(parte 6)
pubblico  ministero,  qualora ne ravvisi la necessita' ovvero qualora
l'ufficio  postale  restituisca  il  piego  per  irreperibilita'  del
destinatario,  possa  notificare  l'informazione  di garanzia a mezzo
della polizia giudiziaria.
   La  "agilita'"  delle indagini preliminari del pubblico ministero,
rispetto ai diversi  caratteri  della  attuale  istruzione  sommaria,
consiglia   una   maggiore  "liberta'  di  forme"  e  la  conseguente
previsione del ricorso alla modalita' di notificazione fissata per il
pubblico ministero nella norma in esame.
   E' parso superfluo che alla notificazione, in caso di restituzione
del piego, si proceda nella forma ordinaria da  parte  dell'ufficiale
giudiziario:  e cio' avuto riguardo alla nuova particolare disciplina
dettata, per  le  notificazioni  richieste  dal  pubblico  ministero,
dall'art. 151.
   La  "informazione di garanzia" deve contenere la elencazione delle
norme di legge violate oltreche' l'indicazione della data e del luogo
del fatto addebitato.
   Nell'articolo  368  e'  data  attuazione  alla  direttiva 37 parte
quinta della delega.
   Il   comma   1   riecheggia  il  contenuto  della  delega,  ma  la
formulazione della norma tiene conto del doveroso  coordinamento  con
il  comma  3  dell'art.  348  che  disciplina  l'attivita' di polizia
giudiziaria dopo che il pubblico ministero ha impartito le  direttive
per  lo  svolgimento  delle  indagini (v. anche la direttiva 31 parte
quarta). Proprio in forza di tale coordinamento  l'oggetto  viene  ad
essere  ristretto  alle  attivita'  di  indagine compiute nell'ambito
delle direttive impartite, cosi' da  rendere  illegittima  la  prassi
attuale  della delega globale allo svolgimento delle indagini, la cui
direzione e' invece conferita personalmente al pubblico ministero.
   Ovviamente,   andranno   osservate  le  disposizioni  dettate  per
l'attivita' del pubblico ministero in tema di intervento della difesa
e di documentazione degli atti (comma 2).
   I  commi  3  e 4 prevedono la delegazione di singoli atti ad altra
autorita' giudiziaria  e  riecheggiano  il  contenuto  dell'art.  296
c.p.p.  vigente.  Rispetto alla disciplina attuale, la individuazione
del pubblico ministero delegato e'  semplificata  dal  fatto  che  il
pubblico ministero presso il pretore ha "ambito circondariale".
   L'articolo  369 disciplina il coordinamento tra uffici diversi del
pubblico ministero che procedono a  indagini  collegate  e  tende  ad
attuare  la direttiva 16 ("disciplina dei rapporti tra diversi uffici
del pubblico ministero durante le indagini  preliminari")  la  quale,
come  la  Commissione  per  lo studio dei cosiddetti maxi-processi ha
giustamente osservato, individua "qualcosa di piu'  penetrante  della
semplice   circolazione  di  notizie"  dato  che  "la  direttiva  30,
disciplinando tutte le possibili forme di scambio o  di  informazioni
tra  uffici giudiziari", gia' prevede questo aspetto del rapporto tra
uffici diversi  del  pubblico  ministero  (v.  art.  116).  E  questo
"qualcosa  di  piu'  penetrante"  riguarda  certamente l'esigenza del
coordinamento dell'attivita' svolta per indagini che sono "collegate"
in quanto basate su rapporti di influenza e utilita' reciproca fra le
indagini stesse ma solo  eseguite  da  uffici  diversi  del  pubblico
ministero  in  relazione  a  reati  diversi; esigenza che si presenta
soprattutto, come insegna  l'esperienza  pratica,  in  quei  processi
cumulativi  -  oggi  definiti  maxi-processi - richiamati anche dalla
delega (sia pure soltanto in materia di termini  per  la  conclusione
delle  "indagini")  quando,  nella  direttiva  48,  fa  riferimento a
"processi di criminalita' organizzata" e ad "ipotesi eccezionali".
   Il  tema  del  coordinamento  delle  indagini  e'  stato al centro
dell'attenzione della Commissione redigente la quale  ha  tenuto  nel
debito conto che, durante i lavori preparatori della legge-delega, il
problema posto con piu' preoccupazione ed insistenza in Parlamento e'
stato  quello  di  conciliare  due  esigenze  del tutto contrastanti,
almeno all'apparenza, e, precisamente:
    1)  l'esigenza  di  evitare  quanto  piu'  possibile i cosiddetti
"maxi-processi", impensabili nel  nuovo  sistema,  dettando,  a  tale
scopo,  direttive  tendenti  a  ridurre  drasticamente  le ipotesi di
connessione, ad escludere ogni discrezionalita' nella  determinazione
della  competenza  per  connessione  ed a favorire la separazione dei
processi (direttive 14 e 44);
    2)  l'esigenza  di reprimere efficacemente la grande criminalita'
organizzata che non puo'  essere  considerata  semplicisticamente  un
fenomeno  temporaneo  e contingente (v. relazione al disegno di legge
Martinazzoli n. 691/C; interventi dell'on. Violante alla Camera nelle
sedute  del 31/maggio/1984 e del 4/febbraio/1987; interventi del sen.
Coco, del sen. Vitalone e del sen. Gallo al Senato nella  seduta  del
20/novembre/1986;  interventi  dell'on. Casini, e dell'on. Macis alla
Camera nella seduta del 4/febbraio/1987).
   Si e' ritenuto che, per conciliare le esigenze sopra evidenziate -
entrambe meritevoli della  massima  considerazione  -  la  strada  da
percorrere  -  peraltro  gia'  indicata  dalla  legge-delega  con  la
direttiva 16 - sia quella  di  distinguere  la  fase  pre-processuale
delle  indagini preliminari - dominata dai poteri, investigativi e di
impulso, di parte e tendenzialmente informali del pubblico  ministero
-   dalla  fase  processuale  vera  e  propria  caratterizzata  dalla
giurisdizione.  In  entrambe  le  fasi  operano  i  normali   criteri
attributivi   di   competenza,   ivi   compresa   la  competenza  per
connessione,  che  sono  identici  per  il  giudice  delle   indagini
preliminari  e  per  il pubblico ministero. Mentre, pero', nella fase
processuale vera e propria valgono soltanto  i  suddetti  criteri  di
competenza,  nella fase delle indagini preliminari, invece, - a parte
quanto esposto nel commento agli artt. 29 comma 3, 52 comma 2 e 55  -
deve  valere anche, prima dell'intervento del giudice, una disciplina
che, pur  essendo  utile  anche  a  prevenire  ed  evitare  conflitti
positivi  virtuali  di competenza tra pubblici ministeri (v. sub art.
29 comma 3), serva, non soltanto nei "procedimenti" connessi a  norma
dell'art.  12,  ma,  soprattutto,  nei  casi in cui le indagini siano
oggettivamente  e  reciprocamente  "collegate",   a   permettere   ai
magistrati del pubblico ministero interessati di coordinarsi tra loro
per il compimento delle rispettive attivita' di indagine.
   In  questa  prospettiva  la  Commissione, recependo un argomentato
parere  della  Commissione  di  studio  sui  maxi-processi  (peraltro
discusso   in  una  riunione  congiunta  delle  due  Commissioni)  ha
proceduto alla redazione del testo dell'articolo in esame.
   Il comma 1 prevede il coordinamento di uffici diversi del pubblico
ministero. Nella  prima  parte  e'  stabilito  in  quale  ipotesi  il
coordinamento  debba avvenire (se "procedono a indagini collegate") e
per quali fini ("la speditezza, la  economia  e  la  efficacia  delle
indagini  medesime");  nella seconda parte sono indicate le modalita'
del coordinamento  che  sono  informative  ("scambio  di  atti  e  di
informazioni"    ed    altresi'    "comunicazione   delle   direttive
rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria") e possono essere
anche operative (compimento congiunto di specifici atti).
   Il comma 2 definisce le ipotesi in cui le indagini "si considerano
collegate".  Cio'  avviene,.oltre  che  nei  casi  in  cui  opera  la
connessione,  a  norma  dell'art.  12,  o  in  cui  potrebbe  operare
la.riunione se si trattasse di processi pendenti davanti al  medesimo
giudice,  a  norma  dell'art.  17  (comma  2 lett. a), anche nei casi
attualmente considerati di "connessione probatoria" a norma dell'art.
45  comma 1 n. 4 c.p.p. (comma 2 lett. b) o nel caso in cui "la prova
di piu' reati deriva, anche in parte, dalla stessa  fonte"  (comma  2
lett. c).
   La  nozione di "indagini collegate" e', quindi, molto piu' estesa,
sia dei "procedimenti connessi" a norma  dell'art.  12  del  Progetto
(dato  che  la connessione costituisce soltanto una delle ipotesi che
determina il collegamento), sia dei "procedimenti connessi"  a  norma
dell'art.  45.comma 4 c.p.p. (dato che comprende anche i casi, tipici
dei cosiddetti maxi-processi, in cui la prova di piu'  reati  deriva,
anche in parte, dalla stessa fonte).
   La   dilatazione   delle   occasioni  di  coordinamento,  soddisfa
pertanto,  pienamente,  le  esigenze  investigative  presenti   nelle
indagini  riguardanti la grande criminalita' organizzata e, comunque,
le indagini particolarmente complesse  che  devono  essere  estese  a
fenomeni   criminali   operanti   in  ambito  piu'  ampio  di  quello
circondariale. Per quanto concerne, in particolare, la previsione  di
cui  al  comma  2  lett.  c), e' stato giustamente rilevato che nelle
situazioni di imputati collaboratori di  giustizia  i  quali  rendano
dichiarazioni  a  larghissimo spettro, il coordinamento informativo e
operativo puo' essere prezioso nonostante non vi sia connessione  ne'
ristretta  ne'  ampia,  e  che  in  tali  casi e' utile una direttiva
unitaria alle varie sezioni di polizia giudiziaria, non meno  che  un
libero  accesso  ad  eventuali  auspicabili  archivi di dati, anche a
prescindere dagli scambi tipizzati secondo la direttiva 30.
   Il  comma 3 dispone che, salvo il caso dei procedimenti connessi a
norma dell'art. 12, il collegamento delle  indagini  non  ha  effetto
sulla competenza.
   Questo  sta  a significare, da un lato, che la ritenuta estensione
al  pubblico  ministero  delle  disposizioni  sulla  competenza   per
connessione  riguardanti  il  giudice  (v.  sub  art. 52 comma 2) non
incide in alcun modo sulla disciplina del coordinamento  di  indagini
collegate  che si muove in un ambito del tutto diverso; e, dall'altro
lato, che,  a  livello  di  competenza  del  pubblico  ministero,  e'
salvaguardata  l'autonomia  dei  singoli  uffici  coordinati  i quali
possono anche procedere separatamente per il  reato  attribuito  alla
propria  competenza  e  possono  svolgere,  a  tal  fine, le indagini
ritenute opportune, in modo autonomo e indipendente.
   Circa quest'ultimo punto si osserva che, proprio per salvaguardare
l'autonomia di ciascun pubblico ministero competente  e  proprio  per
evitare  che  nessun limite all'esercizio dell'azione penale da parte
del singolo ufficio del pubblico ministero competente potesse  essere
posto  da un eventuale intervento coattivo esterno, e' stata respinta
la proposta di affidare il coordinamento delle indagini collegate, in
mancanza di accordo tra uffici e magistrati interessati, su richiesta
e previa audizione degli stessi, al procuratore generale della  corte
di  appello (in caso di uffici appartenenti allo stesso distretto) ed
ai procuratori generali delle corti di appello, d'intesa tra loro (in
caso di uffici appartenenti a distretti diversi).
   Si  e'  obiettato, infatti, che il coordinamento - il quale, anche
per la natura dell'attivita' delle  indagini  preliminari  esige  una
forma  libera  -  deve  essere  previsto  su  basi consensuali e deve
risultare  dall'autonoma  decisione  di  ciascun  pubblico  ministero
competente  (come,  del  resto, e' avvenuto in passato, con risultati
positivi, in occasione delle indagini nei  processi  per  terrorismo)
perche'  non  e'  consentita  l'attribuzione di poteri ad un pubblico
ministero non competente e, tanto meno, al  procuratore  generale  il
quale,  nel  nuovo  codice,  salvo  il  caso  di  avocazione,  non ha
competenza in ordine alle indagini preliminari  e  all'azione  penale
nei processi di primo grado (v. sub art. 52).
   L'articolo  370  prevede  l'avocazione delle indagini da parte del
procuratore generale presso la corte di appello quando, (per  effetto
di  una "inerzia" dell'ufficio del pubblico ministero competente, non
dipendente direttamente da omissioni o ritardi nel  compimento  delle
indagini,  ma  derivante  o  dalla  impossibilita' di provvedere alla
tempestiva sostituzione in caso di astensione o incompatibilita'  del
magistrato  delegato,  ovvero dal fatto che il dirigente dell'ufficio
del pubblico ministero competente non ha provveduto  alla  tempestiva
sostituzione  del  magistrato  delegato  quando questi avrebbe dovuto
essere  sostituito  in  applicazione  delle  leggi   di   ordinamento
giudiziario)  si  crea  una  situazione  di  impasse,  non altrimenti
evitabile.
   L'avocazione di cui si tratta e' pertanto completamente diversa da
quella prevista dall'art. 409 concernente l'avocazione delle indagini
preliminari  per  inosservanza  del  termine  (la  quale  costituisce
l'immediato effetto  di  una  "inerzia"  dipendente  direttamente  da
omissioni   o   ritardi   nel  compimento  delle  indagini  da  parte
dell'ufficio del pubblico ministero competente), e questo  spiega  la
diversa  collocazione  dell'articolo  in  esame - che, in definitiva,
disciplina pur esso  i  rapporti  tra  diversi  uffici  del  pubblico
ministero  - rispetto all'art. 409 coerentemente collocato nel titolo
"chiusura   delle   indagini   preliminari"   essendo    la    stessa
ammissibilita'  dell'avocazione,  in  quella  ipotesi, collegata alla
omessa conclusione delle indagini nel termine di legge.
   In  relazione  all'ipotesi di avocazione prevista dall'articolo in
esame, occorre sgombrare il campo  dal  dubbio  che  questo  tipo  di
avocazione possa non essere coerente con la legge-delega.
   Infatti,  muovendo  dal  testo  della  direttiva  42  ("potere  di
avocazione da parte del  procuratore  generale  da  esercitarsi,  con
decreto   motivato,   soltanto  nel  caso  di  inerzia  del  pubblico
ministero") e paragonando la formula a  quella  della  corrispondente
direttiva  35  della  delega del 1974 ("potere di avocazione da parte
del procuratore generale da esercitarsi, con provvedimento  motivato,
nei  soli  casi  di  inerzia  del  pubblico  ministero  o di gravi ed
eccezionali esigenze processuali") si e' argomentato, da alcuni,  che
l'ipotesi  di  avocazione disciplinata dall'articolo 370, non potendo
piu' essere basata sulle "gravi ed eccezionali esigenze  processuali"
menzionate  nella  vecchia  delega  e  non ripetute nella nuova, deve
essere completamente esclusa per evitare il rischio  dell'eccesso  di
delega.
   Tale  interpretazione  limitativa dell'attuale direttiva 42 non e'
stata accolta perche' anche  l'art.  370,  a  ben  vedere,  prefigura
ipotesi  di "inerzia" dell'ufficio del pubblico ministero competente,
sicche' il  legislatore  delegante  ha  ritenuto  del  tutto  inutile
introdurre  nel  testo  della  direttiva  che  interessa  espressioni
meramente aggiuntive come quelle delle "gravi ed eccezionali esigenze
processuali"  che  sono  gia'  implicite  nel  termine  "inerzia" ove
quest'ultimo termine non sia interpretato in senso restrittivo.
   Il  legislatore  delegante  ha,  in sostanza, voluto semplicemente
prescrivere il ripudio di ipotesi di avocazioni generalizzate  e  non
ancorate a rigorosi presupposti oggettivi.
   Per  far  questo  aveva  di  fronte  due alternative: o seguire la
strada del legislatore del 1974 e distinguere  l'"inerzia"  incidente
direttamente  sulle  indagini  dalle  "gravi  ed eccezionali esigenze
processuali"  (comportanti  pur  esse  una   inerzia   del   pubblico
ministero);  oppure,  piu'  semplicemente,  ricondurre al concetto di
"inerzia", sia il caso in cui l'ufficio del  pubblico  ministero  non
osserva  il  termine previsto per concludere le indagini, sia il caso
in cui lo stesso  ufficio  non  si  trovi  piu'  in  condizioni,  per
situazione  ordinamentale  oggettivamente  accertata, di esplicare la
funzione che gli e' propria.
   Scegliendo  la  seconda  alternativa,  il legislatore delegante ha
evitato il rischio di una  interpretazione  estensiva  della  ipotesi
delle   "gravi  ed  eccezionali  esigenze  processuali"  ed  ha,  nel
contempo, preso atto che, una soluzione come quella  prospettata  nel
Progetto  del  1978, sulla base della delega del 1974, non poteva non
rientrare nel caso di  inerzia.  Infatti,  stabilire  che  quando  il
magistrato del pubblico ministero si astenga, o quando si delinei una
sua posizione di incompatibilita' e non sia possibile  provvedere  ad
una  tempestiva  sostituzione  (si  pensi  al  limitato  organico del
pubblico  ministero   presso   taluni   tribunali),   va   esercitata
l'avocazione,  significa, ancora una volta, evitare che l'inerzia del
pubblico ministero - sia pure non addebitabile, nel caso, ad  un  suo
comportamento  volontario, anche se non intenzionale - pregiudichi il
promovimento dell'azione penale. E la stessa considerazione vale  per
il  caso in cui l'inerzia dipende dalla dovuta ma omessa sostituzione
del magistrato delegato da parte del dirigente dell'ufficio.
   In  tema  di documentazione degli atti di indagine preliminare del
pubblico ministero, si e' prevista nell'articolo 371, analogamente  a
quanto  disposto  dall'art. 357 per l'attivita' diretta della polizia
giudiziaria, una  bipartizione.  Gli  atti  tipici  a  "utilizzazione
privilegiata"  -  perche'  non  ripetibili  (accertamenti tecnici non
ripetibili,  ispezioni,  perquisizioni   e   sequestri)   o   perche'
contenenti  dichiarazioni  dell'indiziato  (interrogatori e confronti
con l'indiziato) o perche' comunque previsti nella direttiva 76 (atti
assunti  dal  pubblico  ministero  cui  il  difensore  ha  diritto di
assistere  e  le  sommarie  informazioni  assunte  nel  corso   delle
perquisizioni  ovvero  sul  luogo e nell'immediatezza del fatto) - si
traducono in verbali, mentre gli altri atti  ed  in  particolare  gli
atti  generici  (che peraltro, possono essere anch'essi utilizzati in
dibattimento  per   le   opportune   contestazioni   ricorrendone   i
presupposti)  vengono  documentati  in modo diverso (verbali in forma
riassuntiva o annotazioni) piu' o meno svincolato dal rigore  formale
che  caratterizza  i  verbali.  Infatti le modalita' di redazione del
verbale non potevano che essere - come peraltro gia' accadeva per  la
analoga  disposizione del Progetto del 1978 - che quelle previste per
gli "atti processuali" (artt. 133 s.) tanto  piu'  che,  come  si  e'
detto, gli atti per i quali e' prevista la verbalizzazione sono tutti
a "utilizzazione privilegiata".
   La   Commissione   ha   molto   dibattuto   sulle   modalita'   di
documentazione degli atti diversi da quelli di cui  al  comma  1.  Ad
avviso   di   alcuni   componenti  andava  privilegiata  comunque  la
verbalizzazione; ad avviso di altri cio'  non  avrebbe  giovato  alla
speditezza   delle  indagini.  E,  ad  alcuni,  sembrava  inopportuno
affidare al pubblico ministero la scelta del tipo di  documentazione.
   La  soluzione  alla  fine adottata appare rispondere adeguatamente
alle varie perplessita' avanzate, sia perche' deve essere letta anche
in   relazione   alla  disposizione,  da  introdurre  tra  quelle  di
attuazione che regolamenta la "annotazione", sia perche' e'  conforme
alla  direttiva  37 della legge-delega per la quale la documentazione
degli atti del pubblico  ministero  deve  essere  effettuata  secondo
"specifiche e differenziate modalita'".
   Nel  comma 4 il problema della contestualita' della documentazione
rispetto al compimento dell'atto e'  stato  risolto  privilegiando  i
principi di garanzia del diritto di difesa, senza pero' trascurare le
esigenze pratiche  che  talora,  sia  pure  eccezionalmente,  possono
sorgere,   specie   nell'espletamento   di   un'attivita'  vista,  in
prospettiva, come prevalentemente atipica e generica.
   Il  comma 5 prescrive di raccogliere e conservare presso l'ufficio
del pubblico ministero l'intera documentazione  degli  atti  compiuti
durante  le indagini preliminari, ivi compresi quelli trasmessi dalla
polizia giudiziaria a norma dell'art. 357. Si e' in tal  modo  creato
il fascicolo di parte (della parte pubblica che svolge la funzione di
accusa), concettualmente  e  materialmente  distinto  dal  fascicolo,
peraltro  assai  diverso da quello attuale, che deve essere trasmesso
al giudice del dibattimento.
   Si e' ritenuto che la particolare attivita' del pubblico ministero
quale magistrato che svolge  contemporaneamente,  nel  suo  ruolo  di
organo   giudiziario   pubblico,   funzioni  di  capo  della  polizia
giudiziaria e funzioni di parte nel  processo,  rende  opportuno  che
alla  redazione del verbale e delle annotazioni, provveda l'ufficiale
di polizia giudiziaria o il segretario che lo assiste (comma 6).
   L'articolo  372  riproduce, con ovvi correttivi, l'art. 250 c.p.p.
Il comma 2 nel codice vigente e' previsto per consentire il rinvio  a
giudizio  anche  quando  non  vi e' stata contestazione "rituale"; si
spiega ora con riguardo alla direttiva 44 sul giudizio immediato.  Ad
evitare "utilizzazioni strumentali" dell'istituto e' stato effettuato
il richiamo agli artt. 71, 72 e 363.
   E'  stata  ritenuta  superflua  qualsiasi  precisazione  circa  la
possibilita' di disporre le misure cautelari solo quando ricorrono le
condizioni e sussistono le esigenze cautelari specificate negli artt.
273 e 274.
   Con  l'articolo  373 si e' voluto prevedere specificamente in qual
modo il pubblico ministero possa ottenere la  presenza  dell'imputato
quando  cio' sia necessario per procedere ad atti di indagine (ad es.
interrogatorio,  confronto  o  ispezione  cui  partecipi  l'imputato,
individuazione  di  persona  che  richieda la presenza dell'imputato,
etc.).  L'istituto,  a  tale  scopo   designato,   e'   l'"invito   a
presentarsi" (comma 1), gia' menzionato, peraltro, nell'art. 363.
   Il contenuto di tale "invito" e' disciplinato nel secondo comma in
merito al quale si  osserva  che:  la  formulazione  della  lett.  a)
ricalca  l'articolo  264 comma 1 n. 1 c.p.p. concernente i "requisiti
formali dei mandati"; la  formulazione  della  lett.  b)  ricalca  lo
stesso  art. 264 comma 4 c.p.p.; nella lett. c) si e' fatto richiamo,
nel caso in cui l'imputazione  non  possa  essere  indicata,  perche'
ancora  non  formulata,  alle  indicazioni previste dall'articolo 367
sulla "informazione di garanzia"; la lett. d) prevede  l'avvertimento
per  l'eventuale  successivo  accompagnamento coattivo dell'indiziato
(v. anche sub art. 131).
   Anche  la  disposizione  del comma 3, che stabilisce il termine di
tre giorni per la comparizione o la deroga in  caso  di  urgenza,  e'
modellata  sulla  falsariga dell'art. 264, ultimo comma del codice di
rito vigente.
   L'articolo  374  prevede  le ipotesi in cui l'invito a presentarsi
era stato rivolto dal pubblico ministero  al  fine  di  procedere  ad
interrogatorio  o  confronto  e l'indiziato aveva omesso di comparire
senza addurre legittimo impedimento. Per tali ipotesi, la Commissione
ha  ritenuto  opportuno  prevedere che l'accompagnamento possa essere
disposto dal pubblico ministero solo su  autorizzazione  del  giudice
delle  indagini  preliminari:  una autorizzazione che, viceversa, non
necessita negli altri casi in  cui  l'accompagnamento  coattivo  puo'
essere  disposto  dal  pubblico ministero (art. 373 comma 1 e comma 2
lett. d) e che riguardano atti rispetto ai quali e' pero' diverso  il
"ruolo" che all'indiziato e' richiesto di assumere.
   L'articolo  375,  nel  comma  1, prevede la citazione da parte del
pubblico ministero della persona offesa e delle persone in  grado  di
riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. Non
si e' utilizzato il termine "testimone"  nelle  indagini  preliminari
per  evitare  qualsiasi  confusione  tra  "testimonianza" costituente
mezzo di prova, e "raccolta di  informazioni"  costituente  mezzo  di
ricerca delle fonti di prova.
   Il comma 2 stabilisce quale debba essere il contenuto del decreto.
La disposizione, per le lett.  a  )  e  b),  ripete,  con  le  dovute
modifiche,  quella dei nn. 1) e 2) dell'art. 353 c.p.p.. La lett. c),
con la previsione dell'avvertimento circa  la  possibilita'  che  sia
disposto  l'accompagnamento  coattivo,  tende  a rendere praticamente
efficace la norma.
   Il  comma  3  estende  il  sistema  della  citazione  -  sulle cui
modalita' si  rinvia  al  commento  dell'art.  150  -  al  consulente
tecnico, all'interprete ed al custode di cose sequestrate.
   L'articolo  376  ripete  nella  sostanza il contenuto dell'attuale
art. 77 c.p.p. e quello dell'art. 130 del Progetto (peraltro relativo
ai "poteri coercitivi del giudice"). La introduzione di tale norma e'
resa   necessaria   dal   complesso   delle   funzioni   riconosciute
dall'ordinamento al pubblico ministero.
                              TITOLO VI
                     ARRESTO IN FLAGRANZA E FERMO
Premessa.
   Le  disposizioni  relative  all'arresto  in  flagranza ed al fermo
formano il contenuto degli artt. da 377 a 388.
   Si  e'  ritenuto che questa (libro V titolo VI) fosse la sede piu'
opportuna per tali norme,  nonostante  i  rilievi  critici  mossi  in
proposito e fondati sulla considerazione che un inserimento nel libro
IV, relativo alle misure cautelari, avrebbe  obbedito  a  criteri  di
maggiore sistematicita'.
   Appare  infatti  dirimente,  a  favore della soluzione accolta, il
rilievo che l'arresto ed il  fermo  sono  misure  coercitive  tipiche
della fase delle indagini preliminari, notazione che non perde il suo
peso neppure oggi che la legge-delega del 1987  ha  diffuso  in  piu'
direttive   (31,  32,  33)  l'individuazione  dei  "poteri-doveri  ed
obblighi della polizia giudiziaria" che quella del  1974  considerava
nella sola direttiva 30.
   Entrambe le leggi si sono mosse, infatti, nella medesima ottica di
considerare l'arresto ed il fermo quali momenti tipici delle indagini
preliminari  e  le  direttive  che li prevedono sono, per cosi' dire,
"disancorate" da quelle (direttive 59 e 64)  dettate  per  le  misure
cautelari personali.
   Cio'   non   toglie,   evidentemente,  che  ricorrano  profili  di
connessione fra i due istituti  anche  perche'  il  potere-dovere  di
arresto   e   fermo   e'   collegato   ad   esigenze   e  criteri  di
discrezionalita' vincolata e di adeguatezza analoghi a  quelli  delle
altre misure cautelari personali.
   E'  anche  opportuno  far  menzione,  in questa premessa, del tema
relativo all'individuazione degli organi legittimati  all'arresto  in
flagranza.
   E'  stato infatti discusso se, alla stregua della delega del 1987,
il potere d'arresto  potesse  essere  attribuito  anche  al  pubblico
ministero,  come avveniva secondo l'art. 387 del Progetto preliminare
del 1978, ma la questione e' stata risolta in senso negativo.
   Va  rilevato,  infatti, che se e' vero che l'art. 387 fu formulato
sulla base di una direttiva della  legge-delega  del  1974  (30)  che
menzionava   solo   la  polizia  giudiziaria  come  destinataria  del
potere-dovere  d'arresto  (e  cio'  sul   rilievo   della   posizione
sopraordinata  che il pubblico ministero assume rispetto alla polizia
giudiziaria nella fase delle indagini preliminari) e se e'  pur  vero
che  il  vigente  art.  243  c.p.p.  prevede il potere di cattura del
pubblico ministero nei casi di arresto obbligatorio e facoltativo  ex
artt.  235 e 236, tuttavia un'opzione in senso contrario emerge dalla
delega del 1987. Qui, infatti, (direttiva 32), il pubblico  ministero
e' menzionato, con la polizia giudiziaria, solo in relazione al fermo
("potere-dovere della polizia giudiziaria di fermare e  del  pubblico
ministero  di  disporre il fermo..."), mentre la previsione contenuta
nella stessa  direttiva  e  concernente  l'arresto  in  flagranza  fa
riferimento alla sola polizia giudiziaria.
   Sempre  sull'arresto  in  flagranza  e'  ancora  da notare, in via
generale, che la direttiva 32 della legge-delega, che detta i criteri
cui  deve  ispirarsi  la  disciplina  dell'istituto,  si muove in una
prospettiva nuova rispetto a quella della  normativa  ora  vigente  e
contenuta negli artt. 235 e 236 c.p.p..
   Questa,   specie  con  la  legge  397/1984,  e'  stata  improntata
all'esigenza di ridurre le ipotesi di arresto, che sono previste  con
generale  riferimento  alla  pena  stabilita  per il reato - modulata
anche in relazione alle condizioni soggettive dell'arrestando - salvo
che per le ipotesi di arresto facoltativo di cui all'art. 236 comma 3
c.p.p.
   E'  peraltro  rimasto  in  vigore  l'art.  245  c.p.p. (Regole per
l'esercizio  della   facolta'   di   arresto),   sicche'   vaghi   ed
indeterminati  sono tuttora i criteri cui la polizia giudiziaria deve
ispirarsi nell'esercizio di quella facolta',  anche  se  puo'  essere
utilizzato  il  richiamo  all'art.  254  comma  c.p.p.. La disciplina
dettata dal codice vigente si caratterizza anche per  la  ricerca  di
una  tendenziale  coincidenza  fra  l'area dell'arresto facoltativo e
quella della cattura facoltativa, in modo da eliminare sfasature  nel
punto.
   La   direttiva   32   della  legge-delega  disegna  la  disciplina
dell'arresto in flagranza in termini di "obbligo rigido ed  assoluto"
e  di  "obbligo  condizionato", prevedendo inoltre, all'interno delle
due figure,  spazi  per  "eccezioni"  limitate  e  gia'  parzialmente
definite.
   Cosi'  l'arresto  e'  obbligatorio  per  colui  che e' colto nella
flagranza di "delitti consumati o tentati punibili con la  reclusione
non  inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni" e
l'eccezione riguarda l'obbligo dell'arresto anche per "altri  delitti
predeterminati,  avuto  riguardo  a speciali esigenze di tutela della
collettivita'", mentre  l'arresto  e'  facoltativo  "relativamente  a
delitti  punibili con la reclusione superiore nel massimo a tre anni"
e  l'eccezione  concerne,  "solo  per  alcuni  reati  di  particolare
gravita',  tassativamente  indicati",  anche "delitti punibili con la
reclusione non inferiore nel massimo a tre anni".
Illustrazione degli articoli.
   L'articolo  377  e'  dedicato  alla determinazione della pena agli
effetti delle disposizioni del titolo VI ed in particolare di  quelle
contenute  negli  artt.  378 (Arresto obbligatorio in flagranza), 379
(Arresto facoltativo) e 382  (Fermo  di  indiziato  di  delitto):  il
criterio  assunto a tal fine e' identico a quello dettato, in tema di
misure cautelari, dall'art. 278, al quale e' stato dunque operato  il
rinvio.
   L'articolo  378  individua  le  ipotesi di arresto obbligatorio in
flagranza.
   Il  comma  1  da' attuazione alla lett. a) della direttiva 32 (che
prevede, come si e' ricordato, l'arresto obbligatorio per i  "delitti
consumati  o  tentati  punibili  con  la reclusione non inferiore nel
minimo a cinque anni e nel massimo a venti..."):  nella  formulazione
della  disposizione  e'  stato  fatto  riferimento  anche  alla  pena
dell'ergastolo, piu' grave di quella indicata nella direttiva,  anche
se  da  questa  non  richiamata  e  si  e' specificato, anche se cio'
rileva,  in  particolare,  per  la   seconda   ipotesi   di   arresto
obbligatorio,  che  deve  trattarsi  di delitti non colposi, ai quali
anche il vigente  art.  235  c.p.p.  limita  la  misura  dell'arresto
obbligatorio.
   Il  comma  2  disciplina  i  casi di arresto obbligatorio definiti
"eccezionali" e riferiti, dalla lett. b) della direttiva 32, ad altri
delitti predeterminati, avuto riguardo "a speciali esigenze di tutela
della collettivita'".
   L'individuazione del contenuto di tale locuzione, che caratterizza
la direttiva in senso fortemente limitativo, e' stata operata tenendo
presenti  anche  i  criteri che ispirano taluni dei provvedimenti che
costituiscono la cosiddetta legislazione  dell'emergenza  (disciplina
dei  divieti  di concessione di liberta' provvisoria: l. 152/1975, l.
15/1980; l. 398/1984; proroga dei termini di custodia  cautelare:  l.
398/1984), le disposizioni della l. 98/1974 e della l. 575/1/965 (che
riguardano  i  casi  in  cui  e'  ammessa   l'intercettazione   delle
conversazioni telefoniche ovvero quelle ipotesi di reato che traggono
particolare disvalore dalle qualita' soggettive dei  loro  autori  in
quanto esaltano la pericolosita' dei fatti medesimi), le disposizioni
che  concernono  il  giudizio  direttissimo  atipico,  inteso   quale
giudizio esemplare.
   Il  significato  piu'  pregnante della locuzione e' stato tuttavia
colto nelle indicazioni contenute nella sentenza n. 1 del 1980  della
Corte  costituzionale  ed  in  quelle  esplicitate  nell'art. 279 del
Progetto preliminare del 1978 i  cui  principi  sono  stati  trasfusi
nell'art. 274 comma 1 lett. c), in tema di misure cautelari.
   La  Corte  costituzionale, giudicando dell'articolo 1 l. 22 maggio
1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico) ha ritenuto
che  l'espressione, indubbiamente generica, "esigenza di tutela della
collettivita'" trova delimitazione e senso concreto, sia pure  nel  e
dal  contesto  della  legge 152/1975, in relazione ai reati che hanno
quali caratteristiche l'uso di armi o  di  altri  mezzi  di  violenza
contro  le  persone,  la  riferibilita'  ad  organizzazioni criminali
comuni e politiche, la direzione lesiva verso le condizioni  di  base
della sicurezza collettiva e dell'ordine democratico.
   L'art.  274  comma  1  lett.  c),  che,  come  si e' accennato, ha
recepito i principi formulati nell'art. 279 del Progetto  preliminare
del 1978, prevede, in tema di "esigenze cautelari", che "Fermo quanto
e'  disposto  dall'articolo  precedente  le  misure  cautelari   sono
disposte:...  c)  quando,  per specifiche modalita' e circostanze del
fatto e per  la  personalita'  dell'imputato,  sussiste  il  concreto
pericolo  che  questi  commetta  gravi delitti della stessa indole di
quelli per cui si procede o diretti contro la sicurezza collettiva  o
l'ordine   democratico   ovvero   gravi   delitti   di   criminalita'
organizzata".
   In definitiva, dunque, si e' ritenuto di seguire, come criterio di
massima  per  la  predeterminazione  degli  "altri  delitti...  avuto
riguardo  a  speciali  esigenze di tutela della collettivita'" di cui
alla  lett.  b)  della  direttiva  32,  quello  che  ha   riferimento
all'essere  il delitto grave e diretto contro la sicurezza collettiva
o l'ordine costituzionale o l'essere un grave delitto di criminalita'
organizzata,  mentre  non  e' sembrato conveniente aver riguardo alle
condizioni soggettive dell'arrestando,  pur  menzionate  nei  vigenti
artt.  235  e  236  c.p.p., poiche', fra l'altro, l'area dell'arresto
obbligatorio, ex lett. b) direttiva 32,  avrebbe  subito  una  troppo
drastica riduzione.
   Procedendo,  ora,  ad  una  analitica  ricognizione  delle ipotesi
previste dal comma 2, si vedra' che:
    rispondono    al   principio   della   salvaguardia   dell'ordine
costituzionale quelle indicate alle lett. a ), i ) ed l)  per  quanto
attiene  alle  associazioni segrete ed alle associazioni, movimenti o
gruppi previsti dalla l. 645/1952.  A  proposito  delle  associazioni
segrete  e' sembrato opportuno prevedere l'arresto obbligatorio per i
delitti concernenti la loro promozione,  costituzione,  direzione  ed
organizzazione, benche' la pena sia stabilita in misura non elevata e
comunque sensibilmente inferiore a quella prevista dalla l. 635/1952,
per  la  specificita'  dell'interesse  protetto  e per le difficolta'
d'ordine pratico che conseguirebbero al confinamento dell'ipotesi fra
quelle ad arresto facoltativo;
    rispondono,  precipuamente, al principio della salvaguardia della
sicurezza collettiva quelle indicate alle lett. b ), c ), g) (qui  il
riferimento  puo'  essere  anche  all'ordine  costituzionale  ed alla
criminalita'  organizzata)  e  si  e'   avuto   cura   di   escludere
dall'arresto  obbligatorio, per quanto riguarda i delitti concernenti
le armi comuni da sparo, sia  i  fatti  che  hanno  ad  oggetto  solo
un'arma  o  che concernono solo le parti di essa, sia, infine, quelli
relativi alle armi previste dall'art.  2  comma  3  l.  110/1975:  da
bersaglio, ad aria compressa, lanciarazzi etc.);
   rispondono   al  criterio  dell'esser  delitti,  anche  gravi,  di
criminalita' organizzata, quelli indicati alle lett.  h  ),  l)  (per
quanto attiene alle associazioni mafiose) ed m).
   Per  quanto riguarda le altre lettere del comma 2 puo' notarsi che
la menzione della riduzione in schiavitu' (lett. d), mutuata dal n. 9
dell'articolo  280  del  Progetto  preliminare  del 1978, e' sembrata
opportuna ora che e' stata dichiarata l'incostituzionalita' dell'art.
603  c.p.  (plagio),  mentre  l'indicazione  di talune fattispecie di
furto aggravato (lett. e) e dei delitti di  rapina  e  di  estorsione
(lett.  f)  trova giustificazione, da un lato nell'estrema diffusione
di tali reati, di  guisa  che  non  sembra  del  tutto  improprio  un
riferimento  al  criterio  - sia pur ampiamente inteso - di sicurezza
collettiva,  e  dall'altro  nella  considerazione  che  la  coscienza
sociale  ritiene  naturale  ed imprescindibile la misura coercitiva a
carico del fur manifestus per lo scandalo e l'emozione che tale reato
suscita,  di  guisa  che, confinato il reato (con quelli di rapina ed
estorsione semplice) fra i  casi  di  arresto  facoltativo,  verrebbe
sottratto  al  privato  -  la  cui  facolta'  d'arresto  e' opportuno
mantenere per i  soli  casi  d'arresto  obbligatorio  -  ogni  potere
coercitivo  con  l'insorgere  di possibili questioni ove il reo fosse
"trattenuto".
   L'ultima  notazione  sul  comma 2 riguarda la menzione, anche qui,
come nel comma 1, dei delitti tentati  accanto  a  quelli  consumati,
menzione che, pur nel mancato riferimento a tale categoria di delitti
ad opera della  lett.  b)  direttiva  32,  appare  legittima  per  il
riferimento  agli "altri... delitti" in essa contenuto e che richiama
la locuzione "delitti consumati o tentati....", di cui alla lett. a).
   Del  resto  l'esplicita  indicazione  dei  delitti tentati e' resa
necessaria dall'autonomia di tale figura rispetto all'ipotesi tipica,
con   la   conseguenza   che,   quando  la  legge  fa  riferimento  a
quest'ultima,  l'estensione  alla  prima  puo'  avvenire  solo  avuto
riguardo  alla  materia  disciplinata  dalla legge e l'estensione non
sarebbe nella  specie  consentita  trattandosi  di  disposizione  che
introduce limitazioni alla liberta' personale.
   Il  comma  3  disciplina  l'ipotesi  in  cui l'arresto riguardi un
delitto punibile a querela, situazione che puo' ricorrere solo per  i
casi  previsti  dalla  lett. e) quando si verificano le condizioni di
cui all'art. 649 c.p.
   Con riferimento alle disposizioni dell'art. 378, la Commissione ha
ampiamente dibattuto sulla opportunita' di ricorrere alla elencazione
di reati poi proposta e che certamente, non risponde a criteri di una
buona tecnica legislativa. Va  rilevato  peraltro  che  l'elencazione
consegue,  di  fatto,  alla eccessiva restrizione dei casi di arresto
obbligatorio in flagranza previsti dalla legge-delega nella lett.  a)
della direttiva 32 (e poi trasfusi nel comma 1 dell'art. 377).
   Il   ricorso  all'elencazione  infatti  sarebbe  stato  evitato  o
comunque sensibilmente ridotto ove la direttiva 32  avesse  previsto,
alla  lett. a), la possibilita' di procedere all'arresto obbligatorio
in flagranza  per  "i  delitti...  punibili  con  la  reclusione  non
inferiore  nel  minimo  a  cinque  anni  o  nel  massimo  a venti..."
anziche', come ha fatto, "punibili con la  reclusione  non  inferiore
nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti".
   L'articolo  379  disciplina l'arresto facoltativo ed il comma 1 ha
riferimento alla prima delle due ipotesi considerate dalla  direttiva
32   della  legge-delega  che  prevede  la  "facolta'  della  polizia
giudiziaria di procedere all'arresto in flagranza solo se  la  misura
e'  giustificata dalla gravita' o dalle circostanze del fatto o dalla
pericolosita' del soggetto, relativamente a delitti punibili  con  la
reclusione superiore nel massimo a tre anni".
   Riservando  ad un secondo momento l'analisi degli indici dei quali
la polizia giudiziaria deve tener conto nell'esercizio della facolta'
di  arresto,  e'  qui  da  notare  che  nella prima figura di arresto
facoltativo e' stato introdotto, nessun  ostacolo  a  cio'  derivando
dalla  delega,  il  riferimento  anche  ai  delitti  colposi, sia pur
sanzionati con pena superiore a  quella  prevista  per  i  dolosi  ed
indicata  nella  reclusione  non inferiore nel massimo a cinque anni,
misura che e' stata individuata tenendo anche  conto  della  sanzione
comminata  per talune fattispecie di delitto colposo (artt. 449 e 452
c.p.).
   Il  comma  2  articola  la seconda ipotesi di arresto facoltativo,
prevista dalla legge-delega "solo per  alcuni  reati  di  particolare
gravita',  tassativamente  indicati" con riferimento "anche a delitti
punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni".
  Anche  qui,  come  gia'  avveniva per la seconda ipotesi di arresto
obbligatorio  ove  la  predeterminazione  dei  delitti  doveva  esser
configurata   in  rapporto  a  "speciali  esigenze  di  tutela  della
collettivita'",  la  tassativa  indicazione  della  fattispecie  deve
collegarsi  ad  un  parametro che la direttiva descrive in termini di
"particolare  gravita'",  parametro  che  deve  aver  riguardo   alla
"qualita'  del  reato"  poiche'  la  pena edittale, per la sua misura
standard,  e'  inidonea  a  fondare  un  criterio  di   diversificata
gravita'.
   L'individuazione  delle  concrete  ipotesi  di  arresto  e' stata,
cosi', operata avendo riguardo, da un lato, all'esclusione  di  certi
reati dall'ambito di applicazione dei provvedimenti di amnistia, come
in quelle previste dalle lett. a ), b ), d), (negli ultimi  due  casi
e'  esclusa anche la depenalizzazione), mentre negli altri casi si e'
utilizzato il criterio della avvertita sensibile gravita'  del  reato
anche   in  rapporto  alla  necessita'  di  interrompere  l'attivita'
criminosa (si pensi al danneggiamento, ai furti,  alle  truffe,  alle
corruzioni di minorenni).
   Rimangono,  ora,  da  illustrare  gli  indici dei quali la polizia
giudiziaria deve tener conto nell'esercizio della facolta' di arresto
e  che  formano oggetto del comma 4. Anzitutto, in precisa attuazione
della direttiva 32, i parametri della  gravita'  del  reato  o  della
pericolosita'  del  soggetto  sono  stati  riferiti  sia  all'ipotesi
"generale"  che  a  quella  "eccezionale"  di  arresto   facoltativo.
Nell'articolato  si  e'  altresi' fornito di un contenuto concreto il
riferimento alla pericolosita' precisando che i dati dai  quali  essa
deve esser desunta consistono nella personalita' del soggetto o nelle
circostanze del fatto.
   Se,  dunque,  i criteri ora cennati concernono entrambe le ipotesi
di arresto facoltativo in flagranza, per la seconda (comma 2)  si  e'
ritenuto   di   dover  introdurre,  per  l'esercizio  della  relativa
facolta', un ulteriore presupposto, identificato nella "necessita' di
interrompere  l'attivita'  criminosa",  condizione  che  trova il suo
precedente nell'art. 388 comma 2 del Progetto preliminare del 1978  e
che  vale  a  connotare  di  un ulteriore elemento di specificita' le
ipotesi di arresto facoltativo "eccezionale".
   L'articolo 380 definisce lo stato di flagranza con una formula che
elimina la rilevata "ambiguita'" della  locuzione  "E'  flagrante  il
reato che si commette attualmente" usata dal vigente art. 237 c.p.p.,
centrando la definizione sul concetto di sorpresa; unifica le ipotesi
di  flagranza  in  considerazione  degli  effetti che ne conseguono e
restringe la possibilita' di interpretazioni estensive  cui  potevano
dar  luogo  le  espressioni  "immediatamente  dopo il reato" e "abbia
commesso poco prima il reato", contenute nell'art. 237 c.p.p..  Nella
nuova  formulazione,  infatti,  si  fa  riferimento  all'inseguimento
effettuato "subito dopo" il reato ed alla sorpresa del reo con cose o
tracce   dalle   quali  appaia  che  egli  abbia  commesso  il  reato
"immediatamente prima".
   La   facolta'   di  arresto  da  parte  dei  privati  e'  regolata
dall'articolo 381.
   Si  e'  ritenuto,  dopo  approfondita  discussione,  di  mantenere
l'istituto,  considerato,  del  resto,  costituzionalmente  legittimo
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 89 del 1970.
   Essendosi  operata,  con  l'art. 378, una notevole riduzione delle
ipotesi di arresto obbligatorio,  la  previsione  della  facolta'  di
arresto  da  parte  del  privato  viene  riferita  a  tutti i casi di
obbligatorieta' dell'arresto  da  parte  della  polizia  giudiziaria,
purche',  come  prevede  il vigente articolo 242 c.p.p., si tratti di
delitti perseguibili di ufficio.
   L'articolo  382  prevede  il  fermo di indiziato di delitto, dando
attuazione alla direttiva 32 della legge-delega nella  parte  in  cui
enuncia  il  principio  "...  al  di  fuori  dei  casi  di flagranza,
potere-dovere della polizia giudiziaria di  fermare  e  del  pubblico
ministero  di  disporre il fermo di colui che e' fortemente indiziato
di gravi delitti quando vi e' fondato pericolo di fuga".
   Si  e'  ritenuto opportuno prevedere, anche in sintonia con quanto
dispone l'art. 348 in tema di poteri della polizia  giudiziaria,  che
il  potere di fermo spetti in via principale all'organo che dirige le
indagini  -  e  cioe'  al  pubblico  ministero  -  ed  alla   polizia
giudiziaria  prima  che  il  pubblico  ministero abbia assunto quella
direzione (comma 2) ovvero  nell'ipotesi  di  sopravvenute  emergenze
(comma    3)    rappresentate    dalla    successiva   individuazione
dell'indiziato o  dalla  sopravvenienza  di  specifici  elementi  che
rendono fondato il pericolo che costui stia per darsi alla fuga e non
sia possibile, per l'urgenza, attendere il provvedimento del pubblico
ministero.
   Quanto  all'individuazione dei "gravi delitti" cui la direttiva 32
collega il potere-dovere di fermo, e'  da  ritenere,  anzitutto,  che
l'indicazione  tassativa  dei  casi  eccezionali  cui  fa riferimento
l'art.   13   Cost.   deve   ritenersi   adempiuta   anche   mediante
l'utilizzazione  del  criterio  relativo alle pene minime e/o massime
(qui individuate in quelle dell'ergastolo  e  della  reclusione  "non
inferiore  nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni")
irrogabili per il reato. Si e' poi rilevato che se e' vero che sia il
vigente  art. 238 c.p.p. che il Progetto preliminare del 1978 si sono
mossi secondo l'ottica di assegnare alle ipotesi di fermo  un  ambito
piu'  ristretto  rispetto a quelle relative all'arresto in flagranza,
ora pero' - eliminata la cattura automatica, ristretti notevolmente i
casi  di arresto obbligatorio, correlato il fermo al pericolo fondato
di fuga - un tale orientamento  potesse  essere  rivisto.  In  questa
direzione   si  muove,  infatti,  l'articolato  che,  svincolando  il
concetto di "gravi delitti" dal  riferimento  necessario  a  speciali
esigenze   di   tutela   della   collettivita',  ritiene  di  poterlo
individuare in base a parametri tratti dalle disposizioni in tema  di
misure cautelari.
   In  particolare,  nell'art.  274  comma  1  lett.  b),  l'esigenza
cautelare connessa alla fuga od  al  suo  concreto  pericolo,  emerge
quando  "il  giudice  ritenga  che  possa  essere  irrogata  una pena
superiore a due anni  di  reclusione"  e  da  cio'  puo'  dedursi  la
previsione del fermo quando per il delitto e' previsto un determinato
minimo di pena irrogabile. Su un  altro  versante,  poi,  l'art.  303
(termini   di  durata  massima  della  custodia  cautelare)  contiene
molteplici disposizioni relative ai delitti  punibili  "con  la  pena
della  reclusione  superiore  nel massimo ad anni sei", criterio che,
analogamente  a  quanto  previsto  dal  vigente  art.  238  c.p.p.  e
dall'art.  391  del  Progetto  preliminare del 1978, e' indicativo di
gravita' del delitto.
   Accanto  al parametro fondato sulla entita' della pena si e' fatto
riferimento - come avviene  nel  vigente  art.  238  c.p.p.,  ma  con
previsione piu' restrittiva - anche ai delitti concernenti le armi da
guerra e gli esplosivi.
   E'  infine  da  notare  che  al fine di esplicitare il concetto di
"fondato pericolo di fuga" di cui alla direttiva 32, si  e'  previsto
che esso deve essere desunto da "specifici elementi".
   L'articolo 383 prevede i casi di divieto di arresto o di fermo: la
disposizione e' adeguatamente correlata con quella dell'art.  273  in
tema  di  misure  cautelari  personali  e, per il resto, riproduce la
formulazione dell'art. 240 c.p.p.
   I  doveri  della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo
sono regolati dall'articolo 384 in attuazione di  quanto  prevede  la
parte   finale   della   direttiva   32:   "obbligo   della   polizia
giudiziaria... di porre a disposizione  del  pubblico  ministero,  al
piu' presto, e comunque non oltre ventiquattro ore dall'arresto o dal
fermo, le persone arrestate o fermate".
   I  doveri  che  sono riferiti, cumulativamente, a tutti i soggetti
che svolgono  funzioni  di  polizia  giudiziaria,  hanno  i  seguenti
contenuti e cadenze: a) immediata notizia dell'arresto o del fermo al
pubblico ministero del luogo ove la misura e' stata eseguita, secondo
la  rispettiva competenza per materia. Benche' la delega non preveda,
con quello di porre a disposizione del pubblico ministero l'arrestato
o   il   fermato,  l'autonomo  obbligo  relativo  alla  comunicazione
dell'arresto o del fermo, si e' ritenuto che anch'esso  -  del  resto
esplicitamente   menzionato   nell'art.   13  Cost.  -  debba  essere
disciplinato con la previsione del suo immediato adempimento, il  che
giovera',  fra  l'altro, ad accelerare l'adempimento delle formalita'
connesse alla facolta' ed agli obblighi del pubblico ministero per il
cui  esercizio sono previsti termini assai ristretti; b) richiesta al
pubblico  ministero  di  provvedere  alla  nomina  del  difensore  di
ufficio,   allorche'  l'arrestato  od  il  fermato,  avvertito  della
relativa facolta', non abbia nominato quello di  fiducia  e  salvi  i
casi previsti dall'art. 96 comma 3. La previsione da' attuazione alla
direttiva 5 della delega e la riserva  concerne  i  casi  in  cui  la
polizia  giudiziaria  ha  necessita'  di  procedere  ad  atti  cui il
difensore ha diritto di assistere. E'  sembrato  infatti  inopportuno
che  alla  obbligatoria  ed  immediata  nomina  provvedesse sempre la
polizia giudiziaria, pur quando  la  condotta  del  difensore  poteva
riguardare   solo   attivita'  da  compiere  dinanzi  alla  autorita'
giudiziaria; c)  immediata  informativa  al  difensore  dell'avvenuto
arresto  o  fermo; d) messa a disposizione del pubblico ministero, al
piu' presto e comunque non oltre ventiquattro ore dall'arresto o  dal
fermo,  dell'arrestato  o  del  fermato, mediante la trasmissione del
relativo verbale e sempre che non ricorra uno dei casi di  "immediata
liberazione".  A  proposito della "messa a disposizione" del pubblico
ministero, si e' rilevato che essa non puo' essere individuata avendo
riguardo al momento del trasferimento in carcere dell'arrestato o del
fermato  (anche  la  giurisprudenza  ha  assegnato  natura  meramente
ordinatoria alla norma che concerne la traduzione in carcere) e si e'
quindi ritenuto di doverla alla norma che concerne la  traduzione  in
carcere)  e  si  e'  quindi ritenuto di doverla far coincidere con la
trasmissione del verbale d'arresto o di fermo, il  cui  contenuto  e'
stato   disciplinato   nel   comma  3,  tenendo  anche  presente  che
l'apposizione  del  timbro  di  ricezione  del   verbale   da   parte
dell'ufficio del pubblico ministero da' piena certezza del rispetto -
o meno - del  termine  entro  il  quale  deve  avvenire  la  messa  a
disposizione;  e)  traduzione  dell'arrestato  o del fermato, al piu'
presto  e  comunque  non  oltre  le  ventiquattro  ore,  nella   casa
circondariale  o  mandamentale  del  luogo  ove  la  misura  e' stata
eseguita, con attribuzione al pubblico ministero (comma 5) del potere
di  disporre  che  il  soggetto  sia custodito, se infermo, presso la
propria abitazione od in luogo  di  cura,  ovvero,  quando  ne  possa
derivare  grave  pregiudizio  per  le  indagini,  presso  altra  casa
circondariale o mandamentale.
   Nell'articolo  385 e' trasfusa la disciplina, introdotta con la l.
932/1969, dell'avviso dell'avvenuto arresto  o  fermo  ai  familiari,
previo   consenso   dell'interessato.   L'articolo   386   disciplina
l'interrogatorio  dell'arrestato  o   del   fermato,   previsto,   in
conformita'   della   direttiva   34,  in  termini  di  facolta'.  La
legge-delega  prevede  il  "  diritto  del  difensore  di   assistere
all'interrogatorio  ",  ma,  come  emerge  dai lavori preparatori, la
previsione non sta  a  rendere  obbligatoria  la  partecipazione  del
difensore  all'atto,  bensi'  ad  eliminare l'impressione che potesse
trattarsi di una " facoltativita' " dipendente da scelte del pubblico
ministero.
   Nel  comma  1,  si  e'  previsto  che  il  difensore  debba essere
tempestivamente avvisato dell'atto,  evitando  cosi'  formule  troppo
rigide  sui  tempi  dell'avviso,  tanto  piu' che l'impossibilita' di
rispettare il termine " rigido " avrebbe sempre comportato il ricorso
all'art.  363  che  prevede  l'omissione dell'avviso nelle ipotesi di
assoluta urgenza.
   Poiche'  le  finalita'  dell'interrogatorio debbono rinvenirsi sia
nella funzione difensiva cui l'atto  assolve,  sia  in  quella  della
raccolta  di  elementi che " occorrono per le determinazioni inerenti
all'esercizio della azione penale ", si e' ritenuto,  in  conformita'
del  resto  con la delega, di non aggettivare l'interrogatorio come "
sommario ", tenuti presenti  anche  i  dubbi  di  compatibilita'  con
l'art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con l'art.
9 n. 2 del Patto internazionale sui diritti civili  e  politici,  che
l'uso di quell'attributo aveva fatto sorgere.
   Nell'articolo  387  sono  precisati  i  casi  in  cui  il pubblico
ministero o, prima dell'intervento di questi, l'ufficiale di  polizia
giudiziaria,  deve procedere all'immediata liberazione dell'arrestato
o del fermato. Nella redazione della norma si e' adottata la  formula
"  fuori  dei  casi  previsti  dalla legge ", ritenuta comprensiva di
qualsiasi ipotesi di illegittima privazione della liberta' personale:
puo' cioe' trattarsi di misura vietata in via assoluta, come nel caso
in cui difettino i  presupposti  di  legittimita'  in  relazione,  ad
esempio,  al titolo del reato od ai limiti di pena, ovvero di casi di
difetto o di errata valutazione delle concrete  condizioni  richieste
per l'adozione della misura.
   Fra  i  casi di immediata liberazione e' compreso quello in cui la
misura  e'  divenuta  inefficace   per   la   mancata   presentazione
dell'arrestato  o  del  fermato al giudice nel termine previsto (art.
388 comma 3).
   L'articolo  388  disciplina  la presentazione dell'arrestato o del
fermato al giudice prevedendo che il pubblico ministero  debba  porre
il soggetto a disposizione del giudice richiedendo la decisione sulla
convalida, entro quarantotto ore dall'arresto o dal fermo.
   E'  dunque  la richiesta della decisione sulla convalida (che deve
intervenire nel  termine  ora  ricordato)  che  assolve  l'obbligo  -
prescritto  dalla  direttiva  34  -  di  "  porre  a disposizione del
giudice, per la decisione sulla convalida, l'arrestato o  il  fermato
entro quarantotto ore dall'arresto o dal fermo ".
   Il  giudice,  poi,  deve  fissare  l'udienza di convalida, al piu'
presto e comunque entro le quarantotto ore successive  e  compete  al
pubblico  ministero  dare  avviso  dell'udienza,  senza  ritardo,  al
difensore e disporre  la  traduzione  dell'arrestato  o  del  fermato
detenuto.
   Alla  mancata  presentazione, nei termini prescritti, da parte del
pubblico ministero, consegue l'inefficacia  della  misura,  sanzione,
questa,  che  e'  stata  prevista  quale  sviluppo della prescrizione
contenuta nell'art. 13 Cost.
   L'articolo  389  disciplina  l'udienza  di  convalida  davanti  al
giudice per le indagini preliminari, prevedendo,  anzitutto,  la  sua
non pubblicita'.
   Le " garanzie di assistenza difensiva nel giudizio sulla convalida
" di cui e' menzione nella direttiva 34, sono assicurate mediante  la
previsione  che, nell'ipotesi di mancata reperibilita' o comparizione
del difensore di fiducia o di ufficio, il giudice  designi  un  altro
difensore  immediatamente  reperibile  secondo  la procedura prevista
dall'art. 96 comma 4 e a tale difensore,  ove  ne  faccia  richiesta,
possa  essere  concesso  un  termine.  L'udienza si svolge attraverso
l'indicazione,  da  parte  del   pubblico   ministero,   dei   motivi
dell'arresto o del fermo e la presentazione delle richieste in ordine
alla liberta' personale.
   Vengono  poi  sentiti  l'imputato  o  il  fermato ed il difensore,
ovvero solo quest'ultimo quando l'arrestato o il  fermato  non  abbia
potuto o si sia rifiutato di comparire all'udienza.
   Il  giudice  provvede  alla  convalida con ordinanza, alla duplice
condizione che l'arresto o il fermo sia stato legittimamente eseguito
e siano stati osservati i termini previsti dagli artt. 384 e 388.
   Se   ricorrono   le  condizioni  di  applicabilita'  delle  misure
cautelari   personali   e    le    esigenze    cautelari    previste,
rispettivamente,   dagli   artt.  273  e  274,  il  giudice,  con  il
provvedimento di convalida, ordina la conversione dell'arresto o  del
fermo  in  una  delle  misure di coercizione previste dalla legge. Il
comma 5 prevede espressamente la convertibilita', in  una  misura  di
coercizione,  anche  dell'arresto  facoltativo  a norma dell'art. 379
comma 2 in ordine a delitti punibili con la reclusione non  inferiore
nel  massimo  a  3  anni,  e  cio' benche' l'art. 280 disponga che le
misure coercitive " possono essere applicate solo quando  si  procede
per  delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione
superiore nel massimo a tre anni ".
   L'apparente   discrasia   fra   le  direttive  32  e  59,  la  cui
applicazione letterale avrebbe comportato che l'arresto  eseguito  ai
sensi  dell'art.  378  comma  2  sarebbe  stato  convalidabile ma non
convertibile,   e'   stata   superata   riconoscendo   carattere   di
specialita',   rispetto  alla  direttiva  59,  alla  direttiva  32  e
ritenendo  che  questa  fosse  pertanto  frutto  della   scelta   del
legislatore  di  consentire  la  conversione,  in una delle misure di
coercizione, anche per quelle ipotesi delittuose per  le  quali  tali
misure non potrebbero essere autonomamente disposte.
   Ove  l'arresto  o  il  fermo  non  sia convalidato il giudice deve
disporre la liberazione del soggetto.
   E'   infine   prevista   (comma  7)  la  cessazione  di  efficacia
dell'arresto o del fermo ove il giudice non decida sulla convalida  e
l'eventuale  conversione  nelle quarantotto ore successive al momento
in cui l'arrestato o il fermato e' stato posto a sua disposizione.
                              TITOLO VII
                         INCIDENTE PROBATORIO
Premessa.
   L'"  incidente  probatorio  "  e'  tra  gli  istituti che arrecano
maggiore novita'  all'impianto  processuale  penale  delineato  dalla
legge-delega del 1987.
   La  sua  ratio  e'  intimamente  connessa  con il nuovo modello di
processo penale, scaturito proprio  dai  rilievi  critici  che  aveva
suscitato  la previsione, nella legge-delega del 1974, di una fase di
" atti di istruzione " che, dopo le indagini preliminari del pubblico
ministero, il giudice istruttore era chiamato a compiere per decidere
se prosciogliere o rinviare a giudizio l'imputato, con il solo limite
che  si trattasse di accertamenti generici, di atti non rinviabili al
dibattimento  e  di  prove  utili  per  l'immediato   proscioglimento
dell'imputato  (direttiva  42  legge-delega  1974).  Quella  critica,
ritornata in modo insistente anche nei lavori preparatori della nuova
legge-delega  (v.  Camera,  Relazione  on.  Martinazzoli-Sabbatini al
d.d.l. n. 691, 21 ottobre 1983, direttiva 40; Camera, int. on. Casini
Aula  26  giugno  1984;  ivi,  on. Rizzo; ivi, on. De Luca, 1› giugno
1984; ivi, on. Gargani 26 giugno 1984; Senato, Relazione  per  l'Aula
sen.  Coco  18  novembre  1986;  Senato, int. sen. Vassalli, Aula, 19
novembre 1986; ivi, sen.  Ricci,  19  novembre  1986;  ivi,  sen.  De
Cataldo  19  novembre  1986;  ivi, sen. Gallo, 20 novembre 1986; ivi,
sen. Coco, 20  novembre  1986;  Camera,  Commissione  Giustizia,  on.
Casini,  res.  somm., 26 novembre 1986; ivi, on. Macis res. somm., 27
gennaio 1987; Camera, Relazione per l'Aula, on.  Casini,  29  gennaio
1987)  determino' l'articolarsi delle linee essenziali dell'incidente
probatorio.
   La  previsione  che le indagini preliminari del pubblico ministero
dovessero essere contenute nel termine " perentorio "  di  30  giorni
dalla  notizia  di  reato  e che a queste, fuori dei casi di giudizio
immediato,  dovesse  succedere  una  fase  di  atti   di   istruzione
dilatabile  in  un arco temporale di tredici mesi faceva fondatamente
paventare il riprodursi di una  fase  istruttoria  del  tutto  simile
all'attuale  istruzione  formale. Ne' il limite cronologico - gia' di
per se' ampio - ne' la specificazione che in tale fase  si  potessero
compiere  solo  determinati  atti  potevano  impedire che di fatto si
tornasse a una attivita'  istruttoria  organicamente  concepita  come
formazione  esaustiva  della  prova:  in tale senso, tra l'altro, non
poteva non spingere la previsione che - piu' o meno come nel  sistema
vigente  -  in tale fase fossero da acquisire le prove necessarie per
decidere  se  l'imputato  dovesse  essere  prosciolto  o  rinviato  a
giudizio.
   Tutto   cio',   in  definitiva,  faceva  cogliere  che  ne  usciva
largamente compromesso il proposito di costruire  il  nuovo  processo
penale   secondo  il  sistema  accusatorio,  e  cioe',  in  concreto,
destinando le indagini preliminari all'attivita' di investigazione  e
riservando la formazione della prova al giudizio.
   Su  queste  linee  si e' pertanto incanalata la elaborazione della
nuova legge-delega. Al tempo stesso, peraltro, ci si  e'  dovuti  far
carico   di   un'esigenza  insopprimibile,  vale  a  dire  quella  di
congegnare un meccanismo processuale idoneo ad  evitare,  durante  le
indagini  preliminari,  "  il  rischio  di  dispersione  di prove non
rinviabili  al  dibattimento  "  (Camera,  Relazione  Martinazzoli  -
Sabbatini, cit.). Di qui il nuovo istituto dell'incidente probatorio,
che per l'appunto consente  che,  durante  il  tempo  necessario  per
l'espletamento   dell'investigazione,   si  anticipino  i  meccanismi
dibattimentali  di  acquisizione  probatoria  quando  sia  necessario
assumere subito una prova, pena la sua dispersione.
   Il sistema delineato nel Progetto tiene conto delle preoccupazioni
avanzate con riferimento al pericolo che il meccanismo dell'incidente
probatorio  potesse  prestarsi  - in linea di fatto - a riprodurre lo
schema e  gli  inconvenienti  tipici  della  istruzione  formale:  in
particolare, mediante un suo impiego eccessivamente dilatato da parte
del pubblico ministero, intenzionato a precostituirsi fin dalla  fase
preliminare   la   maggior  parte  delle  prove  destinate  a  essere
utilizzate nel dibattimento.  A  tale  pericolo  si  e'  ritenuto  di
ovviare  accogliendo, nell'individuazione degli " atti non rinviabili
" al dibattimento (e quindi assumibili con  l'incidente  probatorio),
criteri  sufficientemente  rigidi  che  evitassero  l'attribuzione al
giudice di margini troppo ampi di discrezionalita' sulla  valutazione
della ammissibilita' delle richieste.
   La  rigida determinazione dell'area di operativita' dell'incidente
probatorio presenta l'ulteriore e non  meno  rilevante  vantaggio  di
restringere  anche  il  pericolo  di  un  uso  distorto e strumentale
dell'istituto da parte dei  difensori:  finalizzato,  stavolta,  alla
conoscenza  degli elementi acquisiti dal pubblico ministero nel corso
delle indagini preliminari.
   Il vaglio di ammissibilita' del giudice e la rigida determinazione
degli " atti non rinviabili al dibattimento " fanno  apparire  remota
la  possibilita' di abusi sistematici di un istituto che, sotto altro
aspetto, e' stato " costruito " prevedendo il rigoroso  rispetto  dei
principi  del  contraddittorio (artt. 396 comma 3, 398, 399 e 401) ed
evitando, quindi, il ricorso a procedure ibride che avrebbero  potuto
trascinare  nel  nuovo processo i metodi e la mentalita' dell'attuale
istruzione inquisitoria.
   La   scelta   rispetta  pienamente  la  volonta'  del  legislatore
delegante che, prima di pervenire alla formulazione  della  direttiva
40,  s'era  gia'  fatto carico dei pericoli che per la speditezza, la
segretezza  e  il  corretto  svolgimento  delle   indagini   potevano
discendere,  specie  nei processi contro la criminalita' organizzata,
dalla partecipazione dell'imputato  e  dei  difensori  al  compimento
degli  "  atti  non rinviabili ". E, in proposito, aveva respinto (v.
Relazione per l'aula sen. Coco 18 novembre 1986; int.  sen.  Coco  20
novembre   1986)  le  proposte  privilegianti  il  "  contraddittorio
differito " o il ricorso ad altre modalita' di compimento degli  atti
(quali   ad   esempio   quelle   gia'   suggerite  dalla  Commissione
ministeriale) attente a impedire pericoli di inquinamento probatorio.
   L'assunzione   anticipata   della   prova   non   rinviabile  alla
fisiologica  sede  dibattimentale  ha  reso   pero'   necessaria   la
predisposizione  di  un  sistema  che,  accanto  alla  garanzia delle
posizioni di tutti i soggetti interessati, scongiurasse  sotto  altro
aspetto,  un pletorico intervento di persone a vario titolo coinvolte
nell'indagine, ma sostanzialmente  "  terze  "  rispetto  all'oggetto
della prova da assumere. Assieme, quindi, a
un   articolato   meccanismo  di  garanzie  mutuato  dalla  fase  del
dibattimento, si e' evitato il richiamo alla integralita' delle norme
previste  per  tale  fase  che,  sistematicamente,  mal  si sarebbero
conciliate con  un  istituto  destinato  ad  operare  in  uno  stadio
pre-processuale.
Illustrazione degli articoli.
   Nel prevedere l'incidente probatorio come atto di formazione della
prova in via anticipata rispetto al  dibattimento,  con  le  medesime
forme  che  valgono  per questo e quindi con l'intervento del giudice
delle indagini preliminari,  la  legge-delega  ha  dettato  direttive
specifiche   e   dettagliate,  che  vincolano  in  modo  rigoroso  il
legislatore delegato.
   Nell'articolo 390 si sono tipizzate le ipotesi nelle quali sono da
ravvisare i requisiti del  concetto  di  "  atto  non  rinviabile  al
dibattimento  " formulato dalla legge-delega. Si e' ritenuto di dover
passare da una enunciazione generica alla enucleazione di  specifiche
ipotesi  proprio  per  adempiere  alla  prescrizione  del legislatore
delegante, scongiurando cosi' - nei limiti possibili  -  il  pericolo
che  l'uso  dell'istituto esorbiti dall'eccezionalita'. A tal fine si
sono individuati essenzialmente quattro tipi di situazioni in cui  le
diverse figure di atti individuate dalla legge-delega (testimonianza,
esame dell'indiziato, confronto, ricognizione, esperimento giudiziale
e perizia) risultano non rinviabili al dibattimento: la prova che, se
differita al dibattimento, vedrebbe sopravvenire l'impossibilita'  di
essere  acquisita  (e'  il  caso  tradizionale  della testimonianza a
futura memoria, recepita nella lett. a del comma  1  e,  per  l'esame
dell'indiziato  sul  fatto  altrui,  il  confronto e la ricognizione,
nelle lett. b, c, d); la  prova  esposta  a  inquinamento  (lett.  b,
nonche'  c,  d); la prova esposta a modificazione dell'oggetto su cui
essa deve vertere  (lett.  e,  f);  la  prova  le  cui  attivita'  di
acquisizione    non    sono   compatibili   con   la   concentrazione
dibattimentale (e' il caso della perizia di cui al comma 2).
   Nell'articolo  391  e'  stabilito  che  la  richiesta di incidente
probatorio deve contenere le indicazioni  indispensabili  perche'  il
giudice  possa  motivatamente  accoglierla  o rigettarla. Il comma 4,
inoltre, disciplina i rapporti tra richiesta di incidente  probatorio
e  richiesta  di  proroga  del  termine  per le indagini preliminari,
consentendo che la seconda  possa  essere  presentata  funzionalmente
alla prima solo in limiti che garantiscano che l'incidente probatorio
non  sia  chiesto  in  un  momento  e  in  un  modo  che  lo  rendano
essenzialmente   finalizzato   a  procrastinare  pretestuosamente  la
chiusura delle indagini preliminari.
   Nell'articolo  392 si e' previsto per l'offeso dal reato (a cui la
legge-delega non riconosce la legittimazione a  chiedere  l'incidente
probatorio)  la  possibilita' di stimolare il pubblico ministero alla
richiesta.
   L'articolo  393,  nel  disciplinare le formalita' della richiesta,
pone a carico del richiedente - per ragioni  di  semplificazione  del
rito e di speditezza - l'onere di informarne gli altri soggetti. Alle
medesime finalita' e' informato l'articolo 394: per rendere snello  e
celere  l'espletamento  dell'incidente  probatorio, si e' previsto un
contraddittorio mediante deduzioni scritte che i soggetti interessati
sono  tenuti  a svolgere in un termine anteriore al provvedimento del
giudice sulla sua ammissione.
   Nell'articolo  395 e' disciplinato il differimento che il pubblico
ministero   puo'   chiedere   quando   dall'immediato    espletamento
dell'incidente   probatorio   potrebbe   derivare   pregiudizio   per
determinate  indagini.  La  stessa  legge-delega,  peraltro,  si   e'
premurata   di   stabilire   che   il  differimento  non  pregiudichi
l'assunzione della prova chiesta  dall'indiziato,  facendo  prevalere
questo  interesse  su  quello  di  tutela delle indagini del pubblico
ministero. Sulla base di queste direttive e' pertanto  stabilito  che
nel  chiedere  il  differimento, il pubblico ministero specifichi gli
atti  di   indagine   che   sarebbero   pregiudicati   dall'immediato
svolgimento  dell'incidente  probatorio  (comma 2); e che il giudice,
nell'accogliere la richiesta, differisca l'incidente  probatorio  per
il tempo strettamente necessario.
   L'articolo  396,  nel  prevedere il provvedimento che decide sulla
richiesta, prescrive  che  il  giudice,  quando  ammette  l'incidente
probatorio,   ne   stabilisca  anche  i  confini,  con  riguardo  sia
all'oggetto che ai soggetti che possano parteciparvi. Nella  medesima
disposizione  e'  anche  prescritto  che  il  giudice,  nel dare tali
statuizioni, deve mantenersi nei confini tracciati dalle richieste  e
deduzioni  del  pubblico  ministero e dell'indiziato, in omaggio alla
regola generale  (che  riguardo  a  tale  istituto  non  puo'  patire
eccezioni, come avviene invece nel dibattimento) per cui l'iniziativa
probatoria e' riservata alle parti.
   L'articolo  397  si fa carico del fatto che oggetto dell'incidente
probatorio  e'  una  prova  la  cui   assunzione   puo'   presentarsi
frequentemente   di   particolare   o  assoluta  urgenza  e  pertanto
conferisce al giudice il potere di ridurre i termini del  rito  nella
misura necessaria.
  La  disciplina dell'udienza per l'incidente probatorio e' contenuta
nell'articolo 398. Tale udienza riproduce  le  forme  dibattimentali,
con  due eccezioni fondamentali: la non pubblicita' e la possibilita'
per l'indiziato e l'offeso dal reato di assistervi  di  persona  solo
dietro   autorizzazione   del   giudice,   salvo  che  si  tratti  di
testimonianza  o  esame  dell'indiziato.  E'  inoltre  stabilito  che
nell'udienza  non  possono  essere  oggetto di trattazione o di nuovi
provvedimenti le questioni relative all'ammissibilita'  e  fondatezza
della  richiesta  di  incidente probatorio, e cio' al fine di evitare
una  dilatazione  dell'udienza  al  di  la'  della  sua  funzione  di
assunzione  in  via  eccezionale  della  prova. Nel comma 6 si e' poi
stabilito che l'attivita' probatoria non puo' essere estesa  a  fatti
concernenti persone diverse da quelle i cui difensori sono presenti e
si e' sancito  il  divieto  di  verbalizzare  e  comunque  utilizzare
dichiarazioni  concernenti  le dette persone. Tale limite puo' essere
superato solo ricorrendo al meccanismo previsto dall'articolo 399 per
l'estensione   dell'incidente  probatorio,  che  ha  la  funzione  di
soddisfare la duplice esigenza di compiuta formazione della  prova  e
di salvaguardia, al tempo stesso, dei diritti di difesa delle persone
interessate.
   L'articolo  400  stabilisce  le  regole dell'utilizzabilita' delle
prove assunte con l'incidente probatorio. Mentre per il  giudizio  e'
previsto   il  limite  soggettivo  segnato  dai  soggetti  che  hanno
partecipato all'incidente  (comma  1),  tale  limite  non  opera  con
riguardo  ai  provvedimenti  da  adottare  nel  corso  delle indagini
preliminari,  in  sede  di  chiusura   delle   stesse,   nell'udienza
preliminare  o  nel  giudizio  abbreviato. La ragione di cio' sta nel
fatto  che  per  tali  provvedimenti  sono  utilizzabili  atti   meno
"garantiti"  dell'incidente  probatorio,  cosi' che sarebbe risultata
ingiustificata  (e  anzi  irrazionale)   una   inutilizzabilita'   di
quest'ultimo.  Nel  medesimo  ordine  di  idee  si  inscrive, poi, la
previsione dell'articolo 401, che esclude l'efficacia della prova nei
confronti  del danneggiato dal reato che non sia stato posto in grado
di partecipare all'incidente probatorio.
                             TITOLO VIII
                 CHIUSURA DELLE INDAGINI PRELIMINARI
   Le   disposizioni   contenute   nel   titolo  VIII  descrivono  il
procedimento di chiusura delle indagini preliminari cosi' da  offrire
all'interprete  un  catalogo  degli epiloghi previsti per l'attivita'
del pubblico ministero, accompagnato peraltro dalla  sola  disciplina
degli  esiti  che  non  si  traducono nell'inizio dell'azione penale.
Mentre infatti l'archiviazione della notizia  di  reato  e  i  rimedi
contro  l'inerzia  del  pubblico  ministero sono regolati dalle norme
racchiuse nel presente titolo, la normativa sulle  diverse  attivita'
processuali   che   prendono   avvio  a  seguito  della  formulazione
dell'imputazione trova posto  in  altre  parti  del  Progetto,  nello
stesso  libro  V (v. titolo IX: Udienza preliminare) ovvero nel libro
VI  dedicato  ai  processi  condotti  secondo  un  rito  contratto  e
differenziato  rispetto a quello "ordinario" (Procedimenti speciali).
   Anche  sul piano sistematico ne deriva percio' una netta scansione
tra il procedimento, che si articola nelle indagini preliminari, e il
processo,  che  nasce  quando il pubblico ministero imbocca la strada
della formulazione  dell'accusa  rendendo  ineludibile  la  pronuncia
giurisdizionale.
   Di  questa  scansione  si trova traccia nel disposto dell'articolo
402 comma 1 che fissa  in  termini  inquivocabili  l'alternativa  tra
archiviazione  e  inizio  dell'azione  penale  seguendo  le direttive
contenute nella direttiva 48 della legge-delega.  Escluso  cosi'  che
possa  riproporsi qualsiasi disputa di carattere teorico sulla natura
del  provvedimento  di  archiviazione,  decisamente  collocato  fuori
dell'area  della  giurisdizionalita', risulta altrettanto chiaramente
dalla norma in esame che sono forme di inizio dell'azione penale  non
solo  la  richiesta  di  rinvio a giudizio, rivolta al giudice per le
indagini preliminari, ma anche la richiesta di applicazione di pena a
norma   dell'art.   439   (c.d.   patteggiamento),  la  presentazione
dell'imputato o la sua citazione per il giudizio direttissimo  (artt.
443  e 444), la richiesta di giudizio immediato (art. 447) e, infine,
la richiesta di decreto penale di condanna (art. 453). E'  omesso  il
solo  richiamo  del  giudizio  abbreviato,  non  certo perche' la sua
instaurazione  prescinda  dall'azione  penale,  ma  semplicemente  in
ragione della superfluita' di un rinvio ad una forma processuale che,
essendo incardinata nell'udienza preliminare (art. 434), vede  tra  i
suoi  presupposti  la  richiesta  di  rinvio a giudizio, cioe' l'atto
tipico  con  il  quale  viene  dato  avvio  al  periodo  propriamente
processuale.
   Il  comma  2  dell'art.  402 stabilisce il termine di durata delle
indagini preliminari facendolo decorrere dalla data di iscrizione del
nome  della  persona cui e' attribuito il reato nel registro previsto
dall'art. 335. Il rapporto tra la disposizione in esame e  il  regime
delle  proroghe  delineato  nell'art.  403  lascia  intendere  che il
termine di sei mesi e'  quello  ordinario,  come  risulta  del  resto
nitidamente dalla direttiva 48 della legge-delega.
   La  ratio  del comma 3 e' evidente: soltanto dal momento in cui, a
seguito della rimozione  dell'ostacolo  al  promovimento  dell'azione
penale, l'attivita' del pubblico ministero puo' considerarsi utiliter
gesta, e' legittimo ritenere operante un  termine  dettato  in  vista
dello  svolgimento  di una fase procedimentale il cui scopo e' quello
di verificare se sussistono gli elementi  sufficienti  per  formulare
l'accusa e dar vita al processo.
   La disciplina delle proroghe, assai dettagliata nella direttiva 48
delle legge-delega, ha richiesto alcune messe a punto  concettuali  e
d'ordine  sistematico  al fine di rendere piu' funzionale il congegno
del controllo giurisdizionale  sui  tempi  delle  indagini  (articolo
403).
   Si  e' anzitutto stabilito un principio di gradualita' nelle cause
che  possono  determinare  la  proroga  dell'attivita'  del  pubblico
ministero.  Mentre  il provvedimento che autorizza per la prima volta
il pubblico ministero a superare il termine di sei mesi, puo'  essere
motivato  da  una  pluralita'  di  ragioni  riconducibili al concetto
elastico di "giusta causa", le proroghe successive debbono  ancorarsi
a parametri definiti in modo piu' rigoroso e stringente ("particolari
complessita' delle  indagini"  ovvero  "oggettiva  impossibilita'  di
concluderle").
   Quanto  poi  alle  forme in cui viene compiuto il controllo, si e'
pensato di prevedere, accanto ad una decisione in camera di consiglio
prima  della  quale il contraddittorio e' garantito dal diritto delle
"parti" di  presentare  memorie  (art.  403  comma  3),  una  udienza
modellata  secondo  le  linee  dell'art. 126 che assicura la presenza
delle "parti" senza  peraltro  richiedere  tutto  quel  complesso  di
formalita' e di adempimenti che sono tipici della udienza preliminare
(artt.413 - 417). In altre parole, si e' ritenuto di interpretare  il
richiamo  all'"udienza  preliminare",  contenuto  nella  direttiva 48
della legge-delega, come riferimento ad un  rito  piu'  garantito  di
quello  esperibile  nei casi in cui il giudice ritenga manifestamente
giustificata  la  richiesta  di  proroga  presentata   dal   pubblico
ministero,  senza con cio' intendere l'impegno ad una disciplina piu'
garantistica  come  vincolo   a   riprodurre   tutti   i   meccanismi
dell'udienza   preliminare.   Del   resto   che,   al  di  la'  della
nomenclatura, la legge-delega non abbia voluto riferirsi all'istituto
di  cui  alla direttiva 52, e' dimostrato dallo stesso contesto della
direttiva 48 nel quale, subito dopo l'udienza preliminare  introdotta
dal  giudice  ex  officio  quando non ritiene di concedere la proroga
dopo aver "sentite le parti", si indicano gli epiloghi delle indagini
nella  alternativa  tra  richiesta  di  archiviazione  e richiesta di
udienza preliminare "formulata l'imputazione". Solo in questa seconda
accezione l'istituto e' designato nella sua funzione tipica di filtro
dell'accusa contestata dal  pubblico  ministero,  mentre  nell'ambito
della  disciplina della proroga non puo' rivestire l'identica portata
operativa poiche'  al  giudice  delle  indagini  preliminari  non  e'
consentito  di  formulare  l'imputazione quando il pubblico ministero
manifesta la volonta' di proseguire le  indagini  per  acquisire  gli
elementi  di  cui  ritiene  di doversi avvalere al fine di esercitare
l'azione penale. Al  riguardo,  il  comma  6  dell'art.  403  enuncia
chiaramente  gli  epiloghi della udienza di proroga nell'ambito della
dicotomia rigetto  della  richiesta/autorizzazione  a  proseguire  le
indagini,   mentre   l'ultimo  comma  del  medesimo  articolo  lascia
intendere che, in  caso  di  rigetto  della  richiesta,  il  pubblico
ministero  e' tenuto a prendere posizione chiedendo l'archiviazione o
il rinvio a giudizio.
   Il tema della durata massima delle indagini ha impegnato il lavoro
della Commissione su due piani. Anzitutto, e' stato  necessario  dare
attuazione  alla  parte  della  direttiva 48 della legge-delega nella
quale il limite massimo e'  fissato  in  due  anni  in  relazione  ai
"processi  per  criminalita'  organizzata  e  in  ipotesi eccezionali
specificamente indicate". In proposito i criteri  cui  si  ispira  la
disciplina  tracciata  nel comma 2 dell'articolo 404 sono agevolmente
desumibili  dal  tenore  letterale  delle  disposizioni:  gravita'  e
allarme  sociale  di  alcune  ipotesi  criminose in cui si profila la
struttura associativa (lett. a); maxi-indagini sia dal punto di vista
dell'estensione  oggettiva  e  soggettiva  dell'accertamento, sia con
riguardo  all'elevato  numero  delle  persone   offese   (lett.   b);
necessita'  di  compiere atti fuori del territorio dello Stato (lett.
c); esigenza  di  mantenere  il  collegamento  tra  piu'  uffici  del
pubblico  ministero  nei  casi  in  cui sia stato instaurato un modus
procedendi che postula una continuita' di rapporti tra  i  magistrati
impegnati nelle indagini (lett. d).
   Ancora piu' delicato e' sembrato il problema della efficacia degli
atti compiuti dal pubblico ministero dopo  la  scadenza  del  termine
massimo  di durata delle indagini, stabilito dalla legge o risultante
dal provvedimento di proroga del  giudice.  E'  bensi'  vero  che  la
direttiva  48  della legge-delega prevede la "inutilizzabilita' degli
atti compiuti dal pubblico ministero  oltre  i  termini  stabiliti  o
prorogati",  ma  questa  sanzione  e'  ricollegata espressamente alla
omissione del deposito della richiesta dell'udienza preliminare cosi'
da  suscitare  l'interrogativo  circa  la  sorte  degli atti compiuti
eventualmente  dallo  stesso   pubblico   ministero   dopo   l'inizio
dell'azione   penale  nei  termini  previsti  dalla  legge-delega.  E
poiche', da un lato, la direttiva 49 parla di "atti  integrativi"  di
indagine  per  il  periodo successivo al provvedimento che dispone il
giudizio, e, dall'altro, non era possibile riprodurre l'art. 403  del
Progetto  1978  che attribuiva al giudice dell'udienza preliminare il
potere di compiere atti urgenti  nel  periodo  intercorrente  tra  il
deposito   della   richiesta   del   pubblico  ministero  e  la  data
dell'udienza, la Commissione si e' trovata a dover scegliere  tra  la
previsione  del divieto di ogni indagine dopo la scadenza del termine
e il conferimento al pubblico ministero di un potere di compiere atti
non dissimili da quelli che la direttiva 49 definisce integrativi.
   L'orientamento  in  favore della seconda prospettiva si e' imposto
non solo alla luce di esigenze  di  carattere  pratico-operativo  che
hanno  sconsigliato  di  creare  un  "periodo bianco" nel quale fosse
vietato il compimento di qualsiasi atto, ma anche  in  considerazione
della  struttura  del  nuovo  processo che non puo' negare alla parte
pubblica il potere di compiere le investigazioni  cui  e'  ovviamente
legittimata, parallelamente, anche la parte privata.
   Questa  scelta  non  si  e'  tradotta in una espressa formulazione
normativa (v. invece art. 378 Progetto 1978), ma puo'  desumersi  sia
dal  tenore  letterale  dell'art. 404 ultimo comma, sia, e ancor piu'
chiaramente, dall'art. 416 comma 3 che fa riferimento "alle  indagini
eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio".
   La disciplina dell'archiviazione per infondatezza della notizia di
reato (articoli 405, 406 e 407) ricalca le linee degli artt. 379  381
del  Progetto  del  1978  cui le direttive 50 e 51 della legge-delega
mostrano del resto di aver attinto per definire i  profili  di  fondo
dell'istituto, anche con riguardo ai poteri dell'offeso dal reato.
   Va  segnalato  che  con  la richiesta di archiviazione il pubblico
ministero deve depositare, a norma dell'art.  495  comma  1,  il  suo
fascicolo  con  tutti gli atti acquisiti nel corso delle indagini (v.
invece la diversa disciplina che si desume a contrario dall'art.  403
comma 3 quanto alla richiesta di proroga).
   L'eventuale   udienza   fissata   dal   giudice   delle   indagini
preliminari,  in  caso  di  rigetto  della  richiesta  del   pubblico
ministero,  si  svolge  nelle  forme  del  procedimento  in camera di
consiglio  (art.  126).  Per  le  ragioni   gia'   anticipate   nella
illustrazione  dell'art.  403,  la  Commissione  ha  ritenuto  che la
locuzione "udienza preliminare" nelle direttive 50 e 51  non  potesse
essere   interpretata  come  richiamo  all'istituto  delineato  nella
direttiva 52, il cui presupposto e' la formulazione dell'accusa.
   Nell'articolo  407  e'  regolata  piu'  puntualmente  l'iniziativa
dell'offeso dal reato che si rivolge al giudice  per  sollecitare  il
proseguimento  delle indagini. Si e' pensato di denominare il rimedio
di cui si avvale l'offeso come "opposizione"  per  sottolineare  piu'
chiaramente  la funzione dialetticamente contrapposta all'assunto del
pubblico ministero che si e' espresso nel  senso  di  non  promuovere
l'azione penale.
   L'articolo  408  estende  la  normativa  dettata  per  i  casi  di
manifesta infondatezza alle ipotesi di improcedibilita' ed estinzione
del reato (v. gia' art. 382 Progetto 1978) nonche' alle situazioni in
cui risulta che il fatto non e' previsto dalla legge come  reato.  Il
provvedimento   di   archiviazione  e'  in  questi  casi  subordinato
all'evidenza della causa che  lo  giustifica  ("senza  necessita'  di
particolari indagini").
   La   previsione   del  termine  massimo  delle  indagini,  con  la
conseguente decadenza del pubblico ministero dal potere di presentare
al  giudice  le  richieste  di  cui agli artt. 402 e 404, ha posto il
problema della tutela degli interessi pubblici e  privati  di  fronte
all'inerzia  dell'organi  dell'accusa. Respinta l'idea che il decorso
del termine possa configurarsi come  una  vera  e  propria  decadenza
dall'azione   penale,   la  Commissione  ha  ritenuto  indispensabile
prevedere un meccanismo  capace  di  condurre  le  indagini  al  loro
epilogo  naturale. Sulla scia del Progetto del 1978 (cfr. artt. 384 e
386) e della legge-delega  (cfr.  direttiva  42),  il  congegno  piu'
appropriato   e'   sembrato  l'avocazione  disposta  dal  procuratore
generale sia di propria iniziativa, sia a richiesta dell'indiziato  o
dell'offeso dal reato (articoli 409 e 410). Ad evitare, comunque, che
l'istituto venga utilizzato al fine di aggirare il limite massimo per
le  indagini stabilito dalla legge, si e' previsto che il procuratore
generale possa disporre di un termine non superiore a  trenta  giorni
per  compiere  le  indagini integrative necessarie a formulare le sue
richieste.
   In tema di riapertura delle indagini l'articolo 411 stabilisce, in
attuazione della direttiva 56 della legge-delega, che dopo il decreto
di   archiviazione   -  cui  non  viene  riconosciuta  una  efficacia
preclusiva analoga a quella della sentenza di non luogo  a  procedere
(art.  430)  -, il pubblico ministero debba rivolgersi al giudice per
essere autorizzato ad investigare sui medesimi fatti e nei  confronti
della  stessa  persona.  L'autorizzazione sara' concessa anche quando
non siano emersi nuovi elementi e l'organo dell'accusa  si  limiti  a
prospettare  al giudice un nuovo piano di indagine che puo' scaturire
dalla diversa interpretazione degli elementi gia' acquisiti.
   L'articolo  412 disciplina l'archiviazione per le ipotesi di reato
commesso da persone ignote prevedendo forme di controllo che  possono
assicurare  il  rispetto della obbligatorieta' dell'azione penale nei
casi in cui il pubblico ministero non abbia adempiuto  al  dovere  di
procedere   all'iscrizione  del  nome  della  persona  indiziata  nel
registro previsto dall'art. 335, cosi' impedendo  la  decorrenza  del
termine stabilito dall'art. 402.
                              TITOLO IX
                         UDIENZA PRELIMINARE
Premessa.
   Al tema dell'udienza preliminare la Commissione si e' dedicata con
particolare impegno nella consapevolezza sia del rilievo centrale che
spetta   all'istituto   nella   struttura  del  nuovo  processo,  sia
dell'esistenza di profili problematici che si prospettano nella messa
a  punto  della  disciplina normativa alla luce del complesso iter di
elaborazione delle direttive della  legge-delega  riguardanti  questo
argomento.
   Escluso  anzitutto  l'impiego della nozione di udienza preliminare
nelle situazioni in cui manca la formulazione dell'accusa (udienza di
proroga  delle indagini: art. 403; udienza per l'archiviazione: artt.
406 e 407), la Commissione  ha  ritenuto  di  scorgere  nell'istituto
delineato  dalla  direttiva  52  della  legge  una  duplice ratio, di
garanzia del diritto di difesa dell'imputato e, al tempo  stesso,  di
economia  processuale.  Sul  punto  sono illuminanti gli orientamenti
espressi dal Parlamento la' dove ha assegnato all'udienza preliminare
il  ruolo  di  "filtro  della  richiesta di dibattimento avanzata dal
pubblico ministero" (v. Relazione Coco, Senato, p. 12) mettendone  in
luce la "funzione di decongestione del sistema" (v. Relazione Casini,
Camera, p. 16).
   Il  controllo  giurisdizionale  volto  a  delibare  il  fondamento
dell'accusa non si traduce peraltro in un intervento cosi' penetrante
da  assumere  compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati
delle  indagini  svolte  dal  pubblico  ministero  o   alle   carenze
nell'esercizio  della  attivita'  difensiva.  Al  riguardo  la scelta
fissata dalla legge-delega e' chiarissima:  al  giudice  dell'udienza
preliminare  e'  negato qualsiasi potere di iniziativa nella raccolta
della  prova,  anche  quello  suppletivo  e   residuale   che   viene
riconosciuto al giudice del dibattimento (direttiva 73). Si e' voluto
porre  "rimedio  al  pericolo   della   rinascita   di   un'attivita'
istruttoria"   (Relazione   Casini,   Camera,   p.   16)  accogliendo
l'orientamento secondo cui, abolito il giudice istruttore, il giudice
dell'udienza  preliminare  "e'  privato  di ogni potere o facolta' di
istruzione" (Relazione Coco, Senato, p. 12).
   Preso   atto  della  nuova  dimensione  strutturale  e  funzionale
impressa  dalla  legge-delega  all'istituto,  gia'   concepito   come
"udienza  di smistamento" nel Progetto del 1978, la Commissione si e'
sforzata di risolvere in modo coerente al sistema  e  rispettoso  dei
diritti  delle  parti il problema del supplemento istruttorio in sede
di udienza preliminare.
   La legge-delega non ha trascurato di esprimersi sulla eventualita'
di una situazione di stallo dovuta alla  impossibilita'  di  decidere
allo  stato  degli  atti.  Abbandonata  l'idea  che  il giudice possa
disporre l'assunzione degli atti indispensabili per la decisione  (v.
direttiva  48,  testo  approvato  dalla  Commissione  Giustizia della
Camera il 15 luglio 1982), la direttiva 52 gli riconosce il potere di
"  rinviare  ad altra udienza affinche' le parti forniscano ulteriori
elementi ai fini della  decisione  ".  Di  qui  un'alternativa  nella
delineazione  del congegno operativo: l'integrazione probatoria e' da
realizzarsi fuori udienza, per consentirne poi il rifluire davanti al
giudice   nella   forma  del  verbale  o  deve  formarsi  nella  sede
giurisdizionale, sia pure con  una  tecnica  diversa  da  quella  del
dibattimento  cosi'  da non creare quel pregiudizio di una formazione
anticipata della prova che il Parlamento ha inteso escludere?
   Dopo un ampio dibattito, nel quale i sostenitori del modello della
" udienza cartolare " hanno confrontato i loro argomenti  con  quelli
avanzati   da   chi   ha  sottolineato  l'imprescindibilita'  di  una
elaborazione probatoria, sia pure eventuale e contratta,  davanti  al
giudice,   la  Commissione  ha  deciso  di  privilegiare  la  seconda
prospettiva per ragioni d'ordine sistematico allineate allo spirito e
alla lettera della legge-delega.
   La  tesi  che colloca l'acquisizione degli " ulteriori elementi ai
fini della decisione " fuori dell'udienza  preliminare  comporta  una
abnorme  regressione  da  una  fase  propriamente  processuale ad uno
stadio preprocessuale qual e' quello delle indagini  preliminari.  Al
pubblico  ministero  sarebbe  consentito di assumere, ad esempio, una
prova testimoniale nel segreto del suo ufficio per  poi  produrre  il
verbale  al  giudice dell'udienza preliminare che dovrebbe servirsene
per la  decisione.  E  l'imputato  che  intendesse  far  assumere  la
deposizione   del  testimone  dalle  cui  dichiarazioni  intende  far
emergere  l'evidenza  della  non  sussistenza  del   fatto,   sarebbe
costretto  a  chiederne l'audizione proprio a quel pubblico ministero
che, nel corso delle indagini preliminari, potrebbe essersi rifiutato
di   sentirlo   nonostante  le  reiterate  richieste  presentate  dal
difensore.
   Non   si   puo'   del   resto   ritenere  praticabile  il  ricorso
all'incidente probatorio, i  cui  presupposti  sono  ben  diversi  da
quelli  che  caratterizzano  il  "  supplemento istruttorio " ai fini
della decisione nell'udienza preliminare. Senza dire che,  anche  per
questa   via,   si   determinerebbe   una   regressione   della  fase
giurisdizionale,  segnata  dall'inizio  dell'azione  penale,  ad   un
momento  procedimentale  in  cui  gli interventi del giudice hanno un
carattere puramente incidentale.
   La  Commissione  si e' percio' orientata verso una interpretazione
della legge-delega capace di coniugare la garanzia del  diritto  alla
prova,  attribuito all'imputato dalla direttiva 69, e il principio di
economia processuale, sotteso alla direttiva della semplificazione di
cui  alla  direttiva  1, con l'abolizione della funzione inquisitoria
del  giudice  della  fase  anteriore  al  dibattimento,  voluta   dal
Parlamento   per   evitare   l'attuale  invadenza  delle  valutazioni
istruttorie nella successiva fase del giudizio.
   Seguendo  questo  impianto  costruttivo,  la  disciplina tracciata
negli artt. 413 - 419 si incentra su un  regime  ordinario  che  vede
l'udienza  preliminare  modellata  come procedimento allo stato degli
atti, cui puo' far  seguito,  eventualmente,  un  regime  eccezionale
imperniato  su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una
efficacia interna alla  fase.  Mentre  nel  regime  ordinario  l'iter
procedurale richiama alla mente l'attuale procedimento incidentale di
esecuzione, trattandosi essenzialmente di discutere i risultati delle
indagini  e  il  contenuto dei documenti prodotti dalle parti private
(art.  418),  il  regime  extra  ordinem   consente   l'ingresso   di
testimonianze,  consulenze  tecniche  e  interrogatori  di coimputati
quando, sui temi nuovi o incompleti indicati dal giudice, il pubblico
ministero  o  le  parti  private  ne  facciano richiesta e il giudice
ritenga decisiva la prova ai fini della sua pronuncia (art. 419).
   Per  evitare  l'assimilazione  dell'attivita' probatoria svolta in
udienza  a  quella  propria  del  dibattimento  si  e'   disciplinata
l'escussione della prova orale secondo una tecnica diversa dall'esame
diretto.  Poiche'  il  "  supplemento  istruttorio  ",  pur   essendo
introdotto   dalla   iniziativa  delle  parti,  in  assolvimento  dei
rispettivi oneri probatori, nasce dalla posizione del tema  da  parte
del giudice, e' sembrato corretto attribuire a quest'ultimo il potere
di condurre  l'audizione  o  l'interrogatorio,  salvo  ovviamente  il
diritto  delle  parti  di  porre domande, ribaltando il regime tipico
della fase dibattimentale. Conseguentemente la  prova  elaborata  con
questa  modalita' non puo' essere utilizzata nel giudizio, per il suo
carattere atipico rispetto alla regola dell'esame diretto  che  trova
invece  applicazione nell'incidente probatorio (art. 398 comma 5). La
conferma di questo  regime  in  tema  di  utilizzabilita'  si  ricava
dall'art.  427  che  non menziona il verbale dell'udienza preliminare
nell'elenco degli atti che formano il fascicolo per il  dibattimento.
 Illustrazione degli articoli.
   Nell'articolo  413  si  prevede  che, con la richiesta di rinvio a
giudizio,  il  pubblico  ministero  debba  depositare  anche  il  suo
fascicolo  contenente  l'intera  documentazione  degli  atti compiuti
dalla polizia giudiziaria  e  dallo  stesso  pubblico  ministero.  Si
realizza  cosi',  sostanzialmente, una anticipazione del deposito che
la direttiva 57 della legge-delega ha previsto con riguardo alla fase
dibattimentale.  Un  simile adempimento e' sembrato indispensabile al
fine di rendere possibile all'imputato e al suo difensore di compiere
le  scelte nell'ambito delle diverse alternative poste dai cosiddetti
riti differenziati. Solo prendendo visione di tutti gli  elementi  di
prova  acquisiti  nelle  indagini  preliminari  (v. art. 416 comma 2)
l'imputato e' in grado di stabilire se sia conveniente, ai fini della
sua  difesa,  rinunciare  all'udienza preliminare (art. 416 comma 5),
richiedere  il  giudizio  abbreviato  (art.  434)   ovvero   chiedere
l'applicazione  della  pena  o  prestare  il  suo  consenso  a  norma
dell'art. 439. Tra i requisiti formali della richiesta  di  rinvio  a
giudizio  si  era  proposto  di includere l'esposizione sintetica dei
risultati conseguiti nelle  indagini  preliminari.  Si  e'  preferito
pero'  non  appesantire  il  lavoro  del  pubblico  ministero  con la
previsione di un simile obbligo. L'articolo 414 si limita  percio'  a
richiedere l'elencazione delle fonti di prova acquisite.
   Gli  articoli  415  e 416 delineano la disciplina della fissazione
dell'udienza preliminare e dei suoi  atti  introduttivi  secondo  uno
schema  che  ricalca  in gran parte le disposizioni degli artt. 401 e
402 del Progetto 1978. Come  si  e'  gia'  osservato  sub  art.  404,
l'avviso  comunicato  al  pubblico  ministero menziona la facolta' di
produrre la documentazione delle indagini che il  pubblico  ministero
ha  eventualmente compiuto dopo il deposito della richiesta (art. 416
comma 3).
   La   Commissione  ha  confermato  l'esclusione  della  pubblicita'
relativamente all'udienza preliminare, come risulta  chiaramente  dal
comma  1  dell'articolo  417  ("  l'udienza  si  svolge  in camera di
consiglio ") (v. gia' la  rubrica  dell'art.  405  Progetto  1978:  "
svolgimento  dell'udienza  in  camera  di consiglio "). Rispetto alla
legge-delega del  1974  risulta  invece  notevolmente  rafforzata  la
garanzia   della   partecipazione   dell'imputato,   la  cui  mancata
comparizione rende operanti gli stessi adempimenti  previsti  per  la
fase  dibattimentale (cfr. la direttiva 82 della legge-delega nonche'
l'art. 417 comma 4).
   L'articolo  418 descrive l'iter processuale ordinario dell'udienza
nella quale il giudice decide allo stato  degli  atti.  Esauriti  gli
accertamenti  concernenti la costituzione delle parti l'imputato, che
gode del diritto di non  essere  sottoposto  all'interrogatorio  come
nella  fase del giudizio, puo' chiedere di essere sentito. Come si e'
gia' anticipato  in  sede  di  considerazioni  generali  sull'udienza
preliminare, non si e' ritenuto opportuno, nell'assenza di specifiche
direttive  della  legge-delega,  introdurre  la  tecnica   dell'esame
diretto   che   avrebbe  consacrato  la  piena  efficacia  probatoria
dell'atto.
   All'eventuale  interrogatorio  dell'imputato seguono l'esposizione
del pubblico ministero e le difese delle parti private. Gli argomenti
e  le  conclusioni  formulati nella discussione si fondano sugli atti
depositati dal pubblico ministero o prodotti dallo stesso all'udienza
nonche', ovviamente, sui documenti prodotti dalle parti private (art.
418 comma 3).
   Qualora  non sia possibile decidere allo stato degli atti, si apre
una  nuova  fase  dell'udienza  destinata  ad  acquisire  "  sommarie
informazioni   ai   fini  della  decisione  ".  Con  questa  formula,
deliberatamente  riduttiva,  si  e'  voluta   designare   l'attivita'
probatoria   eccezionalmente   inserita  nell'udienza  preliminare  a
seguito della richiesta delle parti cui il giudice ha segnalato  temi
nuovi o incompleti (articolo 419). Si sono gia' illustrate piu' sopra
(v. premessa) le ragioni che hanno  indotto  a  dare  spazio  ad  una
limitata  attivita' probatoria nell'udienza preliminare. Qui bastera'
osservare che l'onere delle parti di " fornire gli elementi di  prova
",  secondo  quanto  richiesto  dalla  direttiva  52, e' puntualmente
descritto nel comma 2 dell'art. 419 imperniato sulla distinzione  tra
prove  a  carico  e  prove  a  discarico.  Quanto  poi  alla  diversa
nomenclatura impiegata nelle  disposizioni  in  cui  si  parla  di  "
ammissione  di prove " e non di " elementi di prova ", val la pena di
ricordare come proprio il Parlamento abbia  ammonito  il  legislatore
delegato   a   non   recepire   acriticamente   il  linguaggio  della
legge-delega  nel  settore  attinente  al  fenomeno  probatorio   (v.
Relazione  Casini, Camera, p. 13, a proposito della distinzione tra "
prova " e " fonte di prova "). Non  si  puo'  evidentemente  ignorare
come,  in  una  fase  genuinamente  giurisdizionale  ove  c'e'  ormai
pienezza  di  contraddittorio,  gli  espedienti  lessicali  volti   a
degradare  il  valore  di  cio' che si compie ai fini della decisione
finisca  con  il  disorientare  piu'  che  aiutare  l'interprete.  E'
sembrato  percio'  che, a far intendere l'efficacia interna alla fase
propria degli atti compiuti nell'udienza preliminare, sia piu' idonea
la    tecnica   di   escussione   probatoria,   diversa   da   quella
dibattimentale,  che  non  invece  la  pura   e   semplice   variante
linguistica che ripudia il vocabolo "prova" nella sua pura e semplice
valenza semantica.
   L'articolo   420   autorizza   alcune   ipotesi  di  modificazione
dell'accusa sulla falsariga dell'art.  407  del  Progetto  del  1978,
innovando   per   quanto   attiene   alla   contestazione,  demandata
interamente al pubblico ministero. Anche la disciplina prevista per i
casi  di  assenza dell'imputato, e' frutto di una messa a punto della
Commissione che ha inteso semplificare la procedura dell'udienza.
   Quanto ai provvedimenti terminativi dell'udienza, gli articoli 421
e  422  riproducono  quasi  alla  lettera  la  direttiva   52   della
legge-delega. Preso atto dell'orientamento del legislatore delegante,
preoccupato di sottolineare la portata puramente  interlocutoria  del
provvedimento  che  dispone il giudizio, la Commissione non ha potuto
peraltro fare a meno di rilevare  quanto  singolare  sia,  alla  luce
della   nostra  cultura  processualistica,  denominare  "decreto"  il
provvedimento  emesso  da   un   giudice   che   si   pronuncia   nel
contraddittorio  delle  parti,  dopo  l'inizio dell'azione penale. Ne
deriva, tra l'altro,  una  certa  dissonanza  sul  piano  sistematico
tenuto conto che si e' denominato "ordinanza" il provvedimento con il
quale e' disposta  l'archiviazione  a  seguito  del  procedimento  in
contraddittorio  che si svolge in camera di consiglio (art. 406 comma
3).
   Nell'articolo  423  e'  contenuta  la normativa sulla condanna del
querelante alle spese ed ai danni. Le disposizioni ricalcano le linee
dell'art. 432 del Progetto del 1978 con alcune varianti imposte dalla
nuova struttura del sistema.
   Il giudice collegiale competente a conoscere dall'appello proposto
contro la sentenza di non luogo a procedere (v.  direttiva  59  della
legge-delega)  e'  stato individuato nella corte di appello (articolo
424), per ovvie ragioni di coerenza al principio ormai impostosi  nel
nostro   ordinamento   con   la  legge  n.  400/1984.  Del  resto  la
legge-delega mostra chiaramente di aver  voluto  abolire  la  sezione
istruttoria,   lasciata   cadere   a   seguito   della   eliminazione
dell'istituto del  giudice  istruttore.  Il  comma  6  dell'art.  424
introduce il divieto della reformatio in peius in caso di appello del
solo imputato, innovando rispetto al sistema vigente.
   Con  il  decreto  che dispone il giudizio, il giudice dell'udienza
preliminare  deve  fissare  la  data  di  comparizione  dell'imputato
davanti  all'organo  giurisdizionale  competente  per il dibattimento
(articolo 425 comma 1 lett. f). Il  provvedimento  assume  dunque  la
duplice funzione di atto di rinvio a giudizio, che attesta l'avvenuta
verifica dei risultati delle indagini preliminari, e  di  decreto  di
citazione, atto introduttivo della ulteriore fase processuale.
   Sulla  praticabilita'  del  congegno  che  attribuisce  al giudice
dell'udienza preliminare la facolta' di  ingerirsi  nel  ruolo  delle
cause  di  competenza  del  giudice  dibattimentale,  si e' sollevata
qualche riserva da parte  di  alcuni  componenti  della  Commissione,
preoccupati   della  eventualita'  di  continui  rinvii  dell'udienza
disposti dal presidente del tribunale o della corte di assise a causa
della  pluralita' di processi fissati da diversi giudici nella stessa
data (v. del resto, sul punto, quanto  prevede  l'art.  459).  Si  e'
peraltro  ritenuto  che,  almeno negli uffici giudiziari di piccole e
medie dimensioni, il congegno previsto dall'art. 425 sia  in  pratica
realizzabile  e  che  i  vantaggi  da  esso  derivanti prevalgono sui
possibili inconvenienti operativi.
   Nell'articolo  426  e' recepita la direttiva 49 della legge-delega
in una formulazione letterale che ne riproduce quasi testualmente  il
contenuto.  Sui  rapporti  tra atti integrativi di indagine, compiuti
dopo il decreto  che  dispone  il  giudizio,  ed  investigazioni  del
pubblico  ministero  realizzate  dopo  il deposito della richiesta di
rinvio a giudizio, v. sub art. 404.
   La  formazione  del  fascicolo  per  il dibattimento (direttiva 57
leggedelega)  e  di  quello  del  pubblico  ministero  (direttiva  58
legge-delega)  e' regolata dagli articoli 427 e 429. Quanto al primo,
sara' il giudice dell'udienza preliminare a  compiere  una  selezione
degli  atti  in suo possesso, seguendo le indicazioni contenute nella
norma. Qualsiasi errore nella scelta degli atti non  ripetibili  puo'
comunque  essere  rilevato  dalle  parti  in  sede di decisione delle
questioni preliminari nella fase dibattimentale (art. 485 commi  4  e
5).  Le  regole  per la formazione del secondo sono dettate dall'art.
429, ma assumono evidentemente minore rilievo  poiche'  il  contenuto
del fascicolo del pubblico ministero e' delineato dall'art. 413.
   Il diritto delle parti di prendere visione ed estrarre copia degli
atti contenuti nei due fascicoli e' sancito dall'art. 429, quanto  al
fascicolo  del  pubblico  ministero,  e  dall'art. 460 per quello che
viene trasmesso al giudice del dibattimento.
                               TITOLO X
                        REVOCA DELLA SENTENZA
                       DI NON LUOGO A PROCEDERE
  Alla direttiva 56 della legge-delega e' stata data attuazione negli
articoli 430  -  433.  Il  raffronto  con  l'art.  411,  in  tema  di
riapertura  delle  indagini dopo l'archiviazione lascia intendere, al
di la'  della  formulazione  letterale  dell'articolo  430,  come  la
sentenza di non luogo a procedere emessa nell'udienza preliminare sia
assistita da una specifica efficacia preclusiva:  non  e'  consentito
dare  avvio a nuove indagini fuori dei casi in cui sopravvengono o si
scoprono nuove  prove  che,  da  sole  o  unitamente  a  quelle  gia'
acquisite,  possono  giustificare  il  rinvio  a  giudizio. In questo
presupposto e nell'intervento del giudice, che decide sulla richiesta
del   pubblico   ministero   nel   contraddittorio  dell'indiziato  o
dell'imputato (articolo 431 comma 3), si integrano le "garanzie"  cui
fa riferimento la direttiva 56 della legge-delega.
   Una   ulteriore   garanzia,   in   senso   lato,   puo'  desumersi
dall'articolo 432 (comma 3) nel quale e' previsto un termine  massimo
di  sei  mesi per lo svolgimento delle nuove indagini, fuori dei casi
in cui il pubblico ministero richieda, con la revoca della  sentenza,
il  rinvio  a  giudizio  dell'imputato  avendo gia' acquisito aliunde
ulteriori elementi di prova.
                               LIBRO VI
                        PROCEDIMENTI SPECIALI
   Il  libro  VI  raggruppa  i "procedimenti speciali" previsti dalla
legge-delega. La specialita' va vista in  relazione  al  procedimento
ordinario  per  i  reati di competenza del tribunale, che si sviluppa
nella seguente sequenza: indagini preliminari,  udienza  preliminare,
giudizio   di  primo  grado,  impugnazioni  (appello  e  ricorso  per
cassazione).
   Le   deviazioni  che  nei  procedimenti  speciali  si  riscontrano
rispetto al  modello  del  procedimento  ordinario  tendono  tutte  a
semplificare  i  meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del
processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme
del  giudizio  dibattimentale. In particolare: il giudizio abbreviato
(titolo I) consente  di  definire  il  procedimento  di  primo  grado
nell'udienza    preliminare    e    prevede   riduzioni   dell'ambito
dell'appello; l'applicazione della  pena  su  richiesta  delle  parti
(titolo  II)  determina un immediato epilogo processuale, che elimina
anche l'appello; con il giudizio  direttissimo  (titolo  III)  ed  il
giudizio  immediato  (titolo IV) e' evitata l'udienza preliminare; il
procedimento per decreto  (titolo  V)  ha  una  struttura  del  tutto
autonoma, gia' conosciuta peraltro dal codice vigente.
   Alcune  differenze rispetto al modello ordinario sono collegate ai
caratteri oggettivi del processo (evidenza  della  prova),  altre  si
basano  sulla  volonta'  delle  parti (e' questo il caso del giudizio
abbreviato e dell'applicazione della pena su richiesta); il  giudizio
direttissimo  (titolo  III) si fonda sull'arresto in flagranza ovvero
sull'intervenuta confessione dell'imputato.
   Alcuni di questi procedimenti possono essere introdotti durante le
indagini preliminari e prima che si sia instaurato un vero e  proprio
processo:  da  qui  l'uso  del  termine  piu'  ampio di "procedimenti
speciali", anziche' di processi.
   Nel  libro  VI  trovano  la  loro disciplina quelli che, durante i
lavori preparatori della legge-delega sono stati spesso indicati come
"  riti  differenziati  " e che si e' cercato di incrementare il piu'
possibile. E' diffuso il convincimento che ad  essi  e'  affidata  in
gran   parte   la  possibilita'  di  funzionamento  del  procedimento
ordinario,  che  prevede  meccanismi  di   formazione   della   prova
particolarmente  garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione
generalizzata,  per  evidenti  ragioni   di   economia   processuale.
Soprattutto  ai  riti  abbreviati  (titoli  I  e  II)  e' affidata la
funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un  gran
numero  di  procedimenti,  secondo  uno schema di deflazione comune a
tutti i sistemi processuali che si ispirano al  modello  accusatorio.
Si  e'  efficacemente  detto,  nel  corso  della  approvazione  della
legge-delega, che il nuovo processo " funzionera' se riusciremo a far
pervenire  al  dibattimento  soltanto una parte piccola di processi "
(Intervento on. Casini alla Camera  dei  deputati,  Aula,  10  luglio
1984).
   E'  innegabile che l'accordo tra accusa e difesa su cui si fondano
i procedimenti speciali previsti nei primi due titoli rappresenta una
rilevante  novita'  del  nostro  sistema processuale, in quanto anche
l'istituto del titolo II - che pur si rifa' al c.d. "  patteggiamento
"   introdotto  dalla  l.  24  novembre  1981,  n.  689  -  e'  stato
sensibilmente ampliato ed ha assunto  nuove  caratteristiche.  Ma  la
scelta  del  sistema  accusatorio  -  alla  quale  si ispira il nuovo
processo - non  puo'  non  comportare  anche  maggiori  poteri  nella
posizione  delle  parti e la possibilita' per le stesse - su un piano
di parita' - di decidere dello sviluppo del rito processuale. D'altro
canto l'esperienza dei paesi anglosassoni insegna che e' ritenuto del
tutto incongruo e antieconomico  prevedere  il  passaggio  alla  fase
dibattimentale  in  caso  di  ammissione da parte dell'imputato delle
proprie responsabilita', cioe' in situazioni in cui  l'unico  aspetto
controverso puo' essere la determinazione in concreto della pena. Ove
l'imputato rinunci alla celebrazione del dibattimento,  deve  percio'
essere   incentivata   la  sua  propensione  ad  avvalersi  dei  riti
semplificati. Nei limiti  in  cui  la  legge-delega  ha  ritenuto  di
attribuire  rilevanza  alle  pattuizioni  delle parti, delineando gli
istituti  maggiormente  innovativi  previsti   nella   direttiva   45
(applicazione  della pena sulla richiesta delle parti) e 53 (giudizio
abbreviato), il Progetto ha cercato di costruire una disciplina degli
stessi  (rispettivamente,  nel titolo II e nel titolo I) che offrisse
ampie possibilita' di applicazione.
                               TITOLO I
                         GIUDIZIO ABBREVIATO
Premessa.
   Tra i procedimenti speciali il giudizio abbreviato costituisce una
importante novita' del nuovo codice. Esso e'  cosi'  delineato  nella
direttiva  53 della legge-delega: " potere del giudice di pronunciare
nell'udienza preliminare anche sentenza di merito, se vi e' richiesta
dell'imputato  e  consenso  del  pubblico ministero a che il processo
venga definito  nell'udienza  preliminare  stessa  e  se  il  giudice
ritiene  di  poter decidere allo stato degli atti; previsione che nel
caso di condanna le pene previste per il reato ritenuto  in  sentenza
siano  diminuite di un terzo; previsione di limiti all'appellabilita'
della sentenza; previsione che la sentenza faccia stato nel  giudizio
civile soltanto quando la parte civile consente all'abbreviazione del
rito ".
   Il  procedimento  speciale cosi' configurato dalla delega e' stato
denominato " giudizio abbreviato ", perche'  consente  di  anticipare
all'udienza  preliminare  la  sentenza  di  assoluzione o di condanna
quando l'imputato ne faccia richiesta  e  il  pubblico  ministero  vi
consenta.
   Idoneo  incentivo  a  richiedere  il  giudizio  abbreviato  e'  la
previsione di usufruire, in caso di condanna, della  riduzione  della
pena   di   un   terzo;  dal  canto  suo  il  pubblico  ministero  si
determinera', nei debiti casi,  ad  acconsentirvi  in  ragione  della
particolare  semplicita'  del  rito  e  quindi  dell'opportunita'  di
addivenire ad una  sentenza  definitiva  con  una  notevole  economia
processuale.
   Durante  i  lavori  preparatori  della legge-delega l'istituto qui
considerato e' stato efficacemente qualificato come "  patteggiamento
sul  rito " e in tal modo distinto dal " patteggiamento sulla pena ",
che trova la sua disciplina nel titolo successivo (applicazione della
pena  su  richiesta  delle parti): in tal senso l'intervento dell'on.
Casini alla Camera dei Deputati (Aula, 26 giugno 1984).
   La contrapposizione chiarisce bene le analogie e le differenze tra
i procedimenti speciali disciplinati nei primi due titoli  del  libro
VI.  Il  " patteggiamento sulla pena " sta ad indicare un accordo tra
pubblico  ministero   ed   imputato   sul   merito   dell'imputazione
(responsabilita'    dell'imputato   e   pena   conseguente);   il   "
patteggiamento sul rito " non tocca in alcun  modo  il  merito  della
imputazione,  in  quanto  l'accordo tra pubblico ministero e imputato
concerne esclusivamente il rito semplificato da seguire.
   Differente  e', di conseguenza, nei due procedimenti, la posizione
del pubblico ministero. Nel patteggiamento sulla  pena,  al  pubblico
ministero   (non   diversamente   che   all'imputato)   puo'   essere
riconosciuto un potere decisionale in ordine al rito processuale, non
anche  in  merito  alla  sanzione.  Egli ha la facolta' (art. 442) di
impedire, con il  suo  dissenso  sulla  richiesta  dell'imputato,  la
definizione  anticipata  del  processo,  ma  tale  dissenso non e' di
ostacolo a che  il  giudice,  in  esito  al  procedimento  ordinario,
accolga tale richiesta ed applichi la relativa sanzione. Nel giudizio
abbreviato, al contrario, l'oggetto  esclusivo  dell'accordo  tra  le
parti  e'  il  particolare  rito  da  seguire: il potere del pubblico
ministero (come quello dell'imputato) e' al riguardo pieno, nel senso
che  la  sua scelta dell'uno o dell'altro tipo di procedimento non e'
sindacabile dal giudice, onde  al  dissenso  del  pubblico  ministero
sulla  richiesta  di  giudizio abbreviato e' attribuita una efficacia
ostativa alla esperibilita' di tale procedimento.
   Una  correlativa  differenza caratterizza la posizione del giudice
nei due procedimenti. Nell'applicazione della  pena  sulla  richiesta
delle  parti  il  giudice  conserva, pur di fronte a tale accordo, un
potere  di  giudizio  sulla  responsabilita'  dell'imputato  e  sulla
correttezza  delle  conseguenze  che  le  parti ne hanno tratte (art.
439), ma in nessun modo puo'  interloquire  nella  scelta  del  rito.
Infatti  se  non  ha  obiezioni  sul  merito, e' tenuto a disporre la
definizione   anticipata   al   processo    voluta    dalle    parti.
Corrispondentemente,  nel  giudizio abbreviato, la scelta delle parti
in ordine al rito non forma oggetto di controllo del giudice  se  non
sotto  il  limitato aspetto - essenziale all'esercizio della funzione
giudiziaria - che egli ritenga di potere decidere  allo  stato  degli
atti  e  cioe' di potere emanare la pronunzia conclusiva del giudizio
sulla base dei soli atti esistenti  nel  momento  in  cui,  recependo
l'accordo  delle parti, dispone il giudizio abbreviato. Nessuna altra
valutazione relativa al rito puo' entrare  nella  considerazione  del
giudice,  che  e' tenuto a rispettare le scelte inerenti al potere di
azione del pubblico ministero ed al diritto di difesa  dell'imputato.
   La  diversita'  di  oggetto  della  richiesta dell'imputato spiega
perche' il giudizio  abbreviato  e'  caratterizzato,  rispetto  al  "
patteggiamento  sulla pena ", dalla insindacabilita' sia della scelta
del  pubblico  ministero  di  consentire  o   meno   alla   richiesta
dell'imputato, sia della decisione del giudice, di fronte al consenso
delle parti, di disporre o meno il giudizio abbreviato.
   Va  qui  osservato  -  in aggiunta alle considerazioni che si sono
tratte dai poteri che, in linea generale, il  pubblico  ministero  ha
sulla  scelta del rito - che il consenso o il dissenso di tale organo
al giudizio abbreviato si  determina  sulla  base  di  parametri  non
tipizzati  ne'  tipizzabili  dalla  legge.  Sulla scelta del pubblico
ministero potranno, di volta in volta, avere valore decisivo tutti  o
solo  alcuni  degli  aspetti che differenziano il giudizio abbreviato
rispetto al giudizio ordinario, oltre alla economia  processuale  che
costituisce  la ragione ispiratrice del nuovo istituto: la diversita'
di organo decisorio (singolo o collegiale nei processi di  competenza
del   tribunale  e  della  Corte  di  assise),  la  segretezza  o  la
pubblicita' del giudizio, la opportunita' o  meno  di  facilitare  la
partecipazione  al  giudizio  della parte civile, la utilita' che sia
limitata la proponibilita' dell'appello, la  rilevanza  che  rispetto
all'esito   del   giudizio   puo'   assumere  il  diverso  regime  di
utilizzabilita' degli  atti  compiuti  ai  fini  della  decisione  di
merito,  la  stessa  diminuzione  della  pena nel caso che l'imputato
venga condannato.
   Tutti  questi  aspetti  di  profonda  diversita' tra i due tipi di
giudizio entreranno nella scelta - dell'imputato  come  del  pubblico
ministero  -  di  richiedere  e di consentire al giudizio abbreviato,
scelta che sara' il frutto di  una  valutazione  tanto  complessa  da
rendere  estremamente  difficile  anche  la  mera configurabilita' in
astratto di un riesame (del consenso  o  del  dissenso  del  pubblico
ministero).
   Per  la  decisione del giudice, a differenza che per la scelta del
pubblico ministero,  il  parametro  legale  esiste:  come  si  desume
chiaramente  dalla  direttiva  53 della delega, il giudice dispone il
giudizio abbreviato se " ritiene di poter decidere allo  stato  degli
atti ".  L'accordo delle parti che precede tale decisione del giudice
proprio perche' e' un accordo limitato al rito processuale (anche  se
con  conseguenze  sull'entita'  della  pena in caso di condanna) - in
nessun modo riguarda il merito dell'imputazione.
   Come  gia'  si  legge  nella  relazione al disegno di legge n. 691
presentato alla Camera dei deputati  dal  ministro  Martinazzoli,  il
giudizio abbreviato potra' essere utilizzato nel caso di " ammissione
di colpevolezza da parte dell'imputato, ma non solo in  questo,  dato
che  il  procedimento  abbreviato  non  comporta  necessariamente una
sentenza di condanna ". Non puo' non essere attribuito al giudice che
deve  decidere sull'imputazione il potere di accertare previamente se
la  situazione  degli  atti  lo  ponga  in  grado  di  prendere  tale
decisione, in un momento che e' anticipato rispetto all'esito normale
del  processo.  Anche  di  questa  valutazione,  pero',  puo'  essere
difficilmente  configurata una sindacabilita': la possibilita' o meno
per il giudice di pronunciare la sentenza di merito e' gia' in se' un
fatto  che  attiene  alla  sua  coscienza  ed e' percio' il frutto di
valutazioni personali. A cio' si aggiunga che  con  l'inciso  "  allo
stato  degli  atti  "  si e' inteso fare riferimento a tutti gli atti
fino a quel momento compiuti, mentre solo alcuni di essi saranno  poi
conosciuti  dai  giudici  delle successive fasi processuali. Pertanto
anche sotto il profilo tecnico diventa impossibile un  controllo  nel
corso  dell'ulteriore  iter del processo sull'eventuale decisione del
giudice  di  non  disporre  il  giudizio  abbreviato,  nonostante  il
consenso delle parti su tale rito.
   Non  puo'  sottovalutarsi  il  fatto  che il dissenso del pubblico
ministero   sulla   richiesta   di   giudizio   abbreviato   proposta
dall'imputato  ovvero  la  decisione negativa del giudice impediscono
all'imputato condannato di  beneficiare  della  riduzione  del  terzo
della   pena   inflittagli.   Emergono  qui  le  ragioni  di  qualche
perplessita' che  l'innovazione  del  giudizio  abbreviato  ha  fatto
emergere  nel  corso dei lavori preparatori della legge-delega, e che
sono state bene espresse  nell'intervento  del  sen.  Vassalli  (Aula
Senato,  19 novembre 1986): " Ho qualche intima riserva sul fatto che
in questo caso si dia al condannato il premio della riduzione  di  un
terzo della pena, solo perche' egli consente di procedere al giudizio
nell'udienza preliminare, ma si sa che si danno dei premi anche  agli
imputati che agevolano l'andamento del processo. E' un aspetto un po'
curioso, che puo' dare spazio a qualche  perplessita'  dal  punto  di
vista dei principi ".
   Indubbiamente  l'innovazione  del  giudizio  abbreviato  crea  una
commistione tra decisioni  processuali  e  trattamento  sanzionatorio
dell'imputato  responsabile  e  questa  commistione,  per  il  nostro
ordinamento, ha caratteri di  assoluta  originalita'.  L'innovazione,
come si e' detto, e' determinata dalla finalita' pratica di creare un
incentivo  alla  richiesta  di  giudizi  abbreviati  da  parte  degli
imputati   ed   e'  certo  che  l'assenza  dell'incentivo  renderebbe
l'istituto  pressoche'  inutile.  La   previsione   che   sia   pero'
sufficiente   la   sola   proposizione   della  richiesta  per  poter
beneficiare comunque della riduzione di pena renderebbe, all'inverso,
tale  richiesta  una  formalistica attivita' che ogni imputato non si
asterrebbe dal compiere per l'evidente vantaggio che da essa potrebbe
trarre anche nel caso in cui il pubblico ministero non consentisse al
"  giudizio  abbreviato  "  (in   tal   senso,   gia',   lucidamente,
l'intervento dell'on. Casini alla Camera dei deputati, Aula 26 giugno
1984).
Illustrazione degli articoli.
   Una  prima  indicazione sistematica che si trae dalla legge-delega
e' che il giudizio abbreviato si  inscrive  nell'udienza  preliminare
come possibile modo di definizione del processo in tale udienza.
   L'articolo  434 comma 1, esprime questa correlazione quando indica
come oggetto della richiesta di giudizio abbreviato " che il processo
sia definito nell'udienza preliminare ".
   In  via generale tale atto di iniziativa presuppone, pertanto, che
il pubblico ministero abbia  presentato  la  richiesta  di  rinvio  a
giudizio   dell'imputato   (art.   413),   da  disporsi  nell'udienza
preliminare fissata dal giudice (art. 415).  Prima  che  il  pubblico
ministero  concluda  le indagini preliminari e formuli l'imputazione,
una  richiesta  di  giudizio  abbreviato  da   parte   dell'indiziato
risulterebbe  chiaramente prematura. Poiche' la richiesta di rinvio a
giudizio  e  la  conseguente  fissazione   dell'udienza   preliminare
presuppongono  non solo la formulazione della imputazione (art. 414),
ma altresi' il deposito di tutti  gli  atti  relativi  alle  indagini
espletate  e  la  facolta'  dell'imputato  di prenderne visione (art.
416), l'imputato e' posto in grado di conoscere  tutti  gli  elementi
del  processo  prima  di  decidere  se  chiedere  o  meno il giudizio
abbreviato.
   La  correlazione tra udienza preliminare e giudizio abbreviato, se
e' coerente con lo  sviluppo  del  processo  ordinario,  pone  alcuni
problemi  per  i  processi  nei quali non vi e' l'udienza preliminare
(procedimenti speciali, come il giudizio  direttissimo,  il  giudizio
immediato  o  il giudizio conseguente ad opposizione a decreto penale
ed altresi' il processo pretorile). Si e'  ritenuto  di  non  privare
l'imputato  della  possibilita'  di  chiedere  il giudizio abbreviato
anche in tali processi e di potere cosi' beneficiare  -  in  presenza
degli  altri  presupposti  -  della  riduzione  di  pena  del  terzo.
Disposizioni  particolari  sono  state,  percio',  previste  per   la
richiesta di giudizio abbreviato dopo che il pubblico ministero abbia
instaurato il giudizio direttissimo (art. 446 comma 2),  ovvero  dopo
che  il  giudice  abbia  disposto  il  giudizio immediato (art. 452),
ovvero contestualmente alla opposizione a decreto  penale  (art.  458
comma 1).
   Una  disciplina  del  tutto particolare del giudizio abbreviato e'
prevista, altresi', nel processo pretorile,  ed  essa  resta  percio'
esclusa dalla illustrazione qui compiuta.
   Sempre   dall'art.  434  si  desume  che  l'impulso  del  giudizio
abbreviato spetta in via esclusiva all'imputato, mentre  il  pubblico
ministero  ha  il  potere  di  consentire  o meno alla richiesta. Per
ambedue gli atti il codice non impone alcun contenuto specifico, pure
se  potra'  essere opportuno che tali atti motivino sulla sussistenza
del presupposto della definibilita' del  processo  allo  stato  degli
atti,  posto  che sulla base di questo parametro il giudice decidera'
se disporre o meno il giudizio abbreviato.
   Nel   giudizio   ordinario   due   possono   essere   le  sequenze
procedimentali  che  instaurano  il  giudizio   abbreviato.   I   tre
presupposti  di  esso (richiesta dell'imputato, consenso del pubblico
ministero, ordinanza del giudice che dispone  il  giudizio  speciale)
possono   intervenire   prima   della   data  fissata  per  l'udienza
preliminare ovvero anche nel corso di tale udienza. Le  due  sequenze
implicano alcune sensibili differenze.
   Al  fine di accelerare i tempi del giudizio abbreviato, l'art. 434
comma 2 stabilisce che l'imputato, quando  intende  farne  richiesta,
debba procurare di acquisire il consenso del pubblico ministero cosi'
da depositare congiuntamente i due atti in cancelleria almeno  cinque
giorni  prima  della  data  dell'udienza.  Quando  la  richiesta  sia
presentata entro questo termine il giudice,  se  l'accoglie,  dispone
senz'altro il giudizio abbreviato (articolo 435 comma 1), di modo che
l'udienza preliminare avra' per oggetto la decisione del merito.
   A  questa sequenza si e' ritenuto di aggiungerne un'altra, in modo
da dare la possibilita' all'imputato  di  proporre  la  richiesta  di
giudizio  abbreviato anche nel corso dell'udienza preliminare, sino a
che non sono formulate le conclusioni previste dall'art. 418 comma 3,
ovvero anche le successive conclusioni previste dall'art. 419 comma 8
(nell'ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto di acquisire ulteriori
informazioni  ai  fini  della decisione sul rinvio a giudizio chiesto
dal pubblico ministero). L'accoglimento della richiesta proposta  nel
corso  dell'udienza preliminare (art. 434 comma 3 e art. 435 comma 2,
ultima parte) determina una sorta di  conversione  di  tale  udienza,
che,  da momento di decisione tra il rinvio a giudizio e il non luogo
a procedere, diventa momento di decisione a norma degli artt.  522  e
seguenti (condanna, assoluzione, non doversi procedere).
   La   previsione   del   giudizio  abbreviato  disposto  nel  corso
dell'udienza preliminare e' stata dettata dalla esigenza di  ampliare
il   piu'   possibile   la  possibilita'  di  instaurazione  di  tale
procedimento speciale. Il fatto che la decisione debba avvenire  come
afferma  la  delega-  "  allo  stato  degli  atti  "  sembra impedire
ulteriori acquisizioni probatorie una volta che  sia  stata  disposta
tale  forma  di  giudizio.  L'esistenza  di una preclusione rigida e'
stata ampiamente di battuta durante i lavori della Commissione che ha
redatto  il  Progetto,  perche'  si  ritiene  che  essa  possa  avere
un'efficacia sensibilmente  disincentivante  per  l'applicazione  del
nuovo istituto. D'altro canto, l'esistenza della preclusione trova il
suo fondamento non  solo  nell'espressione  usata  dalla  delega,  ma
altresi'  nel  fatto  che,  durante  i  lavori  preparatori, e' stata
eliminata l'espressa previsione della possibilita' di  compiere,  nel
corso  del  giudizio  abbreviato,  atti  ritenuti  necessari  per  la
decisione (cfr. la formulazione  della  direttiva  47  esistente  nel
testo   approvato   dalla  Commissione  giustizia  della  Camera  dei
deputati). Va, inoltre, rilevato che il consenso delle parti al  rito
abbreviato  si forma sulla base del materiale probatorio esistente in
un determinato momento processuale, onde sarebbe scorretto  mantenere
l'efficacia  di  quel  consenso  pur  in  presenza di un sopravvenuto
mutamento di tale materiale.
   Si  e'  mantenuta ferma, pertanto, pur nel dissenso di ampia parte
della  Commissione  redigente,   l'esclusione   di   ogni   attivita'
probatoria nel corso del giudizio abbreviato, e cioe' dopo che si sia
avuto il consenso delle parti e la susseguente ordinanza del giudice.
La  possibilita',  pero',  che  l'udienza preliminare si converta nel
giudizio abbreviato consente di utilizzare in tale giudizio tutte  le
eventuali  acquisizioni probatorie che si siano avute in tale udienza
(a norma dell'art. 419), le quali peraltro  dovranno  necessariamente
precedere  il  consenso  delle parti al rito abbreviato e l'ordinanza
che disporra' il giudizio allo " stato  degli  atti  "  sino  a  quel
momento acquisiti.
   Il  meccanismo  escogitato finisce, cosi', con l'essere rispettoso
non solo della formulazione della delega, ma altresi' della  corretta
formazione  del  consenso  delle parti al giudizio abbreviato e della
stessa decisione del giudice sulla idoneita' degli atti compiuti fino
a quel momento a consentire la definizione del giudizio.
   Le finalita' della sequenza procedimentale qui illustrata spiegano
il  contenuto  dell'art.  435  comma  3,  secondo  cui  la  richiesta
dell'imputato  di giudizio abbreviato puo' essere proposta anche piu'
volte nel corso dell'udienza preliminare (e sempre  sino  al  momento
preclusivo  della  formulazione  delle  conclusioni),  senza che cio'
trovi ostacolo nel  dissenso  in  precedenza  espresso  dal  pubblico
ministero  o  nel  rigetto  della  richiesta  che  il  giudice  abbia
anteriormente pronunziato. Il consenso del pubblico ministero  ed  il
provvedimento   favorevole  del  giudice  potranno,  infatti,  sempre
intervenire in ogni momento successivo dell'udienza preliminare.
   Ovviamente,   quando   la  richiesta  di  giudizio  abbreviato  si
inserisce  nei  procedimenti  speciali  che   non   hanno   l'udienza
preliminare, il giudizio abbreviato non puo' essere chiesto nel corso
di  tale  udienza,  ma  l'ordinanza  che  lo  dispone  dovra'  sempre
precedere  l'effettuazione dell'udienza destinata allo svolgimento di
tale giudizio.
   Dopo  quanto  detto non ha bisogno di illustrazione l'articolo 436
comma 1, che, per lo svolgimento del giudizio abbreviato, rinvia alle
norme  sull'udienza  preliminare, fatta eccezione per le disposizioni
concernenti l'assunzione di prove (art. 419).
   Va  esplicitata  soltanto  un'implicazione  di tale rinvio. Per la
decisione di merito in esito al giudizio abbreviato sono utilizzabili
tutti  gli  atti delle indagini preliminari, non diversamente da cio'
che  avviene  per  la  decisione  di  rito  da  prendere  alla   fine
dell'udienza  preliminare.  Si  e' gia' posta in luce la correlazione
che la delega pone tra disciplina dell'udienza preliminare (direttiva
52)  e previsione del giudizio abbreviato (direttiva 53). D'altronde,
anche sotto il profilo tecnico, il giudice dell'udienza  preliminare,
quando  dispone il giudizio abbreviato, gia' e' in grado di conoscere
(nella prima sequenza procedimentale) o conosce effettivamente (nella
seconda  sequenza) gli atti delle indagini, cosi' che apparirebbe del
tutto teorico inibirne l'utilizzabilita' per la decisione di  merito.
   L'art. 436 comma 2, contiene una norma che presuppone il principio
che si desume dall'art. 643 comma  2,  secondo  cui  la  sentenza  di
assoluzione   nel  giudizio  abbreviato  ha  efficacia  di  giudicato
rispetto alla parte civile solo se questa parte ha accettato il  rito
abbreviato.  Questo  principio,  mentre  esclude  che la parte civile
possa interloquire in ordine alla decisione di procedere al  giudizio
abbreviato,  da' ad essa la possibilita' di impedire - non accettando
espressamente tale rito - che la sentenza di assoluzione  emessa  nel
giudizio  abbreviato  faccia  stato  nel  giudizio civile. Come unica
eccezione alla necessita' di espressa accettazione  si  e'  prevista,
nel  comma che si commenta, un'ipotesi di tacito consenso al giudizio
abbreviato ad opera della parte civile che si costituisca dopo  avere
avuto conoscenza dell'ordinanza che lo dispone.
   Nell'articolo  437  comma  1 la decisione che conclude il giudizio
abbreviato   e'   disciplinata   con   un   rinvio   alla   tipologia
dibattimentale della sentenza (artt. 522 e segg.).
   L'art.  437  comma  2  contiene la norma relativa alla diminuzione
della pena di un terzo nel caso di condanna.  Questa  diminuzione  va
apportata  sulla  pena determinata in concreto dal giudice, nel senso
che essa si applica dopo che sia  stato  effettuato  il  giudizio  di
comparazione tra le circostanze.
   La  Commissione redigente ha ampiamente discusso sulla limitazione
o meno dei reati per i quali e' possibile il giudizio  abbreviato,  e
in particolare sulla esclusione dall'ambito dello stesso giudizio dei
reati  di  competenza  della  corte  di  assise.  Pur  tra  le  molte
perplessita'  emerse, e' stata adottata la soluzione piu' ampia sulla
base  della  considerazione  che  il  Senato  della   Repubblica   ha
modificato il testo della delega approvato dalla Camera dei deputati,
che ancorava la previsione del giudizio  abbreviato  a  categorie  di
reato predeterminate (cfr. la relazione del sen. Coco del 18 novembre
1986). D'altro canto si e' ritenuto di consentire il maggiore  spazio
possibile  al giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto che esso e'
richiesto  dall'imputato,  il  quale  -  nella  logica  del  processo
accusatorio - puo' anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla
partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise.
   Si  e'  posto allora il problema di rendere possibile la riduzione
del terzo rispetto ai reati per i quali il giudice  debba  infliggere
l'ergastolo.  L'applicabilita'  del  criterio di diminuzione previsto
dall'art. 65 n. 2 c.p. (reclusione da venti a ventiquattro  anni)  e'
stata  scartata anche per la considerazione che la delega prevede una
diminuzione " secca " (di un terzo),  onde  e'  sembrato  preferibile
determinare  in  modo  fisso  la  pena  da  sostituire all'ergastolo.
L'entita' della pena indicata nell'art. 437 (trenta anni) e' motivata
da  esigenze di prevenzione generale, che giustificano il richiamo al
limite massimo della pena  della  reclusione  consentito  dal  nostro
ordinamento penale (art. 66 c.p.).
   L'articolo  438  da'  attuazione alla direttiva della legge-delega
circa la limitazione dell'appellabilita' della  sentenza  emessa  nel
giudizio  abbreviato.  Si  sono  previste  ipotesi  in  cui  non puo'
appellare nessuna  delle  due  parti  (comma  1),  alle  quali  vanno
aggiunti  i  casi di non appellabilita' da parte dell'imputato (comma
2) o del pubblico ministero (comma 3).
   Il  comma  4  prevede  che il giudizio di appello si svolge con il
procedimento in camera diconsiglio (art. 592).
   Le  disposizioni  dell'art.  438 tendono ad evitare, in attuazione
delle finalita' espresse dalla legge-delega, che il giudizio svoltosi
con  rito  abbreviato  in primo grado possa ritardare la sua completa
definizione, cosa che avrebbe reso inutile l'accelerazione del  primo
grado del giudizio.
                              TITOLO II
                       APPLICAZIONE DELLA PENA
                       SU RICHIESTA DELLE PARTI
Premessa.
  L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ha
fatto la sua comparsa,  nell'iter  parlamentare  della  legge-delega,
nella  direttiva  35  terza parte del testo licenziato nel marzo 1982
dal comitato ristretto della Commissione giustizia della  Camera  dei
deputati.  L'esigenza di un'adeguata differenziazione dei riti penali
era stata tradotta, per l'appunto, non solo nella  previsione  di  un
giudizio   immediato   (che  era  venuto  a  sostituire  il  giudizio
direttissimo gia' indicato nelle proposte  governative  del  febbraio
1980)  e  nella  delineazione  di un giudizio per decreto (nuovamente
limitato alle sole pene pecuniarie, sia pure sostitutive  della  pena
detentiva),  bensi'  anche  nell'individuazione  di  due nuovi schemi
processuali, nei quali  era  stato  attuato  in  termini  inediti  il
principio   del   "   premio-incentivo   "  per  atteggiamenti  di  "
meritorieta' processuale " dell'imputato.  Ed  uno  dei  procedimenti
cosi'  strutturati  era  quello  della  direttiva 35 terza parte, che
richiamava da vicino le forme  del  c.d.  patteggiamento,  introdotto
pochi mesi prima con la l. 24 novembre 1981, n. 689.
   Rispetto all'istituto disciplinato negli artt. 77 - 85 della l. n.
689  del  1981,  comunque,  si  poteva  subito  rilevare   l'indubbio
ampliamento    delle    ipotesi    applicative   e   la   particolare
significativita' della previsione premiale: difatti, si prevedeva che
il  "  pubblico  ministero,  ottenuto  il  consenso  dell'indiziato o
dell'imputato, e questi ultimi, ottenuto  il  consenso  del  pubblico
ministero, potessero chiedere al giudice in apposita udienza, o nella
udienza preliminare o  nel  giudizio  fino  a  che  non  siano  state
compiute  le  formalita'  di  apertura,  l'applicazione  -  nei  casi
consentiti - di  una  delle  sanzioni  sostitutive  della  detenzione
previste  dalla  legge " (e non piu' soltanto della pena pecuniaria e
della liberta' controllata) " ovvero di una pena detentiva in  misura
pari  a quella edittale per il reato per cui si procede, diminuita di
un terzo e comunque non superiore a  tre  mesi  di  reclusione  o  di
arresto ".
   Il  prosieguo  del  cammino parlamentare della futura legge-delega
doveva segnare, senza alcuna inversione  di  rotta,  un  ulteriore  e
progressivo  allargamento  degli  spazi  operativi  dell'istituto  in
esame, sulla base della consapevolezza degli innegabili vantaggi  per
la   deflazione   e   la  celerita'  della  giustizia  derivanti  dal
potenziamento, in generale, dei meccanismi processuali  differenziati
e, in particolare, di questa nuova specie di " patteggiamento ".
   Si  e'  cosi'  giunti  all'attuale testo della direttiva 45, nella
quale si prevede  che  "  il  pubblico  ministero,  con  il  consenso
dell'imputato,   ovvero  l'imputato  con  il  consenso  del  pubblico
ministero,  possano  chiedere  al  giudice,  fino  all'apertura   del
dibattimento,  l'applicazione  delle  sanzioni  sostitutive  nei casi
consentiti, o della pena detentiva irrogabile  per  il  reato  quando
essa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non
superi due anni di reclusione o di arresto soli o  congiunti  a  pena
pecuniaria  "  e  che  " il giudice, in udienza, applichi la sanzione
nella misura richiesta, provvedendo con sentenza inappellabile ".  E'
stato  inoltre  demandato  al  legislatore  delegato  il  compito  di
disciplinare, " in rapporto ai diversi tipi di sanzioni applicate  ",
gli " altri effetti della pronuncia ".
   Si  tratta  indubbiamente  di  una  scelta  coraggiosa,  in quanto
consente il ricorso al rito differenziato per una gamma  assai  ampia
di  imputazioni.  Del  resto,  nella  sua  relazione  alla Camera (29
gennaio 1987), l'on. Casini aveva fatto rilevare  come  "buona  parte
dell'efficienza del nuovo codice" fosse "affidata a questo istituto",
che consente non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma  anche
di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita' della
sentenza emessa su accordo delle parti; istituto che se da un lato si
ricollega  nell'ispirazione al " patteggiamento " della l. n. 689 del
1981, dall'altro se ne differenzia notevolmente per una  impostazione
piu'  matura  e  robusta,  che  ha superato le originarie incertezze,
anche di natura costituzionale.
   Il  "  patteggiamento  "  della  legge  n. 689 puo' dar luogo solo
all'applicazione di una sanzione sostitutiva (sanzione  pecuniaria  o
liberta'  controllata),  della  cui natura penale si e' discusso, con
una sentenza che dichiara  estinto  il  reato  e  mette  capo  ad  un
meccanismo   esecutivo   diverso   da   quello  relativo  alle  pene,
rafforzato, per il caso di inosservanza, da  un'apposita  fattispecie
delittuosa (art. 83 l. n. 689). Si tratta, secondo una ricostruzione,
di un "beneficio" (v. Corte cost.,  sent.  n.  267/87),  per  la  cui
fruizione  sono  previste esclusioni soggettive (art. 80 l. n. 689) e
che, per la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, e' incompatibile
con  l'altro " beneficio " della sospensione condizionale della pena.
In sostanza nel " patteggiamento " della l. n.  689  alla  diversita'
del  procedimento  si  ricollega un regime sanzionatorio radicalmente
diverso da quello generale, che sembra giustificabile solo in ragione
delle   particolari   sanzioni  applicabili  (sanzione  pecuniaria  e
liberta' controllata). Nel nuovo "  patteggiamento  ",  quello  della
direttiva  45,  e'  invece  applicabile una pena, di qualunque specie
(escluso l'ergastolo), e quindi la sua costruzione e' diversa: non si
tratta  di  un  "  beneficio  ",  ma  di  uno  speciale procedimento,
collegato (come ha rilevato il relatore on. Casini) ad un accordo tra
imputato  e  pubblico  ministero  sull'applicazione  della  pena, che
quindi riguarda il merito  e  si  riflette  sul  rito,  a  differenza
dell'accordo    del   giudizio   abbreviato   che   riguarda   invece
esclusivamente il rito. Il  nuovo  "  patteggiamento  "  esce  dunque
dall'ambiguita',  che aveva connotato quello della legge n. 689 anche
per la prevista estinzione del reato, che era sembrata  difficilmente
conciliabile  con  la  contestuale applicazione della sanzione. Nella
direttiva 45 e' caduta la previsione estintiva (che  invece  figurava
nella  direttiva  35  terza  parte  del testo del comitato ristretto,
inizialmente  ricordata,  ed  anche  nella  direttiva  44  del  testo
approvato  dalla  Camera nella seduta del 18 luglio 1984) e l'accordo
e' stato incentivato attraverso la diminuzione di un terzo della pena
ed  ulteriori  misure  rimesse  al  legislatore  delegato,  tenuto  a
disciplinare gli "altri effetti della pronuncia"; il che puntualmente
e'  stato  fatto.  La  specifica  individuazione di queste misure, ed
anche dei contenuti e degli effetti della sentenza applicativa  della
pena,  ha  evitato non solo, come si e' detto, le ambiguita' teoriche
della legge n. 689 ma anche le numerose  questioni  pratiche  che  da
quelle  ambiguita' avevano tratto origine. Caratteristica del nuovo "
patteggiamento " e' anche la sua generale applicabilita', nei  limiti
di  pena  della  direttiva 45, in quanto non sono previste esclusioni
soggettive (del genere di quelle dell'art. 80 l. n. 689) od oggettive
(in  relazione  a  specifici  reati  o  a  categorie  di  reati).  E'
significativa in proposito la modificazione della  direttiva  operata
dal  Senato,  che  ha sostituito le parole " l'applicazione, nei casi
consentiti, delle sanzioni sostitutive o della pena detentiva  "  con
le  parole  "  l'applicazione  delle  sanzioni  sostitutive  nei casi
consentiti ",  chiarendo  cosi',  da  un  lato,  che  il  legislatore
delegato non ha il compito di specificare, al di la' delle previsioni
del delegante, i casi in cui e' consentita l'applicazione delle  pene
su  richiesta  delle  parti  e,  dall'altro, che l'applicazione delle
sanzioni sostitutive su richiesta e' ammessa nei  soli  casi  in  cui
queste  sanzioni risultano applicabili in generale (indipendentemente
cioe' dalla richiesta delle parti), in base alla l. n. 689 del  1981,
che le ha introdotte nel nostro ordinamento e le disciplina.
   Le  diverse  caratteristiche del " patteggiamento " previsto dalla
direttiva 45 lo rendono sicuramente compatibile  con  la  sospensione
condizionale  della pena, perche', al contrario di quello della l. n.
689, non costituisce un " beneficio " che possa apparire  alternativo
alla sospensione condizionale. Cio' significa che, se ne ricorrono le
condizioni, anche nel caso di applicazione della  pena  su  richiesta
delle  parti  puo'  disporsi  la sospensione condizionale e che viene
quindi meno, con il nuovo istituto,  quello  che  e'  stato  ritenuto
l'ostacolo    piu'   rilevante   alla   diffusione   dell'attuale   "
patteggiamento ".
Illustrazione degli articoli.
  L'istituto  dell'applicazione  della  pena su richiesta delle parti
emerge,   nei   suoi   aspetti   fondamentali,   dalle   disposizioni
dell'articolo  439.  Nel  silenzio  della  direttiva  45  sulle  pene
pecuniarie, il comma 1 dell'art. 439 chiarisce che anche  per  queste
e'  ammesso  il  "  patteggiamento  ".  Una soluzione diversa avrebbe
riproposto le questioni cui ha dato origine l'art. 77  l.  n.  689  e
sarebbe  risultata  irrazionale,  perche'  nel caso di applicabilita'
della pena pecuniaria non vi sono  ragioni  per  negare  gli  effetti
vantaggiosi  previsti dalle disposizioni in esame all'imputato che ne
voglia usufruire. D'altro canto la circostanza che nella direttiva 45
non  si  parli  della  pena  pecuniaria  non e' sembrata di ostacolo,
perche' la menzione solo delle  sanzioni  sostitutive  e  della  pena
detentiva  si  puo'  spiegare con la considerazione che per queste il
legislatore  delegante  ha  ritenuto  di  dover   fissare   direttive
specifiche:  per  le  prime  allo  scopo  di chiarire che le sanzioni
sostitutive su richiesta sono applicabili nei soli  casi  attualmente
previsti,   sicche'   non   potrebbe  il  legislatore  delegato,  nel
disciplinare  gli  "  altri  effetti  della  pronuncia  ",   ampliare
l'utilizzabilita'  di  tali sanzioni o renderne diversa la disciplina
(come invece era stato  previsto  nel  disegno  di  legge  n.  2609/C
presentato   dal   ministro   di   grazia   e  giustizia  nella  nona
legislatura); per la seconda allo scopo di fissare i limiti  entro  i
quali  e'  ammesso  il  "  patteggiamento  "  in  relazione alle pene
detentive. E' da ritenere quindi che la mancata menzione  della  pena
pecuniaria  sia  dovuta  al fatto che il legislatore non ha avvertito
alcun motivo per prenderla in considerazione e che percio'  abbia  un
significato  non  di  esclusione ma di inserimento nel nuovo istituto
senza limiti, che altrimenti sarebbero stati espressamente  previsti,
come e' accaduto per la pena detentiva.
   Nel  comma 1 si stabilisce inoltre che nel caso di applicazione su
richiesta la pena e'  sempre  diminuita  fino  a  un  terzo.  Di  una
diminuzione  siffatta  nella  direttiva si parla solo con riferimento
alle pene detentive (ed in modo indiretto, quando si fissa il  limite
di due anni); ma, se vengono diminuite le pene detentive, eguale deve
essere il trattamento delle pene sostitutive,  visto  che  queste  si
applicano in un secondo tempo dopo aver determinato la pena detentiva
da sostituire. Per le pene pecuniarie si  e'  poi  ritenuto  che  una
volta  inserite  nell'ambito  di operativita' dell'istituto non possa
non  riferirsi  anche  ad  esse  il  dato  caratteristico   della   "
premialita' ", costituito dalla riduzione di pena.
   Nel  comma  2 e' delineata l'attivita' demandata al giudice per la
decisione sulla richiesta. La decisione  viene  presa  "  sulla  base
degli  atti  ",  senza quindi acquisire ulteriori elementi probatori.
Anche  alla  luce  di  alcune  indicazioni  ricavabili   dai   lavori
parlamentari  (v.  la  relazione  dell'on. Casini del 29 gennaio 1987
alla Camera), si e' peraltro riconosciuto al  giudice  il  potere  di
rifiutare  la  "  ratifica  "  dell'accordo (sia esso espresso da una
richiesta congiunta o da una richiesta  con  il  consenso  dell'altra
parte)   quando  egli  non  conviene  sugli  elementi  giuridici  che
determinano la " cornice " entro cui e'  avvenuta  la  commisurazione
della  pena. Pertanto il giudice non provvedera' secondo la richiesta
quando riterra' che la qualificazione giuridica del fatto sia diversa
da  quella  operata e comporti una pena maggiore o che le circostanze
attenuanti prospettate non ricorrano  od  ancora  che  diverso  debba
essere l'esito del giudizio di comparazione.
   Per  contro,  al  giudice  non  viene riconosciuto alcun sindacato
sulla  congruita'  della  pena  richiesta,  trattandosi  di   materia
riservata alla deteminazione esclusiva delle parti. Quindi, una volta
verificata la correttezza della qualificazione giuridica  del  fatto,
dell'applicazione  delle  circostanze e del giudizio di comparazione,
il giudice non potra' fare altro che applicare la pena nella specie e
nella misura indicate dalle parti. Resta pero' fermo il potere-dovere
del giudice di pronunciare il proscioglimento a norma dell'art.  128,
se ne ricorrono le condizioni.
   In  conclusione il compito del giudice e' di accertare, sulla base
degli atti, se esistono le condizioni per il  proscioglimento  e,  in
caso  negativo,  se  e'  esatto  il quadro (qualificazione giuridica,
circostanze e comparazione) nel cui ambito le parti hanno determinato
la   pena,   mentre   non  occorre  un  positivo  accertamento  della
responsabilita' penale. Soprattutto per questa ragione si e'  escluso
che  il  giudice  possa  decidere  su  eventuali  domande della parte
civile, ma si e' anche considerato che una soluzione diversa  sarebbe
stata  fortemente  disincentivante  per  l'imputato, la cui richiesta
avrebbe finito normalmente con il comportarne  la  soccombenza  nella
controversia civile.
   Poiche',   come   si  e'  ricordato,  e'  possibile  concedere  la
sospensione condizionale della pena, si e' ritenuto di dover  evitare
che l'imputato rinunci a formulare la richiesta di applicazione della
pena, per l'incertezza sulla concessione della sospensione.
   E' evidente infatti che, nel caso in cui si trovi in condizione di
ottenere la sospensione, l'imputato potrebbe essere disposto a  farsi
applicare  la pena solo in quanto questa venga anche sospesa. D'altro
canto, la prognosi che giustifica la  sospensione  e  la  valutazione
circa eventuali obblighi ai quali subordinarla non possono non essere
rimesse al giudice.
   Pertanto,  nel  comma 3 dell'art. 439 si e' espressamente prevista
la  possibilita'  per  l'imputato  di  subordinare  la  richiesta  di
applicazione   della   pena   alla   concessione   della  sospensione
condizionale,  di  modo  che  il  giudice  si  trovera'   di   fronte
all'alternativa  di accogliere integralmente la richiesta, concedendo
anche la sospensione condizionale, ovvero di rigettarla facendo venir
meno  la possibilita' di adottare le forme del procedimento speciale.
   L'articolo  440  regola gli effetti della sentenza di applicazione
della  pena  su  richiesta,  risolvendo  espressamente  alcune  delle
questioni che si sono poste con riferimento all'art. 77 l. n. 689 del
1981. Sono stati quindi ribaditi  gli  aspetti  di  premialita'  gia'
presenti   nell'art.  77  cit.  (e  cioe',  l'esclusione  delle  pene
accessorie e delle  misure  di  sicurezza,  fatta  eccezione  per  la
confisca  ex  art.  240  comma  2 c.p.), aspetti che acquistano senza
dubbio un peso consistente in  considerazione  dell'ampio  ambito  di
operativita'  del  nuovo  istituto,  e si e' chiarito che la sentenza
emessa su accordo delle parti non comporta la condanna  al  pagamento
delle  spese del procedimento e non ha efficacia nei giudizi civili o
amministrativi. Per quanto non espressamente previsto la sentenza  e'
equiparata  a  una  pronuncia  di  condanna,  cosi',  ad  esempio, e'
valutabile ai fini della recidiva, se non vi  e'  stata  l'estinzione
degli  effetti penali, prevista dal comma 2. Nel comma 2 emergono gli
altri aspetti premiali, costituiti, nell'ordine, dall'estinzione  del
reato, dall'estinzione di ogni effetto penale e dalla non ostativita'
dell'applicazione su richiesta rispetto ad una successiva sospensione
condizionale.
   A  differenza  di  quanto  e'  previsto dall'art. 77 l. n. 689 del
1981, l'effetto  estintivo  non  e'  collegato  in  modo  diretto  ed
esclusivo   all'applicazione   su  richiesta,  ma  postula  anche  un
comportamento successivo uguale a quello  previsto  per  l'estinzione
del  reato  in caso di sospensione condizionale della pena. Cosi', se
nell'applicare  la  sanzione  e'  stata  concessa  dal   giudice   la
sospensione  condizionale,  la  pena non viene eseguita e gli effetti
estintivi si cumulano, mentre se la sospensione condizionale  non  e'
stata  concessa  la  pena  deve  essere  eseguita,  ma se nel periodo
previsto non sono commessi reati si determina l'estinzione del reato.
Si  estingue inoltre ogni altro effetto penale della condanna, e cio'
comporta che  dell'applicazione  su  richiesta  non  si  tiene  conto
neppure  agli  effetti  della  recidiva  e dell'abitualita' nel reato
(art. 106 comma 2 c.p.). Infine si e' stabilito che, nel caso in  cui
"  e' stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva,
l'applicazione non e' di ostacolo alla concessione di una  successiva
sospensione  condizionale  della  pena  ";  e  con  la  previsione di
quest'ultimo e assai vantaggioso effetto si e'  data  applicazione  a
quella  parte  della  direttiva  45  che impone di disciplinare gli "
altri effetti della pronuncia ", " in rapporto  ai  diversi  tipi  di
sanzioni applicate ".
   Nell'articolo  441  si  individua  innanzi tutto il momento finale
entro il quale le parti possono formulare la richiesta, e la  dizione
della  direttiva  45  " fino all'apertura del dibattimento " e' stata
tradotta  con  l'espressione  "  fino  al  termine   dell'esposizione
introduttiva  del  giudizio  di primo grado " (art. 487), dato che e'
con questa esposizione che le parti intervengono nella fase  iniziale
del dibattimento.
   Si  e'  ritenuto di non poter consentire al difensore di formulare
la  richiesta  o  di  dare   il   consenso,   trattandosi   di   atti
personalissimi,  che  possono  incidere  sulla  sfera  della liberta'
personale e su quella patrimoniale dell'imputato oltre che  sull'iter
processuale.   Per   semplificare  pero'  e'  stato  riconosciuto  al
difensore il potere di autenticare la dichiarazione, come risulta dal
rinvio operato all'art. 576 comma 3.
   L'ultimo  comma  dell'art.  441,  nello  stabilire che nel caso di
dissenso sulla  richiesta  dell'imputato  il  pubblico  ministero  e'
tenuto  ad  enunciarne  le ragioni, introduce una disposizione che si
ricollega, come  si  vedra',  a  quella  del  comma  3  dell'articolo
successivo,   il   quale  da'  al  giudice  il  potere  di  sindacare
l'eventuale dissenso dell'organo  dell'accusa.  Occorre  sottolineare
che  la  determinazione  del pubblico ministero e' discrezionale, non
arbitraria; per negare  il  consenso  devono  esistere  delle  valide
ragioni, che vanno esternate.
   Nell'articolo  442  sono  delineate,  all'inizio,  le sequenze che
possono condurre alla pronuncia di una sentenza di applicazione della
pena  su richiesta ancor prima dell'udienza preliminare. La direttiva
45 non contiene piu' la  specificazione  "  in  apposita  udienza,  o
nell'udienza  preliminare  o nel giudizio " ma cio' non significa che
la  decisione  del  giudice  possa  essere  presa  solo  nell'udienza
preliminare  e nel giudizio, ed e' parso opportuno consentire in caso
di richiesta  un  immediato  epilogo  processuale  anche  durante  le
indagini preliminari, mediante la fissazione di una udienza ad hoc. A
tal fine, per il caso in cui non vi  e'  una  richiesta  congiunta  o
accompagnata  dal  consenso  dell'altra parte, e' stato congegnato un
meccanismo di interpello volto ad evitare inutili attese  ed  inutili
prosecuzioni  di  indagini.  L'irrevocabilita'  e l'immodificabilita'
della richiesta nel periodo  dell'interpello,  stabilite  nell'ultima
parte del comma 2, si giustificano appunto con l'apertura di una fase
incidentale, che deve giungere a compimento  senza  trovare  ostacoli
nella stessa parte che l'ha provocata.
   In ogni caso, e cioe' anche se prima e' stato negato, come precisa
il comma 3, il consenso puo' essere dato fino a quando non e' spirato
il  termine  finale,  che e' quello dell'esposizione introduttiva del
giudizio di primo grado.
   Quando  vi  e'  la  concorde  volonta'  delle parti e ricorrono le
condizioni indicate nell'art. 439, il giudice (se  non  e'  stato  in
grado  di  provvedere  durante le indagini preliminari), nell'udienza
preliminare o nel giudizio, pronuncia immediatamente la  sentenza  di
applicazione della pena su richiesta. Il comma 4 aggiunge che dopo la
chiusura del giudizio di primo grado o nel giudizio  di  impugnazione
il  giudice  puo'  accogliere  la  richiesta  dell'imputato  anche in
mancanza del consenso del  pubblico  ministero,  se  ritiene  che  il
consenso e' stato negato ingiustificatamente.
   Con  quest'ultima  disposizione sono state recepite le indicazioni
contenute  nella  sentenza  30  aprile  1984,  n.  120  della   Corte
costituzionale,  che  con  una pronuncia interpretativa di rigetto ha
escluso l'illegittimita' costituzionale degli artt. 77 e 78 l. n. 689
del  1981.  La Corte ha ritenuto che il parere del pubblico ministero
sia vincolante per il rito ma non per il merito e cioe', che nel caso
di   parere   negativo   sia   precluso   l'epilogo   anticipato  del
procedimento, ma non l'accoglimento della richiesta dell'imputato  da
parte del giudice, una volta completato regolarmente il dibattimento.
Si e' gia' detto che il pubblico ministero si muove in un  quadro  di
discrezionalita'  e  deve  enunciare le ragioni del proprio dissenso;
non e' e non puo' essere arbitro delle sorti dell'imputato, e  quindi
non  puo' precludergli un trattamento vantaggioso quando ne ricorrono
le  condizioni  ed  il  dissenso,  all'esame  del  giudice,   risulta
ingiustificato.  E'  invece  un  potere tipico del pubblico ministero
come parte, non sindacabile dal giudice, quello di consentire o  meno
che il procedimento si svolga in forme diverse dalle ordinarie, ed e'
per questa ragione che se manca il consenso del  pubblico  ministero,
cosi'  come  da  un  lato  deve essere escluso un epilogo anticipato,
dall'altro deve essere  riconosciuto  a  tale  parte  il  diritto  di
proporre  l'appello  contro  la  sentenza di primo grado, anziche' il
ricorso per cassazione, che e' l'unico mezzo consentito invece per le
parti  che hanno richiesto l'applicazione della pena o che su di essa
hanno concordato.
   Nell'ultimo comma, infine, si stabilisce che quando la sentenza di
applicazione della pena  su  richiesta  e'  emessa  nel  giudizio  di
impugnazione,  il  giudice,  se  in  precedenza era stata pronunciata
condanna alle  restituzioni  o  al  risarcimento  dei  danni,  decide
sull'azione  civile  com'e'  previsto  nel  caso  di dichiarazione di
estinzione del reato per amnistia o per  prescrizione.  Puo'  infatti
accadere  che nel giudizio d'impugnazione venga riformata la sentenza
che  non  aveva  accolto  la  richiesta  per  aver  ritenuto  che  ne
mancassero  le  condizioni  o  che fosse giustificato il dissenso del
pubblico ministero, ma in questo caso, come in quello  in  cui  viene
dichiarata  l'estinzione  del  reato,  ci  si trova in presenza di un
accertamento gia' compiuto e di una decisione sull'azione civile, che
non  puo' essere messa nel nulla con la vanificazione di un'attivita'
processuale non breve e la frustrazione delle  legittime  aspettative
della parte civile.
                              TITOLO III
                        GIUDIZIO DIRETTISSIMO
Premessa.
   Il  giudizio  direttissimo  presenta  una caratteristica comune al
giudizio  immediato,  che  evidenzia  la  diversita'  di  questi  due
procedimenti  rispetto  agli altri procedimenti speciali disciplinati
nel libro VI: entrambi  si  atteggiano  come  meccanismi  processuali
semplificati  che  tuttavia  hanno  il  loro  epilogo  nella  udienza
dibattimentale. Piu' precisamente essi sono accomunati dalla  mancata
previsione dell'udienza preliminare.
   Va  sottolineato  che  i  due  istituti  (giudizio  direttissimo e
giudizio  immediato)  si  presentano  come  tipologie  procedimentali
semplificate  delle  quali  tuttavia  l'una  comprende  l'altra senza
residui, nel senso che e' consentito al pubblico ministero, ogni qual
volta non sia possibile accedere alla piu' rapida delle due forme (il
giudizio direttissimo), di operare un recupero verso  l'altra  forma,
come si osservera' meglio in seguito.
   E'  stato  notato  nel corso dei lavori preparatori che la novita'
della  nuova  legge-delega  rispetto  alla  precedente  sta   proprio
nell'ampio   spazio   di   operativita'  attribuito  ai  procedimenti
differenziati. Con riferimento  al  giudizio  direttissimo,  il  sen.
Vassalli  aveva  giudicato  estremamente  positivo  il recupero di un
istituto che, cancellato nel Progetto del 1978, presenta  invece  una
accentuata  caratterizzazione  sugli  schemi del processo accusatorio
(Senato,  Aula,  19  novembre   1986).   La   marcata   accentuazione
accusatoria del giudizio direttissimo unitamente al positivo bilancio
che deve trarsi dalla esperienza degli ultimi anni  (soprattutto  con
riferimento  al giudizio direttissimo davanti al pretore disciplinato
dal vigente art.  505  c.p.p.  cosi'  come  novellato  nel  1984)  ha
pertanto  indotto  il Parlamento a introdurre l'istituto del giudizio
direttissimo con una previsione molto ampia, analiticamente descritta
nella direttiva 43 della legge-delega.
   In  particolare  il  legislatore  delegante  ha  inteso  ampliare,
rispetto alla situazione  attuale,  la  possibilita'  di  ricorso  al
giudizio  direttissimo,  aggiungendo  alla condizione dell'arresto in
flagranza o comunque dello stato  di  custodia  dell'imputato,  e  in
alternativa  a  questa,  la  circostanza dell'avvenuta confessione ad
opera dell'imputato in stato di liberta'.
   Elemento  caratterizzante  il  giudizio  direttissimo  e' pertanto
l'esistenza originaria di una situazione  di  evidenza  della  prova,
della  quale  l'arresto  in  flagranza e la confessione dell'imputato
rappresentano le due sole ipotesi predeterminate dalla legge.
   In  quest'ottica, i quindici giorni concessi al pubblico ministero
per l'instaurazione del giudizio direttissimo vanno intesi come tempo
utilizzabile  per verificare l'effettivita' della iniziale situazione
di evidenza e quindi  per  valutare  preliminarmente  se  la  vicenda
concreta  sia  suscettibile  di  presentare  o meno, al dibattimento,
aspetti di difficolta' probatoria tali  da  richiedere  accertamenti,
che,  per  la loro natura, non potrebbero essere svolti agevolmente e
speditamente all'udienza stessa.
   Di  regola,  ove si profili sin dall'inizio l'esigenza di indagini
non esperibili in dibattimento, la mancanza  di  evidenza  probatoria
impone al pubblico ministero di rinunciare alla pretesa di instaurare
il giudizio  direttissimo,  potendo  tuttavia  ancora  usufruire  del
giudizio  immediato  ogni  qualvolta  le  indagini rimangano comunque
contenute nello spazio di novanta giorni.
   Le  disposizioni  sul  giudizio  direttissimo erano nel codice del
1930 collocate tra i giudizi speciali nel capo IV del libro III,  per
l'esatto  criterio  sistematico che vedeva in un rito tendenzialmente
accusatorio  un  quid  di  derogante  rispetto  alle  cadenze  usuali
dell'istruttoria.
   Nel   corso   dei   lavori   preparatori  era  sembrato  opportuno
sottolineare anche nella collocazione topografica che tutti i modelli
processuali  hanno le medesime caratteristiche di accusatorieta' e si
distinguono soltanto per aspetti  marginali  ed  adattamenti  imposti
dalla   natura   delle   cose.   Il   riferimento  a  "  Procedimenti
differenziati " sarebbe stato preferibile; ma se continua a  parlarsi
di  "  Procedimenti speciali " e' soltanto perche' la terminologia e'
di uso comune.
Illustrazione degli articoli.
   Quanto  ai  casi  ed  ai  modi  di questo giudizio, per l'art. 502
c.p.p. del 1930 nel testo piu' volte innovato, il pubblico  ministero
puo'  direttamente  condurre all'udienza l'imputato in vinculis, dopo
un sommario interrogatorio, la  convalida  (in  caso  di  arresto  in
flagranza),  e  l'apprezzamento  circa  la non necessita' di speciali
indagini, non oltre il decimo giorno dall'arresto; mentre per i reati
di  sua  competenza  l'art.  505 c.p.p. del 1930 impone al pretore il
rito direttissimo immediatamente dopo la  convalida  dell'arresto  in
flagranza.
   L'articolo  443  ha  generalizzato, al comma 1, questa previsione,
consentendo la convalida  ed  il  contestuale  giudizio  direttissimo
anche  per i reati di competenza del tribunale e della corte d'assise
(per i reati di competenza pretorile  v.  l'art.  559).  Il  comma  2
riproduce  il nucleo del giudizio direttissimo tradizionale, elevando
a quindici giorni  il  termine  di  presentazione  dell'arrestato  al
dibattimento.  E'  stato eliminato il riferimento alla non necessita'
di speciali  indagini;  d'altronde  e'  implicito  che  in  tanto  il
pubblico  ministero  si  determinera'  ad  esercitare  la facolta' di
instaurare il giudizio direttissimo, in quanto le fonti di " prova  "
denotino  una  situazione  di  particolare  evidenza,  potendo optare
altrimenti per i tempi meno ristretti del giudizio immediato.
   Il  comma  3  "  recupera  " una situazione specifica di evidenza,
circoscritta alla confessione resa nel  corso  dell'interrogatorio  o
dell'esame:  in tal caso puo' procedersi col rito differenziato anche
nei confronti dell'imputato  libero  (che  deve  essere  regolarmente
citato) ed il termine decorre dal giorno dell'iscrizione nel registro
delle notizie di reato.
   Il comma 4 prescrive di regola la separazione per i reati connessi
in ordine ai quali non si giustifichi  la  scelta  del  direttissimo;
altrimenti prevale il rito ordinario.
   Venuta  meno  la  tradizionale  condizione  dello  stato detentivo
dell'imputato, l'articolo 444  prevede  una  duplice  disciplina  per
l'instaurazione del giudizio direttissimo.
   Il  comma  1  si  riferisce  alla presentazione diretta in udienza
dell'imputato arrestato in flagranza o in stato di custodia cautelare
per  il  reato  per  cui  si  procede; i commi 2, 3 e 4 descrivono le
formalita' predibattimentali da adempiere nel caso di imputato libero
che  abbia reso confessione. Da segnalare che, nel rispetto di quanto
statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 164 del 1983 ed
alla  luce  delle  vivaci  critiche emerse in dottrina contrarie alla
prassi oggi invalsa per cui il pubblico ministero  stabilisce  a  suo
illimitato  piacimento  il  giudice  dibattimentale, non ci si poteva
sottrarre all'imperativo che " anche su tal punto la disciplina venga
adeguatamente migliorata e l'udienza per il giudizio direttissimo sia
fissata mediante il normale meccanismo dalla  legge  predisposto  per
gli  altri  processi,  pur con i necessari adeguamenti alla rapidita'
che e' propria di detto giudizio " (Corte cost., sentenza n. 164  del
1983).  Per  questo  motivo  e'  stato  recuperato  il  meccanismo di
investitura del giudice dibattimentale delineato per il  processo  di
pretura.
   Quanto al comma 3, da un lato l'omesso riferimento alla lettera d)
dell'art. 425 si spiega col fatto che qui la confessione non solo  e'
fonte  di  prova ma soprattutto e' il presupposto per l'instaurazione
del rito; dall'altro non poteva operarsi un richiamo  integrale  alla
lettera  f)  della  medesima disposizione, concernente l'avvertimento
relativo all'instaurazione del giudizio contumaciale in caso  di  non
comparizione, esito escluso dall'art. 445 comma 4.
   L'articolo  445,  nel  disciplinare  lo  svolgimento  del giudizio
direttissimo,  migliora  la  formulazione  dell'articolo  503  c.p.p.
attuale.  Nel comma 4 e' chiarito che la contestazione e' compito del
pubblico ministero e che il rito differenziato in tanto  puo'  essere
concretamente  celebrato in quanto l'imputato sia presente. Nel comma
5  e'  prevista  la  possibilita'  per  l'imputato  di  chiedere   la
trasformazione  del  giudizio  direttissimo  in rito abbreviato ed il
c.d. patteggiamento.
   Nel  comma  6,  il  meccanismo  del  termine  a  difesa  e'  stato
radicalmente   innovato,   passandosi   da   un   regime   di    mera
discrezionalita'  ad  un  sistema  di  obbligatorieta',  che lo rende
effettivo e non piu' meramente illusorio. Il presidente e' tenuto  ad
avvertire l'imputato del suo diritto al termine a difesa ed, a fronte
di  una  richiesta  in  tal  senso,  e'  obbligato  a  sospendere  il
dibattimento;  rimane  la  discrezionalita' soltanto circa il quantum
della sospensione, comunque non superiore a dieci giorni.
   L'articolo  446  disciplina  in  modo  piu'  lineare  i cosiddetti
epiloghi atipici del giudizio direttissimo.
                              TITOLO IV
                          GIUDIZIO IMMEDIATO
Premessa.
   Il  giudizio  immediato si traduce in un meccanismo di sfoltimento
che assume, assieme agli altri procedimenti  speciali,  importanza  e
rilievo fondamentali nel nuovo sistema processuale.
   E'   stato  piu'  volte  sottolineato  che  solo  con  un  ricorso
frequentissimo ai riti differenziati "sara' possibile  dispiegare  le
energie  senza  impacci  laddove  si  percorrono  per intero indagini
preliminari, udienza preliminare e dibattimento" (on. Casini,  Camera
deputati,  Aula,  20  gennaio  1987). Significativa al riguardo e' la
autonomia reciproca acquisita dal giudizio immediato e  dal  giudizio
direttissimo,  che  nel testo originario (della Commissione giustizia
della Camera dei deputati) erano accorpati  nella  stessa  previsione
(direttiva  40)  nonche'  la estensione della sfera di applicabilita'
del giudizio immediato mediante: a) la  esclusione  della  condizione
della  non  necessita' di indagini; b) la fissazione di un dies a quo
diverso rispetto al testo originario (l'iscrizione della  notizia  di
reato anziche' la commissione del reato).
   Analogamente  al  giudizio  direttissimo, il giudizio immediato e'
espressione  ulteriore  della  accentuazione  delle   caratteristiche
accusatorie  del  nuovo processo penale indicata dalla mancanza della
udienza preliminare. Deve pero'  precisarsi  che  e'  proprio  questo
aspetto  l'elemento  caratterizzante  il giudizio immediato, e non la
mancanza delle indagini preliminari che possono  e  devono  svolgersi
secondo  le regole generali. La prevedibilita' di effettuazione delle
indagini preliminari consente  peraltro  di  comprendere  le  ragioni
della previsione dell'intervento del giudice, senza la quale potrebbe
risultare arduo distinguere  tra  giudizio  direttissimo  e  giudizio
immediato.  In  realta'  nei  lavori  preparatori vi e' traccia delle
perplessita' circa la opportunita'  o  addirittura  la  validita'  di
siffatta  distinzione posto che un rito snello fortemente accusatorio
avrebbe dovuto consentire sempre la presentazione  diretta  da  parte
del   pubblico   ministero.  Tuttavia  e'  stato  evidenziato  che  "
l'intervento del giudice svolge  un  ruolo  di  garanzia  perche'  il
dibattimento  puo'  di  per  se' determinare conseguenze negative per
l'imputato e suppone una valutazione degli elementi  per  rinviare  a
giudizio " (rel. on. Casini, p. 8). Va pero' precisato, come si dira'
appresso, che si tratta di un " controllo " molto rapido:  non  viene
svolto    dal   giudice   nell'udienza   preliminare,   non   vi   e'
contraddittorio, ma  "  vi  sono  soltanto  due  occhi  in  piu'  che
giudicano  se  il  rinvio  a  giudizio  e'  o non e' opportuno " (on.
Casini, Camera dei deputati, Aula, 12 luglio 1984).
   Come  e'  stato  detto  a  proposito del giudizio direttissimo, il
giudizio immediato e' stato  costruito  in  maniera  tale  da  potere
essere  raccordato,  con  riferimento  alle  valutazioni del pubblico
ministero in ordine al modus procedendi,  al  giudizio  direttissimo:
ove l'organo della pubblica accusa rinunci alla pretesa di instaurare
il  giudizio  direttissimo  (per  la  mancanza  della  condizione  di
evidenza  probatoria),  potra'  egli  tuttavia  ancora  usufruire del