica in contraddittorio della congruenza della risposta. Nel quadro dei mezzi idonei ad impedire inutili prolungamenti nello svolgimento dell'incarico peritale, vanno ricordate le disposizioni dell'articolo 224 sulla sostituzione del perito lato sensu negligente. Si rifanno all'ultima parte della direttiva 10 della legge-delega ("tutela dei diritti delle parti in ordine all'effettuazione delle perizie") le disposizioni concernenti il consulente tecnico. Si e', in definitiva, ritenuto di abbandonare la denominazione di "perito di parte", proposta in un primo tempo, anche se la variante non era soltanto terminologica, giacche' si era inteso sottolineare la dignita' di questo ruolo e l'importanza del relativo contributo, nel contraddittorio tecnico alla formazione del parere del perito di ufficio e cosi', eventualmente, del convincimento del giudice. Piuttosto, l'equiparazione di ruoli e di poteri delle parti, pubblica e privata, ha imposto che anche il pubblico ministero possa procedere alla nomina di un proprio consulente, il quale contrapponga alle considerazioni di ordine tecnico-scientifico della difesa considerazioni di analoga natura per l'accusa (articolo 225 comma 1). In caso di pluralita' di parti private viene eliminata la ingiustificata limitazione di ordine numerico del vigente art. 323 ultimo comma c.p.p., e cio' anche per l'ipotesi di perizia collegiale ed interdisciplinare. Piu' che ovvia la previsione dell'art. 225 comma 2, nel quadro di una disciplina del patrocinio statale per i non abbienti, ricomprendente anche la difesa tecnica in ogni sua proiezione. Significativa, sempre nel quadro della tutela dei diritti della parti, l'eliminazione di preclusioni temporali (v., invece, il vigente art. 323 comma 2 c.p.p.) alla nomina ed all'intervento del consulente tecnico, con la ragionevole limitazione dell'articolo 230 ultimo comma che rappresenta una piu' dettagliata specificazione del vigente art. 324 ultimo comma e costituisce un correttivo, soprattutto quanto all'art. 230 comma 3, rispetto alla piu' restrittiva previsione del codice vigente. Le attivita' riconosciute ai consulenti tecnici variano, conseguentemente, in relazione al momento della loro nomina, che si e' sottratta alle formalita' - peraltro scarsamente efficienti - del vigente art. 323 comma 4. In definitiva, le facolta' dei consulenti non si distaccano da quelle oggi previste nell'art. 324 c.p.p. Oltre alle garanzie previste in tema di accertamenti tecnici non ripetibili disposti dal pubblico ministero (art. 360) e con riguardo alla perizia assunta nell'incidente probatorio (artt. 390 e 393), si riallacciano all'esigenza di "tutela dei diritti delle parti" le disposizioni dell'articolo 226 comma 2, che subordina il momento, spesso risolutivo per le conclusioni, della formulazione dei quesiti, al parere delle parti e dei rispettivi consulenti, ovviamente se presenti, e quelle contenute nell'articolo 229 comma 2 che, innovando rispetto all'attuale orientamento giurisprudenziale, impone la comunicazione anche della data di "continuazione" delle operazioni peritali. Circa la disciplina dell'attivita' del perito (articolo 228), si e' ritenuto di stabilire (comma 1) che al perito sia consentito di esaminare gli atti conosciuti dal giudice quando questi ammette la perizia. Si e' peraltro previsto che, se vi consente la parte che ne ha la disponibilita', il perito possa prendere visione anche degli atti suscettibili di confluire nel fascicolo per il dibattimento. Quanto alla disposizione del comma 3, la Commissione ha discusso in particolare dei limiti di utilizzabilita' delle notizie raccolte dal perito, specie in relazione a quelle provenienti da "altre persone". Per evitare che tali notizie determinino comunque una suggestione per il giudice, si e' da ultimo prescelta la formula "gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale" (cfr., invece, la diversa previsione dell'art. 221 comma 3 del Progetto del 1978). Nuova e' la figura prevista nell'articolo 233, che non presuppone la previa nomina del perito ed e' intesa a realizzare l'esigenza che ciascuna delle parti - quindi anche il pubblico ministero - possa avvalersi di un contributo esterno per l'impostazione e la soluzione di quesiti tecnici: nella prospettiva, peraltro, di una proiezione di tale contributo nel processo, soprattutto per sottoporre al giudice pareri qualificati idonei ad indurlo a valutare la convenienza di disporre perizia. La rilevanza di tale esigenza e l'avvertita importanza di evitare che l'indagine tecnica sia troppo rigorosamente condizionata da iniziative ex officio ha fatto superare dubbi circa un presunto appesantimento negli accertamenti. In ogni caso, il meccanismo della comunicazione della nomina al giudice ed alle altre parti, mentre vale a permettere pienezza di contraddittorio sotto il profilo tecnico ed anche quando non sia stata disposta perizia, puo' efficacemente funzionare come stimolo al giudice per i provvedimenti di ufficio e, per l'ipotesi di rigetto di tale sollecitazione, come importante inserimento nel processo di un apporto tecnico da vagliare poi secondo i criteri dell'esame incrociato. CAPO VII DOCUMENTI Le disposizioni racchiuse nel capo VII (articoli 234 - 243) sono frutto di un lavoro di analisi e di raccolta di norme attualmente disperse in piu' parti del codice, raggruppate nell'intento di dare una sistemazione unitaria ad un mezzo di prova che il legislatore processuale penale ha finora ingiustificatamente trascurato. Il codice del 1930 ha affrontato i problemi della prova documentale con notevole approssimazione al punto che, ad un esame appena superficiale, e' facile scorgere lacune ed incongruenze. Deve aver rivestito un peso notevole nella elaborazione della materia il pregiudizio, vivissimo nella dottrina processualistica penale di fine ottocento, secondo cui i documenti non rappresentano un vero e proprio mezzo di prova, finendo per risolversi o in una testimonianza scritta o in un indizio nei casi in cui lo scritto costituisca corpo del reato. Di qui, probabilmente, il disinteresse legislativo per la prova documentale, di cui si ha la conferma nel codice vigente non solo dall'assenza di un titolo apposito ad essa dedicato, ma pure da due particolari aspetti della normativa: in primo luogo, e' ricorrente la confusione tra documenti processuali (verbali di testimonianza, interrogatori, relazioni del perito, etc.) e documenti extraprocessuali (lettere, registri contabili, etc.) al di la' della nomenclatura che li distingue in atti e documenti (artt. 372, 402, 215) (si veda, ad esempio l'art. 463 che in rubrica parla di "atti e documenti" mentre nel testo si riferisce solo ai documenti processuali; cfr. pure l'art. 466 che si riferisce indiscriminatamente agli uni e agli altri); in secondo luogo, emerge dalle norme la pressocche' completa obliterazione del fenomeno dell'ammissione della prova documentale, essendosi incentrata la disciplina del veicolo acquisitivo sulla lettura dibattimentale, strumento tipico con il quale si fanno rivivere in giudizio gli atti compiuti nelle fasi precedenti del medesimo processo. Al fine di pervenire alla stesura di un testo capace di superare le incertezze e le oscurita' del codice vigente, ci si e' proposti anzitutto di fissare strumenti concettuali chiari, idonei ad orientare l'interprete sul piano applicativo. In questa direzione le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso. Sono pertanto del tutto estranei alla disciplina degli artt. 234 s. i verbali degli atti compiuti in fasi anteriori del medesimo processo: di essi, sotto il profilo della lettura, si e' data una regolamentazione negli artt. 504 - 507. Nella categoria dei documenti disciplinati sotto il profilo della prova, si e' invece ritenuto di inserire la problematica di verbali di prove raccolte in altri processi (art. 238), trattandosi anche qui di res formata fuori del processo nel quale essa tende ad introdursi. Va ancora avvertito che nella nuova normativa e' accolta la distinzione tra documenti costituenti corpo del reato (scritto diffamatorio, scrittura falsificata, lettera minatoria) e documenti costituenti mezzi di prova. Per i primi non puo' porsi un problema di ammissibilita' ne' una questione di provenienza come requisito per il loro uso. Se il documento costituisce corpo del reato il giudice ne deve disporre l'acquisizione anche qualora sia anonimo (art. 240). C'e' dunque un regime diverso nei due casi di cui l'interprete deve tener conto nell'applicare le disposizioni sulla prova documentale. L'articolo 234 mira ad allargare la nozione tradizionale di documenti collocando accanto a quelli grafici (scritti), i documenti fotografici, cinematografici, fonografici e quelli formati con qualsiasi altro mezzo. Una volta definito il documento in ragione della sua attitudine a rappresentare, ne risulta una categoria unitaria i cui requisiti di utilizzabilita' - e, in particolare, l'accertamento della provenienza - sono identici. Se nello scritto l'accertamento della provenienza si compie piu' facilmente attraverso il requisito della sottoscrizione, nei documenti fotografici, cinematografici e fonografici la medesima operazione potra' apparire piu' problematica, ma diviene necessaria, perche' non c'e' documento giuridicamente rilevante laddove non e' possibile individuarne la paternita', cioe' il suo autore (arg. ex artt. 239 e 240). E cio' e' tanto piu' importante per i "documenti non grafici" in relazione ai quali le raffinate tecnologie oggi conosciute potrebbero consentire di confezionare mezzi di prova falsi. Il comma 3 dell'art. 234 vieta l'uso di documenti sulle informazioni relative a voci correnti nel pubblico nella linea del disposto dell'art. 464 c.p.p. Si tratta di una manifestazione del principio che bandisce dal processo le dichiarazioni di cui si ignora la fonte, principio di cui si trova conferma negli artt. 195 comma 7, 203 e 240. L'articolo 235 disciplina il particolare trattamento che deve essere riservato alle res che si pongono in rapporto di stretta compenetrazione con il fatto costitutivo di reato. La norma assume una portata generale e funge da limite costante a tutti i divieti posti all'acquisizione di documenti (cfr. artt. 102 e 240). L'articolo 236 riproduce con lievi varianti il comma 2 dell'art. 464 del codice vigente aggiungendo la menzione dei documenti che sono frutto di accertamenti relativi alla personalita'. Per le sentenze straniere si e' limitata l'utilizzabilita' ai soli casi di riconoscimento, non sembrando giustificato che la pronuncia del giudice straniero possa spiegare effetti all'interno del nostro ordinamento quando ancora non sia stato posto in atto il procedimento tipico che vale a darle rilevanza nel nostro diritto. Nell'articolo 237 confluisce il disposto dell'art. 465 comma 1 del codice vigente. L'uso di verbali di prove raccolte in altri processi trova nell'articolo 238 una disciplina notevolmente diversa da quella tracciata dagli articoli 466 comma 2 e 144- bis del codice vigente. Una revisione profonda di questi testi si e' resa necessaria per la nuova struttura data dalla legge-delega ai rapporti tra indagini preliminari e dibattimento. Dopo aver fissato una serie di sbarramenti alla penetrazione dei risultati delle indagini del pubblico ministero nella fase del dibattimento, una indiscriminata utilizzazione delle prove raccolte in altri processi avrebbe finito per operare una breccia non indifferente nel sistema congegnato al fine di garantire l'oralita' e l'immediatezza del dibattimento. Di qui due limitazioni: a) deve trattarsi di prove passate attraverso il filtro dell'incidente probatorio o del dibattimento, anche solo mediante lettura; b) e' necessario il consenso delle parti cui e' data la facolta' di opporsi e richiedere l'assunzione della prova orale. Il rigore di questa disciplina (ove sono recepiti in larga parte i suggerimenti della Commissione per lo studio dei problemi sostanziali e processuali posti dai grandi processi in tema di criminalita' organizzata), che comporta la preclusione ad avvalersi di tutte le dichiarazioni rese da coimputati o testimoni al pubblico ministero od al giudice dell'udienza preliminare di un procedimento separato, e' temperato dal disposto del comma 2 secondo cui l'irripetibilita' della prova acquisita aliunde ne rende legittima l'acquisizione. Al tempo stesso i divieti stabiliti dalle norme del verbale di prova non impediscono di servirsi del suo contenuto ai fini delle contestazioni previste dagli artt. 493 e 496. L'articolo 239 ripropone la formula contenuta nell'art. 460 del codice vigente in una veste che pone l'accento sulla esigenza di chiarire la provenienza del documento. Il problema dell'uso dei documenti anonimi e' risolto dall'articolo 240 nello stesso modo oggi indicato dall'articolo 141 c.c.p. Quando si tratta di corpo del reato, l'anonimo puo' essere acquisito in base alla norma generale contenuta nell'art. 235. Per l'ipotesi di documenti ritenuti falsi, l'articolo 241 rende applicabile la stessa disciplina processuale dettata per i testimoni sospettati di falsita' (art. 207). Si e' ritenuto di non confermare nel nuovo processo l'istituto dell'incidente di falso: di qui il potere del giudice penale di procedere liberamente alla valutazione della falsita' di documenti anche assistiti dalla particolare efficacia prevista dall'art. 2700 c.c., salvo il dovere di trasmettere gli atti al pubblico ministero a conclusione del giudizio, qualora ne ravvisi la falsita' in sede di valutazione globale delle prove acquisite. Ovviamente quando la falsita' di un documento costituisce l'oggetto del giudizio, investendo l'imputazione un reato di falso, il giudice e' tenuto a pronunciarsi su questo tema ed a provvedere secondo quanto e' previsto nell'art. 530. L'opinione che l'impugnazione di falso non sia altro che una denuncia e' ampiamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, che tra l'altro hanno rilevato come siffatta denuncia debba avere seguito per iniziativa del pubblico ministero anche se non sia proposta con le forme prescritte dall'art. 216 c.p.p. vigente. Concretamente la denuncia di falso, disciplinata come "incidente" dagli art. 215 - 218 del vigente c.p.p. da' luogo ad una particolare specie di questione pregiudiziale penale, dal momento che l'art. 217 c.p.p. vigente stabilisce la sospensione del processo quando quella che viene denominata "impugnazione" abbia apparenza di fondamento e non si possa proseguire senza attendere la conclusione del nuovo processo. L'istituto gia' oggi si presenta quindi disciplinato con una certa equivocita' e superfluita'. Basterebbe osservare che, se la denuncia di falso e' presentata nei modi ordinari ed ha dato luogo al promovimento dell'azione penale per il falso, sorge ugualmente un problema di interferenze tra i due procedimenti, regolati oggi dall'art. 18 c.p.p. Fra l'altro, quando occorre, il processo deve essere sospeso sino alla sentenza irrevocabile pronunciata in quello per il falso, sia per l'art. 18 che per l'art. 217 c.p.p., anche se quest'ultima norma non lo dica esplicitamente come la prima. Cio' premesso, e' evidente la conclusione alla quale si e' pervenuti. Intendendosi mantenere - in particolare - l'abolizione della pregiudiziabilita' penale, che oggi costituisce un serio ostacolo allo svolgimento del processo, ne derivava, come necessaria conseguenza, anche la eliminazione del c.d. incidente di falso. Ne' potrebbe utilmente farsi ricorso alla disciplina della riunione dei procedimenti, sia perche' limitata nel Progetto ai soli casi previsti dall'art. 17 (sensibilmente ridotti rispetto agli attuali) sia perche' spesso impedita dal fatto che i due processi possono trovarsi in fasi diverse. La soluzione prescelta e' dunque partita dal principio generale accolto in materia di questioni pregiudiziali, secondo cui il giudice penale risolve ogni questione da cui dipenda la decisione del processo. Ne' si e' ritenuto di distinguere fra atti del processo e documenti prodotti, poiche' ambedue possono appartenere alla categoria degli atti pubblici con fede privilegiata. Naturalmente, se occorreranno accertamenti tecnici o altri di non rapido espletamento, potra' rendersi necessario un rinvio del processo; ma cio' avverra' nei limiti dello stretto necessario e comunque senza sospendere il processo in attesa della pronuncia sul falso. Si e' pero' ritenuto che questo ed altri possibili inconvenienti siano minori di quelli conseguenti a una diversa soluzione del problema. Deve qui aggiungersi che la sentenza sul processo principale sara' ovviamente impugnabile anche per il motivo della valutazione dell'atto falso. A questo proposito si ritiene che il giudice, soprattutto ove intenda disconoscere la veridicita' dell'atto pubblico, dovra' esporre nella sua motivazione le ragioni del suo convincimento. Non e', infine, superfluo osservare che il giudice potra' provvedere anche a correggere eventuali errori materiali di atti processuali senza apposita decisione. Inoltre, per casi particolari, si e' configurato un procedimento immediato in contraddittorio per la correzione di qualunque errore, quando esso incida su un atto del processo: per esempio, e' stato previsto un incidente concernente le eventuali contestazioni del contenuto del verbale del dibattimento redatto dal cancelliere, al fine di controllare subito quel verbale durante lo svolgimento in atto del dibattimento (art. 476 comma 2). Gli articoli 242 e 243 completano la normativa sui documenti con disposizioni relative alla traduzione, alla trascrizione di nastri magnetofonici ed al rilascio di copie. TITOLO III MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA CAPO I ISPEZIONI Nel sistema della nuova delega, il potere di procedere ad ispezioni (artt. 244 - 246) e' attribuito sia al pubblico ministero che al giudice nel dibattimento ed e' per questa ragione che e' stata usata la locuzione "autorita' giudiziaria" (art. 244 comma 2), per indicare l'organo titolare del potere di procedere all'atto. Quella che il codice vigente indica come ispezione "corporale" e' qui definita come "personale" (art. 245) per rendere ancor piu' chiaro che tale mezzo di ricerca della prova si risolve in una "restrizione della liberta'" della persona, nel senso previsto dall'art. 13 Cost. E' appunto in quest'ottica che assume rilievo, e giustificazione, il rafforzamento della dimensione garantistica dell'istituto, reso concreto mediante la duplice previsione del limite della dignita' (accanto a quello del pudore) nell'esecuzione dell'atto e dell'avvertimento circa la facolta' di farsi assistere da persona di fiducia. Sempre in tema di ispezione personale e' stata mantenuta ferma la previsione, gia' contenuta nel Progetto preliminare del 1978, secondo cui, quando l'ispezione non e' direttamente compiuta dall'autorita' giudiziaria, essa puo' essere eseguita da un "medico". Quanto all'ispezione locale (art. 246) la protezione costituzionale offerta al domicilio dall'art. 14 Cost. sembra adeguatamente rafforzata dalla previsione della consegna - come gia' dispone il codice vigente, ma solo per le perquisizioni domiciliari - di copia del provvedimento alla persona che ha la disponibilita' del luogo, sempre che sia presente. Opportune limitazioni alle ispezioni negli uffici dei difensori sono poi dettate, a garanzia del diritto di difesa, dall'art. 102. CAPO II PERQUISIZIONI Per le stesse ragioni indicate a proposito delle ispezioni, anche in tema di perquisizioni (artt. 247 - 252) l'organo titolare del potere di disporre il mezzo di ricerca della prova e' indicato con la locuzione "autorita' giudiziaria" (articolo 247 comma 3). L'adeguamento della normativa ai principi costituzionali ha comportato, anche qui, un rafforzamento della dimensione garantistica dell'istituto. E' appunto in quest'ottica che, per le perquisizioni personali, e' previsto, oltre al rispetto della dignita' e del pudore del perquisendo, il dovere di consegnargli, prima di procedere all'atto, copia del decreto, con l'avvertimento della facolta' di farsi assistere da persona di fiducia. Quanto alle perquisizioni nei luoghi, si e' ritenuto opportuno distinguere quelle locali da quelle domiciliari, categoria, quest'ultima, comprensiva delle sole perquisizioni che avvengono "in un'abitazione o nei luoghi chiusi adiacenti a essa" (articolo 251 comma 1) e per la cui esecuzione valgono, in difetto di una espressa disposizione dell'autorita' giudiziaria giustificata dall'urgenza, precisi limiti temporali fissati fra le ore sette e le ore venti. Il favore per la tutela del domicilio ha poi suggerito di non limitare alla sola perquisizione personale, come e' previsto dal codice vigente, la possibilita' dell'alternativa alla perquisizione rappresentata dalla richiesta della cosa determinata che si ricerca (articolo 248 comma 1). Nella stessa disposizione che prevede la "richiesta di consegna" e' stato disciplinato (comma 2) anche il "sequestro antecedente a perquisizione": trattandosi, infatti, di attivita' prodromica alla perquisizione e' stata ritenuta impropria la collocazione della norma nell'art. 252, cosi' come avveniva secondo il Progetto preliminare del 1978. A garanzia del diritto di difesa non e' stato, in questa sede, previsto il divieto, per l'autorita' giudiziaria, di far compiere le perquisizioni negli studi legali da parte della polizia giudiziaria, in quanto il tema delle limitazioni alle perquisizioni da eseguire negli uffici dei difensori e' disciplinato dall'art. 102, dedicato alle "garanzie di liberta' del difensore". Non e' stato mantenuto il divieto, previsto dal Progetto del 1978, di far compiere alla polizia giudiziaria le perquisizioni presso banche, avuto riguardo alla specifica e particolare competenza di alcuni organi (ad es., Guardia di Finanza) in materia contabile ed alla vigente legislazione speciale in tema di indagini patrimoniali a carattere generale. CAPO III SEQUESTRI La disciplina dei sequestri (artt. 253 - 265) segue le linee sistematiche della vigente regolamentazione, salve le particolarita' di cui si da' atto qui di seguito: prima fra tutte la decisa caratterizzazione in senso processuale dell'istituto, attraverso il riferimento dell'articolo 253 comma 1 alla finalita' di "accertamento dei fatti". Si e' voluto in tal modo escludere che il sequestro penale possa servire per fini diversi da quelli probatori - cioe' per fini di cautela sostanziale o di prevenzione - rispetto ai quali e' stata dettata una apposita disciplina (v. titolo II del libro IV). Circa l'oggetto del sequestro, si e' preferito distinguere subito fra "corpo del reato" e "cose pertinenti al reato", anche per consentire una definizione sufficientemente comprensiva del concetto di "corpo", poi richiamato in altre disposizioni, cosi' da includervi anche le cose il cui uso, porto, detenzione ecc. costituisce reato. Quanto alle cose "pertinenti" al reato, e' parso opportuno affidarsi all'interpretazione giurisprudenziale. Si e' previsto che il sequestro possa venire eseguito, oltreche' personalmente dall'autorita' giudiziaria anche da ufficiali di polizia giudiziaria delegati con lo stesso decreto di sequestro. Il comma 4 recepisce la vigente disciplina dettata dall'art. 224- bis comma 2 in tema di sequestro operato dalla polizia giudiziaria, disponendo che copia del sequestro e' consegnata all'interessato, se presente. In ordine al sequestro presso i difensori (disciplinato in questa sede dal Progetto del 1978), si e' ritenuto piu' appropriata, come sedes materiae, quella del titolo VII del libro I, prevedendosi la relativa regolamentazione nell'art. 102 ("Garanzie di liberta' del difensore"): in tal modo viene sottolineato che la particolare disciplina e' collegata alla garanzia dei diritti della difesa. Quanto all'articolo 254, non sono state introdotte innovazioni di rilievo nei primi due commi, che riproducono il testo del vigente art. 338 c.p.p.. Il comma 3 prevede che, qualora ci si accorga di avere sequestrato carte e documenti che non si sarebbero potuti sequestrare, essi vanno restituiti all'avente diritto e non possono essere utilizzati nel processo. Tale norma va raccordata, tra le altre, a quella contenuta nel comma 6 dell'art. 102 gia' citato che fa divieto di sequestrare la corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore, tranne che si abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. L'articolo 255 disciplina il sequestro presso banche. Va rilevato che non e' stata qui regolata la facolta' di esame e di sequestro perche' essa e' disciplinata dall'art. 248 in tema di rapporti tra perquisizione e sequestro. Va pure evidenziato che, a differenza dalla attuale regolamentazione, l'autorita' giudiziaria puo' delegare alla polizia giudiziaria anche la esecuzione del sequestro presso banche. I primi due commi dell'articolo 256, relativo alla disciplina dei rapporti fra sequestro e segreti, corrispondono ai commi 1 e 3 dell'art. 342 c.p.p. con la precisazione offerta dal riferimento anche al segreto inerente al "ministero", di cui sono portatori i ministri di culto, che gia' compare nell'art. 200 nell'ambito della disciplina del segreto professionale. Nei commi successivi si prende in considerazione il caso dei documenti che si asseriscono coperti da segreto di Stato, e si stabilisce una disciplina corrispondente a quella prevista dall'art. 202, che attua la direttiva 70 della legge-delega. Si e' reputato opportuno stabilire un termine massimo (sessanta giorni) entro il quale il Presidente del Consiglio e' tenuto a dare una risposta motivata - sia pure in chiave di "ragioni essenziali" - al quesito trasmessogli dall'autorita' giudiziaria procedente circa l'esistenza, o no, del segreto di Stato, cosi' da sollecitare l'assunzione di una precisa responsabilita' politica da parte del Governo in una materia tanto delicata. La fissazione del termine e' rafforzata dalla previsione per cui, nel caso di mancata risposta del Presidente del Consiglio entro i sessanta giorni, l'autorita' giudiziaria potra' ritenersi svincolata da qualunque limite nell'acquisizione della prova. Quando, invece, il Presidente del Consiglio confermi l'esistenza del segreto di Stato e il giudice ritenga essenziale la prova per la definizione del processo, l'unico epilogo ammissibile sara' quello previsto dalla legge-delega: la pronuncia di una sentenza di proscioglimento per improseguibilita' del processo. L'articolo 257 prevede la facolta' di richiedere, da parte degli interessati, il riesame del decreto di sequestro (a norma dell'art. 324), analogamente alla previsione contenuta nell'art. 343- bis del vigente codice. L'articolo 258 disciplina il rilascio di copie dei documenti sequestrati. In particolare e' stata prevista la menzione dell'avvenuto sequestro negli estratti, nelle copie e nei certificati dei documenti sequestrati, ritenendosi utile e opportuna una tale menzione al fine di garantire un uso corretto di tali estratti e copie, e comunque di evitare il pericolo di abusi. La disciplina della custodia delle cose sequestrate, della loro assicurazione mediante sigilli e della rimozione e riapposizione di questi (articoli 259, 260 e 261) non ha dato luogo a particolari problemi. Va peraltro sottolineato che la previsione secondo cui le cose sequestrate si assicurano con il sigillo dell'ufficio giudiziario "ovvero, in relazione alla natura delle cose, con altro mezzo idoneo a indicare il vincolo imposto a fini di giustizia", intende riferirsi a quei casi nei quali l'apposizione "tradizionale" del sigillo non e' possibile in relazione alla natura della cosa (ad esempio impianti, terreni abusivamente lottizzati, etc.). La norma recepisce l'orientamento consolidato della cassazione secondo cui il sigillo non e' il mezzo con il quale si assicura materialmente la intangibilita' della cosa, ma e' mero strumento simbolico attraverso cui si manifesta la volonta' dello stato diretta ad assicurare beni mobili od immobili contro ogni atto di disposizione o di manomissione. L'articolo 262 presenta una sistemazione piu' lineare di una materia complessa come quella della restituzione delle cose sequestrate che trova ora una regolamentazione tortuosa e persino difficilmente intelligibile nell'art. 622 c.p.p.. Si e' ritenuto opportuno trasferire questa normativa dal settore dell'esecuzione, dove oggi si trova, a quello della disciplina del sequestro, cosi' da far intendere gia' a livello sistematico come la vicenda estintiva del vincolo sulle cose acquisite a fini di prova sia da ricollegarsi anzitutto al venir meno delle esigenze probatorie che hanno indotto ad emanare il provvedimento acquisitivo. Fissata questa regola nel comma 1, nel comma 2 si e' dato spazio al problema dei rapporti tra sequestro penale e sequestro conservativo a garanzia dei crediti di reato, adottando una soluzione che si discosta notevolmente da quella accolta dal codice vigente. Il legislatore del 1930 ha seguito in tema di cose sequestrate un orientamento, risalente in gran parte alla dottrina della Scuola positiva, che si puo' riassumere nella massima semel captum, semper retentum: le cose appartenenti all'imputato non dovrebbero essere restituite, anche se e' venuta meno l'esigenza di prova, poiche' di esse ci si puo' pur sempre servire ai fini della garanzia patrimoniale dei crediti di reato. Respingendosi una simile conversione automatica che crea una inammissibile disparita' di trattamento tra imputati cui sono stati sequestrati beni a fini di prova ed imputati non assoggettati alla misura di coercizione reale, si e' inteso modificare l'attuale regime normativo con una disposizione che autorizza l'attuazione della misura patrimoniale sulle cose gia' sequestrate quando sussistano tutti i presupposti previsti in via generale per l'emissione del provvedimento (periculum in mora, iniziativa del pubblico ministero o della parte civile). La norma non fa altro che ribadire quanto e' desumibile dalle disposizioni sul sequestro conservativo: la sua importanza si coglie percio' piuttosto sul piano della fissazione di un limite all'operare della restituzione che si potra' tradurre, nella prassi, in una comunicazione della richiesta di restituzione al pubblico ministero ed alla parte civile perche', ove ne ravvisino l'opportunita', questi siano messi in grado di proporre richiesta di sequestro conservativo sui beni gia' sottoposti a sequestro penale ove sia disposta la restituzione (una disciplina non dissimile era contenuta nell'art. 613 comma 2 c.p.p. del 1913). Il comma 3 (gia' introdotto dal Progetto del 1978 in attuazione della sentenza n. 2 del 1975 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 622 comma 5 nella parte in cui, in ipotesi di sentenza di proscioglimento impugnata dal pubblico ministero, non imponeva la restituzione del film sequestrato come osceno), regola i rapporti tra sequestro e confisca. Essi sono stati esaminati in sede di discussione sulla nuova forma di sequestro (preventivo), introdotta accanto a quello penale (a fini di prova) ed a quello conservativo penale (a garanzia dei crediti da reato). Si e' data veste autonoma a tale forma di coercizione reale finalizzata a tutela di interessi sostanziali, quali la interruzione dell'iter criminoso o la prevenzione di nuovi reati. L'esperienza degli ultimi anni ha dato ampio rilievo a questo tipo di sequestro (ad es. sequestro del cantiere, di immobili abusivamente costruiti, di pellicole cinematografiche, di sostanze alimentari), tanto da far ritenere necessario superare l'ambiguita' e le lacune della normativa vigente, per tracciare una disciplina compiuta, soprattutto sotto il profilo della restituzione, regolata da principi estranei alle esigenze probatorie (cfr. artt. 321 - 323). Quanto al comma 4, che sancisce in via generale un diritto alla restituzione a conclusione del processo penale, salvi i casi di confisca, va menzionata la nuova formula "chi ne abbia diritto" (cfr. pure il comma 1) adottata in luogo di quella attuale ("chi prova di averne diritto"), che sembra alludere ad un onere di prova incompatibile con l'iniziativa di ufficio della restituzione, oggi riconosciuta al giudice dall'art. 624 comma 1 c.p.p., ribadita dal Progetto. Il procedimento per la restituzione delle cose sequestrate ripropone le linee attualmente in vigore, quali risultano dall'orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo cui il provvedimento puo' essere emesso de plano, salvo il diritto di opposizione dell'interessato che da' luogo ad incidente di esecuzione (art. 624 c.p.p). Il testo dell'articolo 263 precisa che la restituzione puo' essere disposta senza contraddittorio, in deroga a quanto previsto in via generale per i procedimenti in camera di consiglio dall'art. 126, nei soli casi in cui la titolarita' del diritto sulla cosa sequestrata appaia evidente dagli atti, salva comunque l'opportunita' della relativa richiesta da parte dell'interessato. In caso di dubbio - tale e' oggettivamente quello indicato dal comma 2 - si rende invece indispensabile l'instaurazione del procedimento in camera di consiglio con le garanzie dell'avviso a tutti gli interessati, della audizione nonche' della impugnabilita' dell'ordinanza conclusiva del procedimento. Il comma 4 prevede che, nel corso delle indagini preliminari, la restituzione delle cose sequestrate e' disposta dal pubblico ministero. Qualora, presentata richiesta di restituzione, il pubblico ministero ritenga di non accoglierla, questi la trasmette al giudice per le indagini preliminari, il quale osserva le disposizioni dettate in via generale. L'articolo 264 riproduce con lievi varianti il testo dell'art. 625 del codice vigente. I commi 2 e 3 disciplinano il caso in cui le cose non possano essere custodite senza pericolo di deterioramento o senza rilevante dispendio: in tal caso la vendita puo' effettuarsi anche immediatamente e la somma ricavata dalla vendita e' versata in deposito giudiziale nell'ufficio postale. L'articolo 265 riproduce il testo dell'art. 626 con lievi varianti. CAPO IV INTERCETTAZIONI TELEFONICHE Diversamente dalla delega del 1974, che non conteneva alcuna direttiva specifica sull'argomento, la delega attuale si occupa dettagliatamente delle intercettazioni nella direttiva 41, nonche', con riferimento ai poteri del pubblico ministero, nella direttiva 37. Tuttavia, fatta naturalmente eccezione per cio' che concerne la diversa organizzazione delle indagini preliminari, i principi dettati risultano in buona parte compatibili con la disciplina contenuta nel Progetto del 1978, dalla quale pertanto non e' stato necessario discostarsi in modo radicale. Si deve rilevare che la delega qualifica l'intercettazione come atto proprio del pubblico ministero: a quest'ultimo compete dunque disporne l'esecuzione, definirne le modalita', utilizzarne i risultati. Il giudice ha viceversa una funzione di controllo e di garanzia, essendogli riservato il potere di autorizzare l'atto, ovvero di convalidarlo, nel caso peculiare in cui l'urgenza non consenta un suo intervento preventivo. Come oggetto dell'intercettazione vengono individuate, da un lato, le "telecomunicazioni", che includono anche le comunicazioni telegrafiche e quelle previste dall'art. 623- bis c.p.; dall'altro - entro limiti piu' ristretti - le conversazioni tra presenti, in precedenza non contemplate espressamente. Infine, le sanzioni processuali sono state, per quanto possibile, differenziate e commisurate alla gravita' delle infrazioni, secondo quella che sembra una precisa volonta' della delega (direttiva 41 lettera f). Oltre alle ipotesi cui si applicano semplicemente le nullita' di ordine generale, si e' previsto un divieto di utilizzazione, riferito alle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti, o in violazione di prescrizioni essenziali per la regolare formazione della prova. L'articolo 266 elenca i reati per cui e' consentita l'intercettazione, ricalcando sostanzialmente la corrispondente norma del Progetto del 1978, a sua volta derivata dal codice vigente (come modificato dalla legge del 1974). Tale soluzione e' prevalsa su quella (suggerita tra l'altro anche dalla Commissione per lo studio dei problemi sostanziali e processuali posti dai grandi processi in tema di criminalita' organizzata) di prevedere, sull'esempio di altre legislazioni, una individuazione specifica dei reati, non limitata al riferimento alla pena edittale. Come s'e' gia' accennato, l'art. 266 disciplina anche l'intercettazione di colloqui tra presenti (che non rientrano nel concetto di "telecomunicazione"), secondo l'intento desumibile della direttiva 41, alla luce dei lavori preparatori. Per questa ipotesi e' stata mantenuta la regola di esclusione prevista dal vigente art. 226-quinquies c.p.p. in relazione alle comunicazioni che hanno luogo nel domicilio privato, con un'eccezione concernente il caso che nel domicilio medesimo si stia svolgendo l'attivita' criminosa. L'ultimo comma dell'art. 258 del Progetto del 1978 e' stato abolito perche' interamente sostituito dall'art. 102 comma 4, in tema di garanzie del difensore (si veda inoltre l'art. 271 comma 2 per la tutela del segreto professionale). Con l'articolo 267 si prevede, in via ordinaria (comma 1) una richiesta di autorizzazione rivolta al giudice dal pubblico ministero. Al giudice resta inoltre riservato il potere di disporre eventuali proroghe (comma 3). Quanto ai presupposti specifici del provvedimento, si e' ritenuto di mantenere la formula dell'art. 259 del Progetto del 1978. In particolare, si e' giudicato superfluo precisare, come pure era stato proposto, che le intercettazioni nei confronti di persone diverse dall'indiziato possono essere autorizzate solo quando sia provato uno specifico collegamento con l'indiziato medesimo. Il comma 2 disciplina il provvedimento d'urgenza del pubblico ministero e la convalida del giudice, richiedendo in entrambi i casi un decreto motivato. E' sembrato inoltre opportuno sottolineare che in mancanza di convalida l'intercettazione deve cessare immediatamente. Il divieto di utilizzazione delle intercettazioni compiute in assenza di convalida e' prescritto espressamente dalla direttiva 37, in ossequio alla lettera della quale in una prima versione dell'articolo era stata inclusa anche la nullita' insanabile, poi eliminata per ragioni di coerenza sistematica, posto che l'inutilizzabilita' della prova, come disciplinata dall'art. 191, mal si concilia con la nullita', che riguarda i vizi dell'atto. La conclusione pare sostanzialmente conforme alla volonta' del delegante, considerato che la norma introdotta assicura il massimo della tutela, cui nulla aggiungerebbe la previsione di una nullita' speciale. Anche l'articolo 268 e' strutturato sulla falsariga del Progetto del 1978, ma con numerose modifiche. Nel comma 1 si prescrive (a pena di inutilizzabilita': si veda l'art. 271 comma 1) che le intercettazioni debbono essere registrate, cio' che finora restava sottinteso: si vuole sottolineare che solo i documenti fonici ed i verbali hanno rilevanza probatoria, con esclusione di ogni altro mezzo (in particolare, la testimonianza di chi ha eseguito l'intercettazione). Inoltre si dispone esplicitamente che vanno inseriti nel verbale i cosiddetti "brogliacci d'ascolto", soprattutto allo scopo di consentirne il controllo da parte della difesa al momento del deposito. Si e' peraltro ritenuto di formulare tale precetto in un comma separato, per evitare che l'omissione della trascrizione possa causare l'inutilizzabilita' dell'intercettazione (cfr. il gia' richiamato art. 271 comma 1). Circa la localizzazione degli impianti, si e' salvaguardata l'esigenza che le intercettazioni, in caso di urgenza e di indisponibilita' degli impianti in dotazione alla procura della Repubblica, possano essere eseguite anche mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria (comma 3). La trasmissione e il deposito dei verbali sono ora riferiti al pubblico ministero (comma 4). L'inciso "conclusione delle operazioni" costituisce un modo piu' chiaro per indicare che il deposito deve avvenire solo al termine del periodo complessivamente autorizzato, incluse le proroghe. Si prevede altresi' il deposito, oggi soltanto implicito, dei provvedimenti autorizzativi, anche per consentirne l'acquisizione nell'eventuale diverso procedimento in cui le intercettazioni possano essere utilizzate. Il deposito puo' essere dilazionato, per esigenze di segretezza, fino al termine delle indagini preliminari (comma 5): peraltro, ad evitare un eccessivo sacrificio del diritto di difesa, si prevede il deposito entro cinque giorni in caso di utilizzazione delle intercettazioni nel corso delle indagini. L'acquisizione dei risultati dell'intercettazione viene disposta dal giudice, sulla base delle richieste delle parti (comma 6). A questo scopo ai difensori viene espressamente consentito (dato che la prassi normalmente lo nega) di ascoltare le registrazioni, oltre che di prendere visione degli atti. L'acquisizione e l'eventuale stralcio (che puo' essere disposto anche di ufficio) debbono aver luogo nel contraddittorio delle parti, cui e' dovuto tempestivo avviso. Da notare che, in conformita' ad una precisa indicazione della delega, lo stralcio e' accompagnato dalla distruzione solo per le intercettazioni illegittime, non anche per quelle considerate irrilevanti. L'articolo 269 rappresenta l'attuazione della direttiva 41 lettera e). La documentazione va conservata presso il pubblico ministero; e' comunque fissato un limite alla conservazione obbligatoria - individuato nella sentenza irrevocabile - dato che non e' pensabile una conservazione senza limiti dei nastri registrati. La distruzione e' comunque consentita su richiesta dei soggetti che abbiano subito l'intercettazione e possano vantare un interesse alla tutela della riservatezza. Vanno in ogni caso distrutte le intercettazioni illegittime, ai sensi dell'art. 271. L'articolo 270 disciplina l'utilizzazione delle intercettazioni in processi diversi da quelli per cui esse sono state autorizzate, utilizzazione che il Progetto del 1978 aveva escluso e la delega (direttiva 41 lettera a) ripristinato. Tale utilizzazione e' ammessa solo se i risultati delle intercettazioni siano indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali e' obbligatorio l'arresto in flagranza. Si e' cercato di limitare il sacrificio del diritto di difesa, con l'applicazione, anche nel procedimento ad quem, delle garanzie in cui all'art. 268; inoltre, per ovviare agli inconvenienti derivanti dalla trasmissione solo parziale degli atti, e' stato consentito alle parti di prendere visione dei verbali e delle registrazioni originariamente depositati nel processo a quo (inclusa l'eventuale documentazione in seguito stralciata). Come si e' accennato, per le intercettazioni illegittime e' stata mantenuta, nell'articolo 271, l'inutilizzabilita' a qualsiasi fine, accompagnata dalla distruzione della relativa documentazione. Il divieto di utilizzazione di cui al comma 2 e' stato introdotto per colmare una lacuna del Progetto del 1978, comune anche alla normativa vigente. Non sembra infatti ci sia ragione di escludere la tutela del segreto professionale di soggetti diversi dal difensore e dal consulente tecnico (art. 102 comma 4): altrimenti sarebbe fin troppo facile aggirare le limitazioni in tema di testimonianza (che l'art. 195 estende anche alla testimonianza indiretta). La disposizione e' simmetrica a quella dettata in tema di sequestro (art. 256), senza pero' il bisogno di prevedere particolari modalita' di accertamento, dato che il contenuto della prova e' gia' noto: l'intercettazione, infatti, non e' di per se' vietata (come invece avviene per le comunicazioni del difensore), ma diventa inutilizzabile solo in quanto si risolva in notizie coperte da segreto, la cui reale esistenza e' accertabile caso per caso. Si e' invece escluso che una disciplina analoga debba applicarsi al segreto di ufficio, posto a tutela degli interessi della pubblica amministrazione e non a garanzia di diritti fondamentali. LIBRO IV MISURE CAUTELARI Si e' ritenuto di tener ferma la scelta, gia' effettuata dal Progetto preliminare del 1978, di dedicare un intero libro alle misure che possono essere disposte nel corso del processo penale in funzione di esigenze cautelari e con effetti limitativi delle liberta' o delle disponibilita' di beni da parte dell'imputato. Non sembra che ci sia neppur bisogno di spendere troppe parole per motivare la ripulsa dell'impostazione minimizzante adottata in proposito dal codice vigente che reca nel libro dedicato all'istruzione la maggior parte delle disposizioni in materia: prima e piu' che problemi di dinamica processuale attinenti a questa od a quella fase dell'iter che conduce alla sentenza, sono infatti qui in gioco problemi di equilibrio tra le esigenze che possono definirsi, appunto, "cautelari" (e che coinvolgono il processo penale nel suo insieme) e le esigenze di rispetto di quel diritto alla liberta' personale che nella Costituzione trova tutela primaria ed autonoma in quanto tale. Piuttosto, va messa in evidenza la nuova sistematica "interna" che la disciplina e' venuta ad assumere nel testo che si sta illustrando, anche per la necessita' di tener conto dell'esplicita attenzione dedicata dalla nuova legge-delega ad aspetti della tematica che erano rimasti in ombra nella legge del 1974. E' cosi' che sono venute a scandirsi con maggior nettezza talune distinzioni, per cui, accanto alle misure di coercizione personale, si individuano misure "interdittive" e misure "reali", le une e altre pur sempre riconducibili, come le prime, alla finalizzazione "cautelare". Proprio la caratterizzazione "cautelare" e' parsa in ogni caso la piu' idonea a consentire di raccogliere le varie misure sotto un'etichetta comune, con una normativa che si articola poi, anzitutto, sulla bipartizione tra misure destinate ad incidere piu' direttamente sulla sfera della personalita' dell'individuo e misure che colpiscono i beni materiali: di qui, i due titoli di cui si compone questo libro, relativi l'uno alle misure cautelari "personali" (in cui si comprendono, cosi' le misure "coercitive" inerenti appunto alla persona del soggetto, come le misure "interdittive") e l'altro alle misure cautelari "reali". TITOLO I MISURE CAUTELARI PERSONALI Le direttive fissate al riguardo dalla legge-delega del 1987 sono racchiuse, essenzialmente, nei numeri 59-65 dell'art. 2, che riprendono, con una certa serie di integrazioni e di variazioni, i contenuti dei numeri 54-58 del corrispondente articolo della legge n. 108 del 1974. Quanto alle scelte principali, e' notevole la continuita', in quest'ambito, tra la prima e la seconda legge-delega. C'e' semmai da osservare, per un verso, che la piu' gran parte dei problemi capitali di una "illuminata" disciplina di tutela della liberta' personale nel processo penale continuano ad essere pesantemente condizionati da fattori di contesto (ed in particolare dalle capacita' dell'insieme della normativa processuale ad assicurare "tempi ragionevoli" per l'intero iter che va dalla notizia di reato al giudicato) per altro verso che, quanto al proprium piu' specifico a quella disciplina, l'intervallo tra la prima e la seconda delle due leggi ha pur fatto registrare dei mutamenti culturali e di sensibilita', tanto che alcuni tra i principi che piu' apparivano innovatori nel 1974 hanno poi potuto informare di se', quantomeno nelle linee fondamentali, gia' una parte della legislazione novellistica degli anni piu' recenti. Cosi' dicasi, in particolare, per il potenziamento della pluralita' di strumenti cautelari mirante a ridurre la tradizionale propensione ad un eccessivo ricorso alla custodia carceraria: cosi' dicasi, altresi', per il superamento dell'altrettanto tradizionale "vuoto di fini" legislativo in tema di misure limitative di liberta' e per il connesso rafforzamento dell'obbligo di motivare i relativi provvedimenti; cosi' dicasi, ancora, per l'introduzione di un sindacato di merito sui provvedimenti suddetti. Da altri punti di vista - ed in particolare dal punto di vista delle competenze a provvedere de libertate - la nuova delega, confermando e sviluppando le opzioni di fondo gia' delineate nel 1974, implica invece piu' sensibili correzioni di tiro rispetto alla normativa attuale, mentre sotto ulteriori profili - ed in particolare per quanto attiene alla disciplina dei termini massimi della custodia - sono recepite dalla nuova legge-delega indicazioni maturate in larga parte dopo il 1974 anche se, a loro volta, gia' travasate, in buona misura, nella piu' recente legislazione novellistica. In questo contesto, per gli spazi che competono alla responsabilita' di un'attuazione consapevole delle direttive fissate dal legislatore delegante, si e' cercato di lavorare, di regola, a partire dalle soluzioni a suo tempo adottate dal Progetto preliminare del 1978, sia pure per adeguarle, dove necessario, agli aggiustamenti ed alle integrazioni di prospettiva intervenute nel frattempo. Nel capo I del titolo e' compresa una serie di disposizioni generali, tra le quali fanno spicco quelle dirette a fissare i limiti fondamentali entro i quali ha da esercitarsi il potere cautelare del magistrato: ed e' in questa sede che trovano percio' posto, non soltanto la normativa sul quantum di indizi necessari per l'applicazione delle misure limitative di liberta', ma, altresi', quella sulle "esigenze cautelari" in vista delle quali le misure possono essere applicate; e', poi, sempre in questo capo che, tra l'altro, si fissano le regole di base per la determinazione delle competenze funzionali di settore. Nei capi II e III vengono individuate le singole misure cautelari, rispettivamente di natura coercitiva e di natura interdittiva, con la descrizione dei presupposti e delle modalita' di ciascuna di esse. Quanto al capo IV, esso e' dedicato alla forma ed all'esecuzione dei provvedimenti concernenti le misure de quibus, mentre quello successivo (capo V) si occupa dell'"estinzione" delle misure medesime, anche con riferimento alla tematica dei termini massimi della loro durata. Segue un capo - il VI - dedicato alle impugnazioni in materia, mentre il VII contiene la disciplina processuale dell'istituto dell'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza previsto dall'art. 206 c.p.. L'VIII ed ultimo capo concerne l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione. CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI L'articolo 272, con cui si apre questo capo, ha funzione, per un verso, di fondamento di ordine generale per l'esercizio del potere cautelare all'interno del processo penale, per altro verso di delimitazione, a sua volta di ordine generale, all'esercizio di tale potere. Tale seconda funzione sarebbe forse stata piu' efficacemente sottolineata dall'uso di una formula al negativo ("le liberta' della persona non possono essere limitate... se non a norma..."), ma si e' preferito mantenere la struttura che la disposizione aveva nel Progetto preliminare del 1978, essendo prevalsa la tesi che fosse preferibile evidenziare sin dall'inizio il carattere di discrezionalita' - sia pure legislativamente circoscritta e "guidata" - che assiste le risoluzioni giudiziarie in questo campo. L'articolo 273 comporta, di significativo, anzitutto l'accentuarsi della preoccupazione di ridurre l'area delle situazioni indizianti che possono legittimamente dar luogo all'adozione di misure cautelari. In stretta aderenza alla direttiva 59 della nuova legge-delega, la tradizionale formula dei "sufficienti indizi di colpevolezza" viene cosi' sostituita da una formula imperniata sul riferimento all'idea dei "gravi indizi di colpevolezza" (non senza la consapevolezza, ovviamente, dell'impossibilita' di tracciare, in questo campo, linee di demarcazione nettissime; ma con la convinzione, peraltro, che il mutamento abbia egualmente da esprimere un'indicazione di alto valore e di significato rilevante per gli operatori). Deve ancora notarsi che il riferimento e' fatto, in generale, a tutte le misure cautelari di ordine personale, e non soltanto alla misura della custodia in carcere; ma ad evitare equivoci, sara' bene ricordare altresi' che sfuggono invece a questa disciplina istituti come l'invito a presentarsi ed il decreto di accompagnamento, per i quali, d'altra parte, i presupposti sono determinati in maniera autonoma (cfr. artt. 131, 373, 374). Il comma 2 dello stesso art. 273 pone, dal canto suo, uno sbarramento alla possibilita' di ricorrere a strumenti cautelari limitativi delle liberta' della persona, quando vengano meno elementi essenziali per la punibilita' dell'imputato, anche se, per qualche ragione, il processo deve proseguire. A tal fine, del resto, ci si limita a portare a conseguenze piu' ampie - con riferimento, appunto, alla variegata gamma dei fattori che sulla punibilita' possono influire - un principio gia' inserito nella tradizionale disciplina codicistica (art. 256 c.p.p.). L'articolo 274 detta la disciplina relativa alle "esigenze cautelari", volendo anzitutto sottolineare che ogni determinazione processuale influente sulla liberta' dell'imputato deve reggersi anche su di una valutazione in concreto del periculum in libertate rapportata a parametri che e' la legge stessa a fissare. Questa normativa e' stata tenuta distinta da quella dell'articolo precedente per mettere in evidenza il ruolo peculiare di tale valutazione nella dinamica di esercizio del potere cautelare; ma sembra necessario non dimenticare che, da un certo punto di vista, si tratta pure qui di "condizioni di applicabilita'" delle misure cautelari, le quali, a loro volta, assumono carattere generale (anche se e' sufficiente che, nelle singole situazioni concrete, ricorra una sola delle suddette esigenze per legittimare, nel concorso delle altre condizioni, quell'esercizio): e la precisazione va tenuta presente soprattutto agli effetti della dinamica della revoca delle misure. E' d'altronde superfluo ricordare che si tratta di condizioni aggiuntive rispetto a quelle individuate nell'articolo precedente. Nel Progetto preliminare del 1978 - e' opportuno ricordarlo - la relativa disciplina era stata inserita in due disposizioni (artt. 278 e 279) dell'allora capo III, dedicato ai "motivi di coercizione", insieme ad una disposizione (art. 280) che configurava un obbligo di provvedere motivatamente de libertate (anche se "in negativo") nei casi di imputazione per reati di determinate specie particolarmente gravi. Quest'ultima disposizione - come si ricordera' tra breve - non e' stata riprodotta nel testo che si sta illustrando, e, anche per questa ragione, e' parso poco opportuno mantenere l'originaria collocazione per la residua disciplina in materia, tanto piu' che la nuova sistemazione sembra consentire di sottolineare meglio il ruolo fondamentale dell'apprezzamento delle esigenze cautelari nella dinamica globale dell'esercizio dei poteri limitativi di liberta'. Venendo comunque ai contenuti dell'art. 274, va anzitutto chiarito che l'assolutezza della formula con cui esso esordisce ("le misure cautelari sono disposte...") non vuol significare riesumazione di regole di automaticita' assoluta dei comportamenti del giudice, che, come vedremo subito, sono anzi estranee dal nuovo sistema piu' ancora di quanto non lo siano rispetto alla disciplina vigente; si vuol piuttosto rimarcare che la discrezionalita' giudiziaria e', in questo campo, pur sempre una discrezionalita' legalmente limitata, nel senso che al giudice non e' lasciata un'ulteriore facolta' di determinarsi in un senso o nell'altro una volta che abbia acquisito, appunto secondo i criteri fornitigli dalla legge ad orientamento e limite della sua discrezionalita', la convinzione circa l'esistenza o l'inesistenza dei presupposti di esercizio del potere cautelare. Quanto alle specifiche "esigenze cautelari" che possono venire in gioco, il testo della nuova legge-delega ha consentito di superare alcuni dubbi lasciati aperti dalla dizione della delega precedente, e, in particolare, quello relativo alla stessa configurabilita' - nel codice in elaborazione - della fuga e del pericolo di fuga come autonomi "motivi di cautela" potenzialmente rilevanti in ogni stato e grado del procedimento. La prima delle "esigenze cautelari" a venire in considerazione continua ad essere quella riconducibile alla tradizionale idea della "finalita' istruttoria" delle cautele. In proposito, si e' ritenuta opportuna un'ulteriore puntualizzazione della formula usata dal legislatore delegante, dove si fa riferimento ad "inderogabili esigenze attinenti alle indagini", e la si e' percio' ancorata ad una piu' specifica determinazione finalistica di situazioni di pericolo, che devono essere tali da mettere in forse - secondo una terminologia gia' adottata dal Progetto preliminare del 1978 e poi in parte travasata nella legislazione novellistica - "l'acquisizione o la genuinita'" della prova: deve, insomma, trattarsi di rischi attinenti alla completa e corretta salvaguardia del potenziale probatorio che le indagini possono fornire. Quanto alla necessaria predeterminazione giudiziale di durata delle misure disposte con tale finalita', dispone l'art. 292 comma 1 lett. d), in correlazione all'art. 301. Va precisato che, con la formula adottata, si e' anche voluta escludere rigorosamente ogni strumentalizzazione delle misure cautelari - ed in particolare della custodia cautelare - a finalita' di stimolo ad una partecipazione attiva dell'imputato alla formazione del materiale probatorio, espungendosi volutamente un loro aggancio specifico anche alla finalita' di "compimento di atti determinati". Deve essere chiaro, insomma, che l'esercizio del potere coercitivo al riguardo puo' esplicarsi soltanto secondo le modalita', alle condizioni ed entro i limiti (anche di durata) dell'accompagnamento coattivo (art. 131). In particolare, si e' inteso escludere nel modo piu' assoluto un'utilizzazione delle cautele a scopi, piu' o meno direttamente, estorsivi di confessioni. Allo scopo, si era anzi pensato di introdurre, attraverso un comma aggiuntivo da inserire nello stesso art. 274, una specifica disposizione in tal senso, con la quale si prevedeva che nessuna misura potesse essere applicata al fine di ottenere la presenza dell'imputato ad atti diretti ad assumerne comunque le dichiarazioni. Caduto ogni riferimento, nella lettera a) del comma 1, ad una possibile finalizzazione delle cautele al "compimento di atti determinati", e' parsa superflua anche la precisazione dell'ipotizzato comma 2, che del resto poteva anche prestarsi, per la sua formulazione, ad interpretazioni fuorvianti. La Commissione e' comunque rimasta unanimemente convinta dell'inammissibilita', nel sistema adottato (e, del resto, alla stregua di elementari esigenze di civilta' processuale, sottostanti a tutto il tessuto delle garanzie fissate in proposito dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali), di una strumentalizzazione "confessoria" delle cautele. Quanto alla fuga ed al pericolo di fuga dell'imputato, gia' si e' detto del superamento dei dubbi sulla possibile rilevanza di questi elementi, in forza dell'espressa previsione contenuta al riguardo nella nuova legge-delega. In proposito, il testo elaborato riflette piuttosto lo sforzo di dare concretezza al limite che a proposito di questi elementi la delega stessa viene ad introdurre, con lo stabilire che essi siano rilevanti in materia soltanto "se il reato risulta di particolare gravita'": la concretizzazione si e' avuta nel senso, non di un riferimento alla pena edittale, ma in quello che e' parso piu' aderente al tenore della direttiva da attuare, quale emerge soprattutto dall'uso dell'espressione verbale "risulta", e cioe' nel senso del vincolo ad una prognosi sulla sanzione che dovrebbe essere effettivamente inflitta. Circa le esigenze che anche la nuova legge-delega - come gia' quella precedente - riporta all'idea della "tutela della collettivita'", si e' ritenuto che la formula, genericamente indicativa di un'area di interessi da tutelare, fosse bensi' accettabile in quanto tale nel contesto, appunto, di una legge di delega, ma dovesse essere piu' attentamente precisata e delimitata nel momento in cui si trattava di stabilire dei criteri per il giudice, onde evitare un dilatarsi eccessivo della discrezionalita' in un campo nel quale, viceversa, l'esercizio del potere cautelare deve essere particolarmente contenuto. Utilizzandosi anche indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale, ed in parte recepite dalla stessa legislazione vigente, si sono pertanto individuate due - e due sole - categorie di fattispecie criminose (quelle dei gravi delitti diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale e quella dei gravi delitti di criminalita' organizzata) la cui potenziale realizzazione da parte dell'imputato, ricavabile da specifiche modalita' e circostanze del fatto che attualmente gli si addebita nonche' dalla sua personalita' globalmente considerata, integra di per se' l'"esigenza cautelare" in questione; mentre, con riferimento ad ogni altra situazione, la "tutela della collettivita'" dovra' concretarsi nel pericolo specifico di commissione di delitti collegati, sul piano della medesimezza di indole, a quello per cui si e' imputati. L'articolo 275 fissa i criteri che debbono guidare il giudice, in relazione ai singoli casi concreti, nella scelta tra le varie misure, una volta assodato che egli si deve avvalere, nella specie, del potere cautelare. Nel comma 1 trova pertanto espressione il cosiddetto "principio di adeguatezza" delle misure cautelari, che e' logico ed essenziale corollario della scelta accentuatamente "pluralistica", operata gia' con la legge-delega del 1974 e ribadita, in esordio, dalla direttiva 59 della delega del 1987. Il raccordo con specifiche esigenze cautelari, insomma, viene ad essere determinante, non soltanto per decidere se far uso del relativo potere genericamente inteso, ma anche per decidere quale strumento cautelare utilizzare. Si tratta di un principio cogente, ma di ordine generale, che non puo' essere ancorato in dettaglio ad una completa ed inderogabile gerarchia tra le misure, sebbene la successione in cui le misure coercitive vengono presentate nel capo II abbia da fornire una prima indicazione per l'operatore. Maggiore rigidita' - anche per ossequio ad una direttiva, sul punto assai precisa, della delega - assume invece la specificazione che la regola viene a trovare nel comma 3 quanto ai rapporti tra la custodia cautelare e le altre misure: e' questo, d'altronde, un modo per sottolineare come anche in concreto, e non soltanto in astratto, tale misura abbia da essere davvero un'extrema ratio. Sempre in tema di rapporti tra la custodia cautelare e la serie di altri strumenti che possono incidere sulle liberta' dell'individuo, il comma 4 ripropone, coordinandola al sistema delineato, la disciplina derogatoria oggi contenuta, rispettivamente, nell'art. 4-quinquies l. 21 giugno 1985, n. 297 e nell'art. 254- bis comma 3 c.p.p. e, gia' in parte prefigurata nell'art. 288 del Progetto preliminare del 1978 (conseguentemente non riprodotto nel testo che si presenta). Si tratta di un'ulteriore applicazione del principio di adeguatezza per cio' che riguarda le particolari esigenze di soggetti che si trovino in condizioni fisiche o psico-fisiche particolari (per un verso, tossicodipendenti ed alcooldipendenti; per altro verso, donne incinte od in stato di allattamento, malati gravi, anziani ultrasessantacinquenni). Quanto al comma 2 dell'art. 275, vi si trova enunciato - secondo quanto gia' stabilito dal Progetto preliminare del 1978 - il "principio di proporzionalita'" delle misure, che assume una sua specifica portata, accanto e ad integrazione di quello di adeguatezza. Le ragioni e le conseguenze di questo principio sono state abbondantemente illustrate nella relazione al citato progetto; qui, deve aggiungersi che non sembra costituire ostacolo alla sua formulazione in termini generali la direttiva 59 della nuova legge-delega, la quale ne impone l'adozione in relazione al problema del protrarsi della custodia cautelare: sarebbe contrario alla delega l'escludere o l'ignorare l'attuazione di tale specifica direttiva, non gia' il riconoscere, in termini piu' generali ed a monte, quell'esigenza che, in via specifica ed a valle, la delega stessa pretende che sia tenuta in conto. Deve ora osservarsi che, dal combinato disposto degli artt. 272, 274, 275 emerge palesemente l'esclusione di ogni ipotesi, anche attenuata, di obbligatorieta' della custodia cautelare, o - per restare ad una terminologia tradizionale - della cattura. E l'impressione risultera' confermata dalla disciplina della motivazione dei provvedimenti (v., in particolare, l'art. 292 comma 1 lett. c). Anche per i reati piu' gravi valgono dunque le regole generali, per cui, nell'ambito delle fattispecie per le quali e' legittimo l'esercizio del potere cautelare ed in particolare nell'ambito di quelle per cui e' consentita l'adozione della custodia cautelare, resta pur sempre affidato alla discrezionalita' del giudice - sulla base delle indicazioni, soprattutto di ordine finalistico, date dalla legge - il decidere se adottare o non adottare la misura massima tra quelle previste, appunto, per l'esercizio di quel potere. L'esclusione dell'"obbligatorieta' della cattura", nella tradizionale forma del congegno basato sull'automatismo di conseguenze tra la rilevazione di una situazione indiziante e l'adozione del provvedimento limitativo di liberta' personale, era gia' propria del Progetto preliminare del 1978. Ma, rispetto alla disciplina allora configurata - ed ancor piu' rispetto a quella della normativa attuale, pur tanto distante, a sua volta, sul punto, dall'assolutezza del congegno originariamente previsto dal codice Rocco - il testo che si presenta si caratterizza altresi' per l'assenza di qualunque correttivo, sul piano dell'onere della motivazione o sul piano dell'onere di pronunciarsi comunque de libertate, per l'ipotesi, appunto, di reati gravissimi. A questa soluzione si e' giunti per lo scrupolo di non incorrere in una censura di mancato rispetto della volonta' del legislatore delegante, soprattutto in considerazione di un dato: una regola di trattamento particolare era presente nel testo della nuova delega, cosi' come uscito dalla Camera dei deputati nel 1984, ma e' poi stata soppressa nel testo definitivo della legge n. 81 del 1987. La Commissione non ha nascosto peraltro le perplessita' che l'assenza di qualunque regola del genere puo' suscitare, e ha sottolineato la circostanza che nel recente d.d.l. 622/S, presentato dal Governo e contenente "nuove norme in materia di liberta' personale e di garanzie difensive dell'imputato nel processo penale", e' pur proposta una disciplina particolare, nel senso dell'"obbligo di motivazione in caso di non emissione del mandato di cattura per determinati reati"; e cio', sulla falsariga, appunto, di quanto stabiliva al riguardo il Progetto preliminare del 1978. L'esigenza di responsabilizzare particolarmente il giudice quando le imputazioni siano di specialissima gravita', sembra invero innegabile. E' bene tuttavia che, su di una scelta di cosi' alta delicatezza, siano gli organi parlamentari a pronunciarsi, eventualmente chiarendo il significato del silenzio mantenuto sul punto dalla legge-delega o, al limite, integrandone il dettato. Nell'articolo 276 si e' data una soluzione di ordine generale al problema delle conseguenze dell'inosservanza delle prescrizioni che costituiscono il contenuto delle singole misure diverse dalla custodia cautelare. Vi si afferma il principio della possibilita' di cumulo delle misure e della sostituibilita' della misura originaria con altra piu' grave, ad evitare che le prescrizioni de quibus finiscano per restare soltanto sulla carta. Non si tratta, peraltro, di un cumulo o di una sostituzione di carattere automatico, perche' si e' ritenuto che le caratteristiche della trasgressione possano in certi casi essere tali da far ritenere sproporzionata una reazione giudiziaria in quei termini. Pure qui, dunque, la logica e' quella della "discrezionalita' guidata", con la necessita' di fare riferimento all'entita', ai motivi ed alle circostanze della violazione delle prescrizioni. Nella seconda parte della disposizione si precisa d'altronde che la diversita' tra le misure coercitive e quelle interdittive non impedisce la sostituzione ne' l'aggiunta delle prime alle seconde quando siano violate queste ultime; il che e' volto a chiarire che la stessa custodia cautelare puo' essere disposta in luogo di una misura interdittiva (od in aggiunta ad essa) quando questa si riveli inefficace ad assicurare la tutela cautelare in vista della quale e' stata disposta. Si e' invece ritenuto - anche in seguito a rilievi venuti dall'ambito forense - che non fosse opportuno mantenere una disposizione quale quella inserita nell'art. 265 del Progetto del 1978, la quale fissava in termini generali una regola di esclusione del cumulo fra le misure, salvi i casi previsti dalla legge: si e' infatti opinato che, considerata la "naturale" incompatibilita' tra alcune misure (ad esempio, tra gli arresti domiciliari e l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria) la previsione avrebbe avuto una portata assai limitata; si sarebbe insomma tolta giustificazione alla riduzione della discrezionalita' nell'adeguamento dell'esercizio del potere cautelare alle esigenze dei singoli casi concreti, conferita al giudice dall'art. 275 al fine, tra l'altro, di rendere davvero residuale il ricorso alla custodia cautelare. Anche l'articolo 277 ha subito qualche ritocco rispetto alla formulazione ricevuta nel corrispondente art. 266 del Progetto del 1978. Nel testo che ne risulta, piu' ancora che nella precedente formulazione, si e' invero finito per dar spazio a ragioni di prevenzione contro possibili strumentalizzazioni che venissero a vanificare il perseguimento degli scopi delle misure cautelari. Non si vorrebbe tuttavia che cio' facesse dimenticare le ragioni di principio che stanno alla base dell'inserzione di una norma del genere nel codice: la ratio di norme come queste resta quella di affermare in via generale un principio di civilta' elementare ma non tanto ovvio da essere sempre osservato, per cui deve darsi preminenza alla tutela della personalita' dell'individuo, anche se detenuto, salvo che ci si trovi di fronte a motivi davvero cogenti e tali da giustificare specificamente certe restrizioni. Scopo della disposizione rimane, in sostanza, quello di dare sviluppo e maggiore determinazione a quanto gia' indicato, in termini generalissimi, dall'art. 1 comma 3 l. 26 luglio 1975, n. 354. Deve aggiungersi che la disposizione si riferisce anche, ovviamente, alla custodia cautelare. In materia trova d'altronde applicazione pure la piu' specifica norma dell'art. 285 comma 2, la quale, a sua volta, si giustifica per la particolare incidenza sulla liberta' personale che gia' comporta l' iter di traduzione della persona al luogo in cui la custodia deve avere stabile esecuzione. L'articolo 278 e' costruito sulla falsariga dell'art. 255 c.p.p., tenendosi conto del carattere vincolato che, almeno per una sua parte, la disciplina veniva ad assumere, in relazione ai criteri rigidamente fissati dalla direttiva 59 della legge-delega, del resto in armonia con quanto appunto previsto dalla normativa attuale. Tra le poche varianti - a parte quelle che si risolvono in una mera differenziazione stilistica nella costruzione della frase - si segnalano, da un lato l'esplicita sottolineatura dell'ininfluenza della continuazione nel computo della pena da calcolare, dall'altro l'omissione del riferimento alla rilevanza della circostanza della minore eta' (che, essendo esclusiva dei processi contro minorenni, si e' ritenuto dovesse essere menzionata soltanto nelle disposizioni specificamente concernenti, appunto, il processo penale minorile). L'articolo 279 riguarda le competenze funzionali di settore. La prima parte della disposizione mantiene e generalizza la regola gia' formulata dall'art. 267 del Progetto preliminare del 1978, cumulando esplicitamente in una sola previsione le attribuzioni relative ai vari provvedimenti in materia cautelare. Nella sua seconda parte, che si riferisce alla fase delle indagini preliminari, la disposizione per un verso conferma poi la soluzione - ancor piu' avvalorata da quanto stabilisce in proposito la nuova legge-delega - dell'esclusione di una legittimazione autonoma del pubblico ministero (i cui poteri "d'urgenza" sono ridotti nell'ambito della dinamica del fermo: cfr. art. 382); per altro verso - e pure qui, in stretta correlazione con un'inequivoca scelta di ordine generale della nuova delega - viene a sostituire la competenza del giudice istruttore (figura destinata a scomparire dalla nuova intelaiatura del processo penale) con quella del giudice competente, in via generale, per le decisioni attinenti alla fase de qua. CAPO II MISURE COERCITIVE I capi II e III sono dedicati alle singole misure cautelari personali che, secondo le indicazioni delle direttive 59 e 65 della nuova legge-delega, sono ora distinte in misure coercitive e misure interdittive, sebbene siano rimaste sostanzialmente quelle gia' previste nel Progetto del 1978. Ad entrambe le categorie di misure cautelari si applica la disciplina prevista nelle disposizioni generali del capo I. L'area delle fattispecie cui sono applicabili le misure dell'una e dell'altra categoria e' invece ricavabile dagli articoli introduttivi dei rispettivi capi. Nell'articolo 280 e' stato generalizzato, in relazione a tutte le misure cautelari personali del genere coercitivo, lo sbarramento che la leggedelega impone comunque di osservare per tutte quelle limitative di liberta' personale. Ci si potrebbe domandare se sia corretto ed opportuno dare rigida attuazione a tale direttiva anche per misure come il divieto di espatrio, che soltanto adottando un'accezione molto lata di "liberta' personale" possono farsi rientrare in quelle cui si riferisce al riguardo la delega. E' prevalsa comunque la tesi della generalizzazione, nella convinzione che altrimenti le misure meno gravi non si configurerebbero come propriamente sostitutive della custodia cautelare, finendo piuttosto per "aggiungersi" a quest'ultima, a scapito del principio di gradualita'. Coerentemente alla scelta dell'unificazione del limite inferiore di applicabilita', dalla disciplina delle singole misure sono state soppresse le disposizioni che, nel Progetto del 1978, stabilivano quel limite in relazione a ciascuna di esse; sempre dalla disciplina attinente ad ogni singola misura, sono state altresi' espunte le norme concernenti le conseguenze delle trasgressioni alle relative prescrizioni, a loro volta unificate nella normativa dell'art. 276. Cio' detto in via generale, l'illustrazione degli articoli successivi non sembra dover richiedere molto spazio. Quanto all'articolo 281, sul divieto di espatrio, si e' semplificata la tecnica di raccordo con la disciplina dei passaporti e degli altri documenti per l'espatrio, anche in considerazione delle prevedibili evoluzioni che quest'ultima appare destinata a subire. Meramente formali, rispetto alla versione del Progetto del 1978, sono poi - se si prescinde da quanto gia' segnalato - le modifiche apportate al testo dell'articolo 282, in tema di obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Piu' incisive, rispetto al precedente Progetto, sono le modifiche apportate all'articolo 283, concernente il divieto e l'obbligo di dimora. Si segnala soprattutto la nuova formulazione del comma 4, che e' conseguenza della scelta della Commissione di prevedere due misure domiciliari: una piu' blanda, ed accessoria a quella qui disciplinata in via principale, che resta distinta dalla custodia cautelare e la cui durata non e' d'altronde da scomputare dalla durata della pena definitiva; l'altra, piu' "pesante" nelle sue modalita', disciplinata dal successivo art. 284, assimilata in via generale alla custodia cautelare, anche agli effetti di quello scomputo. Ulteriori modifiche sono state apportate nell'intento di recepire le nuove impostazioni risultanti dalle riforme dell'art. 282 c.p.p., conseguenti alla legge 297 del 1985 ed alla legge 8 del 1986. Dopo approfondita discussione, si e' altresi' ravvisata l'opportunita' di riprodurre nell'articolo 284 una disciplina degli arresti domiciliari, sostanzialmente analoga a quella attuale, con la gia' segnalata previsione, nell'articolo precedente, di una figura "minore" ed accessoria all'obbligo di dimora, per una ulteriore, piu' adeguata graduazione delle cautele in relazione alle varie esigenze concrete, anche sul piano dei controlli. Quanto all'articolo 285, appariva scontato l'adeguamento della terminologia alla scelta del legislatore del 1984, con l'uso dell'espressione "custodia cautelare" (la variante "custodia provvisoria", adottata dal Progetto del 1978, aveva soprattutto la funzione di segnare uno stacco rispetto alla tradizionale formula della "custodia preventiva"). Gia' si e' sottolineata, d'altronde, la funzione di spicco che si e' inteso assegnare ad una norma come quella del comma 2 dell'articolo, a sviluppo del principio del "minimo sacrificio" di liberta'. Anche l'articolo 286 si pone in una linea di sostanziale, generale continuita' rispetto al Progetto del 1978, soprattutto nella sua funzione di norma mirante ad evitare che la restrizione carceraria dell'imputato costituisca una sorta di passaggio obbligato prima del trasferimento in una struttura ospedaliera adeguata al suo stato di mente. Rispetto alla formulazione del testo precedente, la versione attuale si sforza d'altronde di tener meglio conto della riforma intervenuta nella legislazione speciale, evitando l'espressione "ospedale psichiatrico" che potrebbe far pensare ad un necessario ricovero nelle strutture psichiatriche giudiziarie. Da segnalare, altresi', la modifica apportata all'individuazione del presupposto fattuale di applicazione della normativa, essendosi sostituito, al riferimento alla situazione del tempus commissi delicti, quello - che e' parso piu' congruo rispetto al carattere processuale e cautelare della misura - alla situazione in atto nel momento in cui la misura stessa ha da essere adottata. CAPO III MISURE INTERDITTIVE Gia' si e' detto delle ragioni che hanno consigliato di raccogliere in un capo apposito la materia; e si e' detto altresi' delle ragioni che hanno portato, in parte a dislocare altrove, in parte a sopprimere le disposizioni costitutive del contenuto originario del capo III del Progetto del 1978 (artt. 278 - 280). Questo capo si apre dunque, ora, con una disposizione - l'articolo 287 - parallela a quella (art. 280) con cui si apre il capo precedente. A differenza di questa, pero', la disposizione che si sta illustrando, nel fissare in via generale i limiti di applicabilita' delle misure interdittive, consente che per ciascuna di esse si prevedano deroghe al riguardo, con riferimento a determinati tipi di reato rispetto ai quali ciascuna misura puo' essere ritenuta legata da un particolare nesso di funzionalita'. E' pure prevista espressamente la possibilita' di limitare l'interdizione a determinati settori dell'attivita' considerata, al fine di contenere, secondo un criterio di stretta necessita', le modalita' concrete di applicazione delle misure. L'articolo 288, concernente la sospensione dall'esercizio della potesta' genitoriale, rimane sostanzialmente immutato rispetto al corrispondente articolo del Progetto del 1978 (art. 273), nella parte in cui descrive la misura, mentre viene modificato quanto ai limiti di applicabilita', coordinandosi la statuizione specifica a quanto previsto in via generale nell'art. 287. Nell'articolo 289, relativo alla sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, si e' esteso l'ambito di applicabilita' delle misure nel caso di reati contro la pubblica amministrazione, ma si e' mantenuta la deroga prevista dal vigente art. 140 comma 3 c.p., che esclude la sospensione provvisoria dagli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare. Quanto all'articolo 290, relativo al divieto temporaneo di esercitare determinate attivita' professionali od imprenditoriali, esso e' stato adeguato all'esigenza di maggior determinatezza gia' espressasi nella introduzione degli artt. 32- bis e 35- bis c.p.. Pure in questo caso sono state altresi' modificate le disposizioni relative ai limiti di applicabilita' della misura, configurandosi la possibilita' di applicazione della stessa in relazione ad imputazioni specifiche, anche al di la' di quanto previsto in via generale dall'art. 287. CAPO IV FORMA ED ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI E' questo il capo comprendente le disposizioni piu' propriamente procedimentali della disciplina concernente l'applicazione delle misure cautelari. Esso si apre con l'articolo 291, il cui comma 1 - che riprende, modificandolo parzialmente, il contenuto dell'art. 282 del Progetto del 1978 - e' diretto ad attuare una precisa ed importante direttiva della nuova legge-delega (direttiva 59): come e' da escludersi una legittimazione ai provvedimenti cautelari in capo al pubblico ministero (salvo il gia' ricordato potere di fermo), cosi' e' da escludersi l'adozione di misure cautelari che prescinda dall'iniziativa del pubblico ministero il quale e', sotto questo profilo, soggetto necessariamente "richiedente" senza legittimazione a disporre, mentre, per converso, il giudice e' soggetto decidente, ma non ex officio. Nel comma 2 del medesimo articolo e' invece prevista una disposizione di carattere piu' particolare, per l'ipotesi - del resto da pensare come non del tutto infrequente - dell'urgenza di provvedere contra libertatem da parte del giudice incompetente. Tale disposizione e' integrativa di quella dell'art. 28, al quale e' d'altronde fatto espresso rinvio per la determinazione degli effetti delle misure disposte da tale giudice. L'articolo 292 descrive i requisiti ed il contenuto dei provvedimenti del giudice, la cui forma di ordinanza e' stata ritenuta piu' congrua di quella del decreto, a sottolineare il carattere, incidentale ma non meramente organizzativo, dei provvedimenti stessi. Nel comma 1 dell'articolo, la disciplina non si discosta da quella gia' dettata nella corrispondente disposizione del Progetto del 1978 (articolo 281), salvo che per una maggior determinatezza di alcune prescrizioni (va del resto ricordato quanto gia' si sottolineava a commento di quella disposizione, e cioe' che la specifica elencazione ivi contenuta non significa che le ordinanze in materia non debbano rispondere, per quanto non espressamente previsto, anche ai requisiti tipici e propri di ogni provvedimento decisorio del giudice): in quella prospettiva si segnala l'integrazione apportata alla norma di cui alla lett. b) del comma 1, per cui - in aderenza, del resto, al testo attuale dell'art. 264 c.p.p. si prevede come necessaria anche l'indicazione delle norme di legge che si assumono violate; ma soprattutto si segnala la maggiore analiticita' richiesta in tema di motivazione, diretta a rendere ancora piu' stringente l'esigenza di particolare rigore a suo tempo affermata, in materia, anche dalla precedente Commissione consultiva. Si e' pertanto venuta a distinguere la motivazione sul presupposto probatorio da quella sulle esigenze cautelari, richiedendosi per entrambe la specificita' e, per la prima, anche l'argomentazione delle ragioni di idoneita' e di sufficienza del fattore indiziante considerato. Poiche' la normativa - gia' nel Progetto del 1978 - prevedeva la nullita' come conseguenza della mancanza di alcuno dei requisiti indicati, si e' ritenuto di dover precisare, nel comma 2, anche il regime di sanatoria relativo, strettamente connesso alla dinamica delle impugnazioni previste in materia in questo stesso titolo. Si e' tuttavia chiarito che l'eventuale sanatoria per mancata deduzione in termini non esclude in ogni caso che la carenza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di applicabilita' o delle esigenze cautelari sia posta alla base della revoca o della sostituzione della misura ai sensi dell'art. 299. Nel comma 3 dell'art. 292 si e' infine fissata una regola, in parte divergente da quella dell'art. 265 c.p.p., circa i limiti entro i quali gli operatori di polizia giudiziaria sono esentati dal dare