(parte 4)
effettivo  della  facolta'  tutelata  dalla  norma violata anziche' a
quello, vago e incerto, del raggiungimento dello scopo.
   L'articolo  184  si  distingue  dal  corrispondente  articolo  del
Progetto del 1978 in quanto non ne ha riprodotto il secondo comma che
estendeva   la  sanatoria  della  comparizione  o  della  rinunzia  a
comparire, al caso di "omissione" dell'atto di  citazione.  Il  testo
attuale  dell'art.  184,  interpretato  anche alla luce dell'art. 179
comma 1, per il quale sono insanabili e rilevate di ufficio  in  ogni
stato  e  grado  del procedimento le nullita' "derivanti dalla omessa
citazione dell'imputato", comporta  quindi  che  la  comparizione  di
questo non varra' a sanare l'omessa citazione.
   Considerata  poi la fondamentale importanza, ai fini della difesa,
della citazione a comparire al dibattimento, si e' ritenuto opportuno
far  si'  che  il  termine cui ha diritto l'imputato comparso al solo
fine di far rilevare la nullita' della citazione medesima  non  possa
essere inferiore a quello previsto in via ordinaria dall'art. 425.
   L'articolo  185, che disciplina gli effetti della dichiarazione di
nullita', si adegua, con il comma 1, al disposto dell'art. 189 c.p.p.
secondo   cui   la   nullita'   di  un  atto  rende  invalidi  quelli
"consecutivi" che da  esso  dipendono.  Anche  se  il  corrispondente
articolo   del   Progetto   del   1978  aveva  soppresso  il  termine
"consecutivi" riducendo la  formula  agli  "atti  che  dipendono"  da
quello   dichiarato   nullo,  si  e'  ritenuto  opportuno  conservare
l'espressione tradizionale come  la  piu'  idonea  a  esprimere  quel
rapporto  di dipendenza causale e necessaria, logica e giuridica, che
deve intercorrere fra l'atto successivo e quello dichiarato nullo.
   Aderendo  invece  all'art.  176  del  Progetto  del 1978, e' stata
omessa, in  quanto  superflua,  la  seconda  parte  del  primo  comma
dell'art.  189  c.p.p.  nella quale si dichiara che la nullita' della
notificazione "rende nullo il  decreto  di  citazione".  E'  evidente
infatti  che  nella  fattispecie  complessa (a formazione successiva)
della "citazione", costituita dal decreto e dalla  sua  notifica,  la
nullita'  di  quest'ultima  rende il primo incapace di raggiungere lo
scopo assegnatogli dalla legge.
   I  commi  2  e  3  riguardano  la  dichiarazione  di  nullita', la
rinnovazione dell'atto e la  eventuale  conseguente  regressione  del
procedimento.
   Quanto  alla rinnovazione dell'atto dichiarato nullo, va osservato
che essa e' prevista solo se necessaria e  possibile.  E'  appena  il
caso  di  osservare  che essa risultera' "non necessaria" qualora gli
elementi che  doveva  fornire  l'atto  nullo  siano  stati  acquisiti
aliunde   o   qualora   l'evolversi  del  processo  abbia  dimostrato
l'inutilita' dell'atto; risultera' "impossibile" quando non  esistano
piu' gli elementi indispensabili per la sua ripetizione.
   Cio'  che  maggiormente  interessa  rilevare e' il fatto che se la
rinnovazione non presenta particolari problemi qualora venga disposta
dallo  stesso  giudice  che  ha compiuto o dinnanzi al quale e' stato
compiuto  l'atto  nullo,  puo'  risultare  invece  complessa  se   la
dichiarazione  di  nullita'  avviene  in  una fase diversa rispetto a
quella in cui la nullita' si e' consumata. Quest'ultima ipotesi  pone
infatti  il problema della regressione del processo dalla fase in cui
la nullita' e' dichiarata a quella in cui si e' verificata.
   Ad  evitare,  per quanto possibile, l'eccessiva dilatazione che il
fenomeno della regressione  spesso  assume,  ci  si  e'  ispirati  al
criterio  - gia' seguito dal Progetto del 1978 - che il processo deve
regredire alla fase in cui si e' verificata la nullita' solo nel caso
in  cui  il  compimento dell'atto nullo rientra nell'esclusivo potere
del giudice  di  tale  fase.  Il  che  vale  per  i  cosiddetti  atti
propulsivi,  a  cui  si  riferisce  il comma 3, che peraltro fa salve
diverse disposizioni di legge;  non  vale  invece  per  gli  atti  di
acquisizione  probatoria, per i quali il comma 4 esclude un qualsiasi
effetto di regressione e che pertanto, quando sia  necessario  (cioe'
si  tratti  di  prove  utili  e  rilevanti ai fini della decisione) e
possibile (cioe'  si  tratti  di  prove  oggettivamente  ripetibili),
debbono   essere  rinnovati  -  salvo  ovviamente  per  la  Corte  di
cassazione - dallo stesso giudice che ha dichiarato la nullita'.
   L'articolo  186 disciplina la materia oggetto dell'art. 186 c.p.p.
non limitando pero' la normativa  alla  sola  imposta  sul  bollo  ma
facendo riferimento a qualsiasi imposta e tassa.
                              LIBRO III
                                PROVE
   Il  tema  della  prova e' risultato tra i piu' impegnativi, per la
grande importanza che la disciplina dei modi  e  degli  strumenti  di
convincimento  del  giudice  assume  nel  sistema  del nuovo processo
penale. Il carattere accusatorio del nuovo ordinamento processuale  -
pur con tutte le riserve che derivano dalla polivalenza della formula
nel linguaggio degli studiosi e degli operatori giudiziari - non puo'
non  tradursi  quanto meno in una piu' incisiva ingerenza delle parti
nel momento di formazione della prova,  e  quindi,  in  una  maggiore
attenzione  sul  piano legislativo al rispetto, da parte del giudice,
delle norme che descrivono  il  procedimento  probatorio.  Avendo  la
nuova  legge-delega riconfermato l'opzione per il modello processuale
accusatorio, l'impianto del libro III non si  discosta  sensibilmente
da  quello  del  Progetto preliminare del 1978. Possono quindi essere
riconfermate le linee di ricostruzione  del  sistema  espresse  nella
precedente Relazione.
   E'  stata  cosi' mantenuta l'adesione alle tre direttrici di fondo
che caratterizzarono l'impegno di esercizio  della  delega  nel  1978
relativamente   alla  materia  delle  prove.  La  prima  riguarda  la
creazione di una sostanziale unita'  delle  regole  probatorie  e  la
scelta della collocazione del corpus normativo che vi si riferisce in
seno al codice. Smembrata in due  tronconi  inseriti  rispettivamente
nel libro dell'istruzione e, in minor misura, in quello sul giudizio,
la disciplina del fenomeno probatorio non riesce nel codice vigente a
guadagnarsi  tutta  l'attenzione che merita da parte dell'interprete,
indotto a privilegiarne  l'aspetto  "procedurale".  Nel  Progetto  la
materia  e'  invece raggruppata in una compatta articolazione che da'
il dovuto rilievo al "diritto delle  prove  penali":  dall'osservanza
delle  forme  e  del  modus  procedendi  in  questo  settore  dipende
l'accertamento della  colpevolezza  dell'imputato,  non  soltanto  la
sorte di una tappa interlocutoria della vicenda processuale.
   Ripudiata  la  frantumazione della normativa, le norme sulle prove
avrebbero potuto essere inserite nel libro sul giudizio, in  modo  da
sottolineare   il  legame  inscindibile  tra  prova  e  dibattimento,
connotato qualificante del nuovo processo. Si  e',  pero',  preferito
collocare  il  nuovo corpus di norme nella prima parte del codice, in
un libro a se', destinato a seguire quello  degli  atti  processuali,
cosi'  da segnalare il valore tutto particolare che gli strumenti del
convincimento rivestono a fronte degli  atti  che  danno  impulso  od
esauriscono lo svolgimento del processo.
   La  seconda  direttrice  di  fondo seguita nell'elaborazione della
materia emerge dalla scelta in favore di una normativa generale sulle
prove.  Piu'  che  mai  carente si presenta, sotto questo profilo, il
testo del codice vigente la cui reticenza e' testimoniata dalle norme
che alludono solo incidentalmente od indirettamente (cfr. artt. 158 e
308  c.p.p.)  ad  un  principio  basilare,  come  quello  del  libero
convincimento   del   giudice,   che   esige   invece  una  esplicita
formulazione, del resto presente in tutte  le  codificazioni  moderne
(v.  art.  427  c.p.p.  francese; (Paragrafo) 261 Strafprozessordnung
della Repubblica Federale di Germania).
   Il  dissolvimento  delle  regole  sulla  prova  nel nostro diritto
processuale penale ha origini che non e' certo possibile scandagliare
in  questa  sede.  Val  la pena, tuttavia, di ricordare come gia' sul
finire del secolo scorso fosse apparsa chiaramente,  agli  occhi  dei
riformatori  del  processo  penale,  l'esigenza  di  reagire a questo
orientamento, in modo da restituire al diritto  probatorio  il  posto
centrale  che  gli  competeva nella regolamentazione legislativa. Nel
progetto di un nuovo codice di procedura penale  redatto  sul  finire
del  secolo  scorso  da  Garofalo  e  Carelli,  due  tra i principali
esponenti della Scuola positiva, si lamentava che  il  codice  allora
vigente  contenesse  una  normativa  lacunosa, limitata in sostanza a
"disposizioni  quasi  regolamentari  sul  modo  di  raccogliere   gli
elementi  di  prova".  E  la  ragione  di  questa  evasivita'  veniva
lucidamente individuata in questo modo: "a poco a poco, come reazione
alle  esagerazioni  della  teoria della prova legale si e' infiltrata
l'opinione che la convinzione del giudice  penale  non  debba  essere
determinata  da alcuna norma, debba essere solo la conseguenza di una
impressione e quasi di una ispirazione imprecisabile".
   Nel  codice  di  procedura  penale  del  1930 la situazione non e'
cambiata di molto. E' parso percio' necessario  mettere  a  frutto  i
risultati  del rifiorire degli studi sulla prova nel processo penale,
unitamente alle chiare indicazioni della legge-delega, per fornire un
quadro   preciso   dei   precetti   generali   cui   si   ispira   la
regolamentazione del fenomeno probatorio. Il  "diritto  alla  prova",
rafforzato  nel  sistema della legge-delega dalla particolare tecnica
dell'esame incrociato (cfr.  direttive  69,  72,  73  e  75),  assume
nell'ottica  del  legislatore delegante un rilievo cosi' rimarchevole
da far pensare che non  sia  corretto  relegarlo  nella  serie  delle
disposizioni dedicate alla disciplina analitica dei singoli mezzi, ma
che sia invece necessario elevarlo al rango di disposizione  generale
accanto  a  quelle  norme  che formano l'ossatura logica o fissano le
garanzie costituzionali del procedimento probatorio.
   Il  terzo profilo dell'orientamento sistematico seguito investe la
classificazione delle norme secondo la dicotomia mezzi di prova mezzi
di  ricerca  della prova. Al riguardo, non si e' mancato di rilevare,
nel corso del dibattito in Commissione, il  rischio  di  ricadere  in
partizioni   che  vengono  ad  incidere  su  una  materia  da  sempre
contrassegnata da usi  linguistici  fluttuanti  ("prova",  "fonte  di
prova",  "mezzo  di  prova")  nell'ambito dei quali non e' certamente
facile  pervenire  a  risultati   soddisfacenti   sul   piano   della
nomenclatura.  Tuttavia,  poiche'  lo stesso legislatore delegante ha
mostrato una  decisa  propensione  ad  introdurre  graduazioni  nella
tipologia  dei veicoli probatori (v., ad esempio, nella direttiva 31,
la qualificazione di "fonte di  prova"  riservata  all'oggetto  delle
operazioni  compiute dalla polizia giudiziaria e, nella direttiva 52,
la locuzione "elementi ai fini della decisione" in  sede  di  udienza
preliminare), e' sembrato corretto prospettare una distinzione che ha
un duplice fondamento, logico e  tecnico-operativo.  Sotto  il  primo
profilo,  non  si puo' infatti contestare che tutti i mezzi di cui si
tratta nel titolo II del libro  III  (esame  dei  testimoni  e  delle
parti;  confronti;  ricognizioni;  esperimenti  giudiziali;  perizia;
documenti) si caratterizzano per l'attitudine ad offrire  al  giudice
risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione.
Al contrario, i mezzi di ricerca della prova  non  sono  di  per  se'
fonte   di   convincimento,   ma  rendono  possibile  acquisire  cose
materiali, tracce o dichiarazioni dotate  di  attitudine  probatoria.
L'ispezione  mette capo all'acquisizione di un indizio, cosi' come la
perquisizione  ed  il  sequestro  possono  condurre   all'apprensione
materiale di una res sulla quale si puo' fondare il convincimento del
giudice. In maniera analoga opera  l'intercettazione  telefonica  che
consente  di  venire  a  conoscenza di dichiarazioni rilevanti per il
processo.
   Dal  punto  di vista tecnico-processuale, i mezzi di ricerca della
prova si caratterizzano altresi' in quanto, mirando a  far  penetrare
nel  processo  elementi  che preesistono all'indagine giudiziaria, si
basano sul fattore sorpresa e non consentono percio', per loro stessa
natura,  il preventivo avviso ai difensori quando sono compiuti nella
fase delle indagini (una importante  eccezione  e'  pero'  costituita
dagli  atti  di ispezione, per i quali l'art. 363 prescrive l'avviso:
si e' infatti interpretata in tal senso la volonta'  del  legislatore
delegante,  espressasi  in una significativa modifica della direttiva
38, intervenuta nel passaggio del testo dalla Camera al  Senato).  La
prova  e' in questi casi precostituita, non deve cioe' essere formata
nel processo, come per le testimonianze, le perizie e gli esperimenti
giudiziali,  etc.  La  cura  del  legislatore cade dunque pressocche'
interamente sui modi  di  ricerca  e  di  acquisizione  e  non  sulle
modalita'  di  assunzione,  come per gli atti appartenenti alla prima
classe.
   Non  v'e' dubbio che tutte le disposizioni contenute nel libro III
trovino applicazione nella fase  del  dibattimento  e  nell'incidente
probatorio, che la legge-delega ha costruito come anticipazione della
plena  iurisdictio  all'interno  delle   indagini   preliminari   (v.
Relazione  sen.  Coco  al  Senato,  p.  10; Relazione on. Casini alla
Camera dei deputati, p. 11). Problema piu' complesso e piu' delicato,
alla  luce  delle  direttive  tracciate  dal Parlamento, e' quello di
determinare l'ambito di operativita'  delle  norme  sulle  prove  nel
corso  delle indagini preliminari e in sede di chiusura delle stesse,
sia per quanto attiene all'attivita' della polizia giudiziaria e  del
pubblico ministero, sia per quanto riguarda i provvedimenti demandati
dal nuovo sistema al giudice.
   Sul  punto,  l'impegno  ad un approfondimento delle linee di fondo
desumibili dall'intero  impianto  della  legge-delega  ha  consentito
soluzioni  volte  a  fondere esigenze di funzionalita' e coerenza del
sistema con l'aderenza al  modello  processuale  messo  a  punto  dal
Parlamento.
   Pur  nella  fedelta'  alla  nomenclatura  della  legge-delega  che
ricollega  il  concetto  di   prova   alle   attivita'   propriamente
giurisdizionali,  utilizzando  invece  le  locuzioni "fonti di prova"
(direttive 31 e 52) ed "elementi" (scilicet: di prova) (direttive  3,
44,  52,  59)  relativamente  agli  atti ed ai provvedimenti inseriti
nelle indagini preliminari (v., ad es. artt. 291 comma  1  e  348  in
rubrica;  art.  418 comma 2), non si e' ritenuto che la "degradazione
lessicale" operata dal legislatore  delegante  volesse  esprimere  un
totale  ripudio  di  qualsiasi  disciplina  dell'attivita' probatoria
nella fase anteriore al dibattimento. E' sembrato invece che il  vero
intendimento  del  Parlamento fosse quello di escludere la diretta ed
immediata utilizzabilita' degli atti compiuti fuori dal  giudizio  ai
fini della decisione sul merito dell'imputazione.
   Di   qui  due  importanti  corollari.  Anzitutto  le  disposizioni
contenute nel libro III si osservano, in quanto applicabili, in  sede
di  emissione di provvedimenti coercitivi e nell'udienza preliminare,
la' dove il giudice preposto  alla  fase  anteriore  al  dibattimento
(art.  328)  esercita  una  sorta di semiplena iurisdictio, o perche'
manca il contraddittorio (art.  291)  o  perche'  l'intervento  delle
parti  non si esplica con quella pienezza di poteri che e' tipica del
dibattimento (art. 419 comma  8  relativo  all'udienza  preliminare).
Nonostante  la  giurisdizionalita' imperfetta che caratterizza questi
momenti, gli strumenti di convincimento del giudice devono rispondere
ai  parametri  fissati  nelle  disposizioni  del libro III. Cosi' non
potra' essere disposta la custodia cautelare dell'indiziato nel  caso
in  cui  la richiesta dal pubblico ministero si basi, ad esempio, sui
risultati  di   una   intercettazione   telefonica   eseguita   senza
autorizzazione e non convalidata (art. 267 comma 2). Allo stesso modo
non potra' essere emesso  il  decreto  che  dispone  il  giudizio,  a
seguito dell'udienza preliminare, qualora il pubblico ministero ponga
a fondamento della sua richiesta i documenti acquisiti  mediante  una
perquisizione illegittima, compiuta in violazione dell'art. 102.
   Parzialmente  diversa  e'  la posizione del pubblico ministero che
procede alle indagini. Nel servirsi dei mezzi di ricerca della  prova
disciplinati dal titolo III, egli e' tenuto a fare applicazione delle
norme ivi contenute, come risulta  anche  dal  ricorrente  uso  della
formula  "autorita'  giudiziaria" nei testi normativi (cfr. artt. 244
comma 2, 247 comma 3 e 253 comma 3). Si tratta del  resto  di  quegli
atti  non  ripetibili che la direttiva 57 della legge-delega consente
di  far  rifluire  nel  dibattimento,  cosi'   da   renderne   palese
l'utilizzabilita' ai fini della pronuncia nel merito.
   Per  quanto  riguarda  invece  i  mezzi  di  prova (titolo II), il
destinatario delle relative norme e',  in  linea  generale,  solo  il
giudice,  sia  perche'  al  pubblico  ministero  e'  fatto divieto di
assumere  alcuni   di   questi   mezzi   (ricognizioni,   esperimenti
giudiziali:  a  contrario ex art. 390), sia in quanto nelle norme che
regolano l'attivita'  del  pubblico  ministero  esiste  una  autonoma
disciplina  di  atti  omologhi  a  quelli previsti nel presente libro
(cfr. art. 360: accertamento tecnico corrispondente alla perizia art.
361:  individuazione  di  persone  e  di  cose,  corrispondente  alle
ricognizioni; art. 362: interrogatorio di persona imputata  di  reato
connesso,  corrispondente all'esame previsto dall'art. 210; art. 375:
audizione  di  persona  informata  sui  fatti,  corrispondente   alla
testimonianza). Infine, per quanto attiene ai confronti, va ricordato
che si tratta di  atto  cui  e'  legittimato  il  pubblico  ministero
(direttiva  37)  - come risulta dall'art. 363 comma 1 - e che ad esso
in forza della tipicita'  dell'atto,  e'  applicabile  la  disciplina
delineata dagli artt. 211 e 212.
   Quanto   alle   disposizioni   generali   (titolo   I),   la  loro
applicabilita'  alle  attivita'  della  polizia  giudiziaria  e   del
pubblico  ministero va verificata tenendo conto della struttura delle
singole disposizioni.
                               TITOLO I
                        DISPOSIZIONI GENERALI
   Il  titolo  I  si  apre  con una norma (articolo 187) che dovrebbe
assolvere una duplice funzione: rispetto al testo del codice vigente,
da un lato, segnalare l'abbandono di una formula giustamente definita
frutto di un'iperbole, come quella contenuta  nell'attuale  art.  299
c.p.p.,  secondo  cui  il  giudice  istruttore deve compiere "tutti e
soltanto quegli atti" che appaiono "necessari all'accertamento  della
verita'";  dall'altro,  fissare il significato di una locuzione usata
dalla stessa legge-delega (v. direttiva 75:  "oggetto  delle  prove")
che  acquista un grande rilevo ai fini della applicazione delle norme
sull'esame diretto  da  attuarsi  in  dibattimento  e  nell'incidente
probatorio.   Sotto   il   primo  profilo,  non  si  vuol  certamente
accreditare l'idea che il nuovo processo non  tenda  all'accertamento
della   verita',   obiettivo   fra   l'altro   richiamato   sia   pur
incidentalmente  dalla  stessa  legge-delega  nella   direttiva   73.
Piuttosto,  facendo della imputazione il nucleo centrale in cui viene
a risolversi l'oggetto della prova, si e' voluto elevare un  baluardo
nei confronti delle deviazioni interpretative scaturite dalla formula
dell'art. 299 codice vigente che, riferite al giudice istruttore,  ma
estesa nella sua valenza operativa anche alla fase dibattimentale, e'
divenuta l'emblema del principio inquisitorio.
   Nel  sistema  della  legge-delega  non  e' piu' concepibile che il
giudice del dibattimento non  abbia  confini  nel  suo  accertamento,
cosi'  da impegnarsi nell'accertamento di fatti e circostanze diversi
da quelli dedotti nell'imputazione dal  pubblico  ministero.  Ne'  e'
pensabile  che  la  spinta alla ricerca della verita' possa condurre,
come oggi avviene,  alla  proliferazione  di  nuove  imputazioni  nei
confronti  di nuovi soggetti in modo da paralizzare ogni accertamento
proprio  nell'ambizione  di  una  completezza  che  e'   praticamente
irraggiungibile in un unico contesto (di qui la revisione dei criteri
in tema di connessione dei procedimenti messa a punto con l'art. 12).
   Non   sarebbe   del   resto  possibile  mantenere  la  nozione  di
accertamento della  verita'  ai  fini  operativi  di  istituti,  come
l'esame  diretto,  che esigono criteri di rilevanza predeterminati ex
lege e non stabiliti in concreto dal giudice  a  seconda  dell'ottica
suggeritagli dallo svolgimento delle indagini.
   Nella formula dell'art. 187 si riassume, dunque, il catalogo degli
episodi che costituiscono il thema decidendum: su  di  essi  si  deve
imperniare   l'attivita'   di   accertamento   del  giudice.  Accanto
all'imputazione, si e' richiamata la classe dei fatti riguardanti  la
punibilita'  del  soggetto,  al  fine  di  ricomprendere tutti quegli
episodi che, sebbene non contestati, possono delinearsi nel corso del
processo  a  seguito  di  iniziative  d'ufficio  o di richieste delle
parti: si pensi alle attenuanti, alle cause di giustificazione,  alle
cause   speciali   di   esenzione   della  punibilita'  nonche'  alla
dichiarazione di abitualita' ed alla conseguente  applicazione  della
misura di sicurezza.
   Con  la  locuzione  "i  fatti  che si riferiscono all'imputazione"
(cfr. invece art. 178 del Progetto 1978: "i fatti o le  circostanze")
si  e'  voluto  alludere  anche  alla prova indiziaria, cioe' ai c.d.
fatti secondari da cui si puo' risalire a quelli oggetto dell'accusa.
   Il   comma   2  estende  l'oggetto  della  prova  ai  c.d.  "fatti
processuali"  (accertamento  di  nullita',  domicilio   o   residenza
dell'imputato,  rapporti  di convivenza ai fini delle notificazioni).
Il Progetto del 1978 non conteneva una  simile  previsione,  ritenuta
superflua,  ma  si e' ritenuto di non trascurare questo profilo della
disciplina  poiche'  talvolta  l'accertamento  dei  fatti  dai  quali
dipende  l'applicazione  delle norme processuali riveste un carattere
di estrema delicatezza.
   Nel  comma  3  dell'art.  187 si e' apportata una leggera variante
alla formulazione della seconda  parte  del  comma  1  dell'art.  299
codice  vigente:  il  richiamo  ai  "danni  prodotti  dal reato" come
oggetto di accertamento e' stato espunto in quanto  ricompreso  nella
locuzione  del  comma  1  dell'articolo  ("fatti  che  si riferiscono
all'imputazione").
   L'articolo  188  recepisce  una  disposizione gia' inserita tra le
regole generali in tema di interrogatorio dell'imputato, dove  l'art.
71  comma  2 reca una formula dello stesso tenore. Lo sdoppiamento si
e'  reso   necessario   al   fine   di   sottolineare   l'estraneita'
dell'interrogatorio  alla  tematica  delle  prove.  Dalle  due  norme
parallele risulta cosi' assicurata, sull'intero fronte dei  possibili
interventi  dell'autorita',  la  tutela  della  liberta'  morale  del
cittadino di fronte a mezzi coercitivi della volonta' o a tecniche di
subdola  persuasione. L'accento cade soprattutto su narcoanalisi, lie
detector, ipnosi e siero della verita' che si ritiene debbano  essere
banditi dalla sede processuale anche per la scarsa attendibilita' che
viene loro generalmente  riconosciuta.  Un'analoga  disposizione,  in
tema  di  interrogatorio dell'imputato, e' contenuta nell'art. 136 a)
della Strafprozessordnung della Repubblica Federale di Germania.
   L'articolo  189  regola  l'assunzione  delle  prove  non  previste
espressamente dalla legge, cosi' lasciando intendere che  il  sistema
non  recepisce  il principio di tassativita' senza peraltro ignorarne
la portata garantistica. Il Progetto del 1978  aveva  invece  escluso
l'utilizzabilita'  di  prove  atipiche  od innominate nell'intento di
rafforzare le garanzie difensive dell'imputato in relazione  a  mezzi
di  accertamento  dei  fatti  di  reato  la cui acquisizione potrebbe
condurre ad errori od abusi  (ad  es.,  tavole  d'ascolto  idonee  ad
intercettare conversazioni tra presenti).
   Riesaminatosi  il  problema  in tutti i suoi profili di politica e
tecnica processuale, si e' scelta una strada intermedia che  consente
al  giudice  di  assumere  prove  non  disciplinate dalla legge ma lo
obbliga a vagliare, a priori, che  queste  siano,  al  tempo  stesso,
affidabili  sul  piano  della genuita' dell'accertamento e non lesive
della liberta' morale della persona. Verificata l'ammissibilita'  del
mezzo  di  prova atipico, il giudice dovra' poi regolarne in concreto
le modalita' di assunzione cosi' da rendere conoscibile  in  anticipo
alle parti l'iter probatorio.
   E' sembrato che una norma cosi' articolata possa evitare eccessive
restrizioni ai fini dell'accertamento della verita', tenuto conto del
continuo    sviluppo    tecnologico    che   estende   le   frontiere
dell'investigazione, senza mettere in pericolo le garanzie difensive.
   Il  comma  1  dell'articolo  190  enuncia  il principio forse piu'
emblematico del nuovo rito accusatorio. La  regola  generale  secondo
cui  le  prove  sono  ammesse  a richiesta di parte ribalta l'attuale
modello inquisitorio imperniato sulla iniziativa  del  giudice.  Essa
estende  la  sua  portata  operativa tanto nella fase dibattimentale,
quanto nell'incidente probatorio  e  nell'udienza  preliminare  (cfr.
artt. 390 e 419 comma 2).
   Il comma 2, nell'introdurre, come eccezione alla regola, l'ipotesi
di iniziativa officiosa del  giudice,  richiama  quelle  disposizioni
che,  per  singoli mezzi di prova (v. ad es. art. 195 comma 2 in tema
di  testimonianza  indiretta)   ovvero   in   relazione   alla   fase
dibattimentale  (v.  art. 500), attribuiscono al giudice il potere di
supplire all'inerzia delle parti.
   Rispetto  al  Progetto del 1978, il nuovo sistema risultante dalle
scelte del Parlamento si presenta con caratteri che ne accentuano  la
natura  di  processo  di  parti  sul  terreno  probatorio. Abolito il
giudice istruttore, cui la delega del 1974  attribuiva  una  immutata
iniziativa  in materia di acquisizione delle prove, la fase anteriore
al dibattimento si connota ora  per  l'assoluta  esclusione  di  ogni
potere  inquisitorio del giudice per le indagini preliminari, sia nel
corso del loro svolgimento (incidente probatorio),  sia  in  sede  di
chiusura  delle  stesse  (udienza preliminare). La direttiva 73 della
legge-delega ("potere del giudice di disporre l'assunzione  di  mezzi
di  prova")  ha  invece  ampliato, per la fase dibattimentale, quella
iniziativa probatoria ex officio che l'art. 478 comma 2 del  Progetto
1978   gia'   prevedeva,   escludendone  peraltro  l'operativita'  in
relazione ai sequestri, alle perquisizioni ed alle testimonianze. Non
risulta  comunque  mutata  la fisionomia complessiva del dibattimento
poiche' la sua struttura di fondo lascia intendere che  i  poteri  ex
officio  rivestono  un  ruolo  residuale  e  suppletivo rispetto alla
carenza d'iniziativa delle parti.
   Il  comma 1 dell'art. 190 enuncia i parametri della valutazione di
ammissibilita' della prova che si articolano su un duplice piano:  in
iure,  con riguardo ai divieti probatori; in facto, in relazione alla
pertinenza della prova  al  thema  decidendum  ricavato  in  base  ai
criteri  fissati dall'art. 187 (cfr. direttiva 9 della legge-delega).
   Il  concetto  di  manifesta  "estraneita'"  della prova, enunciato
dalla direttiva 69 della legge-delega,  e'  stato  interpretato  come
richiamo  alla  nozione di sovrabbondanza dei mezzi di prova, nozione
questa gia' impiegata nel lessico processuale (v. artt. 420 c.p.p.  e
245  c.p.c.). E poiche' la direttiva 75 della legge-delega fa uso del
termine "superfluo", proprio in relazione al fenomeno probatorio,  si
e'  ritenuto  preferibile  utilizzare  quest'ultimo in considerazione
della   sua   stretta    affinita'    semantica    con    l'aggettivo
"sovrabbondante".
   La  locuzione  "senza  ritardo"  (v.  direttiva 69) mira a rendere
obbligatoria per il giudice una decisione sulla  richiesta  di  prova
separata  dalla  pronuncia  che  conclude  la fase dibattimentale. Il
vigente art. 305 c.p.p., concernente i soli provvedimenti del giudice
istruttore,  non  esclude  una  riserva  del giudice da sciogliere in
sentenza. Per il  dibattimento  manca  poi  un'analoga  disposizione,
sicche' la prassi vede moltiplicarsi i casi di omessa pronuncia sulle
istanze di prova (si pensi alla consolidata giurisprudenza  che  sana
il  silenzio sull'istanza di rinnovazione del dibattimento in appello
mediante lo schema della motivazione implicita) determinando un grave
pregiudizio  per  la  difesa  che  non e' posta in grado di conoscere
subito se potra' avvalersi di  una  certa  prova  per  suffragare  le
proprie argomentazioni in fatto. Nel nuovo testo tale prassi dovrebbe
essere stroncata, in modo da rafforzare il diritto alla  prova  nella
sua  dimensione  di diritto di conoscere prima della decisione finale
il quadro probatorio di cui il giudice potra' servirsi  ai  fini  del
suo convincimento.
   Il  comma  3  dell'articolo  190  da' attuazione alla direttiva 72
della  legge-delega  estendendone  la  portata  operativa  anche   ai
provvedimenti  che  non  ammettono le prove richieste dalle parti. La
norma sul diritto alla controprova, applicabile al dibattimento (cfr.
direttiva 75 della legge-delega), e' stata invece collocata nel libro
sul giudizio (art. 489).
   Nello  stabilirsi  (articolo  191)  che le "prove illegittimamente
acquisite" sono "inutilizzabili", si e' inteso designare un  fenomeno
tipico    conseguente   alla   ammissione   di   prove   vietate   in
contrapposizione alla "nullita'",  riservata  alla  violazione  delle
forme  degli  atti processuali. Non si tratta di una novita' in senso
assoluto. Legislazione, dottrina e giurisprudenza hanno negli  ultimi
anni  mostrato  una  chiara  propensione a designare con tale nome la
sanzione per i vizi del procedimento probatorio, nella consapevolezza
degli  inconvenienti  derivanti  dall'uso dello schema della nullita'
nel settore del  diritto  probatorio.  Basta  ricordare  il  disposto
dell'art.  304 comma 3 codice vigente (introdotto dalla l. 5 dicembre
1969, n. 932)  in  forza  del  quale  "non  possono  comunque  essere
utilizzate" le dichiarazioni rese da persone esaminate in qualita' di
testimoni, quando emergano indizi di reita' a loro carico e  non  sia
stato  nominato  un  difensore. Analogamente la norma dell'art. 226 -
quinquies  c.p.p.  (introdotta  dalla  l.  8  aprile  1974,  n.   98)
stabilisce  che  "non  si  puo'  tener  conto"  delle intercettazioni
effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge.
   In  giurisprudenza assume un particolare rilevo la sentenza n. 34/
1973 della Corte costituzionale che  ha  tratto  dall'intero  sistema
garantistico  della Costituzione un divieto di utilizzare i risultati
delle intercettazioni telefoniche non consentite dalla legge, divieto
che  ha  evidentemente  trovato  una pronta eco nella legge del 1974.
Quanto alla  dottrina  processual-penalistica,  non  sono  pochi  gli
autori che hanno avvertito una profonda insoddisfazione circa il modo
di operare della nullita' in rapporto  a  divieti  probatori  che  il
regime  delle sanatorie costringe a ritenere come non scritti, quando
e' acquisita una prova contra legem  (ad  es.   testimonianza  di  un
coimputato  del  medesimo reato: art. 348 comma 3 c.p.p.) ed il vizio
non viene tempestivamente eccepito. Gia' nel Progetto  Carnelutti  si
prevedeva,  sulla  scia di questo dibattito, che "quando una prova e'
formulata mediante atti vietati dalla  legge,  il  giudice  non  puo'
tenerne alcun conto" (art. 62 comma 2).
   Anche  la  legge-delega, sulla scia dell'art. 182 del Progetto del
1978, ha recepito in piu' parti la categoria della inutilizzabilita',
sia  pure  in contesti diversi che fanno riferimento ora ad una sorta
di mancanza o perdita di legittimazione  del  pubblico  ministero  in
ordine  al compimento di certi atti di indagine (v. direttiva 37, per
le intercettazioni non convalidate; direttiva 48 ultima  parte),  ora
ad  un  vizio  intrinseco  dell'atto  tale da impedirne l'uso ai fini
della decisione (v. direttiva 36: "atti suscettibili di utilizzazione
probatoria",  in relazione ai divieti di utilizzazione, "processuale"
ed "agli effetti del giudizio", fissati dalla  direttiva  31  per  le
dichiarazioni   rese   alla   polizia   giudiziaria   in  particolari
circostanze).
   Mettendo a frutto questo ampio fermento di idee convergente in una
precisa direzione, si e' delineato un regime normativo che esclude in
via generale l'utilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di
uno specifico divieto probatorio. Anche  quando  le  norme  di  parte
speciale     non    prevedono    espressamente    alcuna    sanzione,
l'inutilizzabilita' puo' desumersi dall'art. 191  comma  1  la'  dove
siano  configurabili  veri  e  propri  divieti  probatori.  A  titolo
d'esempio  si  possono  ricordare   l'art.   197,   in   materia   di
incompatibilita'  a  testimoniare,  e l'art. 234 comma 3, concernente
documenti su voci correnti nel pubblico.  Al  di  la'  della  diversa
espressione  adottata  ("non  possono essere assunti come testimoni";
"e' vietato") ricorre in  entrambi  i  casi  un  divieto  probatorio,
trasgredito  il quale scatta la sanzione prevista dall'art. 191 comma
1: i risultati della prova non sono in  alcun  modo  utilizzabili  in
ogni  stato  e grado del procedimento, quale che sia il comportamento
della parte interessata a far rilevare la violazione (v. il  disposto
del  comma  2  nonche'  l'art.  599  comma  1  lett.  c). Allo stesso
trattamento devono essere assoggettati gli  atti  che  singole  norme
definiscono  inutilizzabili (cfr., ad esempio, art. 195 comma 3; art.
271).
   L'articolo  192  conferma  la  scelta  in favore del principio del
libero convincimento del giudice di cui offre una formulazione che in
parte  ricorda il disposto dell'art. 116 c.p.c. Decisamente nuovo e',
pero', il  raccordo  tra  convincimento  del  giudice  e  obbligo  di
motivare:  su  un  piano  generale,  esso  mira  a segnalare, anche a
livello legislativo, come la liberta' di  apprezzamento  della  prova
trovi un limite in principi razionali che devono trovar risalto nella
motivazione; sotto un profilo piu' strettamente operativo,  il  nesso
vuol  far  risaltare  il contenuto della motivazione in fatto, che si
esprime nella  enunciazione  delle  risultanze  processuali  e  nella
indicazione   dei   criteri  di  valutazione  (massime  d'esperienza)
utilizzati per vagliare il fondamento della prova  (cfr.  anche  art.
539 comma 1 lett. e).
   Il  comma  2  introduce  nel diritto processuale penale una regola
operante nel  processo  civile  in  virtu'  dell'art.  2729  c.c.  E'
sembrato  opportuno  che  in una materia di cosi' grande rilievo come
quella investita dal giudizio penale intervenga una regola che  serva
da  freno  nei  confronti  degli  usi  arbitrari  e indiscriminati di
elementi ai quali, sul piano logico, non e'  riconosciuta  la  stessa
efficacia persuasiva delle prove.
   Con la disposizione racchiusa nel comma 3 si e' inteso fissare una
regola  di  giudizio  destinata  ad   operare   con   riguardo   alle
dichiarazioni  rese  dai  coimputati del medesimo reato o di un reato
connesso. E' ben noto il dibattito che attorno a questo  tema  si  e'
sviluppato  negli  ultimi  anni tra operatori e studiosi del processo
che hanno  insistito  sulla  necessita'  di  circondare  di  maggiori
cautele  il  ricorso  ad una prova, come quella proveniente da chi e'
coinvolto negli stessi fatti addebitati all'imputato  o  ha  comunque
legami  con  lui,  alla  luce  della  sua attitudine ad ingenerare un
erroneo convincimento giudiziale.
   Sulla  scia  delle  esperienze  dei  paesi  in cui vige il sistema
accusatorio, nel quale la valutazione della  accomplice  evidence  e'
accompagnata  dalla  c.d.  corroboration,  e raccogliendo altresi' le
indicazioni  provenienti  dalla   giurisprudenza   della   Corte   di
cassazione,  che  ha  sancito  il  principio del necessario riscontro
probatorio della chiamata di correo, si e' ritenuto di  formulare  la
norma  in  chiave di regola sulla valutazione delle prove, escludendo
cosi'  che  le  dichiarazioni  del  chiamante  in  correita'  possano
qualificarsi  ex  lege  come  elementi  probatori  inutilizzabili. Il
concetto di "valutazione unitaria" postula l'impegno del  giudice  ad
indicare  nella  motivazione  del provvedimento le prove o gli indizi
che corroborano la chiamata di correo. Ne deriva che  l'omesso  esame
degli  elementi  capaci  di  offrire  il riscontro alle dichiarazioni
incriminanti si traduce in  un  difetto  di  motivazione,  rilevabile
anche  davanti al giudice di legittimita' a norma dell'art. 599 comma
1 lett. e).
   L'articolo  193  riproduce, con una formulazione piu' restrittiva,
il disposto dell'art. 300 c.p.p. stabilendo che  i  limiti  di  prova
propri  della  legge  processuale  civile  si  osservano  solo  nella
decisione delle questioni pregiudiziali civili attinenti  allo  stato
di famiglia e di cittadinanza (v. art. 3).
   A  seguito  dell'orientamento  assunto  dalla Commissione sul tema
degli incidenti di falso  (che  si  e'  deciso  di  non  disciplinare
espressamente  al  fine  di  far intendere come nel nuovo processo il
giudice  penale  possa  disattendere  anche  il  contenuto  di   atti
assistiti  da  efficacia privilegiata ex art. 2700 c.c.), i limiti di
prova dettati dalla legge civile non dovranno trovare applicazione  a
differenza  di quanto oggi risulta dal combinato disposto degli artt.
215 e 308 c.p.p. - nemmeno in relazione agli atti  pubblici  (per  la
disciplina che ne consegue, v. sub art. 241).
                              TITOLO II
                            MEZZI DI PROVA
                                CAPO I
                            TESTIMONIANZA
   L'articolo 194, dopo aver fatto rinvio alla regola generale per la
determinazione dell'oggetto  dell'esame  testimoniale,  contiene  una
serie  di norme tutte attinenti ai limiti dell'oggetto di tale prova,
che il codice attuale raccoglie,  impropriamente,  assieme  ad  altre
(art.  349  commi  2, 3, 4 e 5), sotto la rubrica "Regole per l'esame
testimoniale".
   In particolare, il comma 2 prevede alcuni temi d'esame finalizzati
a valutare la credibilita' del testimone e,  in  corrispondenza  alla
seconda   parte   del  comma  5  dell'attuale  art.  349  c.p.p.,  la
personalita' dell'offeso dal reato.
   L'articolo   195,   che   si   richiama  alla  direttiva  2  della
legge-delega ("adozione del metodo  orale"),  circonda  delle  dovute
cautele  la  testimonianza indiretta, al fine di consentire una cosi'
delicata forma di testimonianza solo quando  sia  reso  possibile  un
qualche  controllo  sulla  fonte  della conoscenza. Pur tuttavia, una
volta fatta salva la condizione minima che la testimonianza de relato
in  tanto  e'  utilizzabile  in quanto venga indicata la persona o il
documento da cui e' stata  tratta  la  conoscenza  delle  circostanze
riferite  (cfr.  ultimo comma), la regola generale trova un opportuno
temperamento per il caso che la persona dalla quale il  testimone  ha
conosciuto cio' su cui depone non possa essere esaminata nello stesso
processo per morte, sopravvenuta infermita'  fisica,  irreperibilita'
od assenza dal territorio dello Stato (comma 3).
   L'assunzione  del  testimone  che abbia una diretta conoscenza dei
fatti  e'  doverosa  solo  quando  una  parte  ne  faccia  richiesta.
L'inosservanza  di  un  simile  obbligo  comporta l'inutilizzabilita'
delle  dichiarazioni  rese  de  relato.  Resta  salva,   invece,   la
legittimita'  dell'uso della testimonianza indiretta quando manchi la
richiesta di parte ed il giudice ritenga di non attingere alla  fonte
diretta delle informazioni (cfr. comma 2).
   Il  disposto  del  comma  4 da' attuazione alla direttiva 31 della
legge-delega che mira a garantire,  ad  un  tempo,  l'oralita'  della
prova e il diritto di difesa.
   La  norma  del  comma  6  costituisce  un necessario corollario di
quanto prescritto negli artt. 200 e 201  senza  il  quale  la  tutela
delle   situazioni   di   segretezza  considerate  in  queste  ultime
disposizioni, fuori dei casi di comportamenti  incompatibili  con  il
mantenimento  del segreto, potrebbe essere facilmente aggirata in non
poche e non infrequenti ipotesi (cfr. del  resto,  gia'  nel  vigente
codice,  l'art.  319  comma  3  e, ancor piu' chiaramente, l'art. 246
comma 1 c.p.p. del 1913).
   Sotto  la  rubrica  "capacita'  di  testimoniare"  l'articolo  196
disciplina, nel comma 1, l'idoneita' giuridica ad assumere  la  veste
di  testimone, che al pari dell'art. 348 c.p.p. vigente, si riconosce
ad "ogni persona", mentre  nel  comma  2  si  prevedono  i  modi  per
accertare  la  capacita' fisica e mentale di un soggetto ad assolvere
l'ufficio di testimone, prescrivendosi che tali accertamenti  debbono
essere  disposti  quando siano necessari per valutare la credibilita'
delle dichiarazioni testimoniali e che  si  debbono  svolgere  con  i
mezzi  consentiti dalla legge nelle varie disposizioni concernenti le
attivita' di prova.
   Nell'ultimo  comma e' scandito il rapporto fra capacita' giuridica
e capacita' psico-fisica a testimoniare: l'accertamento  negativo  in
qualsiasi grado della prima non pregiudica in alcun modo la seconda e
spetta in ogni caso al giudice valutare in concreto  la  credibilita'
dei testimoni, come gia' e' statuito nel comma 2 dell'art. 348 c.p.p.
   Con  l'articolo  197  si e' inteso porre una normativa precisa dei
casi di incompatibilita' con l'ufficio di testimone, che non  trovano
esplicita ed organica disciplina nel codice vigente.
   Nella  lettera  a)  del  comma  1  si e' previsto, diversamente da
quanto disposto nell'art. 348 comma 3 c.p.p., che "i coimputati dello
stesso  reato  o  di  un reato connesso a norma dell'articolo 12" non
possano essere assunti come testimoni, soltanto sino a che conservino
tale loro qualita'.
   Oltre questo limite, contrassegnato dalla pronuncia della sentenza
irrevocabile  di  proscioglimento,  assoluzione  o  condanna,  si  e'
ritenuto  che la persistenza dell'incompatibilita' a testimoniare per
tali soggetti non sarebbe giustificata da ragioni  di  tutela  contro
autoincriminazioni  (gia'  apprestata  in  via generale dall'art. 198
comma 2) e sottrarrebbe inopportunamente una  fonte  probatoria  alla
libera  valutazione  del giudice, ledendo il diritto alla prova degli
altri imputati, che dal persistere della  limitazione  si  vedrebbero
privati di un mezzo probatorio talora non altrimenti sostituibile.
   Si  e' ritenuto di tener ferma questa disposizione, gia' contenuta
nel Progetto del 1978 (art. 188), considerando che l'interesse di  un
soggetto  in  ordine all'oggetto del processo non deve essere, di per
se', motivo di esclusione  della  sua  testimonianza,  ma  puo'  solo
costituire  uno  dei  tanti elementi di giudizio di cui il giudice si
deve avvalere nell'apprezzare l'attendibilita' della prova.
   Ne'  puo' indurre a riproporre la normativa oggi vigente (art. 348
comma  3  c.p.p.)  la  considerazione  che  soggetti  condannati  con
sentenza  divenuta  irrevocabile  possono  strumentalizzare  la  loro
testimonianza per precostituirsi una prova nuova su cui  fondare  una
domanda di revisione: tale domanda, infatti, e' soggetta a una previa
delibazione, idonea a stroncare simili eventualita', del resto  assai
remote.
   Quanto  al  problema  della acquisizione del contributo probatorio
del coimputato, in caso di separazione di procedimenti  connessi,  si
e'   riesaminata  la  normativa  tracciata  dal  Progetto  del  1978,
imperniata sulla testimonianza "volontaria" (esame a richiesta) (cfr.
art. 188 comma 2 del Progetto 1978), concludendosi un lungo dibattito
in seno alla  Commissione  con  l'adesione  ad  un  orientamento  non
dissimile  da  quello  previsto  dagli  art.  348- bis e 450- bis del
codice vigente. E' sembrato preferibile, alla luce  della  necessita'
di rendere piu' incisivi ed efficaci gli strumenti per l'accertamento
della  verita',  non  consentire  al  coimputato  di  paralizzare  la
richiesta  della  parte  che  sollecita la sua audizione, mediante la
negazione del consenso a  rendere  le  dichiarazioni.  La  disciplina
dell'interrogatorio  della  persona imputata di reato connesso contro
cui  si  procede  separatamente  (artt.  210  e   362,   concernenti,
rispettivamente,  la  fase  del  dibattimento e quella delle indagini
preliminari) viene cosi' a delineare un assetto  diverso  rispetto  a
quello  fissato  per  i casi di processo cumulativo ove il divieto di
assumere la testimonianza sancito dalla  lett.  a)  e  la  norma  che
attribuisce  all'imputato  il  diritto  di  sottoporsi  all'esame  in
dibattimento solo quando lo ritenga compatibile con il suo  interesse
difensivo (art. 208) impediscono al pubblico ministero di chiamare il
coimputato a rendere dichiarazioni sul fatto del correo contro cui si
procede nel medesimo giudizio.
   Anche  in  tema  di  parte  civile  (art.  197  lett.  b) e' stata
modificata la norma accolta nel Progetto del 1978 che aveva  statuito
l'incompatibilita'  di  questo  soggetto  ad  assumere  l'ufficio  di
testimone in quanto portatore nel processo di un interesse  personale
(art.  188  n.  2).  Si  e'  ritenuto  che  la rinuncia al contributo
probatorio della parte civile costituisce un sacrificio troppo grande
nella ricerca della verita' processuale. L'art. 208, in tema di esame
delle parti, stabilisce ora chiaramente che alla persona  che  agisce
in  sede  penale  per  richiedere  il  risarcimento  del  danno  o le
restituzioni spetta il diritto a non essere sottoposta all'esame solo
quando  non  vi sia la necessita' di assumerne le dichiarazioni nella
veste di testimone.
   Nella lettera c), generalizzando espressamente all'intero arco del
procedimento la norma oggi posta dall'art.  450  comma  2  c.p.p.  in
relazione  alla  fase dibattimentale, e' previsto che chi svolge o ha
svolto determinate funzioni (giudice, pubblico ministero, segretario)
non  possa assumere la qualita' di testimone, mentre e' lasciato alle
norme relative alle specifiche funzioni  di  regolare  i  casi  ed  i
limiti  in  cui  del  loro esercizio non si debba investire chi abbia
deposto come testimone  nello  stesso  processo  (cfr.,  quanto  alla
funzione di giudice, l'art. 35 ultimo comma).
   In  sede  di  disciplina della testimonianza non si e' fatto alcun
cenno al perito ed all'interprete: si  e'  ritenuto  che  rispetto  a
queste  funzioni  debba considerarsi prevalente quella di testimone e
che percio', salvo a risolvere in via  interpretativa  gli  specifici
casi che si dovessero presentare, l'unica norma che si deve affermare
e' nel senso dell'ostacolo a nominare perito od interprete chi  debba
essere  chiamato  a  deporre come testimone (cfr. art. 222 lett. d) e
144 lett. b).
   Nessun  cenno  e' stato fatto al consulente tecnico, perche' si e'
ritenuto che a tale qualifica, risalente ad un  atto  di  parte,  non
possa  essere  attribuito rilievo alcuno nella materia in esame (cade
percio' l'esigenza di riprodurre la norma dell'attuale art. 323 comma
3  c.p.p.).  Quanto  al  difensore,  si e' ritenuto che la disciplina
dell'incompatibilita'    trovi    la    propria    sede     normativa
nell'ordinamento   forense,   essendo   in  gioco  anche  profili  di
deontologia professionale che non  possono  trovare  regolamentazione
nel codice di procedura penale.
   L'articolo  198  statuisce,  nel comma 1, i tre ordini di obblighi
che in via generale fanno carico al testimone,  mentre  enuncia,  nel
comma 2, la cosiddetta garanzia contro l'autoincriminazione.
   Nell'articolo  199  e' delineata la disciplina della testimonianza
dei prossimi congiunti con alcune varianti  rispetto  alla  normativa
attuale  (art. 350 c.p.p.). Anzitutto la locuzione "possono astenersi
dal deporre" e' stata sostituita con la formula "non  possono  essere
obbligati   a   deporre"  per  sottolineare  che  esiste  un  divieto
probatorio la cui violazione rende inutilizzabile la  prova  a  norma
del  comma  1  dell'art.  191.  E'  stata poi estesa la previsione di
questa ipotesi di  esenzione  dall'obbligo  testimoniale  a  soggetti
(coloro  che  sono  legati  all'imputato  da  vincolo  di adozione od
affiliazione, il convivente more uxorio, nonche' i casi di divorzio e
di annullamento del matrimonio, nei limiti, pero', previsti nel comma
3) che, nell'attuale realta' sociale,  sono  legati  all'imputato  da
vincoli di intensita' uguale, nella sostanza, di quelli intercorrenti
fra l'imputato e, alcune delle persone indicate  nell'art.  307  c.p.
Cio'  vale, in particolare, per il convivente more uxorio, situazione
a  proposito  della  quale  la  stessa  Corte  costituzionale,  nella
sentenza  n.  6/1977, ha segnalato che il legislatore se ne debba far
carico in sede di ius condendum; ne' si vede come l'introduzione  del
divorzio  possa  far  ignorare  tale  situazione  sino a considerarla
immeritevole di un riconoscimento del tipo in questione.  Nemmeno  la
complessita'  del relativo accertamento appare decisiva per indurre a
mutare di avviso:  tale accertamento in sede penale non  puo'  essere
piu' difficoltoso di quanto lo sia in altri settori nell'ordinamento,
in cui pure si impone, ne'  puo'  costituire  un  valido  motivo  per
negare rilevanza giuridica a situazioni che di fatto esistono.
   Il riferimento, in questo comma, al coniuge separato dell'imputato
e' evidentemente in funzione limitativa  del  comma  1,  di  per  se'
comprensivo  del coniuge, essendosi ritenuto che per quel soggetto la
facolta' di astensione debba essere  contenuta  entro  i  limiti  dei
fatti verificatisi od appresi durante la convivenza coniugale.
   Tra  i  fatti  che  determinano  il  venir  meno della facolta' di
astensione si e' espressamente prevista,  accanto  alla  denuncia  ed
alla  querela, la proposizione dell'istanza di procedimento. Inoltre,
a proposito delle situazioni in cui offeso dal reato sia un  prossimo
congiunto,  al  fine  di ovviare ad una anomalia dell'art. 350 c.p.p.
comma 2, gia' segnalata in dottrina, si e' dato rilievo a queste  due
precise  ipotesi:  quella  in  cui  offeso  dal  reato  sia lo stesso
testimone prossimo congiunto dell'imputato, e quella  in  cui  offeso
dal   reato   sia   un   prossimo   congiunto   non   necessariamente
dell'imputato, ma del  testimone  (a  sua  volta  prossimo  congiunto
dell'imputato). Infatti, se nella prima ipotesi, essendo all'imputato
addebitato di aver commesso un  reato  in  danno  del  testimone  suo
prossimo  congiunto,  vengono  meno  ragioni di tutela di quei motivi
d'ordine affettivo che giustificano la facolta' di astensione,  nella
seconda  ipotesi  la  concessione della facolta' di astensione non ha
piu' ragion d'essere, posto che analoghi  motivi  d'ordine  affettivo
sono  individuabili  per  il  testimone  nei  confronti  del  proprio
prossimo congiunto offeso dal reato e  richiedono  d'essere  tutelati
mediante l'obbligo testimoniale.
   Per  il caso di omesso avviso da parte del giudice, si e' ritenuto
di far derivare tout court la nullita' della deposizione  (comma  2),
per evitare che un onere di eccepire l'omissione gravi su persone per
lo piu' ignare della facolta' d'astensione.
   Quanto  al  segreto  professionale,  nella  lett.  a)  del comma 1
dell'articolo 200 si e' usata un'unica espressione che, ricalcando la
dizione  dell'art.  8 comma 1 Cost., ricomprenda tutte le confessioni
religiose e, omettendo il richiamo ai "culti  ammessi"  nello  Stato,
non  consenta  piu'  interpretazioni  restrittive  del tipo di quelle
adottate per l'attuale art. 351 n. 1 c.p.p., da alcuni riferito  alle
sole  religioni  (ebraica,  evangelica, ortodossa, copta ed islamica)
dichiarate "culti ammessi" dall'art. 1 della l. 24  giugno  1929,  n.
1159.
   Nel  comma  1  si e' precisato che tutti i soggetti elencati nella
disposizione  non  possono  esimersi  dal  deporre   quando   abbiano
l'obbligo  di  riferire  specificamente all'"autorita' giudiziaria" e
non, come dice  la  disposizione  oggi  vigente,  all'"autorita'"  in
genere.
   Con  l'ultimo  comma si e' data attuazione alla direttiva 70 della
legge-delega, prevedendosi il segreto giornalistico  in  ordine  alla
fonte  delle notizie raccolte nell'esercizio della professione con la
duplice limitazione che si tratti di giornalisti professionisti e che
siano  in  gioco  notizie  di  carattere fiduciario, le uniche per le
quali la legge professionale prescrive  l'obbligo  del  segreto.  Nel
caso  in  cui  il  giornalista  si rifiuti di rivelare la fonte della
notizia, la sua deposizione non puo' essere acquisita ne' le  notizie
sono  in  alcun  modo  utilizzabili ai fini della decisione (art. 195
comma 7); se cosi' non fosse, infatti, si avrebbe l'ingresso  di  una
testimonianza  indiretta senza che si sia in grado di conoscere e, se
possibile, di controllare la fonte di quanto riferito.
   In   tema   di   segreto   di  ufficio,  l'articolo  201  presenta
sostanzialmente tre innovazioni rispetto alla normativa  vigente.  Si
e'  precisato,  anzitutto, che l'esenzione del dovere di testimoniare
motivata dall'esistenza di un segreto di ufficio non opera  nei  casi
in   cui  sussiste  l'obbligo  di  riferire  il  fatto  all'autorita'
giudiziaria.  Si  e'  specificato,  inoltre,  che  la  segretezza  e'
riconosciuta  soltanto  ai  fatti  la  cui  divulgazione e' contraria
all'"interesse della pubblica amministrazione", da valutarsi  secondo
le regole proprie dell'attivita' amministrativa. Infine, si e' esteso
anche a questo campo il potere  di  sindacato  del  giudice  (v.  del
resto,  analogamente,  in  tema di documenti, l'art. 342 ultimo comma
c.p.p.), che potra' vertere su entrambi gli elementi che concorrono a
determinare  il segreto di ufficio: che si tratti di fatti conosciuti
per ragioni  di  ufficio  e  che  la  loro  divulgazione  pregiudichi
l'interesse della pubblica amministrazione.
   La  disciplina delineata nell'articolo 202 per il segreto di Stato
da' attuazione alla direttiva 70  della  legge-delega.  Solo  per  il
concetto  di  "segreto  di  Stato"  l'articolo  in esame fa implicito
rinvio alla l. 24 ottobre 1977, n. 801. Nel  resto  la  normativa  e'
modellata  seguendo  la formulazione letterale della legge-delega che
si discosta  dal  disposto  dell'art.  193  del  Progetto  del  1978,
imperniato  sul  divieto  di esaminare qualsiasi testimone su notizie
oggetto del segreto di Stato indipendentemente dalla sua qualita'  di
pubblico  ufficiale,  pubblico  impiegato  od  incaricato di pubblico
servizio. Anche nel comma  4  e'  stata  recepita  la  dizione  della
legge-delega, ricalcata sulla falsariga della l. n. 801/1977.
   Evidentemente  la  normativa  proposta  vale per il caso in cui il
giudice ritenga necessaria la testimonianza di chi oppone il segreto:
in  caso  contrario,  il  giudice  e'  dispensato  dall'inoltrare  la
richiesta di conferma al presidente del Consiglio, ma cio' equivale a
una   revoca   dell'originario   provvedimento  di  ammissione  della
testimonianza.
   Si  e'  stabilito  un termine di sessanta giorni entro il quale il
presidente del  Consiglio  deve  provvedere  a  confermare  o  no  il
segreto,  precisando  la  conseguenza  (che invece non e' esplicitata
nella l. n. 801/1977) dell'infruttuosa scadenza del termine in chiave
di mancata conferma del segreto.
   Si  e'  previsto, in ossequio alla sentenza n. 86/1977 della Corte
costituzionale, che il presidente del Consiglio con il  provvedimento
di  conferma del segreto comunichi al giudice le "ragioni essenziali"
che stanno a fondamento del segreto.
   La  disciplina  delineata  nell'articolo  203  per gli informatori
della polizia giudiziaria riproduce nella sostanza quella vigente. Si
e'  solo  meglio precisato il divieto di acquisire le informazioni di
soggetti rimasti ignoti e non esaminati a loro volta come  testimoni.
   In  un  primo  tempo la Commissione aveva eleborato una disciplina
ben piu' innovativa, ispirata alle seguenti considerazioni. Posto che
non sarebbe stato in ogni caso opportuno, mediante l'imposizione tout
court di un obbligo di rivelare i nomi di tali soggetti,  privare  la
polizia  di  un  utile  strumento  d'investigazione,  si era ritenuto
necessario  ricercare  un  congegno  che,  rispetto  alla   normativa
vigente,  garantisse, nei limiti del possibile, contro l'eventualita'
che la facolta' di non rivelare i nomi degli informatori fosse  usata
per  sottrarre  al  processo mezzi di prova favorevoli all'imputato o
portasse di fatto all'impunita' di complici. A tal fine, scartata  la
soluzione  di  far  conoscere  al giudice i nomi degli informatori in
camera di consiglio, poiche'  avrebbe  sottratto  al  contraddittorio
processuale   ogni   possibilita'  di  controllo  sulla  loro  fonte,
introducendo una  grave  disarmonia  rispetto  alla  regola  generale
dettata  nell'art.  195,  si  era ricercata una soluzione che tenesse
conto  dei  rapporti  che  il  nuovo  sistema  processuale   dovrebbe
prefigurare  fra pubblico ministero e polizia giudiziaria accentuando
la dipendenza di questa da quello. Confermato quindi il  divieto  per
il  giudice  di  obbligare  gli  ufficiali  e  gli  agenti di polizia
giudiziaria a rivelare i nomi dei propri informatori, si era previsto
che  le notizie da questi fornite venissero comunicate in forma orale
(e non scritta, per evitare che  ne  restasse  traccia)  al  pubblico
ministero  con  il  potere  per  quest'ultimo  di ordinare che gliene
fossero rivelati i nomi solo quando avesse  giudicata  necessaria  la
loro testimonianza.
   L'esclusione  di  una  simile  disciplina non puo' comunque essere
interpretato come divieto per il pubblico ministero di  avvalersi  ai
fini delle indagini delle notizie acquisite dalla polizia giudiziaria
attraverso i suoi informatori, ferma l'inutilizzabilita' delle stesse
da  parte  del  giudice per le indagini preliminari nei provvedimenti
richiestigli dall'organo dell'accusa.
   L'articolo  204  riproduce,  nello  stesso  tenore  letterale,  la
direttiva  70  della  legge-delega  nella  parte   in   cui   esclude
l'operativita'  di  qualsiasi segreto (professionale, di ufficio o di
Stato) in relazione a fatti, notizie o  documenti  riguardanti  reati
diretti all'eversione dell'ordinamento costituzionale.
   Il  comma 1 dell'articolo 205, mentre risolve in senso positivo la
discussa questione della capacita' testimoniale del Presidente  della
Repubblica,  deroga,  entro  un  limite  ben  preciso, alle modalita'
ordinarie di assunzione della prova testimoniale di questo  soggetto,
prevedendo  tassativamente  il  luogo  in  cui  la testimonianza deve
essere assunta.
   Il  comma  2,  anzitutto,  circoscrive  l'ambito delle persone che
possono essere sentite presso  il  loro  ufficio,  anziche'  dove  si
svolge  il  giudizio. Ribalta, pero', i termini della normativa posta
nel comma 1 del vigente art. 356 c.p.p. in quanto stabilisce che,  in
linea  di  principio,  anche  la testimonianza di questi soggetti sia
assunta nei modi ordinari, ma consente che  gli  stessi  chiedano  di
essere  esaminati  non  gia'  in  un  qualsiasi  "luogo  indicato dal
testimone", come recita la disposizione attuale, bensi' nella sede in
cui  esercitano  il  loro  ufficio  per  esigenze  di  "continuita' e
regolarita'" della loro funzione (formula desunta dalla  sentenza  n.
76/1968 della Corte costituzionale).
  Ad analoga considerazione si ispirano le innovazioni introdotte nel
comma 1 dell'articolo 206 per l'esame  di  agenti  diplomatici  e  di
incaricati  di  missione diplomatica all'estero. Il comma 2 di questo
articolo riproduce, invece, la stessa norma contenuta  nell'art.  356
ultimo comma c.p.p. vigente.
   Il  trattamento  processuale della falsa testimonianza e' previsto
nell'articolo  207.  Tale  disposizione   presenta,   rispetto   alla
disciplina  attuale,  profonde  innovazioni,  che  per un verso fanno
proprie le serrate critiche  rivolte  dai  settori  piu'  qualificati
della dottrina alla normativa del codice Rocco e, per un altro verso,
sono conseguenti alla struttura del nuovo processo penale.
   Sotto  quest'ultimo  profilo,  si e' tenuto presente il fatto che,
sia per il giudice per le indagini preliminari, che non e'  investito
di  alcun  potere  di  iniziativa istruttoria, sia per il giudice del
dibattimento, che  vedra'  formarsi  il  materiale  probatorio  nello
svolgersi  di  questa stessa fase, non sara' possibile far ricorso ad
una "verita'" probatoria gia' acquisita per valutare  nel  corso  del
processo     una     singola     testimonianza    in    termini    di
veridicita'-falsita'.
   Tale  constatazione  ha  sconsigliato di riprodurre meccanismi del
tipo di quelli vigenti, che rimettono l'accertamento di una  falsita'
testimoniale  o  ad un giudizio immediato, inscenato quando non si e'
ancora esaurita l'istruzione probatoria di cui tale testimonianza  e'
parte  integrante  (v.  del  resto  l'implicita  esclusione di questa
disciplina nella direttiva 74 della legge-delega) o  ad  un  autonomo
processo  penale condotto da altro giudice, sottraendo addirittura la
valutazione di una prova al giudice del processo nel quale essa debba
essere utilizzata.
   Si  e'  pertanto  ritenuto  che  la soluzione piu' naturale, sotto
tutti gli aspetti,  sia  di  introdurre  una  netta  separazione  fra
valutazione  della testimonianza ai fini della decisione nel processo
in cui e' stata resa ed eventuale persecuzione penale  del  testimone
che abbia deposto il falso, attribuendo al giudice del primo processo
il solo compito di dare  al  pubblico  ministero  notizia  del  reato
quando  ne  ravvisi  gli indizi in sede di valutazione complessiva di
tutto il materiale probatorio acquisito.
   E'  peraltro  evidente  che,  anche in assenza di una tale notitia
criminis, il pubblico ministero  potra'  promuovere  l'azione  penale
contro  il  testimone  in  base a una propria autonoma valutazione di
falsita' della deposizione e in  qualsiasi  momento:  percio',  anche
prima  che  il processo in cui il teste ha deposto sia stato concluso
con sentenza irrevocabile e, al limite, mentre e' ancora in corso  il
relativo dibattimento.
   In  seno  alla Commissione si e' posto il problema se quest'ultima
eventualita' possa essere  fonte  di  inconvenienti,  ma  si  e'  poi
ritenuto  che  tali  situazioni  (per  ovviare alle quali, del resto,
occorrerebbe procrastinare ogni  iniziativa  del  pubblico  ministero
alla  conclusione  con sentenza irrevocabile del processo principale,
con il rischio di una impunita' di fatto per i testimoni  falsi)  non
sono   da   guardarsi   con   preoccupazione;  un'iniziativa  assunta
dall'ufficio del pubblico ministero in  assenza  di  un  impulso  del
giudice  o, addirittura, in presenza di una decisione del giudice che
abbia prestato  credito  al  testimone,  si  presenterebbe  di  fatto
svalutata  e percio' inidonea a esercitare preoccupanti pressioni sul
testimone. Infine, e' appena da segnalare  che,  a  differenza  degli
artt.  359  ultimo comma e 458 ultimo comma del codice vigente, si e'
omessa ogni disposizione in materia di termini per la  ritrattazione,
poiche'  la  disciplina dettata dal codice penale a tale proposito e'
suscettibile  di  adattamento   automatico   alla   nuova   normativa
processuale.
                               CAPO II
                          ESAME DELLE PARTI
   Gli  articoli  208,  209  e  210  disciplinano  il  nuovo istituto
dell'esame  delle  parti  che,  previsto  dalla  direttiva  73  della
legge-delega  per l'imputato, non poteva non essere esteso alle altre
parti  private.  Esso  e'  chiamato  a  sostituire   l'interrogatorio
dibattimentale e, come risulta dal fatto di essere inserito nel libro
delle prove, ha natura di mezzo di prova.
   Per  le  ragioni che hanno indotto ad attribuire alla parte civile
il duplice ruolo che risulta dall'art. 208, si veda quanto anticipato
nell'illustrazione dell'art. 197.
   Per  quanto  riguarda  i  soggetti,  specie  l'imputato,  che sono
destinatari del diritto costituzionale di difesa, l'esame delle parti
si  differenzia  per piu' aspetti dalla testimonianza. In primo luogo
e' volontario, perche' vi si fa luogo solo a richiesta  degli  stessi
soggetti  da esaminare ovvero quando essi vi consentono. Inoltre, non
cade sotto la comminatoria delle sanzioni penali e  della  disciplina
processuale (art. 207) di cui e' oggetto la falsa testimonianza.
   D'altro canto, una volta che una parte ha chiesto l'esame diretto,
essa non e' piu' in grado di sottrarsi alle domande  che  le  vengono
formulate   (e   qui  sta  il  fondamento  del  valore  squisitamente
probatorio dell'atto) tanto che ogni rifiuto di rispondere -  di  cui
deve  farsi menzione nel verbale - assumera' legittimamente il valore
di argomento di prova.
   Cio'  vale,  naturalmente,  nei  limiti  in  cui  le  domande  non
rientrino  fra  quelle  vietate  dall'art.  491,   che   l'art.   209
espressamente richiama.
   Nell'esame  della  parte  civile,  del  responsabile  civile e del
civilmente obbligato per la pena pecuniaria operano i limiti previsti
in  tema  di  testimonianza  indiretta (art. 195). Si e' ritenuto che
tale prescrizione non fosse estensibile all'imputato poiche', data la
peculiare  posizione di questo soggetto, e' importante a piu' effetti
acquisire tutto quanto sia venuto a  sua  conoscenza  anche  per  via
indiretta.
   L'esame   delle   parti   trova   applicazione   solo  nella  fase
dibattimentale,  mentre  nelle  indagini  preliminari  del   pubblico
ministero  e  nell'udienza  preliminare si fa luogo ad interrogatorio
(artt. 72, 363 e 418 comma 2).
   Si  e'  gia'  detto,  a proposito dell'art. 197, che all'esame del
coimputato del medesimo reato o  di  reato  connesso  contro  cui  si
procede  separatamente  e'  stato dato un assetto normativo analogo a
quello risultante dagli art. 348- bis e 450- bis del codice  vigente.
L'ultimo comma dell'art. 210 apporta peraltro alla attuale disciplina
una variante di  cospicuo  significato:  le  dichiarazioni  rese  dal
coimputato non possono essere utilizzate contro di lui, anzitutto nel
processo separato pendente a suo carico.
                               CAPO III
                              CONFRONTI
   Non  ravvisandosi  serie  ragioni per il mantenimento dell'attuale
disciplina nel medesimo capo inerente le ricognizioni (artt. 360  364
c.p.p.),   si   e'  attribuita  ai  confronti  collocazione  autonoma
(articoli  211  e  212).  I  presupposti  non  sono   sostanzialmente
dissimili dagli attuali, mentre la norma sulle modalita' risulta piu'
dettagliata rispetto all'art. 364.
   La   struttura  dell'istruzione  dibattimentale  dovrebbe  rendere
scarsamente operante questo mezzo di prova (cfr., pero', art. 500) al
di fuori della fase delle indagini preliminari.
                               CAPO IV
                             RICOGNIZIONI
   La sostanza della disciplina (articoli 213 - 215) non e' dissimile
da quella vigente (artt. 360 - 363 c.p.p.).  Una  marcata  diffidenza
verso  l'attendibilita'  dei  risultati  di  questo  mezzo di prova e
l'esigenza di assicurare nella maggior misura possibile  il  rispetto
di regole dirette ad evitare esiti influenzati e precostituiti, hanno
indotto ad accentuare una regolamentazione minuziosa delle  attivita'
preliminari  alla  ricognizione vera e propria e dello svolgimento di
questa: naturalmente, con particolare riguardo al  riconoscimento  di
persone.  L'essenzialita'  dei relativi adempimenti - indispensabili,
anche se insufficienti da soli ad assicurare piena  attendibilita'  a
tale  mezzo di prova - ha imposto negli artt. 213 e 214 la previsione
della sanzione di nullita', anche soltanto per la mancata menzione in
verbale del loro svolgimento.
   Dalla  ricognizione  come mezzo di prova tipico va tenuta distinta
l'individuazione di persone o cose disciplinata  dall'art.  361,  con
riguardo  alle  sole  indagini  del pubblico ministero, in attuazione
della  direttiva  37  della  legge-delega.   La   diversa   efficacia
dell'"individuazione"  rispetto  alla "ricognizione" e' messa in luce
dalla formula "per la immediata  prosecuzione  delle  indagini",  che
compare nell'esordio dell'art. 361.
   Nel  comma 2 dell'art. 214 non e' stata riprodotta la disposizione
che figura nell'art. 360 comma 3 del codice  vigente,  cosi'  da  far
intendere  che  le  cautele  dirette  ad  impedire  intimidazioni  od
influenze da parte della persona sottoposta  a  ricognizione  possono
essere applicate anche nel dibattimento.
   L'ultimo  comma  dell'art.  214 autorizza il giudice ad utilizzare
mezzi di documentazione dell'atto diversi  dal  verbale  al  fine  di
rendere  possibile  una piu' precisa ricostruzione delle modalita' di
svolgimento quando occorre avvalersi dei risultati della ricognizione
in sede decisoria.
  Nell'articolo 216 e' stato disciplinato il genus delle ricognizioni
di voci, suoni od altri oggetti di  percezione  sensoriale  (profumi,
odori,   etc.)  ribaltando  l'orientamento  espresso  sul  punto  dal
Progetto del 1978 che aveva inteso bandire, mediante il principio  di
tassativita',  forme  di  atti  ricognitivi diversi rispetto a quelli
tradizionali aventi ad oggetto persone o cose.  E'  sembrato  che  il
rinvio  alla  norma che regola gli atti preliminari alla ricognizione
di persona (art.  213  comma  1)  costituisca  parametro  adeguato  a
garantire  l'attendibilita'  della operazione probatoria. La clausola
di riserva "in quanto  applicabili"  sottolinea  l'inevitabilita'  di
particolari  accorgimenti  nel modus procedendi che il giudice dovra'
fissare, prima del  compimento  della  ricognizione,  ispirandosi  ai
criteri  enunciati  nell'art. 189, applicabile in via analogica ad un
mezzo di prova che conosce solo una  semiplena  regolamentazione  nel
dettato legislativo.
   Nell'articolo   217   l'uso   della   nozione   di   "oggetto"  in
contrapposizione a quella di "persona" mira a far  intendere  che  la
disciplina  della  pluralita'  di  ricognizioni si estende anche alle
cose suscettibili di percezione sensoriale cui fa riferimento  l'art.
216 comma 1.
                                CAPO V
                        ESPERIMENTI GIUDIZIALI
   E'  parsa  corretta una collocazione autonoma - specie trattandosi
di "mezzo di prova" anziche' di "mezzo di ricerca di prova"  rispetto
all'attuale  previsione  nello  stesso  capo concernente le ispezioni
(artt. 309 - 313 c.p.p.).
   Presupposti   e   struttura  dell'esperimento  non  si  presentano
sostanzialmente dissimili (articolo 218 commi 1 e 2), a parte qualche
precisazione.
   In ordine alle modalita' dell'esperimento (articolo 219), e' parsa
necessaria una maggior specificazione, nonche'  la  previsione  della
nomina  di  un  "esperto"  per  la materiale esecuzione di operazioni
richiedenti specifiche attitudini o conoscenze: beninteso, si  e'  al
di   fuori   dell'ambito   della   perizia,  pur  potendo  ovviamente
l'esperimento determinare la necessita' di tale mezzo di prova.
   I  commi  3  e  4  demandano  al  giudice  i provvedimenti volti a
garantire che l'operazione probatoria sia effettuata senza ledere gli
interessi  delle  persone  che vi sono coinvolte e senza pregiudicare
esigenze di ordine pubblico.
                               CAPO VI
                               PERIZIA
   Soltanto   alla   perizia,  tra  i  diversi  mezzi  di  prova,  la
legge-delega  dedica  una  specifica  previsione,  enunciando,  nella
direttiva  10,  una  serie  di principi: "riordinamento dell'istituto
della  perizia,  assicurando  la   massima   competenza   tecnica   e
scientifica     dei    periti,    nonche',    nei    congrui    casi,
l'interdisciplinarita' della  ricerca  peritale  e  la  collegialita'
dell'organo  cui  e'  affidata  la  perizia; tutela dei diritti delle
parti rispetto alle perizie; previsione  di  sanzioni  a  carico  del
perito in caso di ingiustificato ritardo nel deposito della perizia".
   Questo  particolare  rilievo  dell'istituto  ha indotto a superare
rapidamente la  questione,  pur  affacciata,  sulla  riconducibilita'
dello  stesso  al genus "mezzo di prova" piuttosto che ad un mezzo di
valutazione della prova, nel riflesso che non ne deriveranno comunque
apprezzabili conseguenze pratiche.
   In  primo  luogo,  e'  parso  che,  per  la  formula  usata  nella
legge-delega ("riordinamento dell'istituto della perizia") e  per  la
mancanza  di  indicazioni  in tal senso, il legislatore delegante non
pretendesse  profonde  innovazioni  concettuali  e  strutturali.   La
disciplina  proposta  e'  stata,  di conseguenza, ricalcata su quella
vigente, salve, beninteso, le  varianti  imposte  sia  specificamente
dalla  direttiva  10,  sia dai principi generali della stessa delega,
primo fra tutti il  criterio  direttivo  prioritario  della  "massima
semplificazione"    (direttiva   1).   Questo   criterio   e'   parso
particolarmente significativo rispetto ad un istituto,  ripetutamente
indicato  -  e  non  sempre  a torto - come fonte di ritardi, cui non
hanno  potuto  porre  rimedio  ne'  la  "novella"  del  1955  ne'  le
innovazioni  introdotte  con  le  leggi  15 dicembre 1972, n. 773 e 8
luglio 1980, n. 319.
   Analogamente  alla  tecnica  seguita  nel  tracciare la disciplina
degli altri mezzi di prova,  la  norma  d'apertura  del  capo  VI  ha
tentato  di  delineare, con una formula riassuntiva, i presupposti di
ammissibilita'. L'articolo 220 comma 1, che rappresenta il  risultato
di  questo  tentativo, intende esprimere una serie di aspetti, talora
differenziantisi dal corrispondente  art.  314  comma  1  del  codice
vigente.
   In  primo  luogo,  ne  risulta che la perizia puo' essere disposta
anche di ufficio (cfr. l'art. 190 comma 2),  indipendentemente  dalla
richiesta   delle   parti  (vedi  anche  l'art.  224  comma  1  e  la
specificazione dell'art. 500).
  L'espressione  "la  perizia  e'  ammessa  quando  occorre  svolgere
indagini"  intende  sottolineare  due  aspetti:  da   un   lato,   la
obbligatorieta' del ricorso allo strumento tecnico, ribadendosi cosi'
quella che era stata la piu' significativa innovazione della  riforma
del  1955;  dall'altro,  e  sempre  in  questo  ordine  di  idee,  un
ampliamento dell'ammissibilita' della  perizia  rispetto  ai  confini
piuttosto  angusti  che derivano, con il vigente art. 314 comma 1, da
una  enunciazione  in  termini  di   "necessarieta'".   La   variante
espressiva  adottata  ("quando  occorre  svolgere indagini") e' parsa
idonea ad attenuare il  rigore  imposto  dalla  dizione  della  norma
attuale ("qualora sia necessaria una indagine"), nella sempre maggior
consapevolezza dell'anacronismo  dell'idea  esasperata  dello  "iudex
peritus peritorum". Resta, ovviamente, devoluto al giudice il riesame
critico sull'elaborazione peritale, nel contraddittorio delle  parti.
   In un primo luogo, e con riferimento al tipo di attivita' che sono
devolute al perito  per  ragioni  di  specifiche  cognizioni,  si  e'
preferito  scindere  l'attuale e generico termine di "indagine" (art.
314 comma 1) nella duplice specificazione, anche in via  alternativa,
di  "indagini"  e  "valutazioni",  per  indicare  rispettivamente, lo
svolgimento di accertamenti e la formulazione di giudizi, gli  uni  e
gli  altri  qualificati da esperienze e cognizioni di ordine tecnico.
Cio' e' stato  fatto  nel  convincimento  che,  se  pure  normalmente
l'attivita'  del  perito  si  svolge in entrambe dette direzioni, ben
puo' risultare sufficiente soltanto nell'una piuttosto che nell'altra
direzione.   In  certi  tipi  di  perizia,  infatti,  puo'  diventare
istituzionale  l'esigenza  di  limitare  il  settore  delle  indagini
stricto   sensu,   in   quanto   la   prospettazione  di  valutazioni
rappresenterebbe  una  esorbitanza  dai  compiti  del   perito,   con
invasione - illegittima anche se richiesta dallo stesso giudice della
sfera riservata alla decisione giudiziale.
   Riprendendo   l'indicazione  espressa  dalla  direttiva  10  della
legge-delega, e del tutto corrispondente allo svolgimento dei  lavori
preparatori,  si  e'  riprodotta  la  distinzione  quanto  al tipo di
cognizioni che e' necessario  acquisire  attraverso  la  perizia  tra
competenze  "tecniche"  e  "scientifiche". Rispetto alla formulazione
piu' ristretta dell'art. 314  comma  1  ("cognizioni  di  determinate
scienze")  e'  parso  necessario  dare  atto  del  piu'  ampio ambito
applicativo  dell'istituto  conseguente  al  continuo  estendersi  di
tecniche  sempre  piu'  differenziantisi  e  sofisticate. Si e' anche
ritenuto   di   dover   prevedere   esplicitamente   le    competenze
"artistiche",  tenuto  conto  della  considerazione  che  la  perizia
artistica non richiede  necessariamente  conoscenze  "scientifiche  o
tecniche".  Secondo  la piu' rigorosa accezione del termine, infatti,
le valutazioni artistiche possono essere di tutt'altra  natura,  come
provano  le  ricorrenti  questioni  sull'articolo  529  comma  2 c.p.
D'altra parte, proprio la circostanza che l'art.  9  l.  20  novembre
1971,  n. 1062 abbia previsto, nonostante la dizione del vigente art.
314 c.p.p., una perizia "artistica",  conferma  l'opportunita'  della
enunciazione espressa.
   L'articolo  221  attua  l'indicazione contenuta nella direttiva 10
della  legge-delega  circa  la  piu'  idonea  competenza  tecnica   e
scientifica    dei    periti,   nonche',   nei   congrui   casi,   la
interdisciplinarita'  della  ricerca  peritale  e  la   collegialita'
dell'organo cui e' affidata la perizia.
   Un  primo  profilo,  inerente  l'individuazione della categoria di
soggetti fra i quali nominare il perito, e' stato risolto,  in  linea
principale,  con  il  criterio  della  scelta  tra gli iscritti negli
appositi albi (art. 221 comma 1)  rinviandosi  alle  disposizioni  di
attuazione,   sulla  falsariga  di  quanto  disposto  nel  codice  di
procedura civile, la disciplina dell'iscrizione stessa.
   La  scelta  e' parsa obbligata, una volta che gia' la legge-delega
del 1974 non aveva recepito la proposta di "istituzione di  un  ruolo
organico   di   periti...   che   svolgano   attivita'  professionale
esclusivamente per conto dell'autorita' giudiziaria" ed una volta che
la  Commissione  non  ha  aderito al suggerimento di una obbligatoria
iscrizione negli appositi albi. Si e' considerato che l'iscrizione  a
domanda,  a  seguito di accurato controllo e con una perdurante opera
di vigilanza, offra sufficienti garanzie di competenza.
   E'  pero'  parso  indispensabile,  con  particolare  riguardo alle
ipotesi di indagini di accentuata specializzazione oppure per i  casi
di   insufficente  disponibilita'  di  periti  iscritti  negli  albi,
ammettere che la scelta cada su altri  esperti,  purche'  forniti  di
particolare competenza nella specifica disciplina.
   Il  comma  1  contiene anche la previsione che, in caso di perizia
dichiarata nulla, il  giudice  debba  di  regola  affidare  il  nuovo
incarico  a diverso perito. La Commissione aveva dapprima valutato se
costruire l'ipotesi come causa di incompatibilita' ovvero come  causa
di astensione. Da ultimo si e' ritenuto piu' appropriato collocare la
disposizione nell'ambito della disciplina della  nomina  del  perito.
Tenuto  conto  delle  difficolta'  pratiche  che  in determinati casi
potrebbero esserci di reperire un  diverso  perito,  si  e'  peraltro
preferito formulare la norma in termini elastici.
   L'esigenza  di  collegialita'  e  di interdisciplinarita' e' stata
espressa correlando la prima soltanto ad  accertamenti  "di  notevole
complessita'",  la seconda alle sole materie che richiedono "distinte
conoscenze in differenti discipline" (comma 2). Si  e'  adottata  una
formula  che  vuole  ricomprendere  anche  specifiche e differenziate
competenze in diversi settori  di  una  disciplina,  pur  considerata
tradizionalmente unitaria.
   Poiche'  la  legge-delega  non  ha riprodotto la direttiva 9 della
delega del 1974 concernente "l'effettivo giudizio sulla  personalita'
dell'imputato" ed ha pure lasciato cadere la previsione della perizia
criminologica (v. direttiva 10 legge-delega del  1974),  si  e'  resa
necessaria  l'eliminazione  di  tutte  quelle  disposizioni  che, nel
Progetto del 1978, regolavano l'attivita' peritale avente ad  oggetto
qualita'   psichiche   indipendenti  da  cause  patologiche  (perizia
psicologica, perizia criminologica, v. artt. 209 comma 2  e  212  del
Progetto 1978).
   La  disciplina del conferimento dell'incarico peritale per quesiti
di  natura  psichiatrica  o  medico-legale  verra'  delineata   nelle
disposizioni di attuazione.
   Le   disposizioni  in  tema  di  incapacita'  ed  incompatibilita'
(articolo 222), di astensione e di ricusazione (articolo  223),  sono
sostanzialmente  ricalcate  sulla  disciplina  vigente,  con  qualche
variante di facile comprensione. Va soltanto  rilevata,  a  proposito
della  ricusazione,  l'ammissibilita'  della  relativa  dichiarazione
anche dopo che il perito abbia cominciato a prestare il suo  ufficio,
a  differenza  di  quanto  prevede  il vigente art. 315- bis comma 1.
L'innovazione e'  parsa  opportuna  -  oltre  che  in  linea  con  la
direttiva  di "tutela dei diritti delle parti" - purche' si tratti di
motivi sopravvenuti ovvero conosciuti successivamente, e con  l'ovvio
limite  temporale  che  il perito non abbia fornito il proprio parere
(art. 223 comma 3).
   Gli   articoli   da   224  a  229  disciplinano  le  modalita'  di
conferimento  dell'incarico  e  di   svolgimento   delle   operazioni
peritali.  Si  tratta, per lo piu', della riproposizione dello schema
vigente, con varianti soltanto  formali,  si'  che  sembra  superfluo
soffermarvisi.    Vanno   piuttosto   ricordate,   come   innovazioni
riallacciantisi in special modo al punto  1  della  legge-delega,  le
modalita' inerenti lo svolgimento della relazione peritale.
   Anche  nella formulazione della norma (articolo 227 comma 1) viene
privilegiata la risposta orale  immediata.  Naturalmente  non  si  e'
potuto  prescindere  dalle ipotesi in cui cio' non sia oggettivamente
possibile a causa della complessita' dei quesiti e, conseguentemente,
del numero e della difficolta' delle indagini. L'art. 227 soddisfa la
relativa esigenza, con una serie di correttivi intesi a neutralizzare
richieste ingiustificate e, comunque, dilazioni inutili.
   A parte la possibilita' di immediata sostituzione del perito, e la
prorogabilita', per una sola volta e per breve periodo,  del  termine
per  la  risposta  nel solo caso di "particolare complessita'", si e'
accordata preferenza  ad  una  risposta  orale,  anche  se  rinviata;
strumento   utile  per  evitare  sterili  sovrabbondanze,  legate  al
concetto stesso di relazione scritta. Si e', in tal modo,  realizzata
anche  una  piu'  diretta  partecipazione  del  perito  all'attivita'
processuale, in vista di una maggiore efficacia  dell'esame  diretto,
che  la direttiva 73 della legge-delega impone anche per il perito in
sede  dibattimentale;  e  si  e'  consentita,  inoltre,  un'immediata
verifica in contraddittorio della congruenza della risposta.
   Nel  quadro  dei  mezzi  idonei  ad impedire inutili prolungamenti
nello  svolgimento  dell'incarico  peritale,   vanno   ricordate   le
disposizioni  dell'articolo  224  sulla  sostituzione del perito lato
sensu negligente.
   Si  rifanno all'ultima parte della direttiva 10 della legge-delega
("tutela dei diritti delle parti in  ordine  all'effettuazione  delle
perizie")  le  disposizioni concernenti il consulente tecnico. Si e',
in definitiva, ritenuto di abbandonare la denominazione di "perito di
parte",  proposta  in  un  primo  tempo, anche se la variante non era
soltanto  terminologica,  giacche'  si  era  inteso  sottolineare  la
dignita'  di questo ruolo e l'importanza del relativo contributo, nel
contraddittorio tecnico alla formazione  del  parere  del  perito  di
ufficio  e  cosi',  eventualmente,  del  convincimento  del  giudice.
Piuttosto, l'equiparazione di ruoli e di poteri delle parti, pubblica
e privata, ha imposto che anche il pubblico ministero possa procedere
alla nomina di un proprio  consulente,  il  quale  contrapponga  alle
considerazioni    di    ordine   tecnico-scientifico   della   difesa
considerazioni di analoga natura per l'accusa (articolo 225 comma 1).
   In  caso  di  pluralita'  di  parti  private  viene  eliminata  la
ingiustificata limitazione di ordine numerico del  vigente  art.  323
ultimo comma c.p.p., e cio' anche per l'ipotesi di perizia collegiale
ed interdisciplinare. Piu' che  ovvia  la  previsione  dell'art.  225
comma  2,  nel  quadro di una disciplina del patrocinio statale per i
non abbienti, ricomprendente anche la  difesa  tecnica  in  ogni  sua
proiezione.
  Significativa,  sempre  nel  quadro  della tutela dei diritti della
parti,  l'eliminazione  di  preclusioni  temporali  (v.,  invece,  il
vigente  art.  323  comma 2 c.p.p.) alla nomina ed all'intervento del
consulente tecnico, con la ragionevole limitazione dell'articolo  230
ultimo  comma che rappresenta una piu' dettagliata specificazione del
vigente  art.  324  ultimo  comma  e   costituisce   un   correttivo,
soprattutto   quanto   all'art.  230  comma  3,  rispetto  alla  piu'
restrittiva previsione del codice vigente.
   Le   attivita'   riconosciute   ai   consulenti  tecnici  variano,
conseguentemente, in relazione al momento della loro nomina,  che  si
e'  sottratta alle formalita' - peraltro scarsamente efficienti - del
vigente art. 323 comma 4. In definitiva, le facolta'  dei  consulenti
non si distaccano da quelle oggi previste nell'art. 324 c.p.p.
   Oltre  alle  garanzie previste in tema di accertamenti tecnici non
ripetibili disposti dal pubblico ministero (art. 360) e con  riguardo
alla  perizia assunta nell'incidente probatorio (artt. 390 e 393), si
riallacciano all'esigenza di "tutela  dei  diritti  delle  parti"  le
disposizioni  dell'articolo  226  comma  2, che subordina il momento,
spesso risolutivo per le conclusioni, della formulazione dei quesiti,
al  parere  delle  parti  e  dei rispettivi consulenti, ovviamente se
presenti, e quelle contenute nell'articolo 229 comma 2 che, innovando
rispetto   all'attuale   orientamento  giurisprudenziale,  impone  la
comunicazione anche della data di  "continuazione"  delle  operazioni
peritali.
   Circa  la  disciplina dell'attivita' del perito (articolo 228), si
e' ritenuto di stabilire (comma 1) che al perito  sia  consentito  di
esaminare  gli  atti  conosciuti dal giudice quando questi ammette la
perizia. Si e' peraltro previsto che, se vi consente la parte che  ne
ha  la  disponibilita',  il perito possa prendere visione anche degli
atti suscettibili di confluire nel  fascicolo  per  il  dibattimento.
Quanto  alla  disposizione del comma 3, la Commissione ha discusso in
particolare dei limiti di utilizzabilita' delle notizie raccolte  dal
perito,  specie in relazione a quelle provenienti da "altre persone".
Per evitare che tali notizie determinino comunque una suggestione per
il giudice, si e' da ultimo prescelta la formula "gli elementi in tal
modo   acquisiti   possono   essere   utilizzati   solo    ai    fini
dell'accertamento  peritale"  (cfr.,  invece,  la  diversa previsione
dell'art. 221 comma 3 del Progetto del 1978).
   Nuova  e' la figura prevista nell'articolo 233, che non presuppone
la previa nomina del perito ed e' intesa a realizzare l'esigenza  che
ciascuna  delle  parti  -  quindi anche il pubblico ministero - possa
avvalersi di un contributo esterno per l'impostazione e la  soluzione
di quesiti tecnici: nella prospettiva, peraltro, di una proiezione di
tale contributo nel processo, soprattutto per sottoporre  al  giudice
pareri  qualificati  idonei  ad  indurlo a valutare la convenienza di
disporre perizia.
   La  rilevanza di tale esigenza e l'avvertita importanza di evitare
che l'indagine  tecnica  sia  troppo  rigorosamente  condizionata  da
iniziative  ex  officio  ha  fatto  superare  dubbi circa un presunto
appesantimento negli accertamenti.
   In  ogni  caso,  il meccanismo della comunicazione della nomina al
giudice ed alle altre parti, mentre vale  a  permettere  pienezza  di
contraddittorio  sotto  il  profilo  tecnico  ed anche quando non sia
stata disposta perizia, puo' efficacemente funzionare come stimolo al
giudice per i provvedimenti di ufficio e, per l'ipotesi di rigetto di
tale sollecitazione, come importante inserimento nel processo  di  un
apporto   tecnico  da  vagliare  poi  secondo  i  criteri  dell'esame
incrociato.
                               CAPO VII
                              DOCUMENTI
   Le  disposizioni  racchiuse nel capo VII (articoli 234 - 243) sono
frutto di un lavoro di analisi e di  raccolta  di  norme  attualmente
disperse  in  piu' parti del codice, raggruppate nell'intento di dare
una sistemazione unitaria ad un mezzo di  prova  che  il  legislatore
processuale  penale  ha  finora  ingiustificatamente  trascurato.  Il
codice del 1930 ha affrontato i problemi della prova documentale  con
notevole   approssimazione   al   punto   che,  ad  un  esame  appena
superficiale, e' facile scorgere lacune ed incongruenze.
   Deve  aver  rivestito  un  peso  notevole nella elaborazione della
materia il pregiudizio,  vivissimo  nella  dottrina  processualistica
penale  di  fine ottocento, secondo cui i documenti non rappresentano
un vero e proprio mezzo di prova, finendo per  risolversi  o  in  una
testimonianza  scritta  o  in  un  indizio nei casi in cui lo scritto
costituisca corpo del reato. Di qui, probabilmente,  il  disinteresse
legislativo  per  la  prova documentale, di cui si ha la conferma nel
codice vigente non solo dall'assenza di un titolo  apposito  ad  essa
dedicato,  ma  pure  da  due  particolari aspetti della normativa: in
primo luogo, e' ricorrente la confusione  tra  documenti  processuali
(verbali di testimonianza, interrogatori, relazioni del perito, etc.)
e documenti extraprocessuali (lettere, registri contabili,  etc.)  al
di la' della nomenclatura che li distingue in atti e documenti (artt.
372, 402, 215) (si veda, ad esempio l'art.  463 che in rubrica  parla
di "atti e documenti" mentre nel testo si riferisce solo ai documenti
processuali;   cfr.   pure    l'art.    466    che    si    riferisce
indiscriminatamente  agli uni e agli altri); in secondo luogo, emerge
dalle  norme  la  pressocche'  completa  obliterazione  del  fenomeno
dell'ammissione  della  prova  documentale,  essendosi  incentrata la
disciplina del  veicolo  acquisitivo  sulla  lettura  dibattimentale,
strumento  tipico con il quale si fanno rivivere in giudizio gli atti
compiuti nelle fasi precedenti del medesimo processo.
   Al  fine  di pervenire alla stesura di un testo capace di superare
le incertezze e le oscurita' del codice vigente, ci  si  e'  proposti
anzitutto   di   fissare  strumenti  concettuali  chiari,  idonei  ad
orientare l'interprete sul piano applicativo. In questa direzione  le
norme  sui  documenti  sono state concepite e formulate con esclusivo
riferimento ai documenti formati fuori  del  processo  nel  quale  si
chiede  o  si  dispone  che essi facciano ingresso. Sono pertanto del
tutto estranei alla disciplina degli artt. 234  s.  i  verbali  degli
atti compiuti in fasi anteriori del medesimo processo: di essi, sotto
il profilo della lettura, si e' data una regolamentazione negli artt.
504  -  507.  Nella  categoria  dei  documenti  disciplinati sotto il
profilo  della  prova,  si  e'  invece  ritenuto   di   inserire   la
problematica  di  verbali  di  prove raccolte in altri processi (art.
238), trattandosi anche qui di res formata  fuori  del  processo  nel
quale essa tende ad introdursi.
   Va  ancora  avvertito  che  nella  nuova  normativa  e' accolta la
distinzione  tra  documenti  costituenti  corpo  del  reato  (scritto
diffamatorio,  scrittura  falsificata, lettera minatoria) e documenti
costituenti mezzi di prova. Per i primi non puo' porsi un problema di
ammissibilita' ne' una questione di provenienza come requisito per il
loro uso. Se il documento costituisce corpo del reato il  giudice  ne
deve  disporre  l'acquisizione  anche qualora sia anonimo (art. 240).
C'e' dunque un regime diverso nei due casi di cui  l'interprete  deve
tener conto nell'applicare le disposizioni sulla prova documentale.
   L'articolo  234  mira  ad  allargare  la  nozione  tradizionale di
documenti collocando accanto a quelli grafici (scritti), i  documenti
fotografici,   cinematografici,  fonografici  e  quelli  formati  con
qualsiasi altro mezzo. Una volta definito  il  documento  in  ragione
della  sua  attitudine  a  rappresentare,  ne  risulta  una categoria
unitaria i cui requisiti di  utilizzabilita'  -  e,  in  particolare,
l'accertamento  della  provenienza  - sono identici. Se nello scritto
l'accertamento della provenienza si compie piu' facilmente attraverso
il   requisito   della  sottoscrizione,  nei  documenti  fotografici,
cinematografici e fonografici la medesima operazione potra'  apparire
piu'  problematica, ma diviene necessaria, perche' non c'e' documento
giuridicamente rilevante laddove non  e'  possibile  individuarne  la
paternita',  cioe' il suo autore (arg. ex artt. 239 e 240). E cio' e'
tanto piu' importante per i "documenti non grafici" in  relazione  ai
quali  le  raffinate tecnologie oggi conosciute potrebbero consentire
di confezionare mezzi di prova falsi.
   Il   comma   3  dell'art.  234  vieta  l'uso  di  documenti  sulle
informazioni relative a voci correnti nel pubblico  nella  linea  del
disposto  dell'art.  464  c.p.p.  Si tratta di una manifestazione del
principio che bandisce dal processo le dichiarazioni di cui si ignora
la fonte, principio di cui si trova conferma negli artt. 195 comma 7,
203 e 240.
   L'articolo  235  disciplina  il  particolare  trattamento che deve
essere riservato alle res che  si  pongono  in  rapporto  di  stretta
compenetrazione  con  il  fatto costitutivo di reato. La norma assume
una portata generale e funge da limite costante  a  tutti  i  divieti
posti all'acquisizione di documenti (cfr. artt. 102 e 240).
   L'articolo  236  riproduce con lievi varianti il comma 2 dell'art.
464 del codice vigente aggiungendo la menzione dei documenti che sono
frutto  di  accertamenti  relativi alla personalita'. Per le sentenze
straniere  si  e'  limitata  l'utilizzabilita'  ai   soli   casi   di
riconoscimento,  non  sembrando  giustificato  che  la  pronuncia del
giudice straniero  possa  spiegare  effetti  all'interno  del  nostro
ordinamento quando ancora non sia stato posto in atto il procedimento
tipico che vale a darle rilevanza nel nostro diritto.
   Nell'articolo 237 confluisce il disposto dell'art. 465 comma 1 del
codice vigente.
   L'uso  di  verbali  di  prove  raccolte  in  altri  processi trova
nell'articolo 238  una  disciplina  notevolmente  diversa  da  quella
tracciata  dagli  articoli 466 comma 2 e 144- bis del codice vigente.
Una revisione profonda di questi testi si e' resa necessaria  per  la
nuova  struttura  data  dalla  legge-delega  ai rapporti tra indagini
preliminari  e  dibattimento.  Dopo  aver  fissato   una   serie   di
sbarramenti  alla  penetrazione  dei  risultati  delle  indagini  del
pubblico ministero nella fase del  dibattimento,  una  indiscriminata
utilizzazione  delle  prove raccolte in altri processi avrebbe finito
per operare una breccia non indifferente nel  sistema  congegnato  al
fine  di  garantire  l'oralita' e l'immediatezza del dibattimento. Di
qui due limitazioni: a) deve trattarsi di prove passate attraverso il
filtro  dell'incidente  probatorio  o  del  dibattimento,  anche solo
mediante lettura; b) e' necessario il consenso  delle  parti  cui  e'
data  la  facolta'  di  opporsi e richiedere l'assunzione della prova
orale.
  Il  rigore di questa disciplina (ove sono recepiti in larga parte i
suggerimenti della Commissione per lo studio dei problemi sostanziali
e  processuali  posti  dai  grandi  processi  in tema di criminalita'
organizzata), che comporta la preclusione ad avvalersi  di  tutte  le
dichiarazioni rese da coimputati o testimoni al pubblico ministero od
al giudice dell'udienza preliminare di un procedimento  separato,  e'
temperato  dal  disposto  del  comma  2 secondo cui l'irripetibilita'
della prova acquisita aliunde ne rende legittima  l'acquisizione.  Al
tempo stesso i divieti stabiliti dalle norme del verbale di prova non
impediscono di servirsi del suo contenuto ai fini delle contestazioni
previste dagli artt. 493 e 496.
   L'articolo  239  ripropone  la formula contenuta nell'art. 460 del
codice vigente in una veste che  pone  l'accento  sulla  esigenza  di
chiarire la provenienza del documento.
   Il   problema   dell'uso   dei   documenti   anonimi   e'  risolto
dall'articolo 240 nello stesso modo oggi indicato  dall'articolo  141
c.c.p.  Quando  si  tratta  di corpo del reato, l'anonimo puo' essere
acquisito in base alla norma generale contenuta nell'art. 235.
   Per  l'ipotesi  di  documenti ritenuti falsi, l'articolo 241 rende
applicabile la stessa disciplina processuale dettata per i  testimoni
sospettati di falsita' (art. 207).
   Si  e'  ritenuto  di  non confermare nel nuovo processo l'istituto
dell'incidente di falso: di qui  il  potere  del  giudice  penale  di
procedere  liberamente  alla  valutazione della falsita' di documenti
anche assistiti dalla particolare efficacia prevista  dall'art.  2700
c.c., salvo il dovere di trasmettere gli atti al pubblico ministero a
conclusione del giudizio, qualora ne ravvisi la falsita' in  sede  di
valutazione  globale  delle  prove  acquisite.  Ovviamente  quando la
falsita'  di  un  documento  costituisce  l'oggetto   del   giudizio,
investendo  l'imputazione  un  reato di falso, il giudice e' tenuto a
pronunciarsi su  questo  tema  ed  a  provvedere  secondo  quanto  e'
previsto nell'art. 530.
   L'opinione  che  l'impugnazione  di  falso  non  sia altro che una
denuncia e' ampiamente condivisa da dottrina  e  giurisprudenza,  che
tra l'altro hanno rilevato come siffatta denuncia debba avere seguito
per iniziativa del pubblico ministero anche se non sia  proposta  con
le forme prescritte dall'art. 216 c.p.p. vigente.
   Concretamente  la denuncia di falso, disciplinata come "incidente"
dagli art. 215 - 218 del vigente c.p.p. da' luogo ad una  particolare
specie  di questione pregiudiziale penale, dal momento che l'art. 217
c.p.p. vigente stabilisce la sospensione del processo  quando  quella
che  viene  denominata "impugnazione" abbia apparenza di fondamento e
non si possa proseguire senza  attendere  la  conclusione  del  nuovo
processo.
   L'istituto gia' oggi si presenta quindi disciplinato con una certa
equivocita' e superfluita'. Basterebbe osservare che, se la  denuncia
di  falso  e'  presentata  nei  modi  ordinari  ed  ha  dato luogo al
promovimento dell'azione penale per il  falso,  sorge  ugualmente  un
problema  di  interferenze  tra  i  due  procedimenti,  regolati oggi
dall'art. 18 c.p.p. Fra l'altro, quando  occorre,  il  processo  deve
essere  sospeso sino alla sentenza irrevocabile pronunciata in quello
per il falso, sia per l'art. 18 che per l'art. 217 c.p.p.,  anche  se
quest'ultima norma non lo dica esplicitamente come la prima.
   Cio'  premesso,  e'  evidente  la  conclusione  alla  quale  si e'
pervenuti. Intendendosi mantenere -  in  particolare  -  l'abolizione
della  pregiudiziabilita'  penale,  che  oggi  costituisce  un  serio
ostacolo allo svolgimento del processo, ne derivava, come  necessaria
conseguenza,  anche  la eliminazione del c.d. incidente di falso. Ne'
potrebbe utilmente farsi ricorso alla disciplina della  riunione  dei
procedimenti, sia perche' limitata nel Progetto ai soli casi previsti
dall'art.  17  (sensibilmente  ridotti  rispetto  agli  attuali)  sia
perche' spesso impedita dal fatto che i due processi possono trovarsi
in fasi diverse.
   La  soluzione  prescelta  e' dunque partita dal principio generale
accolto in materia di questioni pregiudiziali, secondo cui il giudice
penale  risolve  ogni  questione  da  cui  dipenda  la  decisione del
processo.
   Ne'  si  e'  ritenuto  di  distinguere  fra  atti  del  processo e
documenti  prodotti,  poiche'  ambedue   possono   appartenere   alla
categoria degli atti pubblici con fede privilegiata.
   Naturalmente,  se occorreranno accertamenti tecnici o altri di non
rapido  espletamento,  potra'  rendersi  necessario  un  rinvio   del
processo;  ma  cio'  avverra'  nei  limiti dello stretto necessario e
comunque senza sospendere il processo in attesa della  pronuncia  sul
falso.   Si   e'   pero'  ritenuto  che  questo  ed  altri  possibili
inconvenienti siano  minori  di  quelli  conseguenti  a  una  diversa
soluzione del problema.
   Deve qui aggiungersi che la sentenza sul processo principale sara'
ovviamente impugnabile anche per il motivo della valutazione
dell'atto falso. A questo proposito si ritiene che il giudice,
soprattutto ove intenda disconoscere la veridicita' dell'atto
pubblico, dovra' esporre nella sua motivazione le ragioni del suo
convincimento.
   Non   e',  infine,  superfluo  osservare  che  il  giudice  potra'
provvedere anche a correggere  eventuali  errori  materiali  di  atti
processuali  senza apposita decisione. Inoltre, per casi particolari,
si e' configurato un procedimento immediato in contraddittorio per la
correzione  di  qualunque  errore,  quando esso incida su un atto del
processo: per esempio, e' stato previsto un incidente concernente  le
eventuali  contestazioni  del  contenuto del verbale del dibattimento
redatto dal cancelliere, al fine di controllare subito  quel  verbale
durante lo svolgimento in atto del dibattimento (art. 476 comma 2).
   Gli  articoli  242 e 243 completano la normativa sui documenti con
disposizioni relative alla traduzione, alla  trascrizione  di  nastri
magnetofonici ed al rilascio di copie.
                              TITOLO III
                     MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA
                                CAPO I
                              ISPEZIONI
   Nel  sistema  della  nuova  delega,  il  potere  di  procedere  ad
ispezioni (artt. 244 - 246) e' attribuito sia al  pubblico  ministero
che al giudice nel dibattimento ed e' per questa ragione che e' stata
usata la locuzione "autorita' giudiziaria" (art. 244  comma  2),  per
indicare l'organo titolare del potere di procedere all'atto.
   Quella  che il codice vigente indica come ispezione "corporale" e'
qui definita come "personale"  (art.  245)  per  rendere  ancor  piu'
chiaro  che  tale  mezzo  di  ricerca  della  prova si risolve in una
"restrizione  della  liberta'"  della  persona,  nel  senso  previsto
dall'art. 13 Cost.
   E'  appunto in quest'ottica che assume rilievo, e giustificazione,
il rafforzamento della dimensione  garantistica  dell'istituto,  reso
concreto  mediante  la  duplice  previsione del limite della dignita'
(accanto  a  quello   del   pudore)   nell'esecuzione   dell'atto   e
dell'avvertimento  circa la facolta' di farsi assistere da persona di
fiducia.
   Sempre  in tema di ispezione personale e' stata mantenuta ferma la
previsione, gia' contenuta nel Progetto preliminare del 1978, secondo
cui,  quando  l'ispezione non e' direttamente compiuta dall'autorita'
giudiziaria, essa puo' essere eseguita da un "medico".
   Quanto    all'ispezione    locale   (art.   246)   la   protezione
costituzionale  offerta  al  domicilio  dall'art.  14  Cost.   sembra
adeguatamente  rafforzata dalla previsione della consegna - come gia'
dispone il codice vigente, ma solo per le perquisizioni domiciliari -
di  copia del provvedimento alla persona che ha la disponibilita' del
luogo, sempre che sia presente.
   Opportune  limitazioni  alle  ispezioni negli uffici dei difensori
sono poi dettate, a garanzia del diritto di difesa, dall'art. 102.
                               CAPO II
                            PERQUISIZIONI
   Per  le stesse ragioni indicate a proposito delle ispezioni, anche
in tema di perquisizioni (artt. 247  -  252)  l'organo  titolare  del
potere di disporre il mezzo di ricerca della prova e' indicato con la
locuzione "autorita' giudiziaria" (articolo 247 comma 3).
   L'adeguamento   della  normativa  ai  principi  costituzionali  ha
comportato, anche qui, un rafforzamento della dimensione garantistica
dell'istituto.
   E' appunto in quest'ottica che, per le perquisizioni personali, e'
previsto,  oltre  al  rispetto  della  dignita'  e  del  pudore   del
perquisendo,  il dovere di consegnargli, prima di procedere all'atto,
copia  del  decreto,  con  l'avvertimento  della  facolta'  di  farsi
assistere da persona di fiducia.
   Quanto  alle  perquisizioni  nei  luoghi, si e' ritenuto opportuno
distinguere  quelle  locali   da   quelle   domiciliari,   categoria,
quest'ultima,  comprensiva delle sole perquisizioni che avvengono "in
un'abitazione o nei luoghi chiusi adiacenti  a  essa"  (articolo  251
comma  1) e per la cui esecuzione valgono, in difetto di una espressa
disposizione dell'autorita'  giudiziaria  giustificata  dall'urgenza,
precisi limiti temporali fissati fra le ore sette e le ore venti.
   Il  favore  per  la  tutela  del domicilio ha poi suggerito di non
limitare alla sola perquisizione  personale,  come  e'  previsto  dal
codice  vigente,  la possibilita' dell'alternativa alla perquisizione
rappresentata dalla richiesta della cosa determinata che  si  ricerca
(articolo 248 comma 1).
Nella  stessa  disposizione che prevede la "richiesta di consegna" e'
stato disciplinato  (comma  2)  anche  il  "sequestro  antecedente  a
perquisizione":  trattandosi,  infatti,  di attivita' prodromica alla
perquisizione e' stata ritenuta impropria la collocazione della norma
nell'art.  252,  cosi'  come avveniva secondo il Progetto preliminare
del 1978.
   A  garanzia  del  diritto  di difesa non e' stato, in questa sede,
previsto il divieto, per l'autorita' giudiziaria, di far compiere  le
perquisizioni  negli studi legali da parte della polizia giudiziaria,
in quanto il tema delle limitazioni alle  perquisizioni  da  eseguire
negli  uffici  dei  difensori e' disciplinato dall'art. 102, dedicato
alle "garanzie di liberta' del difensore".
   Non e' stato mantenuto il divieto, previsto dal Progetto del 1978,
di far compiere alla  polizia  giudiziaria  le  perquisizioni  presso
banche,  avuto  riguardo  alla  specifica e particolare competenza di
alcuni organi
(ad  es.,  Guardia  di  Finanza) in materia contabile ed alla vigente
legislazione speciale in tema di indagini  patrimoniali  a  carattere
generale.
                               CAPO III
                              SEQUESTRI
   La  disciplina  dei  sequestri  (artt.  253  - 265) segue le linee
sistematiche della vigente regolamentazione, salve le  particolarita'
di  cui  si  da'  atto  qui  di  seguito:  prima  fra tutte la decisa
caratterizzazione in senso processuale dell'istituto,  attraverso  il
riferimento dell'articolo 253 comma 1 alla finalita' di "accertamento
dei fatti". Si e' voluto in  tal  modo  escludere  che  il  sequestro
penale possa servire per fini diversi da quelli probatori - cioe' per
fini di cautela sostanziale o di prevenzione - rispetto ai  quali  e'
stata dettata una apposita disciplina (v. titolo II del libro IV).
   Circa  l'oggetto del sequestro, si e' preferito distinguere subito
fra "corpo del  reato"  e  "cose  pertinenti  al  reato",  anche  per
consentire  una definizione sufficientemente comprensiva del concetto
di "corpo", poi richiamato in altre disposizioni, cosi' da includervi
anche  le  cose il cui uso, porto, detenzione ecc. costituisce reato.
Quanto alle cose "pertinenti" al reato, e' parso opportuno  affidarsi
all'interpretazione giurisprudenziale.
   Si  e'  previsto che il sequestro possa venire eseguito, oltreche'
personalmente  dall'autorita'  giudiziaria  anche  da  ufficiali   di
polizia giudiziaria delegati con lo stesso decreto di sequestro.
   Il  comma 4 recepisce la vigente disciplina dettata dall'art. 224-
bis comma 2 in tema di sequestro operato dalla  polizia  giudiziaria,
disponendo  che copia del sequestro e' consegnata all'interessato, se
presente.
   In  ordine al sequestro presso i difensori (disciplinato in questa
sede dal Progetto del 1978), si e' ritenuto  piu'  appropriata,  come
sedes  materiae,  quella  del titolo VII del libro I, prevedendosi la
relativa regolamentazione nell'art. 102 ("Garanzie  di  liberta'  del
difensore"):  in  tal  modo  viene  sottolineato  che  la particolare
disciplina e' collegata alla garanzia dei diritti della difesa.
   Quanto  all'articolo 254, non sono state introdotte innovazioni di
rilievo nei primi due commi, che riproducono  il  testo  del  vigente
art.  338  c.p.p..  Il  comma 3 prevede che, qualora ci si accorga di
avere sequestrato carte e  documenti  che  non  si  sarebbero  potuti
sequestrare,  essi  vanno restituiti all'avente diritto e non possono
essere utilizzati nel processo. Tale  norma  va  raccordata,  tra  le
altre,  a  quella contenuta nel comma 6 dell'art. 102 gia' citato che
fa divieto di sequestrare  la  corrispondenza  tra  l'imputato  e  il
proprio difensore, tranne che si abbia fondato motivo di ritenere che
si tratti di corpo del reato.
   L'articolo  255 disciplina il sequestro presso banche. Va rilevato
che non e' stata qui regolata la facolta' di  esame  e  di  sequestro
perche'  essa  e'  disciplinata dall'art. 248 in tema di rapporti tra
perquisizione e sequestro. Va  pure  evidenziato  che,  a  differenza
dalla attuale regolamentazione, l'autorita' giudiziaria puo' delegare
alla polizia giudiziaria anche la  esecuzione  del  sequestro  presso
banche.
   I  primi due commi dell'articolo 256, relativo alla disciplina dei
rapporti fra sequestro e  segreti,  corrispondono  ai  commi  1  e  3
dell'art.  342  c.p.p.  con  la  precisazione offerta dal riferimento
anche al segreto inerente al "ministero", di  cui  sono  portatori  i
ministri  di  culto, che gia' compare nell'art. 200 nell'ambito della
disciplina del segreto professionale.
   Nei  commi  successivi  si  prende  in  considerazione il caso dei
documenti che si asseriscono  coperti  da  segreto  di  Stato,  e  si
stabilisce  una disciplina corrispondente a quella prevista dall'art.
202, che attua la direttiva 70 della  legge-delega.  Si  e'  reputato
opportuno  stabilire  un  termine  massimo (sessanta giorni) entro il
quale il Presidente del Consiglio  e'  tenuto  a  dare  una  risposta
motivata  -  sia  pure in chiave di "ragioni essenziali" - al quesito
trasmessogli dall'autorita' giudiziaria procedente circa l'esistenza,
o  no, del segreto di Stato, cosi' da sollecitare l'assunzione di una
precisa responsabilita' politica da parte del Governo in una  materia
tanto  delicata.  La  fissazione  del  termine  e'  rafforzata  dalla
previsione per cui, nel caso di mancata risposta del  Presidente  del
Consiglio  entro  i  sessanta  giorni, l'autorita' giudiziaria potra'
ritenersi svincolata  da  qualunque  limite  nell'acquisizione  della
prova.
   Quando,  invece,  il Presidente del Consiglio confermi l'esistenza
del segreto di Stato e il giudice ritenga essenziale la prova per  la
definizione  del  processo,  l'unico epilogo ammissibile sara' quello
previsto  dalla  legge-delega:  la  pronuncia  di  una  sentenza   di
proscioglimento per improseguibilita' del processo.
   L'articolo  257  prevede la facolta' di richiedere, da parte degli
interessati, il riesame del decreto di sequestro (a  norma  dell'art.
324),  analogamente  alla previsione contenuta nell'art. 343- bis del
vigente codice.
   L'articolo  258  disciplina  il  rilascio  di  copie dei documenti
sequestrati.  In  particolare   e'   stata   prevista   la   menzione
dell'avvenuto sequestro negli estratti, nelle copie e nei certificati
dei documenti sequestrati, ritenendosi utile  e  opportuna  una  tale
menzione  al  fine  di  garantire  un uso corretto di tali estratti e
copie, e comunque di evitare il pericolo di abusi.
   La  disciplina  della  custodia delle cose sequestrate, della loro
assicurazione mediante sigilli e della rimozione e  riapposizione  di
questi  (articoli  259,  260  e  261) non ha dato luogo a particolari
problemi. Va peraltro sottolineato che la previsione secondo  cui  le
cose   sequestrate   si   assicurano   con  il  sigillo  dell'ufficio
giudiziario "ovvero, in relazione alla natura delle cose,  con  altro
mezzo  idoneo  a  indicare  il  vincolo imposto a fini di giustizia",
intende riferirsi a quei casi nei quali l'apposizione  "tradizionale"
del  sigillo non e' possibile in relazione alla natura della cosa (ad
esempio impianti, terreni abusivamente lottizzati, etc.).
   La  norma  recepisce  l'orientamento  consolidato della cassazione
secondo cui il sigillo non e' il  mezzo  con  il  quale  si  assicura
materialmente  la  intangibilita'  della  cosa,  ma e' mero strumento
simbolico attraverso cui si manifesta la volonta' dello stato diretta
ad   assicurare   beni   mobili  od  immobili  contro  ogni  atto  di
disposizione o di manomissione.
   L'articolo  262  presenta  una  sistemazione  piu'  lineare di una
materia  complessa  come  quella  della   restituzione   delle   cose
sequestrate  che  trova  ora  una regolamentazione tortuosa e persino
difficilmente intelligibile nell'art.  622  c.p.p..  Si  e'  ritenuto
opportuno  trasferire  questa  normativa dal settore dell'esecuzione,
dove oggi si trova, a quello della disciplina del sequestro, cosi' da
far  intendere  gia'  a livello sistematico come la vicenda estintiva
del vincolo sulle cose acquisite a fini di prova sia da  ricollegarsi
anzitutto  al  venir meno delle esigenze probatorie che hanno indotto
ad emanare il provvedimento acquisitivo.
   Fissata  questa  regola nel comma 1, nel comma 2 si e' dato spazio
al  problema  dei  rapporti  tra   sequestro   penale   e   sequestro
conservativo a garanzia dei crediti di reato, adottando una soluzione
che si discosta notevolmente da quella accolta dal codice vigente. Il
legislatore  del  1930  ha  seguito  in  tema  di cose sequestrate un
orientamento, risalente in gran  parte  alla  dottrina  della  Scuola
positiva,  che  si puo' riassumere nella massima semel captum, semper
retentum: le cose appartenenti  all'imputato  non  dovrebbero  essere
restituite,  anche  se e' venuta meno l'esigenza di prova, poiche' di
esse  ci  si  puo'  pur  sempre  servire  ai  fini   della   garanzia
patrimoniale   dei   crediti   di  reato.  Respingendosi  una  simile
conversione automatica  che  crea  una  inammissibile  disparita'  di
trattamento  tra  imputati  cui sono stati sequestrati beni a fini di
prova ed imputati non assoggettati alla misura di coercizione  reale,
si   e'   inteso   modificare  l'attuale  regime  normativo  con  una
disposizione che autorizza  l'attuazione  della  misura  patrimoniale
sulle  cose  gia'  sequestrate  quando sussistano tutti i presupposti
previsti in via generale per l'emissione del provvedimento (periculum
in  mora, iniziativa del pubblico ministero o della parte civile). La
norma  non  fa  altro  che  ribadire  quanto  e'   desumibile   dalle
disposizioni  sul sequestro conservativo: la sua importanza si coglie
percio' piuttosto sul piano della fissazione di un limite all'operare
della  restituzione  che  si  potra'  tradurre,  nella prassi, in una
comunicazione della richiesta di restituzione al  pubblico  ministero
ed alla parte civile perche', ove ne ravvisino l'opportunita', questi
siano messi in grado di proporre richiesta di sequestro  conservativo
sui  beni  gia'  sottoposti  a  sequestro  penale ove sia disposta la
restituzione (una disciplina non dissimile  era  contenuta  nell'art.
613 comma 2 c.p.p. del 1913).
   Il  comma  3  (gia' introdotto dal Progetto del 1978 in attuazione
della sentenza n. 2  del  1975  della  Corte  costituzionale  che  ha
dichiarato l'illegittimita' dell'art. 622 comma 5 nella parte in cui,
in ipotesi di sentenza  di  proscioglimento  impugnata  dal  pubblico
ministero,  non  imponeva  la  restituzione del film sequestrato come
osceno), regola i rapporti tra sequestro e confisca. Essi sono  stati
esaminati  in  sede  di  discussione  sulla  nuova forma di sequestro
(preventivo), introdotta accanto a quello penale (a fini di prova) ed
a quello conservativo penale (a garanzia dei crediti da reato). Si e'
data veste autonoma a tale forma di coercizione reale  finalizzata  a
tutela  di  interessi  sostanziali,  quali  la interruzione dell'iter
criminoso o la prevenzione di nuovi reati. L'esperienza degli  ultimi
anni  ha  dato  ampio  rilievo  a  questo  tipo  di sequestro (ad es.
sequestro  del  cantiere,  di  immobili  abusivamente  costruiti,  di
pellicole  cinematografiche,  di  sostanze  alimentari), tanto da far
ritenere necessario superare l'ambiguita' e le lacune della normativa
vigente,  per tracciare una disciplina compiuta, soprattutto sotto il
profilo  della  restituzione,  regolata  da  principi  estranei  alle
esigenze probatorie (cfr. artt. 321 - 323).
   Quanto  al  comma  4, che sancisce in via generale un diritto alla
restituzione a conclusione del  processo  penale,  salvi  i  casi  di
confisca, va menzionata la nuova formula "chi ne abbia diritto" (cfr.
pure il comma 1) adottata in luogo di quella attuale ("chi  prova  di
averne   diritto"),   che  sembra  alludere  ad  un  onere  di  prova
incompatibile con l'iniziativa di ufficio  della  restituzione,  oggi
riconosciuta  al  giudice  dall'art. 624 comma 1 c.p.p., ribadita dal
Progetto.
   Il   procedimento  per  la  restituzione  delle  cose  sequestrate
ripropone  le  linee   attualmente   in   vigore,   quali   risultano
dall'orientamento   giurisprudenziale   prevalente,  secondo  cui  il
provvedimento puo' essere  emesso  de  plano,  salvo  il  diritto  di
opposizione dell'interessato che da' luogo ad incidente di esecuzione
(art.  624  c.p.p).  Il  testo  dell'articolo  263  precisa  che   la
restituzione  puo' essere disposta senza contraddittorio, in deroga a
quanto previsto in via generale  per  i  procedimenti  in  camera  di
consiglio  dall'art.  126,  nei  soli  casi in cui la titolarita' del
diritto sulla cosa sequestrata  appaia  evidente  dagli  atti,  salva
comunque   l'opportunita'   della   relativa   richiesta   da   parte
dell'interessato.
   In  caso  di  dubbio  - tale e' oggettivamente quello indicato dal
comma  2  -  si  rende  invece  indispensabile  l'instaurazione   del
procedimento  in  camera  di  consiglio con le garanzie dell'avviso a
tutti gli interessati, della audizione nonche'  della  impugnabilita'
dell'ordinanza conclusiva del procedimento.
   Il  comma  4 prevede che, nel corso delle indagini preliminari, la
restituzione  delle  cose  sequestrate  e'  disposta   dal   pubblico
ministero. Qualora, presentata richiesta di restituzione, il pubblico
ministero ritenga di non accoglierla, questi la trasmette al  giudice
per le indagini preliminari, il quale osserva le disposizioni dettate
in via generale.
   L'articolo 264 riproduce con lievi varianti il testo dell'art. 625
del codice vigente. I commi 2 e 3 disciplinano il caso in cui le cose
non possano essere custodite senza pericolo di deterioramento o senza
rilevante dispendio: in tal caso la vendita  puo'  effettuarsi  anche
immediatamente  e  la  somma  ricavata  dalla  vendita  e' versata in
deposito giudiziale nell'ufficio postale.
   L'articolo   265  riproduce  il  testo  dell'art.  626  con  lievi
varianti.
                               CAPO IV
                     INTERCETTAZIONI TELEFONICHE
   Diversamente  dalla  delega  del  1974,  che  non conteneva alcuna
direttiva specifica  sull'argomento,  la  delega  attuale  si  occupa
dettagliatamente  delle  intercettazioni nella direttiva 41, nonche',
con riferimento ai poteri del pubblico ministero, nella direttiva 37.
Tuttavia,  fatta  naturalmente  eccezione  per  cio'  che concerne la
diversa organizzazione delle indagini preliminari, i principi dettati
risultano  in buona parte compatibili con la disciplina contenuta nel
Progetto del 1978, dalla  quale  pertanto  non  e'  stato  necessario
discostarsi in modo radicale.
   Si  deve  rilevare  che la delega qualifica l'intercettazione come
atto proprio del pubblico ministero: a  quest'ultimo  compete  dunque
disporne   l'esecuzione,   definirne   le  modalita',  utilizzarne  i
risultati. Il giudice ha viceversa una funzione  di  controllo  e  di
garanzia,  essendogli  riservato  il  potere  di  autorizzare l'atto,
ovvero di convalidarlo, nel  caso  peculiare  in  cui  l'urgenza  non
consenta un suo intervento preventivo.
   Come oggetto dell'intercettazione vengono individuate, da un lato,
le  "telecomunicazioni",  che  includono   anche   le   comunicazioni
telegrafiche  e quelle previste dall'art. 623- bis c.p.; dall'altro -
entro limiti piu' ristretti  -  le  conversazioni  tra  presenti,  in
precedenza non contemplate espressamente.
   Infine,  le sanzioni processuali sono state, per quanto possibile,
differenziate e commisurate alla gravita' delle  infrazioni,  secondo
quella  che  sembra  una  precisa volonta' della delega (direttiva 41
lettera f).
Oltre  alle  ipotesi  cui  si  applicano semplicemente le nullita' di
ordine generale, si e' previsto un divieto di utilizzazione, riferito
alle  intercettazioni  eseguite  fuori  dei  casi  consentiti,  o  in
violazione di prescrizioni  essenziali  per  la  regolare  formazione
della prova.
   L'articolo   266   elenca   i   reati   per   cui   e'  consentita
l'intercettazione, ricalcando sostanzialmente la corrispondente norma
del  Progetto del 1978, a sua volta derivata dal codice vigente (come
modificato dalla legge del  1974).  Tale  soluzione  e'  prevalsa  su
quella  (suggerita  tra l'altro anche dalla Commissione per lo studio
dei problemi sostanziali e processuali posti dai grandi  processi  in
tema di criminalita' organizzata) di prevedere, sull'esempio di altre
legislazioni, una individuazione specifica dei reati, non limitata al
riferimento alla pena edittale.
   Come   s'e'   gia'   accennato,   l'art.   266   disciplina  anche
l'intercettazione di colloqui tra presenti  (che  non  rientrano  nel
concetto  di "telecomunicazione"), secondo l'intento desumibile della
direttiva 41, alla luce dei lavori preparatori. Per questa ipotesi e'
stata  mantenuta  la  regola  di esclusione prevista dal vigente art.
226-quinquies c.p.p. in relazione alle comunicazioni che hanno  luogo
nel  domicilio  privato, con un'eccezione concernente il caso che nel
domicilio medesimo si stia svolgendo l'attivita' criminosa.
   L'ultimo  comma  dell'art.  258  del  Progetto  del  1978 e' stato
abolito perche' interamente sostituito dall'art. 102 comma 4, in tema
di  garanzie del difensore (si veda inoltre l'art. 271 comma 2 per la
tutela del segreto professionale).
   Con  l'articolo  267  si  prevede,  in via ordinaria (comma 1) una
richiesta  di  autorizzazione  rivolta  al   giudice   dal   pubblico
ministero.  Al  giudice resta inoltre riservato il potere di disporre
eventuali proroghe (comma 3). Quanto  ai  presupposti  specifici  del
provvedimento,  si  e' ritenuto di mantenere la formula dell'art. 259
del Progetto del 1978. In  particolare,  si  e'  giudicato  superfluo
precisare,  come  pure era stato proposto, che le intercettazioni nei
confronti  di   persone   diverse   dall'indiziato   possono   essere
autorizzate  solo  quando  sia provato uno specifico collegamento con
l'indiziato medesimo.
   Il  comma  2  disciplina  il  provvedimento d'urgenza del pubblico
ministero e la convalida del giudice, richiedendo in entrambi i  casi
un  decreto  motivato. E' sembrato inoltre opportuno sottolineare che
in   mancanza   di   convalida   l'intercettazione    deve    cessare
immediatamente.  Il  divieto  di  utilizzazione delle intercettazioni
compiute in assenza di convalida e'  prescritto  espressamente  dalla
direttiva  37,  in  ossequio  alla  lettera  della quale in una prima
versione  dell'articolo  era  stata   inclusa   anche   la   nullita'
insanabile,  poi eliminata per ragioni di coerenza sistematica, posto
che l'inutilizzabilita' della prova, come disciplinata dall'art. 191,
mal  si  concilia  con la nullita', che riguarda i vizi dell'atto. La
conclusione  pare  sostanzialmente   conforme   alla   volonta'   del
delegante,  considerato  che  la norma introdotta assicura il massimo
della tutela, cui nulla aggiungerebbe la previsione di  una  nullita'
speciale.
   Anche  l'articolo  268 e' strutturato sulla falsariga del Progetto
del 1978, ma con numerose modifiche. Nel comma 1 si prescrive (a pena
di   inutilizzabilita':   si   veda   l'art.  271  comma  1)  che  le
intercettazioni debbono essere registrate, cio'  che  finora  restava
sottinteso:  si  vuole  sottolineare che solo i documenti fonici ed i
verbali hanno rilevanza probatoria,  con  esclusione  di  ogni  altro
mezzo   (in   particolare,   la  testimonianza  di  chi  ha  eseguito
l'intercettazione).  Inoltre  si  dispone  esplicitamente  che  vanno
inseriti nel verbale i cosiddetti "brogliacci d'ascolto", soprattutto
allo scopo di consentirne il  controllo  da  parte  della  difesa  al
momento  del  deposito.  Si  e'  peraltro  ritenuto di formulare tale
precetto in un comma separato,  per  evitare  che  l'omissione  della
trascrizione  possa  causare l'inutilizzabilita' dell'intercettazione
(cfr. il gia' richiamato art. 271 comma 1).
   Circa  la  localizzazione  degli  impianti,  si  e'  salvaguardata
l'esigenza  che  le  intercettazioni,  in  caso  di  urgenza   e   di
indisponibilita'  degli  impianti  in  dotazione  alla  procura della
Repubblica,  possano  essere  eseguite  anche  mediante  impianti  di
pubblico  servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria (comma 3).
   La  trasmissione  e  il  deposito dei verbali sono ora riferiti al
pubblico ministero (comma 4). L'inciso "conclusione delle operazioni"
costituisce  un  modo  piu'  chiaro per indicare che il deposito deve
avvenire solo al termine del  periodo  complessivamente  autorizzato,
incluse  le  proroghe. Si prevede altresi' il deposito, oggi soltanto
implicito, dei provvedimenti  autorizzativi,  anche  per  consentirne
l'acquisizione   nell'eventuale   diverso   procedimento  in  cui  le
intercettazioni possano essere utilizzate. Il  deposito  puo'  essere
dilazionato,  per  esigenze  di  segretezza,  fino  al  termine delle
indagini preliminari (comma 5): peraltro,  ad  evitare  un  eccessivo
sacrificio del diritto di difesa, si prevede il deposito entro cinque
giorni in caso di utilizzazione delle intercettazioni nel corso delle
indagini.
   L'acquisizione  dei  risultati dell'intercettazione viene disposta
dal giudice, sulla base delle richieste  delle  parti  (comma  6).  A
questo scopo ai difensori viene espressamente consentito (dato che la
prassi normalmente lo nega) di ascoltare le registrazioni, oltre  che
di prendere visione degli atti. L'acquisizione e l'eventuale stralcio
(che puo' essere disposto anche di ufficio) debbono  aver  luogo  nel
contraddittorio  delle  parti,  cui  e'  dovuto tempestivo avviso. Da
notare che, in conformita' ad una precisa indicazione  della  delega,
lo   stralcio   e'   accompagnato   dalla  distruzione  solo  per  le
intercettazioni  illegittime,  non  anche  per   quelle   considerate
irrilevanti.
   L'articolo 269 rappresenta l'attuazione della direttiva 41 lettera
e). La documentazione va conservata presso il pubblico ministero;  e'
comunque   fissato   un  limite  alla  conservazione  obbligatoria  -
individuato nella sentenza irrevocabile - dato che non  e'  pensabile
una  conservazione senza limiti dei nastri registrati. La distruzione
e' comunque consentita su richiesta dei soggetti che  abbiano  subito
l'intercettazione  e  possano  vantare un interesse alla tutela della
riservatezza.  Vanno  in  ogni  caso  distrutte  le   intercettazioni
illegittime, ai sensi dell'art. 271.
   L'articolo 270 disciplina l'utilizzazione delle intercettazioni in
processi diversi da quelli  per  cui  esse  sono  state  autorizzate,
utilizzazione  che  il  Progetto  del  1978 aveva escluso e la delega
(direttiva 41 lettera a) ripristinato. Tale utilizzazione e'  ammessa
solo  se  i  risultati delle intercettazioni siano indispensabili per
l'accertamento di delitti per i quali e'  obbligatorio  l'arresto  in
flagranza.
   Si e' cercato di limitare il sacrificio del diritto di difesa, con
l'applicazione, anche nel procedimento ad quem, delle garanzie in cui
all'art. 268; inoltre, per ovviare agli inconvenienti derivanti dalla
trasmissione solo parziale degli atti, e' stato consentito alle parti
di prendere visione dei verbali e delle registrazioni originariamente
depositati nel processo a quo (inclusa l'eventuale documentazione  in
seguito stralciata).
   Come  si e' accennato, per le intercettazioni illegittime e' stata
mantenuta, nell'articolo 271, l'inutilizzabilita' a  qualsiasi  fine,
accompagnata dalla distruzione della relativa documentazione.
   Il  divieto di utilizzazione di cui al comma 2 e' stato introdotto
per colmare una lacuna del  Progetto  del  1978,  comune  anche  alla
normativa  vigente. Non sembra infatti ci sia ragione di escludere la
tutela del segreto professionale di soggetti diversi dal difensore  e
dal  consulente  tecnico  (art.  102 comma 4): altrimenti sarebbe fin
troppo facile aggirare le limitazioni in tema di  testimonianza  (che
l'art.   195   estende   anche   alla  testimonianza  indiretta).  La
disposizione e' simmetrica a quella  dettata  in  tema  di  sequestro
(art. 256), senza pero' il bisogno di prevedere particolari modalita'
di accertamento, dato che il contenuto  della  prova  e'  gia'  noto:
l'intercettazione,  infatti,  non  e' di per se' vietata (come invece
avviene   per   le   comunicazioni   del   difensore),   ma   diventa
inutilizzabile  solo  in  quanto  si  risolva  in  notizie coperte da
segreto, la cui reale esistenza e' accertabile caso per caso.  Si  e'
invece escluso che una disciplina analoga debba applicarsi al segreto
di  ufficio,  posto  a  tutela   degli   interessi   della   pubblica
amministrazione e non a garanzia di diritti fondamentali.
                               LIBRO IV
                           MISURE CAUTELARI
   Si  e'  ritenuto  di  tener  ferma  la scelta, gia' effettuata dal
Progetto preliminare del 1978,  di  dedicare  un  intero  libro  alle
misure  che  possono essere disposte nel corso del processo penale in
funzione  di  esigenze  cautelari  e  con  effetti  limitativi  delle
liberta' o delle disponibilita' di beni da parte dell'imputato.
   Non sembra che ci sia neppur bisogno di spendere troppe parole per
motivare  la  ripulsa  dell'impostazione  minimizzante  adottata   in
proposito   dal   codice   vigente   che   reca  nel  libro  dedicato
all'istruzione la maggior parte delle disposizioni in materia:  prima
e  piu'  che problemi di dinamica processuale attinenti a questa od a
quella fase dell'iter che conduce alla sentenza, sono infatti qui  in
gioco  problemi  di equilibrio tra le esigenze che possono definirsi,
appunto, "cautelari" (e che coinvolgono il processo  penale  nel  suo
insieme)  e  le  esigenze  di  rispetto di quel diritto alla liberta'
personale che nella Costituzione trova tutela primaria ed autonoma in
quanto tale.
   Piuttosto, va messa in evidenza la nuova sistematica "interna" che
la disciplina e' venuta ad assumere nel testo che si sta illustrando,
anche  per  la  necessita'  di  tener conto dell'esplicita attenzione
dedicata dalla nuova legge-delega ad aspetti della tematica che erano
rimasti  in  ombra  nella  legge del 1974. E' cosi' che sono venute a
scandirsi con maggior nettezza talune distinzioni, per  cui,  accanto
alle   misure   di   coercizione  personale,  si  individuano  misure
"interdittive"  e  misure  "reali",  le  une  e  altre   pur   sempre
riconducibili, come le prime, alla finalizzazione "cautelare".
   Proprio  la caratterizzazione "cautelare" e' parsa in ogni caso la
piu' idonea  a  consentire  di  raccogliere  le  varie  misure  sotto
un'etichetta   comune,   con  una  normativa  che  si  articola  poi,
anzitutto, sulla bipartizione tra misure destinate ad  incidere  piu'
direttamente  sulla  sfera della personalita' dell'individuo e misure
che colpiscono i beni materiali: di qui,  i  due  titoli  di  cui  si
compone   questo   libro,   relativi   l'uno  alle  misure  cautelari
"personali" (in cui si  comprendono,  cosi'  le  misure  "coercitive"
inerenti   appunto   alla   persona  del  soggetto,  come  le  misure
"interdittive") e l'altro alle misure cautelari "reali".
                               TITOLO I
                      MISURE CAUTELARI PERSONALI
   Le  direttive fissate al riguardo dalla legge-delega del 1987 sono
racchiuse,  essenzialmente,  nei  numeri  59-65  dell'art.   2,   che
riprendono,  con  una  certa serie di integrazioni e di variazioni, i
contenuti dei numeri 54-58 del corrispondente articolo della legge n.
108 del 1974.
   Quanto  alle  scelte  principali,  e'  notevole la continuita', in
quest'ambito, tra la prima e la seconda legge-delega. C'e' semmai  da
osservare, per un verso, che la piu' gran parte dei problemi capitali
di una "illuminata" disciplina di tutela della liberta' personale nel
processo  penale  continuano  ad  essere pesantemente condizionati da
fattori di contesto (ed in particolare dalle  capacita'  dell'insieme
della  normativa  processuale  ad  assicurare "tempi ragionevoli" per
l'intero iter che va dalla notizia di reato al giudicato)  per  altro
verso  che,  quanto  al  proprium piu' specifico a quella disciplina,
l'intervallo tra la prima e la seconda delle due leggi ha  pur  fatto
registrare  dei  mutamenti  culturali  e  di  sensibilita', tanto che
alcuni tra i principi che piu' apparivano innovatori nel  1974  hanno
poi  potuto  informare  di  se', quantomeno nelle linee fondamentali,
gia' una  parte  della  legislazione  novellistica  degli  anni  piu'
recenti.  Cosi'  dicasi,  in  particolare, per il potenziamento della
pluralita' di strumenti cautelari mirante a ridurre  la  tradizionale
propensione  ad  un eccessivo ricorso alla custodia carceraria: cosi'
dicasi, altresi', per il  superamento  dell'altrettanto  tradizionale
"vuoto  di fini" legislativo in tema di misure limitative di liberta'
e per il connesso rafforzamento dell'obbligo di motivare  i  relativi
provvedimenti;   cosi'  dicasi,  ancora,  per  l'introduzione  di  un
sindacato di merito sui provvedimenti suddetti.
   Da  altri  punti  di  vista - ed in particolare dal punto di vista
delle competenze  a  provvedere  de  libertate  -  la  nuova  delega,
confermando  e  sviluppando  le  opzioni  di fondo gia' delineate nel
1974, implica invece piu' sensibili correzioni di tiro rispetto  alla
normativa attuale, mentre sotto ulteriori profili - ed in particolare
per quanto attiene alla disciplina dei termini massimi della custodia
-  sono  recepite  dalla  nuova  legge-delega indicazioni maturate in
larga parte dopo il 1974 anche se, a loro volta, gia'  travasate,  in
buona misura, nella piu' recente legislazione novellistica.
   In   questo   contesto,   per   gli   spazi   che  competono  alla
responsabilita' di un'attuazione consapevole delle direttive  fissate
dal  legislatore  delegante,  si e' cercato di lavorare, di regola, a
partire dalle soluzioni a suo tempo adottate dal Progetto preliminare
del 1978, sia pure per adeguarle, dove necessario, agli aggiustamenti
ed alle integrazioni di prospettiva intervenute nel frattempo.
   Nel  capo  I  del  titolo  e'  compresa  una serie di disposizioni
generali, tra le quali fanno spicco quelle dirette a fissare i limiti
fondamentali  entro i quali ha da esercitarsi il potere cautelare del
magistrato: ed e' in questa  sede  che  trovano  percio'  posto,  non
soltanto   la   normativa   sul   quantum  di  indizi  necessari  per
l'applicazione delle misure limitative  di  liberta',  ma,  altresi',
quella  sulle  "esigenze  cautelari"  in  vista delle quali le misure
possono essere applicate; e', poi, sempre in  questo  capo  che,  tra
l'altro,  si  fissano  le  regole di base per la determinazione delle
competenze funzionali di settore.
   Nei capi II e III vengono individuate le singole misure cautelari,
rispettivamente di natura coercitiva e di natura interdittiva, con la
descrizione dei presupposti e delle modalita' di ciascuna di esse.
  Quanto  al  capo  IV, esso e' dedicato alla forma ed all'esecuzione
dei provvedimenti concernenti le  misure  de  quibus,  mentre  quello
successivo   (capo   V)  si  occupa  dell'"estinzione"  delle  misure
medesime, anche con riferimento alla  tematica  dei  termini  massimi
della loro durata.
   Segue  un  capo  -  il VI - dedicato alle impugnazioni in materia,
mentre  il  VII  contiene  la  disciplina  processuale  dell'istituto
dell'applicazione  provvisoria  delle  misure  di  sicurezza previsto
dall'art. 206 c.p.. L'VIII ed ultimo capo concerne  l'istituto  della
riparazione per ingiusta detenzione.
                                CAPO I
                        DISPOSIZIONI GENERALI
   L'articolo  272,  con cui si apre questo capo, ha funzione, per un
verso, di fondamento di ordine generale per  l'esercizio  del  potere
cautelare  all'interno  del  processo  penale,  per  altro  verso  di
delimitazione, a sua volta di ordine generale, all'esercizio di  tale
potere.  Tale seconda funzione sarebbe forse stata piu' efficacemente
sottolineata dall'uso di una formula al negativo ("le liberta'  della
persona  non possono essere limitate... se non a norma..."), ma si e'
preferito mantenere  la  struttura  che  la  disposizione  aveva  nel
Progetto  preliminare  del  1978,  essendo prevalsa la tesi che fosse
preferibile   evidenziare   sin   dall'inizio   il    carattere    di
discrezionalita' - sia pure legislativamente circoscritta e "guidata"
- che assiste le risoluzioni giudiziarie in questo campo.
   L'articolo 273 comporta, di significativo, anzitutto l'accentuarsi
della preoccupazione di ridurre l'area  delle  situazioni  indizianti
che   possono   legittimamente   dar  luogo  all'adozione  di  misure
cautelari.  In  stretta  aderenza  alla  direttiva  59  della   nuova
legge-delega,  la  tradizionale  formula  dei  "sufficienti indizi di
colpevolezza" viene cosi' sostituita da una  formula  imperniata  sul
riferimento all'idea dei "gravi indizi di colpevolezza" (non senza la
consapevolezza,  ovviamente,  dell'impossibilita'  di  tracciare,  in
questo   campo,   linee   di   demarcazione  nettissime;  ma  con  la
convinzione, peraltro, che il mutamento abbia egualmente da esprimere
un'indicazione  di  alto  valore  e  di significato rilevante per gli
operatori). Deve ancora notarsi  che  il  riferimento  e'  fatto,  in
generale,  a  tutte  le  misure  cautelari di ordine personale, e non
soltanto alla  misura  della  custodia  in  carcere;  ma  ad  evitare
equivoci,  sara' bene ricordare altresi' che sfuggono invece a questa
disciplina istituti come l'invito a  presentarsi  ed  il  decreto  di
accompagnamento,  per  i  quali,  d'altra  parte,  i presupposti sono
determinati in maniera autonoma (cfr. artt. 131, 373, 374).
   Il  comma  2  dello  stesso  art.  273  pone,  dal  canto suo, uno
sbarramento alla possibilita'  di  ricorrere  a  strumenti  cautelari
limitativi delle liberta' della persona, quando vengano meno elementi
essenziali per la punibilita' dell'imputato, anche  se,  per  qualche
ragione,  il  processo  deve proseguire. A tal fine, del resto, ci si
limita a portare a conseguenze piu' ampie - con riferimento, appunto,
alla  variegata  gamma  dei  fattori  che  sulla  punibilita' possono
influire - un principio gia' inserito nella  tradizionale  disciplina
codicistica (art. 256 c.p.p.).
   L'articolo   274  detta  la  disciplina  relativa  alle  "esigenze
cautelari", volendo anzitutto sottolineare  che  ogni  determinazione
processuale  influente  sulla  liberta'  dell'imputato  deve reggersi
anche su di una valutazione in concreto del  periculum  in  libertate
rapportata  a  parametri  che  e'  la  legge stessa a fissare. Questa
normativa e' stata tenuta distinta da quella dell'articolo precedente
per  mettere in evidenza il ruolo peculiare di tale valutazione nella
dinamica di esercizio del potere cautelare; ma sembra necessario  non
dimenticare  che,  da  un certo punto di vista, si tratta pure qui di
"condizioni di applicabilita'" delle misure cautelari,  le  quali,  a
loro volta, assumono carattere generale (anche se e' sufficiente che,
nelle singole situazioni concrete, ricorra una  sola  delle  suddette
esigenze  per  legittimare,  nel  concorso  delle  altre  condizioni,
quell'esercizio): e la precisazione va  tenuta  presente  soprattutto
agli  effetti della dinamica della revoca delle misure. E' d'altronde
superfluo ricordare che si tratta di condizioni aggiuntive rispetto a
quelle individuate nell'articolo precedente.
   Nel  Progetto  preliminare del 1978 - e' opportuno ricordarlo - la
relativa disciplina era stata inserita in due disposizioni (artt. 278
e  279)  dell'allora  capo  III, dedicato ai "motivi di coercizione",
insieme ad una disposizione (art. 280) che configurava un obbligo  di
provvedere  motivatamente  de  libertate (anche se "in negativo") nei
casi di imputazione per reati di determinate  specie  particolarmente
gravi.
Quest'ultima  disposizione  -  come  si ricordera' tra breve - non e'
stata riprodotta nel testo che  si  sta  illustrando,  e,  anche  per
questa  ragione,  e'  parso  poco  opportuno  mantenere  l'originaria
collocazione per la residua disciplina in materia, tanto piu' che  la
nuova  sistemazione sembra consentire di sottolineare meglio il ruolo
fondamentale  dell'apprezzamento  delle  esigenze   cautelari   nella
dinamica globale dell'esercizio dei poteri limitativi di liberta'.
   Venendo comunque ai contenuti dell'art. 274, va anzitutto chiarito
che l'assolutezza della formula con cui esso  esordisce  ("le  misure
cautelari  sono  disposte...")  non  vuol significare riesumazione di
regole di automaticita' assoluta dei comportamenti del giudice,  che,
come vedremo subito, sono anzi estranee dal nuovo sistema piu' ancora
di quanto non lo siano rispetto  alla  disciplina  vigente;  si  vuol
piuttosto rimarcare che la discrezionalita' giudiziaria e', in questo
campo, pur sempre una discrezionalita' legalmente limitata, nel senso
che  al giudice non e' lasciata un'ulteriore facolta' di determinarsi
in un senso o nell'altro  una  volta  che  abbia  acquisito,  appunto
secondo  i  criteri  fornitigli  dalla legge ad orientamento e limite
della  sua  discrezionalita',  la  convinzione  circa  l'esistenza  o
l'inesistenza dei presupposti di esercizio del potere cautelare.
   Quanto  alle specifiche "esigenze cautelari" che possono venire in
gioco, il testo della nuova legge-delega ha  consentito  di  superare
alcuni  dubbi  lasciati aperti dalla dizione della delega precedente,
e, in particolare, quello relativo alla stessa configurabilita' - nel
codice  in  elaborazione  -  della  fuga  e del pericolo di fuga come
autonomi "motivi di cautela" potenzialmente rilevanti in ogni stato e
grado del procedimento.
   La  prima  delle  "esigenze  cautelari" a venire in considerazione
continua ad essere quella riconducibile alla tradizionale idea  della
"finalita'  istruttoria"  delle cautele. In proposito, si e' ritenuta
opportuna  un'ulteriore  puntualizzazione  della  formula  usata  dal
legislatore  delegante,  dove  si  fa  riferimento  ad  "inderogabili
esigenze attinenti alle indagini", e la si e' percio' ancorata ad una
piu'  specifica determinazione finalistica di situazioni di pericolo,
che devono essere tali da mettere in forse - secondo una terminologia
gia'  adottata  dal  Progetto  preliminare  del  1978  e poi in parte
travasata nella legislazione  novellistica  -  "l'acquisizione  o  la
genuinita'" della prova: deve, insomma, trattarsi di rischi attinenti
alla completa e corretta salvaguardia del potenziale  probatorio  che
le indagini possono fornire. Quanto alla necessaria predeterminazione
giudiziale di  durata  delle  misure  disposte  con  tale  finalita',
dispone l'art. 292 comma 1 lett. d), in correlazione all'art. 301.
   Va  precisato  che,  con  la  formula adottata, si e' anche voluta
escludere  rigorosamente  ogni   strumentalizzazione   delle   misure
cautelari  - ed in particolare della custodia cautelare - a finalita'
di stimolo ad una partecipazione attiva dell'imputato alla formazione
del  materiale  probatorio, espungendosi volutamente un loro aggancio
specifico anche alla finalita' di "compimento di  atti  determinati".
Deve essere chiaro, insomma, che l'esercizio del potere coercitivo al
riguardo  puo'  esplicarsi  soltanto  secondo  le   modalita',   alle
condizioni  ed  entro i limiti (anche di durata) dell'accompagnamento
coattivo (art. 131).
   In  particolare,  si  e'  inteso  escludere nel modo piu' assoluto
un'utilizzazione delle cautele a scopi,  piu'  o  meno  direttamente,
estorsivi  di  confessioni.  Allo  scopo,  si  era  anzi  pensato  di
introdurre, attraverso un comma aggiuntivo da inserire  nello  stesso
art.  274,  una  specifica disposizione in tal senso, con la quale si
prevedeva che nessuna misura potesse  essere  applicata  al  fine  di
ottenere  la  presenza  dell'imputato  ad  atti  diretti ad assumerne
comunque le dichiarazioni. Caduto ogni riferimento, nella lettera  a)
del  comma  1,  ad  una  possibile  finalizzazione  delle  cautele al
"compimento  di  atti  determinati",  e'  parsa  superflua  anche  la
precisazione  dell'ipotizzato  comma  2,  che  del resto poteva anche
prestarsi, per la sua formulazione, ad interpretazioni fuorvianti. La
Commissione     e'    comunque    rimasta    unanimemente    convinta
dell'inammissibilita', nel  sistema  adottato  (e,  del  resto,  alla
stregua di elementari esigenze di civilta' processuale, sottostanti a
tutto  il  tessuto  delle  garanzie  fissate   in   proposito   dalla
Costituzione    e   dalle   Convenzioni   internazionali),   di   una
strumentalizzazione "confessoria" delle cautele.
   Quanto  alla fuga ed al pericolo di fuga dell'imputato, gia' si e'
detto del superamento dei dubbi sulla possibile rilevanza  di  questi
elementi,  in  forza  dell'espressa  previsione contenuta al riguardo
nella nuova legge-delega. In proposito, il testo  elaborato  riflette
piuttosto  lo sforzo di dare concretezza al limite che a proposito di
questi  elementi  la  delega  stessa  viene  ad  introdurre,  con  lo
stabilire  che  essi siano rilevanti in materia soltanto "se il reato
risulta di particolare gravita'": la concretizzazione si e' avuta nel
senso,  non di un riferimento alla pena edittale, ma in quello che e'
parso piu' aderente al  tenore  della  direttiva  da  attuare,  quale
emerge  soprattutto  dall'uso  dell'espressione  verbale "risulta", e
cioe' nel senso del  vincolo  ad  una  prognosi  sulla  sanzione  che
dovrebbe essere effettivamente inflitta.
   Circa  le  esigenze  che  anche  la nuova legge-delega - come gia'
quella  precedente   -   riporta   all'idea   della   "tutela   della
collettivita'",   si   e'  ritenuto  che  la  formula,  genericamente
indicativa  di  un'area  di  interessi  da  tutelare,  fosse   bensi'
accettabile  in  quanto  tale  nel contesto, appunto, di una legge di
delega, ma dovesse essere piu' attentamente  precisata  e  delimitata
nel  momento  in  cui  si  trattava  di  stabilire dei criteri per il
giudice, onde evitare un dilatarsi eccessivo  della  discrezionalita'
in  un  campo  nel quale, viceversa, l'esercizio del potere cautelare
deve   essere   particolarmente   contenuto.   Utilizzandosi    anche
indicazioni  ricavabili  dalla  giurisprudenza  costituzionale, ed in
parte recepite dalla stessa legislazione vigente,  si  sono  pertanto
individuate  due  -  e  due sole - categorie di fattispecie criminose
(quelle dei gravi delitti diretti contro la  sicurezza  collettiva  o
l'ordine  costituzionale  e  quella dei gravi delitti di criminalita'
organizzata) la cui potenziale realizzazione da parte  dell'imputato,
ricavabile  da  specifiche  modalita'  e  circostanze  del  fatto che
attualmente  gli  si  addebita   nonche'   dalla   sua   personalita'
globalmente considerata, integra di per se' l'"esigenza cautelare" in
questione; mentre, con  riferimento  ad  ogni  altra  situazione,  la
"tutela   della   collettivita'"   dovra'  concretarsi  nel  pericolo
specifico di  commissione  di  delitti  collegati,  sul  piano  della
medesimezza di indole, a quello per cui si e' imputati.
   L'articolo  275 fissa i criteri che debbono guidare il giudice, in
relazione ai singoli casi concreti, nella scelta tra le varie misure,
una  volta  assodato  che  egli  si  deve avvalere, nella specie, del
potere cautelare.
   Nel comma 1 trova pertanto espressione il cosiddetto "principio di
adeguatezza" delle misure cautelari,  che  e'  logico  ed  essenziale
corollario  della scelta accentuatamente "pluralistica", operata gia'
con la legge-delega del 1974 e ribadita, in esordio, dalla  direttiva
59 della delega del 1987.
   Il  raccordo  con specifiche esigenze cautelari, insomma, viene ad
essere determinante,  non  soltanto  per  decidere  se  far  uso  del
relativo  potere  genericamente  inteso,  ma anche per decidere quale
strumento cautelare utilizzare. Si tratta di un principio cogente, ma
di  ordine generale, che non puo' essere ancorato in dettaglio ad una
completa  ed  inderogabile  gerarchia  tra  le  misure,  sebbene   la
successione  in  cui le misure coercitive vengono presentate nel capo
II abbia da fornire una prima indicazione per  l'operatore.  Maggiore
rigidita'  -  anche  per  ossequio  ad una direttiva, sul punto assai
precisa, della delega - assume invece la specificazione che la regola
viene  a  trovare  nel  comma  3  quanto  ai rapporti tra la custodia
cautelare e le altre misure:  e'  questo,  d'altronde,  un  modo  per
sottolineare come anche in concreto, e non soltanto in astratto, tale
misura abbia da essere davvero un'extrema ratio.
   Sempre in tema di rapporti tra la custodia cautelare e la serie di
altri strumenti che possono incidere sulle  liberta'  dell'individuo,
il   comma  4  ripropone,  coordinandola  al  sistema  delineato,  la
disciplina derogatoria  oggi  contenuta,  rispettivamente,  nell'art.
4-quinquies  l.  21  giugno 1985, n. 297 e nell'art. 254- bis comma 3
c.p.p. e, gia'  in  parte  prefigurata  nell'art.  288  del  Progetto
preliminare  del  1978 (conseguentemente non riprodotto nel testo che
si presenta). Si tratta di un'ulteriore applicazione del principio di
adeguatezza per cio' che riguarda le particolari esigenze di soggetti
che si trovino in condizioni fisiche o psico-fisiche particolari (per
un  verso,  tossicodipendenti  ed  alcooldipendenti; per altro verso,
donne incinte od in stato  di  allattamento,  malati  gravi,  anziani
ultrasessantacinquenni).
   Quanto  al  comma 2 dell'art. 275, vi si trova enunciato - secondo
quanto  gia'  stabilito  dal  Progetto  preliminare  del  1978  -  il
"principio  di  proporzionalita'"  delle  misure,  che assume una sua
specifica  portata,  accanto  e  ad   integrazione   di   quello   di
adeguatezza.  Le  ragioni  e  le conseguenze di questo principio sono
state abbondantemente illustrate nella relazione al citato  progetto;
qui,  deve  aggiungersi  che  non sembra costituire ostacolo alla sua
formulazione  in  termini  generali  la  direttiva  59  della   nuova
legge-delega,  la quale ne impone l'adozione in relazione al problema
del protrarsi della custodia cautelare: sarebbe contrario alla delega
l'escludere  o  l'ignorare  l'attuazione di tale specifica direttiva,
non gia' il  riconoscere,  in  termini  piu'  generali  ed  a  monte,
quell'esigenza  che,  in  via  specifica ed a valle, la delega stessa
pretende che sia tenuta in conto.
   Deve  ora  osservarsi che, dal combinato disposto degli artt. 272,
274, 275 emerge  palesemente  l'esclusione  di  ogni  ipotesi,  anche
attenuata,  di  obbligatorieta'  della  custodia  cautelare,  o - per
restare  ad  una  terminologia  tradizionale  -  della   cattura.   E
l'impressione    risultera'   confermata   dalla   disciplina   della
motivazione dei provvedimenti (v., in particolare, l'art. 292 comma 1
lett. c).
   Anche  per  i  reati piu' gravi valgono dunque le regole generali,
per cui, nell'ambito delle fattispecie  per  le  quali  e'  legittimo
l'esercizio  del  potere  cautelare  ed in particolare nell'ambito di
quelle per cui e' consentita  l'adozione  della  custodia  cautelare,
resta  pur  sempre affidato alla discrezionalita' del giudice - sulla
base delle indicazioni, soprattutto di ordine finalistico, date dalla
legge  - il decidere se adottare o non adottare la misura massima tra
quelle previste, appunto, per l'esercizio di quel potere.
   L'esclusione    dell'"obbligatorieta'    della   cattura",   nella
tradizionale  forma   del   congegno   basato   sull'automatismo   di
conseguenze  tra  la  rilevazione  di  una  situazione  indiziante  e
l'adozione del provvedimento limitativo di  liberta'  personale,  era
gia'  propria  del  Progetto  preliminare del 1978. Ma, rispetto alla
disciplina allora configurata - ed ancor piu' rispetto a quella della
normativa  attuale,  pur  tanto  distante,  a  sua  volta, sul punto,
dall'assolutezza del congegno  originariamente  previsto  dal  codice
Rocco  -  il  testo  che  si  presenta  si  caratterizza altresi' per
l'assenza  di  qualunque  correttivo,  sul  piano  dell'onere   della
motivazione  o  sul  piano  dell'onere  di  pronunciarsi  comunque de
libertate, per l'ipotesi, appunto, di reati gravissimi.
   A  questa  soluzione si e' giunti per lo scrupolo di non incorrere
in una censura di mancato rispetto  della  volonta'  del  legislatore
delegante,  soprattutto  in  considerazione di un dato: una regola di
trattamento particolare era presente nel testo  della  nuova  delega,
cosi' come uscito dalla Camera dei deputati nel 1984, ma e' poi stata
soppressa nel testo definitivo della legge n. 81 del 1987.
   La  Commissione  non  ha  nascosto  peraltro  le  perplessita' che
l'assenza di  qualunque  regola  del  genere  puo'  suscitare,  e  ha
sottolineato  la circostanza che nel recente d.d.l. 622/S, presentato
dal  Governo  e  contenente  "nuove  norme  in  materia  di  liberta'
personale e di garanzie difensive dell'imputato nel processo penale",
e' pur proposta una disciplina particolare, nel  senso  dell'"obbligo
di  motivazione  in  caso di non emissione del mandato di cattura per
determinati reati"; e  cio',  sulla  falsariga,  appunto,  di  quanto
stabiliva al riguardo il Progetto preliminare del 1978. L'esigenza di
responsabilizzare particolarmente il giudice  quando  le  imputazioni
siano  di  specialissima  gravita', sembra invero innegabile. E' bene
tuttavia che, su di una scelta di cosi' alta delicatezza,  siano  gli
organi   parlamentari  a  pronunciarsi,  eventualmente  chiarendo  il
significato del silenzio mantenuto sul punto dalla legge-delega o, al
limite, integrandone il dettato.
   Nell'articolo  276  si e' data una soluzione di ordine generale al
problema delle conseguenze dell'inosservanza delle  prescrizioni  che
costituiscono   il  contenuto  delle  singole  misure  diverse  dalla
custodia cautelare.
   Vi  si  afferma  il  principio  della possibilita' di cumulo delle
misure e della sostituibilita' della misura originaria con altra piu'
grave, ad evitare che le prescrizioni de quibus finiscano per restare
soltanto sulla carta. Non si tratta, peraltro, di un cumulo o di  una
sostituzione  di  carattere automatico, perche' si e' ritenuto che le
caratteristiche della trasgressione possano in certi casi essere tali
da  far  ritenere  sproporzionata  una  reazione  giudiziaria in quei
termini.   Pure   qui,   dunque,   la   logica   e'   quella    della
"discrezionalita'  guidata",  con  la  necessita' di fare riferimento
all'entita', ai motivi ed alle  circostanze  della  violazione  delle
prescrizioni.  Nella  seconda  parte  della  disposizione  si precisa
d'altronde che la  diversita'  tra  le  misure  coercitive  e  quelle
interdittive non impedisce la sostituzione ne' l'aggiunta delle prime
alle seconde quando siano violate queste ultime; il che  e'  volto  a
chiarire  che  la  stessa  custodia cautelare puo' essere disposta in
luogo di una misura interdittiva (od  in  aggiunta  ad  essa)  quando
questa  si  riveli  inefficace  ad  assicurare la tutela cautelare in
vista della quale e' stata disposta.
   Si  e'  invece  ritenuto  -  anche  in  seguito  a  rilievi venuti
dall'ambito  forense  -  che  non  fosse  opportuno   mantenere   una
disposizione  quale  quella  inserita  nell'art. 265 del Progetto del
1978, la quale fissava in termini generali una regola  di  esclusione
del  cumulo  fra  le misure, salvi i casi previsti dalla legge: si e'
infatti opinato che, considerata la "naturale"  incompatibilita'  tra
alcune misure (ad esempio, tra gli arresti domiciliari e l'obbligo di
presentazione alla polizia giudiziaria) la previsione  avrebbe  avuto
una  portata assai limitata; si sarebbe insomma tolta giustificazione
alla riduzione della discrezionalita' nell'adeguamento dell'esercizio
del  potere  cautelare  alle  esigenze  dei  singoli  casi  concreti,
conferita al giudice dall'art. 275 al fine, tra l'altro,  di  rendere
davvero residuale il ricorso alla custodia cautelare.
  Anche  l'articolo  277  ha  subito  qualche  ritocco  rispetto alla
formulazione ricevuta nel corrispondente art. 266  del  Progetto  del
1978.
   Nel  testo  che  ne  risulta,  piu'  ancora  che  nella precedente
formulazione, si e'  invero  finito  per  dar  spazio  a  ragioni  di
prevenzione  contro  possibili  strumentalizzazioni  che  venissero a
vanificare il perseguimento degli scopi delle misure  cautelari.  Non
si  vorrebbe  tuttavia  che  cio'  facesse  dimenticare le ragioni di
principio che stanno alla  base  dell'inserzione  di  una  norma  del
genere  nel  codice:  la  ratio  di norme come queste resta quella di
affermare in via generale un principio di civilta' elementare ma  non
tanto ovvio da essere sempre osservato, per cui deve darsi preminenza
alla tutela della personalita'  dell'individuo,  anche  se  detenuto,
salvo  che  ci  si trovi di fronte a motivi davvero cogenti e tali da
giustificare   specificamente   certe   restrizioni.   Scopo    della
disposizione  rimane, in sostanza, quello di dare sviluppo e maggiore
determinazione a quanto  gia'  indicato,  in  termini  generalissimi,
dall'art. 1 comma 3 l. 26 luglio 1975, n. 354.
   Deve   aggiungersi   che   la  disposizione  si  riferisce  anche,
ovviamente, alla custodia  cautelare.  In  materia  trova  d'altronde
applicazione  pure  la piu' specifica norma dell'art. 285 comma 2, la
quale, a sua volta, si giustifica per la particolare incidenza  sulla
liberta'  personale  che  gia'  comporta  l' iter di traduzione della
persona al luogo in cui la custodia deve avere stabile esecuzione.
   L'articolo  278 e' costruito sulla falsariga dell'art. 255 c.p.p.,
tenendosi conto del carattere  vincolato  che,  almeno  per  una  sua
parte,  la  disciplina  veniva  ad  assumere, in relazione ai criteri
rigidamente fissati dalla direttiva 59 della legge-delega, del  resto
in armonia con quanto appunto previsto dalla normativa attuale.
   Tra  le  poche  varianti  - a parte quelle che si risolvono in una
mera differenziazione stilistica nella costruzione della frase  -  si
segnalano,  da  un  lato  l'esplicita sottolineatura dell'ininfluenza
della continuazione nel computo della pena da  calcolare,  dall'altro
l'omissione  del  riferimento  alla rilevanza della circostanza della
minore eta' (che, essendo esclusiva dei processi contro minorenni, si
e'  ritenuto  dovesse  essere  menzionata soltanto nelle disposizioni
specificamente concernenti, appunto, il processo penale minorile).
   L'articolo 279 riguarda le competenze funzionali di settore.
   La prima parte della disposizione mantiene e generalizza la regola
gia' formulata dall'art.  267  del  Progetto  preliminare  del  1978,
cumulando  esplicitamente  in  una  sola  previsione  le attribuzioni
relative ai vari provvedimenti in materia cautelare.
   Nella sua seconda parte, che si riferisce alla fase delle indagini
preliminari, la disposizione per un verso conferma poi la soluzione -
ancor  piu'  avvalorata  da  quanto  stabilisce in proposito la nuova
legge-delega - dell'esclusione di  una  legittimazione  autonoma  del
pubblico ministero (i cui poteri "d'urgenza" sono ridotti nell'ambito
della dinamica del fermo: cfr. art. 382); per altro verso  -  e  pure
qui,  in  stretta  correlazione  con  un'inequivoca  scelta di ordine
generale della nuova delega - viene a sostituire  la  competenza  del
giudice   istruttore  (figura  destinata  a  scomparire  dalla  nuova
intelaiatura del processo penale) con quella del giudice  competente,
in via generale, per le decisioni attinenti alla fase de qua.
                               CAPO II
                          MISURE COERCITIVE
   I  capi  II  e  III  sono  dedicati  alle singole misure cautelari
personali che, secondo le indicazioni delle direttive 59 e  65  della
nuova  legge-delega,  sono ora distinte in misure coercitive e misure
interdittive,  sebbene  siano  rimaste  sostanzialmente  quelle  gia'
previste nel Progetto del 1978.
   Ad  entrambe  le  categorie  di  misure  cautelari  si  applica la
disciplina prevista nelle disposizioni generali del  capo  I.  L'area
delle   fattispecie   cui  sono  applicabili  le  misure  dell'una  e
dell'altra categoria e' invece ricavabile dagli articoli introduttivi
dei rispettivi capi.
   Nell'articolo  280 e' stato generalizzato, in relazione a tutte le
misure cautelari personali del genere coercitivo, lo sbarramento  che
la   leggedelega  impone  comunque  di  osservare  per  tutte  quelle
limitative di liberta' personale. Ci si  potrebbe  domandare  se  sia
corretto  ed  opportuno dare rigida attuazione a tale direttiva anche
per misure come  il  divieto  di  espatrio,  che  soltanto  adottando
un'accezione   molto  lata  di  "liberta'  personale"  possono  farsi
rientrare in quelle cui  si  riferisce  al  riguardo  la  delega.  E'
prevalsa  comunque  la tesi della generalizzazione, nella convinzione
che altrimenti le misure meno  gravi  non  si  configurerebbero  come
propriamente  sostitutive della custodia cautelare, finendo piuttosto
per  "aggiungersi"  a  quest'ultima,  a  scapito  del  principio   di
gradualita'.
   Coerentemente  alla  scelta dell'unificazione del limite inferiore
di applicabilita', dalla disciplina delle singole misure  sono  state
soppresse  le  disposizioni  che,  nel Progetto del 1978, stabilivano
quel limite in relazione a ciascuna di esse; sempre dalla  disciplina
attinente  ad  ogni  singola  misura,  sono state altresi' espunte le
norme concernenti le conseguenze delle  trasgressioni  alle  relative
prescrizioni, a loro volta unificate nella normativa dell'art. 276.
   Cio'   detto  in  via  generale,  l'illustrazione  degli  articoli
successivi non sembra dover richiedere molto spazio.
   Quanto   all'articolo   281,   sul  divieto  di  espatrio,  si  e'
semplificata la tecnica di raccordo con la disciplina dei  passaporti
e degli altri documenti per l'espatrio, anche in considerazione delle
prevedibili evoluzioni che quest'ultima appare destinata a subire.
   Meramente  formali,  rispetto alla versione del Progetto del 1978,
sono poi - se si prescinde da quanto gia' segnalato  -  le  modifiche
apportate   al  testo  dell'articolo  282,  in  tema  di  obbligo  di
presentazione alla polizia giudiziaria.
   Piu'  incisive, rispetto al precedente Progetto, sono le modifiche
apportate all'articolo 283, concernente il  divieto  e  l'obbligo  di
dimora. Si segnala soprattutto la nuova formulazione del comma 4, che
e' conseguenza della scelta della Commissione di prevedere due misure
domiciliari: una piu' blanda, ed accessoria a quella qui disciplinata
in via principale, che resta distinta dalla custodia cautelare  e  la
cui  durata  non  e' d'altronde da scomputare dalla durata della pena
definitiva; l'altra, piu' "pesante" nelle sue modalita', disciplinata
dal  successivo  art.  284,  assimilata in via generale alla custodia
cautelare, anche agli effetti di quello scomputo. Ulteriori modifiche
sono  state  apportate nell'intento di recepire le nuove impostazioni
risultanti dalle riforme dell'art. 282 c.p.p., conseguenti alla legge
297 del 1985 ed alla legge 8 del 1986.
   Dopo   approfondita   discussione,   si   e'   altresi'  ravvisata
l'opportunita' di riprodurre nell'articolo 284 una  disciplina  degli
arresti domiciliari, sostanzialmente analoga a quella attuale, con la
gia' segnalata previsione, nell'articolo precedente,  di  una  figura
"minore" ed accessoria all'obbligo di dimora, per una ulteriore, piu'
adeguata graduazione delle cautele in relazione alle  varie  esigenze
concrete, anche sul piano dei controlli.
   Quanto  all'articolo  285,  appariva  scontato l'adeguamento della
terminologia  alla  scelta  del  legislatore  del  1984,  con   l'uso
dell'espressione   "custodia   cautelare"   (la   variante  "custodia
provvisoria", adottata dal Progetto del 1978,  aveva  soprattutto  la
funzione  di  segnare  uno  stacco rispetto alla tradizionale formula
della "custodia preventiva"). Gia' si e' sottolineata, d'altronde, la
funzione  di  spicco  che  si  e'  inteso assegnare ad una norma come
quella del comma  2  dell'articolo,  a  sviluppo  del  principio  del
"minimo sacrificio" di liberta'.
   Anche l'articolo 286 si pone in una linea di sostanziale, generale
continuita' rispetto al Progetto  del  1978,  soprattutto  nella  sua
funzione  di  norma  mirante ad evitare che la restrizione carceraria
dell'imputato costituisca una sorta di passaggio obbligato prima  del
trasferimento  in  una struttura ospedaliera adeguata al suo stato di
mente. Rispetto alla formulazione del testo precedente,  la  versione
attuale  si  sforza  d'altronde  di  tener meglio conto della riforma
intervenuta  nella  legislazione  speciale,  evitando   l'espressione
"ospedale  psichiatrico"  che  potrebbe  far pensare ad un necessario
ricovero nelle strutture  psichiatriche  giudiziarie.  Da  segnalare,
altresi',  la  modifica  apportata all'individuazione del presupposto
fattuale di applicazione della normativa,  essendosi  sostituito,  al
riferimento alla situazione del tempus commissi delicti, quello - che
e' parso piu' congruo rispetto al carattere processuale  e  cautelare
della  misura  - alla situazione in atto nel momento in cui la misura
stessa ha da essere adottata.
                               CAPO III
                         MISURE INTERDITTIVE
   Gia'   si   e'  detto  delle  ragioni  che  hanno  consigliato  di
raccogliere in un capo apposito la materia; e si  e'  detto  altresi'
delle  ragioni  che  hanno  portato, in parte a dislocare altrove, in
parte  a  sopprimere  le  disposizioni  costitutive   del   contenuto
originario del capo III del Progetto del 1978 (artt. 278 - 280).
  Questo  capo si apre dunque, ora, con una disposizione - l'articolo
287 - parallela  a  quella  (art.  280)  con  cui  si  apre  il  capo
precedente. A differenza di questa, pero', la disposizione che si sta
illustrando, nel fissare in via generale i limiti  di  applicabilita'
delle  misure  interdittive,  consente  che  per  ciascuna di esse si
prevedano deroghe al riguardo, con riferimento a determinati tipi  di
reato  rispetto  ai quali ciascuna misura puo' essere ritenuta legata
da  un  particolare  nesso  di  funzionalita'.   E'   pure   prevista
espressamente   la   possibilita'   di   limitare   l'interdizione  a
determinati settori dell'attivita' considerata, al fine di contenere,
secondo  un  criterio di stretta necessita', le modalita' concrete di
applicazione delle misure.
   L'articolo  288,  concernente  la sospensione dall'esercizio della
potesta' genitoriale, rimane  sostanzialmente  immutato  rispetto  al
corrispondente articolo del Progetto del 1978 (art. 273), nella parte
in cui descrive la misura, mentre viene modificato quanto  ai  limiti
di  applicabilita',  coordinandosi  la statuizione specifica a quanto
previsto in via generale nell'art. 287.
   Nell'articolo  289, relativo alla sospensione dall'esercizio di un
pubblico ufficio o servizio, si e' esteso l'ambito di  applicabilita'
delle misure nel caso di reati contro la pubblica amministrazione, ma
si e' mantenuta la deroga prevista dal vigente art. 140 comma 3 c.p.,
che   esclude   la  sospensione  provvisoria  dagli  uffici  elettivi
ricoperti per diretta investitura popolare.
   Quanto   all'articolo  290,  relativo  al  divieto  temporaneo  di
esercitare determinate attivita'  professionali  od  imprenditoriali,
esso  e'  stato  adeguato all'esigenza di maggior determinatezza gia'
espressasi nella introduzione degli artt. 32- bis  e  35-  bis  c.p..
Pure  in  questo  caso sono state altresi' modificate le disposizioni
relative ai limiti di applicabilita' della misura, configurandosi  la
possibilita' di applicazione della stessa in relazione ad imputazioni
specifiche, anche al di  la'  di  quanto  previsto  in  via  generale
dall'art. 287.
                               CAPO IV
                FORMA ED ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI
   E'  questo  il capo comprendente le disposizioni piu' propriamente
procedimentali  della  disciplina  concernente  l'applicazione  delle
misure cautelari.
   Esso  si  apre  con l'articolo 291, il cui comma 1 - che riprende,
modificandolo parzialmente, il contenuto dell'art. 282  del  Progetto
del  1978 - e' diretto ad attuare una precisa ed importante direttiva
della nuova legge-delega (direttiva 59): come e'  da  escludersi  una
legittimazione   ai  provvedimenti  cautelari  in  capo  al  pubblico
ministero (salvo il gia' ricordato potere  di  fermo),  cosi'  e'  da
escludersi    l'adozione    di   misure   cautelari   che   prescinda
dall'iniziativa del pubblico ministero  il  quale  e',  sotto  questo
profilo,  soggetto necessariamente "richiedente" senza legittimazione
a disporre, mentre, per converso, il giudice e'  soggetto  decidente,
ma non ex officio.
   Nel   comma  2  del  medesimo  articolo  e'  invece  prevista  una
disposizione di carattere piu' particolare, per l'ipotesi - del resto
da   pensare  come  non  del  tutto  infrequente  -  dell'urgenza  di
provvedere contra libertatem da parte del giudice incompetente.  Tale
disposizione  e'  integrativa  di  quella  dell'art.  28, al quale e'
d'altronde fatto espresso rinvio per la determinazione degli  effetti
delle misure disposte da tale giudice.
   L'articolo   292   descrive   i  requisiti  ed  il  contenuto  dei
provvedimenti del  giudice,  la  cui  forma  di  ordinanza  e'  stata
ritenuta  piu'  congrua  di  quella  del  decreto,  a sottolineare il
carattere,  incidentale   ma   non   meramente   organizzativo,   dei
provvedimenti stessi.
   Nel comma 1 dell'articolo, la disciplina non si discosta da quella
gia' dettata nella corrispondente disposizione del Progetto del  1978
(articolo  281),  salvo  che per una maggior determinatezza di alcune
prescrizioni (va del resto ricordato quanto gia'  si  sottolineava  a
commento di quella disposizione, e cioe' che la specifica elencazione
ivi contenuta non significa che le ordinanze in materia  non  debbano
rispondere, per quanto non espressamente previsto, anche ai requisiti
tipici e propri di ogni  provvedimento  decisorio  del  giudice):  in
quella  prospettiva si segnala l'integrazione apportata alla norma di
cui alla lett. b) del comma 1, per cui - in aderenza, del  resto,  al
testo  attuale  dell'art. 264 c.p.p. si prevede come necessaria anche
l'indicazione delle norme  di  legge  che  si  assumono  violate;  ma
soprattutto  si segnala la maggiore analiticita' richiesta in tema di
motivazione, diretta a rendere ancora piu' stringente  l'esigenza  di
particolare  rigore  a  suo  tempo affermata, in materia, anche dalla
precedente  Commissione  consultiva.   Si  e'   pertanto   venuta   a
distinguere la motivazione sul presupposto probatorio da quella sulle
esigenze cautelari, richiedendosi per entrambe la specificita' e, per
la  prima,  anche  l'argomentazione  delle  ragioni di idoneita' e di
sufficienza del fattore indiziante considerato.
   Poiche'  la  normativa - gia' nel Progetto del 1978 - prevedeva la
nullita' come conseguenza della  mancanza  di  alcuno  dei  requisiti
indicati,  si  e'  ritenuto di dover precisare, nel comma 2, anche il
regime di sanatoria relativo,  strettamente  connesso  alla  dinamica
delle impugnazioni previste in materia in questo stesso titolo. Si e'
tuttavia chiarito che l'eventuale sanatoria per mancata deduzione  in
termini  non  esclude  in  ogni  caso  che  la  carenza, originaria o
sopravvenuta, delle condizioni di  applicabilita'  o  delle  esigenze
cautelari sia posta alla base della revoca o della sostituzione della
misura ai sensi dell'art. 299.
   Nel  comma  3  dell'art.  292  si e' infine fissata una regola, in
parte divergente da quella dell'art. 265 c.p.p., circa i limiti entro
i  quali  gli operatori di polizia giudiziaria sono esentati dal dare