pubblico ministero, qualora ne ravvisi la necessita' ovvero qualora l'ufficio postale restituisca il piego per irreperibilita' del destinatario, possa notificare l'informazione di garanzia a mezzo della polizia giudiziaria. La "agilita'" delle indagini preliminari del pubblico ministero, rispetto ai diversi caratteri della attuale istruzione sommaria, consiglia una maggiore "liberta' di forme" e la conseguente previsione del ricorso alla modalita' di notificazione fissata per il pubblico ministero nella norma in esame. E' parso superfluo che alla notificazione, in caso di restituzione del piego, si proceda nella forma ordinaria da parte dell'ufficiale giudiziario: e cio' avuto riguardo alla nuova particolare disciplina dettata, per le notificazioni richieste dal pubblico ministero, dall'art. 151. La "informazione di garanzia" deve contenere la elencazione delle norme di legge violate oltreche' l'indicazione della data e del luogo del fatto addebitato. Nell'articolo 368 e' data attuazione alla direttiva 37 parte quinta della delega. Il comma 1 riecheggia il contenuto della delega, ma la formulazione della norma tiene conto del doveroso coordinamento con il comma 3 dell'art. 348 che disciplina l'attivita' di polizia giudiziaria dopo che il pubblico ministero ha impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini (v. anche la direttiva 31 parte quarta). Proprio in forza di tale coordinamento l'oggetto viene ad essere ristretto alle attivita' di indagine compiute nell'ambito delle direttive impartite, cosi' da rendere illegittima la prassi attuale della delega globale allo svolgimento delle indagini, la cui direzione e' invece conferita personalmente al pubblico ministero. Ovviamente, andranno osservate le disposizioni dettate per l'attivita' del pubblico ministero in tema di intervento della difesa e di documentazione degli atti (comma 2). I commi 3 e 4 prevedono la delegazione di singoli atti ad altra autorita' giudiziaria e riecheggiano il contenuto dell'art. 296 c.p.p. vigente. Rispetto alla disciplina attuale, la individuazione del pubblico ministero delegato e' semplificata dal fatto che il pubblico ministero presso il pretore ha "ambito circondariale". L'articolo 369 disciplina il coordinamento tra uffici diversi del pubblico ministero che procedono a indagini collegate e tende ad attuare la direttiva 16 ("disciplina dei rapporti tra diversi uffici del pubblico ministero durante le indagini preliminari") la quale, come la Commissione per lo studio dei cosiddetti maxi-processi ha giustamente osservato, individua "qualcosa di piu' penetrante della semplice circolazione di notizie" dato che "la direttiva 30, disciplinando tutte le possibili forme di scambio o di informazioni tra uffici giudiziari", gia' prevede questo aspetto del rapporto tra uffici diversi del pubblico ministero (v. art. 116). E questo "qualcosa di piu' penetrante" riguarda certamente l'esigenza del coordinamento dell'attivita' svolta per indagini che sono "collegate" in quanto basate su rapporti di influenza e utilita' reciproca fra le indagini stesse ma solo eseguite da uffici diversi del pubblico ministero in relazione a reati diversi; esigenza che si presenta soprattutto, come insegna l'esperienza pratica, in quei processi cumulativi - oggi definiti maxi-processi - richiamati anche dalla delega (sia pure soltanto in materia di termini per la conclusione delle "indagini") quando, nella direttiva 48, fa riferimento a "processi di criminalita' organizzata" e ad "ipotesi eccezionali". Il tema del coordinamento delle indagini e' stato al centro dell'attenzione della Commissione redigente la quale ha tenuto nel debito conto che, durante i lavori preparatori della legge-delega, il problema posto con piu' preoccupazione ed insistenza in Parlamento e' stato quello di conciliare due esigenze del tutto contrastanti, almeno all'apparenza, e, precisamente: 1) l'esigenza di evitare quanto piu' possibile i cosiddetti "maxi-processi", impensabili nel nuovo sistema, dettando, a tale scopo, direttive tendenti a ridurre drasticamente le ipotesi di connessione, ad escludere ogni discrezionalita' nella determinazione della competenza per connessione ed a favorire la separazione dei processi (direttive 14 e 44); 2) l'esigenza di reprimere efficacemente la grande criminalita' organizzata che non puo' essere considerata semplicisticamente un fenomeno temporaneo e contingente (v. relazione al disegno di legge Martinazzoli n. 691/C; interventi dell'on. Violante alla Camera nelle sedute del 31/maggio/1984 e del 4/febbraio/1987; interventi del sen. Coco, del sen. Vitalone e del sen. Gallo al Senato nella seduta del 20/novembre/1986; interventi dell'on. Casini, e dell'on. Macis alla Camera nella seduta del 4/febbraio/1987). Si e' ritenuto che, per conciliare le esigenze sopra evidenziate - entrambe meritevoli della massima considerazione - la strada da percorrere - peraltro gia' indicata dalla legge-delega con la direttiva 16 - sia quella di distinguere la fase pre-processuale delle indagini preliminari - dominata dai poteri, investigativi e di impulso, di parte e tendenzialmente informali del pubblico ministero - dalla fase processuale vera e propria caratterizzata dalla giurisdizione. In entrambe le fasi operano i normali criteri attributivi di competenza, ivi compresa la competenza per connessione, che sono identici per il giudice delle indagini preliminari e per il pubblico ministero. Mentre, pero', nella fase processuale vera e propria valgono soltanto i suddetti criteri di competenza, nella fase delle indagini preliminari, invece, - a parte quanto esposto nel commento agli artt. 29 comma 3, 52 comma 2 e 55 - deve valere anche, prima dell'intervento del giudice, una disciplina che, pur essendo utile anche a prevenire ed evitare conflitti positivi virtuali di competenza tra pubblici ministeri (v. sub art. 29 comma 3), serva, non soltanto nei "procedimenti" connessi a norma dell'art. 12, ma, soprattutto, nei casi in cui le indagini siano oggettivamente e reciprocamente "collegate", a permettere ai magistrati del pubblico ministero interessati di coordinarsi tra loro per il compimento delle rispettive attivita' di indagine. In questa prospettiva la Commissione, recependo un argomentato parere della Commissione di studio sui maxi-processi (peraltro discusso in una riunione congiunta delle due Commissioni) ha proceduto alla redazione del testo dell'articolo in esame. Il comma 1 prevede il coordinamento di uffici diversi del pubblico ministero. Nella prima parte e' stabilito in quale ipotesi il coordinamento debba avvenire (se "procedono a indagini collegate") e per quali fini ("la speditezza, la economia e la efficacia delle indagini medesime"); nella seconda parte sono indicate le modalita' del coordinamento che sono informative ("scambio di atti e di informazioni" ed altresi' "comunicazione delle direttive rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria") e possono essere anche operative (compimento congiunto di specifici atti). Il comma 2 definisce le ipotesi in cui le indagini "si considerano collegate". Cio' avviene,.oltre che nei casi in cui opera la connessione, a norma dell'art. 12, o in cui potrebbe operare la.riunione se si trattasse di processi pendenti davanti al medesimo giudice, a norma dell'art. 17 (comma 2 lett. a), anche nei casi attualmente considerati di "connessione probatoria" a norma dell'art. 45 comma 1 n. 4 c.p.p. (comma 2 lett. b) o nel caso in cui "la prova di piu' reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte" (comma 2 lett. c). La nozione di "indagini collegate" e', quindi, molto piu' estesa, sia dei "procedimenti connessi" a norma dell'art. 12 del Progetto (dato che la connessione costituisce soltanto una delle ipotesi che determina il collegamento), sia dei "procedimenti connessi" a norma dell'art. 45.comma 4 c.p.p. (dato che comprende anche i casi, tipici dei cosiddetti maxi-processi, in cui la prova di piu' reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte). La dilatazione delle occasioni di coordinamento, soddisfa pertanto, pienamente, le esigenze investigative presenti nelle indagini riguardanti la grande criminalita' organizzata e, comunque, le indagini particolarmente complesse che devono essere estese a fenomeni criminali operanti in ambito piu' ampio di quello circondariale. Per quanto concerne, in particolare, la previsione di cui al comma 2 lett. c), e' stato giustamente rilevato che nelle situazioni di imputati collaboratori di giustizia i quali rendano dichiarazioni a larghissimo spettro, il coordinamento informativo e operativo puo' essere prezioso nonostante non vi sia connessione ne' ristretta ne' ampia, e che in tali casi e' utile una direttiva unitaria alle varie sezioni di polizia giudiziaria, non meno che un libero accesso ad eventuali auspicabili archivi di dati, anche a prescindere dagli scambi tipizzati secondo la direttiva 30. Il comma 3 dispone che, salvo il caso dei procedimenti connessi a norma dell'art. 12, il collegamento delle indagini non ha effetto sulla competenza. Questo sta a significare, da un lato, che la ritenuta estensione al pubblico ministero delle disposizioni sulla competenza per connessione riguardanti il giudice (v. sub art. 52 comma 2) non incide in alcun modo sulla disciplina del coordinamento di indagini collegate che si muove in un ambito del tutto diverso; e, dall'altro lato, che, a livello di competenza del pubblico ministero, e' salvaguardata l'autonomia dei singoli uffici coordinati i quali possono anche procedere separatamente per il reato attribuito alla propria competenza e possono svolgere, a tal fine, le indagini ritenute opportune, in modo autonomo e indipendente. Circa quest'ultimo punto si osserva che, proprio per salvaguardare l'autonomia di ciascun pubblico ministero competente e proprio per evitare che nessun limite all'esercizio dell'azione penale da parte del singolo ufficio del pubblico ministero competente potesse essere posto da un eventuale intervento coattivo esterno, e' stata respinta la proposta di affidare il coordinamento delle indagini collegate, in mancanza di accordo tra uffici e magistrati interessati, su richiesta e previa audizione degli stessi, al procuratore generale della corte di appello (in caso di uffici appartenenti allo stesso distretto) ed ai procuratori generali delle corti di appello, d'intesa tra loro (in caso di uffici appartenenti a distretti diversi). Si e' obiettato, infatti, che il coordinamento - il quale, anche per la natura dell'attivita' delle indagini preliminari esige una forma libera - deve essere previsto su basi consensuali e deve risultare dall'autonoma decisione di ciascun pubblico ministero competente (come, del resto, e' avvenuto in passato, con risultati positivi, in occasione delle indagini nei processi per terrorismo) perche' non e' consentita l'attribuzione di poteri ad un pubblico ministero non competente e, tanto meno, al procuratore generale il quale, nel nuovo codice, salvo il caso di avocazione, non ha competenza in ordine alle indagini preliminari e all'azione penale nei processi di primo grado (v. sub art. 52). L'articolo 370 prevede l'avocazione delle indagini da parte del procuratore generale presso la corte di appello quando, (per effetto di una "inerzia" dell'ufficio del pubblico ministero competente, non dipendente direttamente da omissioni o ritardi nel compimento delle indagini, ma derivante o dalla impossibilita' di provvedere alla tempestiva sostituzione in caso di astensione o incompatibilita' del magistrato delegato, ovvero dal fatto che il dirigente dell'ufficio del pubblico ministero competente non ha provveduto alla tempestiva sostituzione del magistrato delegato quando questi avrebbe dovuto essere sostituito in applicazione delle leggi di ordinamento giudiziario) si crea una situazione di impasse, non altrimenti evitabile. L'avocazione di cui si tratta e' pertanto completamente diversa da quella prevista dall'art. 409 concernente l'avocazione delle indagini preliminari per inosservanza del termine (la quale costituisce l'immediato effetto di una "inerzia" dipendente direttamente da omissioni o ritardi nel compimento delle indagini da parte dell'ufficio del pubblico ministero competente), e questo spiega la diversa collocazione dell'articolo in esame - che, in definitiva, disciplina pur esso i rapporti tra diversi uffici del pubblico ministero - rispetto all'art. 409 coerentemente collocato nel titolo "chiusura delle indagini preliminari" essendo la stessa ammissibilita' dell'avocazione, in quella ipotesi, collegata alla omessa conclusione delle indagini nel termine di legge. In relazione all'ipotesi di avocazione prevista dall'articolo in esame, occorre sgombrare il campo dal dubbio che questo tipo di avocazione possa non essere coerente con la legge-delega. Infatti, muovendo dal testo della direttiva 42 ("potere di avocazione da parte del procuratore generale da esercitarsi, con decreto motivato, soltanto nel caso di inerzia del pubblico ministero") e paragonando la formula a quella della corrispondente direttiva 35 della delega del 1974 ("potere di avocazione da parte del procuratore generale da esercitarsi, con provvedimento motivato, nei soli casi di inerzia del pubblico ministero o di gravi ed eccezionali esigenze processuali") si e' argomentato, da alcuni, che l'ipotesi di avocazione disciplinata dall'articolo 370, non potendo piu' essere basata sulle "gravi ed eccezionali esigenze processuali" menzionate nella vecchia delega e non ripetute nella nuova, deve essere completamente esclusa per evitare il rischio dell'eccesso di delega. Tale interpretazione limitativa dell'attuale direttiva 42 non e' stata accolta perche' anche l'art. 370, a ben vedere, prefigura ipotesi di "inerzia" dell'ufficio del pubblico ministero competente, sicche' il legislatore delegante ha ritenuto del tutto inutile introdurre nel testo della direttiva che interessa espressioni meramente aggiuntive come quelle delle "gravi ed eccezionali esigenze processuali" che sono gia' implicite nel termine "inerzia" ove quest'ultimo termine non sia interpretato in senso restrittivo. Il legislatore delegante ha, in sostanza, voluto semplicemente prescrivere il ripudio di ipotesi di avocazioni generalizzate e non ancorate a rigorosi presupposti oggettivi. Per far questo aveva di fronte due alternative: o seguire la strada del legislatore del 1974 e distinguere l'"inerzia" incidente direttamente sulle indagini dalle "gravi ed eccezionali esigenze processuali" (comportanti pur esse una inerzia del pubblico ministero); oppure, piu' semplicemente, ricondurre al concetto di "inerzia", sia il caso in cui l'ufficio del pubblico ministero non osserva il termine previsto per concludere le indagini, sia il caso in cui lo stesso ufficio non si trovi piu' in condizioni, per situazione ordinamentale oggettivamente accertata, di esplicare la funzione che gli e' propria. Scegliendo la seconda alternativa, il legislatore delegante ha evitato il rischio di una interpretazione estensiva della ipotesi delle "gravi ed eccezionali esigenze processuali" ed ha, nel contempo, preso atto che, una soluzione come quella prospettata nel Progetto del 1978, sulla base della delega del 1974, non poteva non rientrare nel caso di inerzia. Infatti, stabilire che quando il magistrato del pubblico ministero si astenga, o quando si delinei una sua posizione di incompatibilita' e non sia possibile provvedere ad una tempestiva sostituzione (si pensi al limitato organico del pubblico ministero presso taluni tribunali), va esercitata l'avocazione, significa, ancora una volta, evitare che l'inerzia del pubblico ministero - sia pure non addebitabile, nel caso, ad un suo comportamento volontario, anche se non intenzionale - pregiudichi il promovimento dell'azione penale. E la stessa considerazione vale per il caso in cui l'inerzia dipende dalla dovuta ma omessa sostituzione del magistrato delegato da parte del dirigente dell'ufficio. In tema di documentazione degli atti di indagine preliminare del pubblico ministero, si e' prevista nell'articolo 371, analogamente a quanto disposto dall'art. 357 per l'attivita' diretta della polizia giudiziaria, una bipartizione. Gli atti tipici a "utilizzazione privilegiata" - perche' non ripetibili (accertamenti tecnici non ripetibili, ispezioni, perquisizioni e sequestri) o perche' contenenti dichiarazioni dell'indiziato (interrogatori e confronti con l'indiziato) o perche' comunque previsti nella direttiva 76 (atti assunti dal pubblico ministero cui il difensore ha diritto di assistere e le sommarie informazioni assunte nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto) - si traducono in verbali, mentre gli altri atti ed in particolare gli atti generici (che peraltro, possono essere anch'essi utilizzati in dibattimento per le opportune contestazioni ricorrendone i presupposti) vengono documentati in modo diverso (verbali in forma riassuntiva o annotazioni) piu' o meno svincolato dal rigore formale che caratterizza i verbali. Infatti le modalita' di redazione del verbale non potevano che essere - come peraltro gia' accadeva per la analoga disposizione del Progetto del 1978 - che quelle previste per gli "atti processuali" (artt. 133 s.) tanto piu' che, come si e' detto, gli atti per i quali e' prevista la verbalizzazione sono tutti a "utilizzazione privilegiata". La Commissione ha molto dibattuto sulle modalita' di documentazione degli atti diversi da quelli di cui al comma 1. Ad avviso di alcuni componenti andava privilegiata comunque la verbalizzazione; ad avviso di altri cio' non avrebbe giovato alla speditezza delle indagini. E, ad alcuni, sembrava inopportuno affidare al pubblico ministero la scelta del tipo di documentazione. La soluzione alla fine adottata appare rispondere adeguatamente alle varie perplessita' avanzate, sia perche' deve essere letta anche in relazione alla disposizione, da introdurre tra quelle di attuazione che regolamenta la "annotazione", sia perche' e' conforme alla direttiva 37 della legge-delega per la quale la documentazione degli atti del pubblico ministero deve essere effettuata secondo "specifiche e differenziate modalita'". Nel comma 4 il problema della contestualita' della documentazione rispetto al compimento dell'atto e' stato risolto privilegiando i principi di garanzia del diritto di difesa, senza pero' trascurare le esigenze pratiche che talora, sia pure eccezionalmente, possono sorgere, specie nell'espletamento di un'attivita' vista, in prospettiva, come prevalentemente atipica e generica. Il comma 5 prescrive di raccogliere e conservare presso l'ufficio del pubblico ministero l'intera documentazione degli atti compiuti durante le indagini preliminari, ivi compresi quelli trasmessi dalla polizia giudiziaria a norma dell'art. 357. Si e' in tal modo creato il fascicolo di parte (della parte pubblica che svolge la funzione di accusa), concettualmente e materialmente distinto dal fascicolo, peraltro assai diverso da quello attuale, che deve essere trasmesso al giudice del dibattimento. Si e' ritenuto che la particolare attivita' del pubblico ministero quale magistrato che svolge contemporaneamente, nel suo ruolo di organo giudiziario pubblico, funzioni di capo della polizia giudiziaria e funzioni di parte nel processo, rende opportuno che alla redazione del verbale e delle annotazioni, provveda l'ufficiale di polizia giudiziaria o il segretario che lo assiste (comma 6). L'articolo 372 riproduce, con ovvi correttivi, l'art. 250 c.p.p. Il comma 2 nel codice vigente e' previsto per consentire il rinvio a giudizio anche quando non vi e' stata contestazione "rituale"; si spiega ora con riguardo alla direttiva 44 sul giudizio immediato. Ad evitare "utilizzazioni strumentali" dell'istituto e' stato effettuato il richiamo agli artt. 71, 72 e 363. E' stata ritenuta superflua qualsiasi precisazione circa la possibilita' di disporre le misure cautelari solo quando ricorrono le condizioni e sussistono le esigenze cautelari specificate negli artt. 273 e 274. Con l'articolo 373 si e' voluto prevedere specificamente in qual modo il pubblico ministero possa ottenere la presenza dell'imputato quando cio' sia necessario per procedere ad atti di indagine (ad es. interrogatorio, confronto o ispezione cui partecipi l'imputato, individuazione di persona che richieda la presenza dell'imputato, etc.). L'istituto, a tale scopo designato, e' l'"invito a presentarsi" (comma 1), gia' menzionato, peraltro, nell'art. 363. Il contenuto di tale "invito" e' disciplinato nel secondo comma in merito al quale si osserva che: la formulazione della lett. a) ricalca l'articolo 264 comma 1 n. 1 c.p.p. concernente i "requisiti formali dei mandati"; la formulazione della lett. b) ricalca lo stesso art. 264 comma 4 c.p.p.; nella lett. c) si e' fatto richiamo, nel caso in cui l'imputazione non possa essere indicata, perche' ancora non formulata, alle indicazioni previste dall'articolo 367 sulla "informazione di garanzia"; la lett. d) prevede l'avvertimento per l'eventuale successivo accompagnamento coattivo dell'indiziato (v. anche sub art. 131). Anche la disposizione del comma 3, che stabilisce il termine di tre giorni per la comparizione o la deroga in caso di urgenza, e' modellata sulla falsariga dell'art. 264, ultimo comma del codice di rito vigente. L'articolo 374 prevede le ipotesi in cui l'invito a presentarsi era stato rivolto dal pubblico ministero al fine di procedere ad interrogatorio o confronto e l'indiziato aveva omesso di comparire senza addurre legittimo impedimento. Per tali ipotesi, la Commissione ha ritenuto opportuno prevedere che l'accompagnamento possa essere disposto dal pubblico ministero solo su autorizzazione del giudice delle indagini preliminari: una autorizzazione che, viceversa, non necessita negli altri casi in cui l'accompagnamento coattivo puo' essere disposto dal pubblico ministero (art. 373 comma 1 e comma 2 lett. d) e che riguardano atti rispetto ai quali e' pero' diverso il "ruolo" che all'indiziato e' richiesto di assumere. L'articolo 375, nel comma 1, prevede la citazione da parte del pubblico ministero della persona offesa e delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. Non si e' utilizzato il termine "testimone" nelle indagini preliminari per evitare qualsiasi confusione tra "testimonianza" costituente mezzo di prova, e "raccolta di informazioni" costituente mezzo di ricerca delle fonti di prova. Il comma 2 stabilisce quale debba essere il contenuto del decreto. La disposizione, per le lett. a ) e b), ripete, con le dovute modifiche, quella dei nn. 1) e 2) dell'art. 353 c.p.p.. La lett. c), con la previsione dell'avvertimento circa la possibilita' che sia disposto l'accompagnamento coattivo, tende a rendere praticamente efficace la norma. Il comma 3 estende il sistema della citazione - sulle cui modalita' si rinvia al commento dell'art. 150 - al consulente tecnico, all'interprete ed al custode di cose sequestrate. L'articolo 376 ripete nella sostanza il contenuto dell'attuale art. 77 c.p.p. e quello dell'art. 130 del Progetto (peraltro relativo ai "poteri coercitivi del giudice"). La introduzione di tale norma e' resa necessaria dal complesso delle funzioni riconosciute dall'ordinamento al pubblico ministero. TITOLO VI ARRESTO IN FLAGRANZA E FERMO Premessa. Le disposizioni relative all'arresto in flagranza ed al fermo formano il contenuto degli artt. da 377 a 388. Si e' ritenuto che questa (libro V titolo VI) fosse la sede piu' opportuna per tali norme, nonostante i rilievi critici mossi in proposito e fondati sulla considerazione che un inserimento nel libro IV, relativo alle misure cautelari, avrebbe obbedito a criteri di maggiore sistematicita'. Appare infatti dirimente, a favore della soluzione accolta, il rilievo che l'arresto ed il fermo sono misure coercitive tipiche della fase delle indagini preliminari, notazione che non perde il suo peso neppure oggi che la legge-delega del 1987 ha diffuso in piu' direttive (31, 32, 33) l'individuazione dei "poteri-doveri ed obblighi della polizia giudiziaria" che quella del 1974 considerava nella sola direttiva 30. Entrambe le leggi si sono mosse, infatti, nella medesima ottica di considerare l'arresto ed il fermo quali momenti tipici delle indagini preliminari e le direttive che li prevedono sono, per cosi' dire, "disancorate" da quelle (direttive 59 e 64) dettate per le misure cautelari personali. Cio' non toglie, evidentemente, che ricorrano profili di connessione fra i due istituti anche perche' il potere-dovere di arresto e fermo e' collegato ad esigenze e criteri di discrezionalita' vincolata e di adeguatezza analoghi a quelli delle altre misure cautelari personali. E' anche opportuno far menzione, in questa premessa, del tema relativo all'individuazione degli organi legittimati all'arresto in flagranza. E' stato infatti discusso se, alla stregua della delega del 1987, il potere d'arresto potesse essere attribuito anche al pubblico ministero, come avveniva secondo l'art. 387 del Progetto preliminare del 1978, ma la questione e' stata risolta in senso negativo. Va rilevato, infatti, che se e' vero che l'art. 387 fu formulato sulla base di una direttiva della legge-delega del 1974 (30) che menzionava solo la polizia giudiziaria come destinataria del potere-dovere d'arresto (e cio' sul rilievo della posizione sopraordinata che il pubblico ministero assume rispetto alla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari) e se e' pur vero che il vigente art. 243 c.p.p. prevede il potere di cattura del pubblico ministero nei casi di arresto obbligatorio e facoltativo ex artt. 235 e 236, tuttavia un'opzione in senso contrario emerge dalla delega del 1987. Qui, infatti, (direttiva 32), il pubblico ministero e' menzionato, con la polizia giudiziaria, solo in relazione al fermo ("potere-dovere della polizia giudiziaria di fermare e del pubblico ministero di disporre il fermo..."), mentre la previsione contenuta nella stessa direttiva e concernente l'arresto in flagranza fa riferimento alla sola polizia giudiziaria. Sempre sull'arresto in flagranza e' ancora da notare, in via generale, che la direttiva 32 della legge-delega, che detta i criteri cui deve ispirarsi la disciplina dell'istituto, si muove in una prospettiva nuova rispetto a quella della normativa ora vigente e contenuta negli artt. 235 e 236 c.p.p.. Questa, specie con la legge 397/1984, e' stata improntata all'esigenza di ridurre le ipotesi di arresto, che sono previste con generale riferimento alla pena stabilita per il reato - modulata anche in relazione alle condizioni soggettive dell'arrestando - salvo che per le ipotesi di arresto facoltativo di cui all'art. 236 comma 3 c.p.p. E' peraltro rimasto in vigore l'art. 245 c.p.p. (Regole per l'esercizio della facolta' di arresto), sicche' vaghi ed indeterminati sono tuttora i criteri cui la polizia giudiziaria deve ispirarsi nell'esercizio di quella facolta', anche se puo' essere utilizzato il richiamo all'art. 254 comma c.p.p.. La disciplina dettata dal codice vigente si caratterizza anche per la ricerca di una tendenziale coincidenza fra l'area dell'arresto facoltativo e quella della cattura facoltativa, in modo da eliminare sfasature nel punto. La direttiva 32 della legge-delega disegna la disciplina dell'arresto in flagranza in termini di "obbligo rigido ed assoluto" e di "obbligo condizionato", prevedendo inoltre, all'interno delle due figure, spazi per "eccezioni" limitate e gia' parzialmente definite. Cosi' l'arresto e' obbligatorio per colui che e' colto nella flagranza di "delitti consumati o tentati punibili con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni" e l'eccezione riguarda l'obbligo dell'arresto anche per "altri delitti predeterminati, avuto riguardo a speciali esigenze di tutela della collettivita'", mentre l'arresto e' facoltativo "relativamente a delitti punibili con la reclusione superiore nel massimo a tre anni" e l'eccezione concerne, "solo per alcuni reati di particolare gravita', tassativamente indicati", anche "delitti punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni". Illustrazione degli articoli. L'articolo 377 e' dedicato alla determinazione della pena agli effetti delle disposizioni del titolo VI ed in particolare di quelle contenute negli artt. 378 (Arresto obbligatorio in flagranza), 379 (Arresto facoltativo) e 382 (Fermo di indiziato di delitto): il criterio assunto a tal fine e' identico a quello dettato, in tema di misure cautelari, dall'art. 278, al quale e' stato dunque operato il rinvio. L'articolo 378 individua le ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza. Il comma 1 da' attuazione alla lett. a) della direttiva 32 (che prevede, come si e' ricordato, l'arresto obbligatorio per i "delitti consumati o tentati punibili con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti..."): nella formulazione della disposizione e' stato fatto riferimento anche alla pena dell'ergastolo, piu' grave di quella indicata nella direttiva, anche se da questa non richiamata e si e' specificato, anche se cio' rileva, in particolare, per la seconda ipotesi di arresto obbligatorio, che deve trattarsi di delitti non colposi, ai quali anche il vigente art. 235 c.p.p. limita la misura dell'arresto obbligatorio. Il comma 2 disciplina i casi di arresto obbligatorio definiti "eccezionali" e riferiti, dalla lett. b) della direttiva 32, ad altri delitti predeterminati, avuto riguardo "a speciali esigenze di tutela della collettivita'". L'individuazione del contenuto di tale locuzione, che caratterizza la direttiva in senso fortemente limitativo, e' stata operata tenendo presenti anche i criteri che ispirano taluni dei provvedimenti che costituiscono la cosiddetta legislazione dell'emergenza (disciplina dei divieti di concessione di liberta' provvisoria: l. 152/1975, l. 15/1980; l. 398/1984; proroga dei termini di custodia cautelare: l. 398/1984), le disposizioni della l. 98/1974 e della l. 575/1/965 (che riguardano i casi in cui e' ammessa l'intercettazione delle conversazioni telefoniche ovvero quelle ipotesi di reato che traggono particolare disvalore dalle qualita' soggettive dei loro autori in quanto esaltano la pericolosita' dei fatti medesimi), le disposizioni che concernono il giudizio direttissimo atipico, inteso quale giudizio esemplare. Il significato piu' pregnante della locuzione e' stato tuttavia colto nelle indicazioni contenute nella sentenza n. 1 del 1980 della Corte costituzionale ed in quelle esplicitate nell'art. 279 del Progetto preliminare del 1978 i cui principi sono stati trasfusi nell'art. 274 comma 1 lett. c), in tema di misure cautelari. La Corte costituzionale, giudicando dell'articolo 1 l. 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico) ha ritenuto che l'espressione, indubbiamente generica, "esigenza di tutela della collettivita'" trova delimitazione e senso concreto, sia pure nel e dal contesto della legge 152/1975, in relazione ai reati che hanno quali caratteristiche l'uso di armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, la riferibilita' ad organizzazioni criminali comuni e politiche, la direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva e dell'ordine democratico. L'art. 274 comma 1 lett. c), che, come si e' accennato, ha recepito i principi formulati nell'art. 279 del Progetto preliminare del 1978, prevede, in tema di "esigenze cautelari", che "Fermo quanto e' disposto dall'articolo precedente le misure cautelari sono disposte:... c) quando, per specifiche modalita' e circostanze del fatto e per la personalita' dell'imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti della stessa indole di quelli per cui si procede o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine democratico ovvero gravi delitti di criminalita' organizzata". In definitiva, dunque, si e' ritenuto di seguire, come criterio di massima per la predeterminazione degli "altri delitti... avuto riguardo a speciali esigenze di tutela della collettivita'" di cui alla lett. b) della direttiva 32, quello che ha riferimento all'essere il delitto grave e diretto contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale o l'essere un grave delitto di criminalita' organizzata, mentre non e' sembrato conveniente aver riguardo alle condizioni soggettive dell'arrestando, pur menzionate nei vigenti artt. 235 e 236 c.p.p., poiche', fra l'altro, l'area dell'arresto obbligatorio, ex lett. b) direttiva 32, avrebbe subito una troppo drastica riduzione. Procedendo, ora, ad una analitica ricognizione delle ipotesi previste dal comma 2, si vedra' che: rispondono al principio della salvaguardia dell'ordine costituzionale quelle indicate alle lett. a ), i ) ed l) per quanto attiene alle associazioni segrete ed alle associazioni, movimenti o gruppi previsti dalla l. 645/1952. A proposito delle associazioni segrete e' sembrato opportuno prevedere l'arresto obbligatorio per i delitti concernenti la loro promozione, costituzione, direzione ed organizzazione, benche' la pena sia stabilita in misura non elevata e comunque sensibilmente inferiore a quella prevista dalla l. 635/1952, per la specificita' dell'interesse protetto e per le difficolta' d'ordine pratico che conseguirebbero al confinamento dell'ipotesi fra quelle ad arresto facoltativo; rispondono, precipuamente, al principio della salvaguardia della sicurezza collettiva quelle indicate alle lett. b ), c ), g) (qui il riferimento puo' essere anche all'ordine costituzionale ed alla criminalita' organizzata) e si e' avuto cura di escludere dall'arresto obbligatorio, per quanto riguarda i delitti concernenti le armi comuni da sparo, sia i fatti che hanno ad oggetto solo un'arma o che concernono solo le parti di essa, sia, infine, quelli relativi alle armi previste dall'art. 2 comma 3 l. 110/1975: da bersaglio, ad aria compressa, lanciarazzi etc.); rispondono al criterio dell'esser delitti, anche gravi, di criminalita' organizzata, quelli indicati alle lett. h ), l) (per quanto attiene alle associazioni mafiose) ed m). Per quanto riguarda le altre lettere del comma 2 puo' notarsi che la menzione della riduzione in schiavitu' (lett. d), mutuata dal n. 9 dell'articolo 280 del Progetto preliminare del 1978, e' sembrata opportuna ora che e' stata dichiarata l'incostituzionalita' dell'art. 603 c.p. (plagio), mentre l'indicazione di talune fattispecie di furto aggravato (lett. e) e dei delitti di rapina e di estorsione (lett. f) trova giustificazione, da un lato nell'estrema diffusione di tali reati, di guisa che non sembra del tutto improprio un riferimento al criterio - sia pur ampiamente inteso - di sicurezza collettiva, e dall'altro nella considerazione che la coscienza sociale ritiene naturale ed imprescindibile la misura coercitiva a carico del fur manifestus per lo scandalo e l'emozione che tale reato suscita, di guisa che, confinato il reato (con quelli di rapina ed estorsione semplice) fra i casi di arresto facoltativo, verrebbe sottratto al privato - la cui facolta' d'arresto e' opportuno mantenere per i soli casi d'arresto obbligatorio - ogni potere coercitivo con l'insorgere di possibili questioni ove il reo fosse "trattenuto". L'ultima notazione sul comma 2 riguarda la menzione, anche qui, come nel comma 1, dei delitti tentati accanto a quelli consumati, menzione che, pur nel mancato riferimento a tale categoria di delitti ad opera della lett. b) direttiva 32, appare legittima per il riferimento agli "altri... delitti" in essa contenuto e che richiama la locuzione "delitti consumati o tentati....", di cui alla lett. a). Del resto l'esplicita indicazione dei delitti tentati e' resa necessaria dall'autonomia di tale figura rispetto all'ipotesi tipica, con la conseguenza che, quando la legge fa riferimento a quest'ultima, l'estensione alla prima puo' avvenire solo avuto riguardo alla materia disciplinata dalla legge e l'estensione non sarebbe nella specie consentita trattandosi di disposizione che introduce limitazioni alla liberta' personale. Il comma 3 disciplina l'ipotesi in cui l'arresto riguardi un delitto punibile a querela, situazione che puo' ricorrere solo per i casi previsti dalla lett. e) quando si verificano le condizioni di cui all'art. 649 c.p. Con riferimento alle disposizioni dell'art. 378, la Commissione ha ampiamente dibattuto sulla opportunita' di ricorrere alla elencazione di reati poi proposta e che certamente, non risponde a criteri di una buona tecnica legislativa. Va rilevato peraltro che l'elencazione consegue, di fatto, alla eccessiva restrizione dei casi di arresto obbligatorio in flagranza previsti dalla legge-delega nella lett. a) della direttiva 32 (e poi trasfusi nel comma 1 dell'art. 377). Il ricorso all'elencazione infatti sarebbe stato evitato o comunque sensibilmente ridotto ove la direttiva 32 avesse previsto, alla lett. a), la possibilita' di procedere all'arresto obbligatorio in flagranza per "i delitti... punibili con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a venti..." anziche', come ha fatto, "punibili con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti". L'articolo 379 disciplina l'arresto facoltativo ed il comma 1 ha riferimento alla prima delle due ipotesi considerate dalla direttiva 32 della legge-delega che prevede la "facolta' della polizia giudiziaria di procedere all'arresto in flagranza solo se la misura e' giustificata dalla gravita' o dalle circostanze del fatto o dalla pericolosita' del soggetto, relativamente a delitti punibili con la reclusione superiore nel massimo a tre anni". Riservando ad un secondo momento l'analisi degli indici dei quali la polizia giudiziaria deve tener conto nell'esercizio della facolta' di arresto, e' qui da notare che nella prima figura di arresto facoltativo e' stato introdotto, nessun ostacolo a cio' derivando dalla delega, il riferimento anche ai delitti colposi, sia pur sanzionati con pena superiore a quella prevista per i dolosi ed indicata nella reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, misura che e' stata individuata tenendo anche conto della sanzione comminata per talune fattispecie di delitto colposo (artt. 449 e 452 c.p.). Il comma 2 articola la seconda ipotesi di arresto facoltativo, prevista dalla legge-delega "solo per alcuni reati di particolare gravita', tassativamente indicati" con riferimento "anche a delitti punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni". Anche qui, come gia' avveniva per la seconda ipotesi di arresto obbligatorio ove la predeterminazione dei delitti doveva esser configurata in rapporto a "speciali esigenze di tutela della collettivita'", la tassativa indicazione della fattispecie deve collegarsi ad un parametro che la direttiva descrive in termini di "particolare gravita'", parametro che deve aver riguardo alla "qualita' del reato" poiche' la pena edittale, per la sua misura standard, e' inidonea a fondare un criterio di diversificata gravita'. L'individuazione delle concrete ipotesi di arresto e' stata, cosi', operata avendo riguardo, da un lato, all'esclusione di certi reati dall'ambito di applicazione dei provvedimenti di amnistia, come in quelle previste dalle lett. a ), b ), d), (negli ultimi due casi e' esclusa anche la depenalizzazione), mentre negli altri casi si e' utilizzato il criterio della avvertita sensibile gravita' del reato anche in rapporto alla necessita' di interrompere l'attivita' criminosa (si pensi al danneggiamento, ai furti, alle truffe, alle corruzioni di minorenni). Rimangono, ora, da illustrare gli indici dei quali la polizia giudiziaria deve tener conto nell'esercizio della facolta' di arresto e che formano oggetto del comma 4. Anzitutto, in precisa attuazione della direttiva 32, i parametri della gravita' del reato o della pericolosita' del soggetto sono stati riferiti sia all'ipotesi "generale" che a quella "eccezionale" di arresto facoltativo. Nell'articolato si e' altresi' fornito di un contenuto concreto il riferimento alla pericolosita' precisando che i dati dai quali essa deve esser desunta consistono nella personalita' del soggetto o nelle circostanze del fatto. Se, dunque, i criteri ora cennati concernono entrambe le ipotesi di arresto facoltativo in flagranza, per la seconda (comma 2) si e' ritenuto di dover introdurre, per l'esercizio della relativa facolta', un ulteriore presupposto, identificato nella "necessita' di interrompere l'attivita' criminosa", condizione che trova il suo precedente nell'art. 388 comma 2 del Progetto preliminare del 1978 e che vale a connotare di un ulteriore elemento di specificita' le ipotesi di arresto facoltativo "eccezionale". L'articolo 380 definisce lo stato di flagranza con una formula che elimina la rilevata "ambiguita'" della locuzione "E' flagrante il reato che si commette attualmente" usata dal vigente art. 237 c.p.p., centrando la definizione sul concetto di sorpresa; unifica le ipotesi di flagranza in considerazione degli effetti che ne conseguono e restringe la possibilita' di interpretazioni estensive cui potevano dar luogo le espressioni "immediatamente dopo il reato" e "abbia commesso poco prima il reato", contenute nell'art. 237 c.p.p.. Nella nuova formulazione, infatti, si fa riferimento all'inseguimento effettuato "subito dopo" il reato ed alla sorpresa del reo con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato "immediatamente prima". La facolta' di arresto da parte dei privati e' regolata dall'articolo 381. Si e' ritenuto, dopo approfondita discussione, di mantenere l'istituto, considerato, del resto, costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 89 del 1970. Essendosi operata, con l'art. 378, una notevole riduzione delle ipotesi di arresto obbligatorio, la previsione della facolta' di arresto da parte del privato viene riferita a tutti i casi di obbligatorieta' dell'arresto da parte della polizia giudiziaria, purche', come prevede il vigente articolo 242 c.p.p., si tratti di delitti perseguibili di ufficio. L'articolo 382 prevede il fermo di indiziato di delitto, dando attuazione alla direttiva 32 della legge-delega nella parte in cui enuncia il principio "... al di fuori dei casi di flagranza, potere-dovere della polizia giudiziaria di fermare e del pubblico ministero di disporre il fermo di colui che e' fortemente indiziato di gravi delitti quando vi e' fondato pericolo di fuga". Si e' ritenuto opportuno prevedere, anche in sintonia con quanto dispone l'art. 348 in tema di poteri della polizia giudiziaria, che il potere di fermo spetti in via principale all'organo che dirige le indagini - e cioe' al pubblico ministero - ed alla polizia giudiziaria prima che il pubblico ministero abbia assunto quella direzione (comma 2) ovvero nell'ipotesi di sopravvenute emergenze (comma 3) rappresentate dalla successiva individuazione dell'indiziato o dalla sopravvenienza di specifici elementi che rendono fondato il pericolo che costui stia per darsi alla fuga e non sia possibile, per l'urgenza, attendere il provvedimento del pubblico ministero. Quanto all'individuazione dei "gravi delitti" cui la direttiva 32 collega il potere-dovere di fermo, e' da ritenere, anzitutto, che l'indicazione tassativa dei casi eccezionali cui fa riferimento l'art. 13 Cost. deve ritenersi adempiuta anche mediante l'utilizzazione del criterio relativo alle pene minime e/o massime (qui individuate in quelle dell'ergastolo e della reclusione "non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni") irrogabili per il reato. Si e' poi rilevato che se e' vero che sia il vigente art. 238 c.p.p. che il Progetto preliminare del 1978 si sono mossi secondo l'ottica di assegnare alle ipotesi di fermo un ambito piu' ristretto rispetto a quelle relative all'arresto in flagranza, ora pero' - eliminata la cattura automatica, ristretti notevolmente i casi di arresto obbligatorio, correlato il fermo al pericolo fondato di fuga - un tale orientamento potesse essere rivisto. In questa direzione si muove, infatti, l'articolato che, svincolando il concetto di "gravi delitti" dal riferimento necessario a speciali esigenze di tutela della collettivita', ritiene di poterlo individuare in base a parametri tratti dalle disposizioni in tema di misure cautelari. In particolare, nell'art. 274 comma 1 lett. b), l'esigenza cautelare connessa alla fuga od al suo concreto pericolo, emerge quando "il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione" e da cio' puo' dedursi la previsione del fermo quando per il delitto e' previsto un determinato minimo di pena irrogabile. Su un altro versante, poi, l'art. 303 (termini di durata massima della custodia cautelare) contiene molteplici disposizioni relative ai delitti punibili "con la pena della reclusione superiore nel massimo ad anni sei", criterio che, analogamente a quanto previsto dal vigente art. 238 c.p.p. e dall'art. 391 del Progetto preliminare del 1978, e' indicativo di gravita' del delitto. Accanto al parametro fondato sulla entita' della pena si e' fatto riferimento - come avviene nel vigente art. 238 c.p.p., ma con previsione piu' restrittiva - anche ai delitti concernenti le armi da guerra e gli esplosivi. E' infine da notare che al fine di esplicitare il concetto di "fondato pericolo di fuga" di cui alla direttiva 32, si e' previsto che esso deve essere desunto da "specifici elementi". L'articolo 383 prevede i casi di divieto di arresto o di fermo: la disposizione e' adeguatamente correlata con quella dell'art. 273 in tema di misure cautelari personali e, per il resto, riproduce la formulazione dell'art. 240 c.p.p. I doveri della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo sono regolati dall'articolo 384 in attuazione di quanto prevede la parte finale della direttiva 32: "obbligo della polizia giudiziaria... di porre a disposizione del pubblico ministero, al piu' presto, e comunque non oltre ventiquattro ore dall'arresto o dal fermo, le persone arrestate o fermate". I doveri che sono riferiti, cumulativamente, a tutti i soggetti che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, hanno i seguenti contenuti e cadenze: a) immediata notizia dell'arresto o del fermo al pubblico ministero del luogo ove la misura e' stata eseguita, secondo la rispettiva competenza per materia. Benche' la delega non preveda, con quello di porre a disposizione del pubblico ministero l'arrestato o il fermato, l'autonomo obbligo relativo alla comunicazione dell'arresto o del fermo, si e' ritenuto che anch'esso - del resto esplicitamente menzionato nell'art. 13 Cost. - debba essere disciplinato con la previsione del suo immediato adempimento, il che giovera', fra l'altro, ad accelerare l'adempimento delle formalita' connesse alla facolta' ed agli obblighi del pubblico ministero per il cui esercizio sono previsti termini assai ristretti; b) richiesta al pubblico ministero di provvedere alla nomina del difensore di ufficio, allorche' l'arrestato od il fermato, avvertito della relativa facolta', non abbia nominato quello di fiducia e salvi i casi previsti dall'art. 96 comma 3. La previsione da' attuazione alla direttiva 5 della delega e la riserva concerne i casi in cui la polizia giudiziaria ha necessita' di procedere ad atti cui il difensore ha diritto di assistere. E' sembrato infatti inopportuno che alla obbligatoria ed immediata nomina provvedesse sempre la polizia giudiziaria, pur quando la condotta del difensore poteva riguardare solo attivita' da compiere dinanzi alla autorita' giudiziaria; c) immediata informativa al difensore dell'avvenuto arresto o fermo; d) messa a disposizione del pubblico ministero, al piu' presto e comunque non oltre ventiquattro ore dall'arresto o dal fermo, dell'arrestato o del fermato, mediante la trasmissione del relativo verbale e sempre che non ricorra uno dei casi di "immediata liberazione". A proposito della "messa a disposizione" del pubblico ministero, si e' rilevato che essa non puo' essere individuata avendo riguardo al momento del trasferimento in carcere dell'arrestato o del fermato (anche la giurisprudenza ha assegnato natura meramente ordinatoria alla norma che concerne la traduzione in carcere) e si e' quindi ritenuto di doverla alla norma che concerne la traduzione in carcere) e si e' quindi ritenuto di doverla far coincidere con la trasmissione del verbale d'arresto o di fermo, il cui contenuto e' stato disciplinato nel comma 3, tenendo anche presente che l'apposizione del timbro di ricezione del verbale da parte dell'ufficio del pubblico ministero da' piena certezza del rispetto - o meno - del termine entro il quale deve avvenire la messa a disposizione; e) traduzione dell'arrestato o del fermato, al piu' presto e comunque non oltre le ventiquattro ore, nella casa circondariale o mandamentale del luogo ove la misura e' stata eseguita, con attribuzione al pubblico ministero (comma 5) del potere di disporre che il soggetto sia custodito, se infermo, presso la propria abitazione od in luogo di cura, ovvero, quando ne possa derivare grave pregiudizio per le indagini, presso altra casa circondariale o mandamentale. Nell'articolo 385 e' trasfusa la disciplina, introdotta con la l. 932/1969, dell'avviso dell'avvenuto arresto o fermo ai familiari, previo consenso dell'interessato. L'articolo 386 disciplina l'interrogatorio dell'arrestato o del fermato, previsto, in conformita' della direttiva 34, in termini di facolta'. La legge-delega prevede il " diritto del difensore di assistere all'interrogatorio ", ma, come emerge dai lavori preparatori, la previsione non sta a rendere obbligatoria la partecipazione del difensore all'atto, bensi' ad eliminare l'impressione che potesse trattarsi di una " facoltativita' " dipendente da scelte del pubblico ministero. Nel comma 1, si e' previsto che il difensore debba essere tempestivamente avvisato dell'atto, evitando cosi' formule troppo rigide sui tempi dell'avviso, tanto piu' che l'impossibilita' di rispettare il termine " rigido " avrebbe sempre comportato il ricorso all'art. 363 che prevede l'omissione dell'avviso nelle ipotesi di assoluta urgenza. Poiche' le finalita' dell'interrogatorio debbono rinvenirsi sia nella funzione difensiva cui l'atto assolve, sia in quella della raccolta di elementi che " occorrono per le determinazioni inerenti all'esercizio della azione penale ", si e' ritenuto, in conformita' del resto con la delega, di non aggettivare l'interrogatorio come " sommario ", tenuti presenti anche i dubbi di compatibilita' con l'art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con l'art. 9 n. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che l'uso di quell'attributo aveva fatto sorgere. Nell'articolo 387 sono precisati i casi in cui il pubblico ministero o, prima dell'intervento di questi, l'ufficiale di polizia giudiziaria, deve procedere all'immediata liberazione dell'arrestato o del fermato. Nella redazione della norma si e' adottata la formula " fuori dei casi previsti dalla legge ", ritenuta comprensiva di qualsiasi ipotesi di illegittima privazione della liberta' personale: puo' cioe' trattarsi di misura vietata in via assoluta, come nel caso in cui difettino i presupposti di legittimita' in relazione, ad esempio, al titolo del reato od ai limiti di pena, ovvero di casi di difetto o di errata valutazione delle concrete condizioni richieste per l'adozione della misura. Fra i casi di immediata liberazione e' compreso quello in cui la misura e' divenuta inefficace per la mancata presentazione dell'arrestato o del fermato al giudice nel termine previsto (art. 388 comma 3). L'articolo 388 disciplina la presentazione dell'arrestato o del fermato al giudice prevedendo che il pubblico ministero debba porre il soggetto a disposizione del giudice richiedendo la decisione sulla convalida, entro quarantotto ore dall'arresto o dal fermo. E' dunque la richiesta della decisione sulla convalida (che deve intervenire nel termine ora ricordato) che assolve l'obbligo - prescritto dalla direttiva 34 - di " porre a disposizione del giudice, per la decisione sulla convalida, l'arrestato o il fermato entro quarantotto ore dall'arresto o dal fermo ". Il giudice, poi, deve fissare l'udienza di convalida, al piu' presto e comunque entro le quarantotto ore successive e compete al pubblico ministero dare avviso dell'udienza, senza ritardo, al difensore e disporre la traduzione dell'arrestato o del fermato detenuto. Alla mancata presentazione, nei termini prescritti, da parte del pubblico ministero, consegue l'inefficacia della misura, sanzione, questa, che e' stata prevista quale sviluppo della prescrizione contenuta nell'art. 13 Cost. L'articolo 389 disciplina l'udienza di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari, prevedendo, anzitutto, la sua non pubblicita'. Le " garanzie di assistenza difensiva nel giudizio sulla convalida " di cui e' menzione nella direttiva 34, sono assicurate mediante la previsione che, nell'ipotesi di mancata reperibilita' o comparizione del difensore di fiducia o di ufficio, il giudice designi un altro difensore immediatamente reperibile secondo la procedura prevista dall'art. 96 comma 4 e a tale difensore, ove ne faccia richiesta, possa essere concesso un termine. L'udienza si svolge attraverso l'indicazione, da parte del pubblico ministero, dei motivi dell'arresto o del fermo e la presentazione delle richieste in ordine alla liberta' personale. Vengono poi sentiti l'imputato o il fermato ed il difensore, ovvero solo quest'ultimo quando l'arrestato o il fermato non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire all'udienza. Il giudice provvede alla convalida con ordinanza, alla duplice condizione che l'arresto o il fermo sia stato legittimamente eseguito e siano stati osservati i termini previsti dagli artt. 384 e 388. Se ricorrono le condizioni di applicabilita' delle misure cautelari personali e le esigenze cautelari previste, rispettivamente, dagli artt. 273 e 274, il giudice, con il provvedimento di convalida, ordina la conversione dell'arresto o del fermo in una delle misure di coercizione previste dalla legge. Il comma 5 prevede espressamente la convertibilita', in una misura di coercizione, anche dell'arresto facoltativo a norma dell'art. 379 comma 2 in ordine a delitti punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni, e cio' benche' l'art. 280 disponga che le misure coercitive " possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ". L'apparente discrasia fra le direttive 32 e 59, la cui applicazione letterale avrebbe comportato che l'arresto eseguito ai sensi dell'art. 378 comma 2 sarebbe stato convalidabile ma non convertibile, e' stata superata riconoscendo carattere di specialita', rispetto alla direttiva 59, alla direttiva 32 e ritenendo che questa fosse pertanto frutto della scelta del legislatore di consentire la conversione, in una delle misure di coercizione, anche per quelle ipotesi delittuose per le quali tali misure non potrebbero essere autonomamente disposte. Ove l'arresto o il fermo non sia convalidato il giudice deve disporre la liberazione del soggetto. E' infine prevista (comma 7) la cessazione di efficacia dell'arresto o del fermo ove il giudice non decida sulla convalida e l'eventuale conversione nelle quarantotto ore successive al momento in cui l'arrestato o il fermato e' stato posto a sua disposizione. TITOLO VII INCIDENTE PROBATORIO Premessa. L'" incidente probatorio " e' tra gli istituti che arrecano maggiore novita' all'impianto processuale penale delineato dalla legge-delega del 1987. La sua ratio e' intimamente connessa con il nuovo modello di processo penale, scaturito proprio dai rilievi critici che aveva suscitato la previsione, nella legge-delega del 1974, di una fase di " atti di istruzione " che, dopo le indagini preliminari del pubblico ministero, il giudice istruttore era chiamato a compiere per decidere se prosciogliere o rinviare a giudizio l'imputato, con il solo limite che si trattasse di accertamenti generici, di atti non rinviabili al dibattimento e di prove utili per l'immediato proscioglimento dell'imputato (direttiva 42 legge-delega 1974). Quella critica, ritornata in modo insistente anche nei lavori preparatori della nuova legge-delega (v. Camera, Relazione on. Martinazzoli-Sabbatini al d.d.l. n. 691, 21 ottobre 1983, direttiva 40; Camera, int. on. Casini Aula 26 giugno 1984; ivi, on. Rizzo; ivi, on. De Luca, 1 giugno 1984; ivi, on. Gargani 26 giugno 1984; Senato, Relazione per l'Aula sen. Coco 18 novembre 1986; Senato, int. sen. Vassalli, Aula, 19 novembre 1986; ivi, sen. Ricci, 19 novembre 1986; ivi, sen. De Cataldo 19 novembre 1986; ivi, sen. Gallo, 20 novembre 1986; ivi, sen. Coco, 20 novembre 1986; Camera, Commissione Giustizia, on. Casini, res. somm., 26 novembre 1986; ivi, on. Macis res. somm., 27 gennaio 1987; Camera, Relazione per l'Aula, on. Casini, 29 gennaio 1987) determino' l'articolarsi delle linee essenziali dell'incidente probatorio. La previsione che le indagini preliminari del pubblico ministero dovessero essere contenute nel termine " perentorio " di 30 giorni dalla notizia di reato e che a queste, fuori dei casi di giudizio immediato, dovesse succedere una fase di atti di istruzione dilatabile in un arco temporale di tredici mesi faceva fondatamente paventare il riprodursi di una fase istruttoria del tutto simile all'attuale istruzione formale. Ne' il limite cronologico - gia' di per se' ampio - ne' la specificazione che in tale fase si potessero compiere solo determinati atti potevano impedire che di fatto si tornasse a una attivita' istruttoria organicamente concepita come formazione esaustiva della prova: in tale senso, tra l'altro, non poteva non spingere la previsione che - piu' o meno come nel sistema vigente - in tale fase fossero da acquisire le prove necessarie per decidere se l'imputato dovesse essere prosciolto o rinviato a giudizio. Tutto cio', in definitiva, faceva cogliere che ne usciva largamente compromesso il proposito di costruire il nuovo processo penale secondo il sistema accusatorio, e cioe', in concreto, destinando le indagini preliminari all'attivita' di investigazione e riservando la formazione della prova al giudizio. Su queste linee si e' pertanto incanalata la elaborazione della nuova legge-delega. Al tempo stesso, peraltro, ci si e' dovuti far carico di un'esigenza insopprimibile, vale a dire quella di congegnare un meccanismo processuale idoneo ad evitare, durante le indagini preliminari, " il rischio di dispersione di prove non rinviabili al dibattimento " (Camera, Relazione Martinazzoli - Sabbatini, cit.). Di qui il nuovo istituto dell'incidente probatorio, che per l'appunto consente che, durante il tempo necessario per l'espletamento dell'investigazione, si anticipino i meccanismi dibattimentali di acquisizione probatoria quando sia necessario assumere subito una prova, pena la sua dispersione. Il sistema delineato nel Progetto tiene conto delle preoccupazioni avanzate con riferimento al pericolo che il meccanismo dell'incidente probatorio potesse prestarsi - in linea di fatto - a riprodurre lo schema e gli inconvenienti tipici della istruzione formale: in particolare, mediante un suo impiego eccessivamente dilatato da parte del pubblico ministero, intenzionato a precostituirsi fin dalla fase preliminare la maggior parte delle prove destinate a essere utilizzate nel dibattimento. A tale pericolo si e' ritenuto di ovviare accogliendo, nell'individuazione degli " atti non rinviabili " al dibattimento (e quindi assumibili con l'incidente probatorio), criteri sufficientemente rigidi che evitassero l'attribuzione al giudice di margini troppo ampi di discrezionalita' sulla valutazione della ammissibilita' delle richieste. La rigida determinazione dell'area di operativita' dell'incidente probatorio presenta l'ulteriore e non meno rilevante vantaggio di restringere anche il pericolo di un uso distorto e strumentale dell'istituto da parte dei difensori: finalizzato, stavolta, alla conoscenza degli elementi acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Il vaglio di ammissibilita' del giudice e la rigida determinazione degli " atti non rinviabili al dibattimento " fanno apparire remota la possibilita' di abusi sistematici di un istituto che, sotto altro aspetto, e' stato " costruito " prevedendo il rigoroso rispetto dei principi del contraddittorio (artt. 396 comma 3, 398, 399 e 401) ed evitando, quindi, il ricorso a procedure ibride che avrebbero potuto trascinare nel nuovo processo i metodi e la mentalita' dell'attuale istruzione inquisitoria. La scelta rispetta pienamente la volonta' del legislatore delegante che, prima di pervenire alla formulazione della direttiva 40, s'era gia' fatto carico dei pericoli che per la speditezza, la segretezza e il corretto svolgimento delle indagini potevano discendere, specie nei processi contro la criminalita' organizzata, dalla partecipazione dell'imputato e dei difensori al compimento degli " atti non rinviabili ". E, in proposito, aveva respinto (v. Relazione per l'aula sen. Coco 18 novembre 1986; int. sen. Coco 20 novembre 1986) le proposte privilegianti il " contraddittorio differito " o il ricorso ad altre modalita' di compimento degli atti (quali ad esempio quelle gia' suggerite dalla Commissione ministeriale) attente a impedire pericoli di inquinamento probatorio. L'assunzione anticipata della prova non rinviabile alla fisiologica sede dibattimentale ha reso pero' necessaria la predisposizione di un sistema che, accanto alla garanzia delle posizioni di tutti i soggetti interessati, scongiurasse sotto altro aspetto, un pletorico intervento di persone a vario titolo coinvolte nell'indagine, ma sostanzialmente " terze " rispetto all'oggetto della prova da assumere. Assieme, quindi, a un articolato meccanismo di garanzie mutuato dalla fase del dibattimento, si e' evitato il richiamo alla integralita' delle norme previste per tale fase che, sistematicamente, mal si sarebbero conciliate con un istituto destinato ad operare in uno stadio pre-processuale. Illustrazione degli articoli. Nel prevedere l'incidente probatorio come atto di formazione della prova in via anticipata rispetto al dibattimento, con le medesime forme che valgono per questo e quindi con l'intervento del giudice delle indagini preliminari, la legge-delega ha dettato direttive specifiche e dettagliate, che vincolano in modo rigoroso il legislatore delegato. Nell'articolo 390 si sono tipizzate le ipotesi nelle quali sono da ravvisare i requisiti del concetto di " atto non rinviabile al dibattimento " formulato dalla legge-delega. Si e' ritenuto di dover passare da una enunciazione generica alla enucleazione di specifiche ipotesi proprio per adempiere alla prescrizione del legislatore delegante, scongiurando cosi' - nei limiti possibili - il pericolo che l'uso dell'istituto esorbiti dall'eccezionalita'. A tal fine si sono individuati essenzialmente quattro tipi di situazioni in cui le diverse figure di atti individuate dalla legge-delega (testimonianza, esame dell'indiziato, confronto, ricognizione, esperimento giudiziale e perizia) risultano non rinviabili al dibattimento: la prova che, se differita al dibattimento, vedrebbe sopravvenire l'impossibilita' di essere acquisita (e' il caso tradizionale della testimonianza a futura memoria, recepita nella lett. a del comma 1 e, per l'esame dell'indiziato sul fatto altrui, il confronto e la ricognizione, nelle lett. b, c, d); la prova esposta a inquinamento (lett. b, nonche' c, d); la prova esposta a modificazione dell'oggetto su cui essa deve vertere (lett. e, f); la prova le cui attivita' di acquisizione non sono compatibili con la concentrazione dibattimentale (e' il caso della perizia di cui al comma 2). Nell'articolo 391 e' stabilito che la richiesta di incidente probatorio deve contenere le indicazioni indispensabili perche' il giudice possa motivatamente accoglierla o rigettarla. Il comma 4, inoltre, disciplina i rapporti tra richiesta di incidente probatorio e richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari, consentendo che la seconda possa essere presentata funzionalmente alla prima solo in limiti che garantiscano che l'incidente probatorio non sia chiesto in un momento e in un modo che lo rendano essenzialmente finalizzato a procrastinare pretestuosamente la chiusura delle indagini preliminari. Nell'articolo 392 si e' previsto per l'offeso dal reato (a cui la legge-delega non riconosce la legittimazione a chiedere l'incidente probatorio) la possibilita' di stimolare il pubblico ministero alla richiesta. L'articolo 393, nel disciplinare le formalita' della richiesta, pone a carico del richiedente - per ragioni di semplificazione del rito e di speditezza - l'onere di informarne gli altri soggetti. Alle medesime finalita' e' informato l'articolo 394: per rendere snello e celere l'espletamento dell'incidente probatorio, si e' previsto un contraddittorio mediante deduzioni scritte che i soggetti interessati sono tenuti a svolgere in un termine anteriore al provvedimento del giudice sulla sua ammissione. Nell'articolo 395 e' disciplinato il differimento che il pubblico ministero puo' chiedere quando dall'immediato espletamento dell'incidente probatorio potrebbe derivare pregiudizio per determinate indagini. La stessa legge-delega, peraltro, si e' premurata di stabilire che il differimento non pregiudichi l'assunzione della prova chiesta dall'indiziato, facendo prevalere questo interesse su quello di tutela delle indagini del pubblico ministero. Sulla base di queste direttive e' pertanto stabilito che nel chiedere il differimento, il pubblico ministero specifichi gli atti di indagine che sarebbero pregiudicati dall'immediato svolgimento dell'incidente probatorio (comma 2); e che il giudice, nell'accogliere la richiesta, differisca l'incidente probatorio per il tempo strettamente necessario. L'articolo 396, nel prevedere il provvedimento che decide sulla richiesta, prescrive che il giudice, quando ammette l'incidente probatorio, ne stabilisca anche i confini, con riguardo sia all'oggetto che ai soggetti che possano parteciparvi. Nella medesima disposizione e' anche prescritto che il giudice, nel dare tali statuizioni, deve mantenersi nei confini tracciati dalle richieste e deduzioni del pubblico ministero e dell'indiziato, in omaggio alla regola generale (che riguardo a tale istituto non puo' patire eccezioni, come avviene invece nel dibattimento) per cui l'iniziativa probatoria e' riservata alle parti. L'articolo 397 si fa carico del fatto che oggetto dell'incidente probatorio e' una prova la cui assunzione puo' presentarsi frequentemente di particolare o assoluta urgenza e pertanto conferisce al giudice il potere di ridurre i termini del rito nella misura necessaria. La disciplina dell'udienza per l'incidente probatorio e' contenuta nell'articolo 398. Tale udienza riproduce le forme dibattimentali, con due eccezioni fondamentali: la non pubblicita' e la possibilita' per l'indiziato e l'offeso dal reato di assistervi di persona solo dietro autorizzazione del giudice, salvo che si tratti di testimonianza o esame dell'indiziato. E' inoltre stabilito che nell'udienza non possono essere oggetto di trattazione o di nuovi provvedimenti le questioni relative all'ammissibilita' e fondatezza della richiesta di incidente probatorio, e cio' al fine di evitare una dilatazione dell'udienza al di la' della sua funzione di assunzione in via eccezionale della prova. Nel comma 6 si e' poi stabilito che l'attivita' probatoria non puo' essere estesa a fatti concernenti persone diverse da quelle i cui difensori sono presenti e si e' sancito il divieto di verbalizzare e comunque utilizzare dichiarazioni concernenti le dette persone. Tale limite puo' essere superato solo ricorrendo al meccanismo previsto dall'articolo 399 per l'estensione dell'incidente probatorio, che ha la funzione di soddisfare la duplice esigenza di compiuta formazione della prova e di salvaguardia, al tempo stesso, dei diritti di difesa delle persone interessate. L'articolo 400 stabilisce le regole dell'utilizzabilita' delle prove assunte con l'incidente probatorio. Mentre per il giudizio e' previsto il limite soggettivo segnato dai soggetti che hanno partecipato all'incidente (comma 1), tale limite non opera con riguardo ai provvedimenti da adottare nel corso delle indagini preliminari, in sede di chiusura delle stesse, nell'udienza preliminare o nel giudizio abbreviato. La ragione di cio' sta nel fatto che per tali provvedimenti sono utilizzabili atti meno "garantiti" dell'incidente probatorio, cosi' che sarebbe risultata ingiustificata (e anzi irrazionale) una inutilizzabilita' di quest'ultimo. Nel medesimo ordine di idee si inscrive, poi, la previsione dell'articolo 401, che esclude l'efficacia della prova nei confronti del danneggiato dal reato che non sia stato posto in grado di partecipare all'incidente probatorio. TITOLO VIII CHIUSURA DELLE INDAGINI PRELIMINARI Le disposizioni contenute nel titolo VIII descrivono il procedimento di chiusura delle indagini preliminari cosi' da offrire all'interprete un catalogo degli epiloghi previsti per l'attivita' del pubblico ministero, accompagnato peraltro dalla sola disciplina degli esiti che non si traducono nell'inizio dell'azione penale. Mentre infatti l'archiviazione della notizia di reato e i rimedi contro l'inerzia del pubblico ministero sono regolati dalle norme racchiuse nel presente titolo, la normativa sulle diverse attivita' processuali che prendono avvio a seguito della formulazione dell'imputazione trova posto in altre parti del Progetto, nello stesso libro V (v. titolo IX: Udienza preliminare) ovvero nel libro VI dedicato ai processi condotti secondo un rito contratto e differenziato rispetto a quello "ordinario" (Procedimenti speciali). Anche sul piano sistematico ne deriva percio' una netta scansione tra il procedimento, che si articola nelle indagini preliminari, e il processo, che nasce quando il pubblico ministero imbocca la strada della formulazione dell'accusa rendendo ineludibile la pronuncia giurisdizionale. Di questa scansione si trova traccia nel disposto dell'articolo 402 comma 1 che fissa in termini inquivocabili l'alternativa tra archiviazione e inizio dell'azione penale seguendo le direttive contenute nella direttiva 48 della legge-delega. Escluso cosi' che possa riproporsi qualsiasi disputa di carattere teorico sulla natura del provvedimento di archiviazione, decisamente collocato fuori dell'area della giurisdizionalita', risulta altrettanto chiaramente dalla norma in esame che sono forme di inizio dell'azione penale non solo la richiesta di rinvio a giudizio, rivolta al giudice per le indagini preliminari, ma anche la richiesta di applicazione di pena a norma dell'art. 439 (c.d. patteggiamento), la presentazione dell'imputato o la sua citazione per il giudizio direttissimo (artt. 443 e 444), la richiesta di giudizio immediato (art. 447) e, infine, la richiesta di decreto penale di condanna (art. 453). E' omesso il solo richiamo del giudizio abbreviato, non certo perche' la sua instaurazione prescinda dall'azione penale, ma semplicemente in ragione della superfluita' di un rinvio ad una forma processuale che, essendo incardinata nell'udienza preliminare (art. 434), vede tra i suoi presupposti la richiesta di rinvio a giudizio, cioe' l'atto tipico con il quale viene dato avvio al periodo propriamente processuale. Il comma 2 dell'art. 402 stabilisce il termine di durata delle indagini preliminari facendolo decorrere dalla data di iscrizione del nome della persona cui e' attribuito il reato nel registro previsto dall'art. 335. Il rapporto tra la disposizione in esame e il regime delle proroghe delineato nell'art. 403 lascia intendere che il termine di sei mesi e' quello ordinario, come risulta del resto nitidamente dalla direttiva 48 della legge-delega. La ratio del comma 3 e' evidente: soltanto dal momento in cui, a seguito della rimozione dell'ostacolo al promovimento dell'azione penale, l'attivita' del pubblico ministero puo' considerarsi utiliter gesta, e' legittimo ritenere operante un termine dettato in vista dello svolgimento di una fase procedimentale il cui scopo e' quello di verificare se sussistono gli elementi sufficienti per formulare l'accusa e dar vita al processo. La disciplina delle proroghe, assai dettagliata nella direttiva 48 delle legge-delega, ha richiesto alcune messe a punto concettuali e d'ordine sistematico al fine di rendere piu' funzionale il congegno del controllo giurisdizionale sui tempi delle indagini (articolo 403). Si e' anzitutto stabilito un principio di gradualita' nelle cause che possono determinare la proroga dell'attivita' del pubblico ministero. Mentre il provvedimento che autorizza per la prima volta il pubblico ministero a superare il termine di sei mesi, puo' essere motivato da una pluralita' di ragioni riconducibili al concetto elastico di "giusta causa", le proroghe successive debbono ancorarsi a parametri definiti in modo piu' rigoroso e stringente ("particolari complessita' delle indagini" ovvero "oggettiva impossibilita' di concluderle"). Quanto poi alle forme in cui viene compiuto il controllo, si e' pensato di prevedere, accanto ad una decisione in camera di consiglio prima della quale il contraddittorio e' garantito dal diritto delle "parti" di presentare memorie (art. 403 comma 3), una udienza modellata secondo le linee dell'art. 126 che assicura la presenza delle "parti" senza peraltro richiedere tutto quel complesso di formalita' e di adempimenti che sono tipici della udienza preliminare (artt.413 - 417). In altre parole, si e' ritenuto di interpretare il richiamo all'"udienza preliminare", contenuto nella direttiva 48 della legge-delega, come riferimento ad un rito piu' garantito di quello esperibile nei casi in cui il giudice ritenga manifestamente giustificata la richiesta di proroga presentata dal pubblico ministero, senza con cio' intendere l'impegno ad una disciplina piu' garantistica come vincolo a riprodurre tutti i meccanismi dell'udienza preliminare. Del resto che, al di la' della nomenclatura, la legge-delega non abbia voluto riferirsi all'istituto di cui alla direttiva 52, e' dimostrato dallo stesso contesto della direttiva 48 nel quale, subito dopo l'udienza preliminare introdotta dal giudice ex officio quando non ritiene di concedere la proroga dopo aver "sentite le parti", si indicano gli epiloghi delle indagini nella alternativa tra richiesta di archiviazione e richiesta di udienza preliminare "formulata l'imputazione". Solo in questa seconda accezione l'istituto e' designato nella sua funzione tipica di filtro dell'accusa contestata dal pubblico ministero, mentre nell'ambito della disciplina della proroga non puo' rivestire l'identica portata operativa poiche' al giudice delle indagini preliminari non e' consentito di formulare l'imputazione quando il pubblico ministero manifesta la volonta' di proseguire le indagini per acquisire gli elementi di cui ritiene di doversi avvalere al fine di esercitare l'azione penale. Al riguardo, il comma 6 dell'art. 403 enuncia chiaramente gli epiloghi della udienza di proroga nell'ambito della dicotomia rigetto della richiesta/autorizzazione a proseguire le indagini, mentre l'ultimo comma del medesimo articolo lascia intendere che, in caso di rigetto della richiesta, il pubblico ministero e' tenuto a prendere posizione chiedendo l'archiviazione o il rinvio a giudizio. Il tema della durata massima delle indagini ha impegnato il lavoro della Commissione su due piani. Anzitutto, e' stato necessario dare attuazione alla parte della direttiva 48 della legge-delega nella quale il limite massimo e' fissato in due anni in relazione ai "processi per criminalita' organizzata e in ipotesi eccezionali specificamente indicate". In proposito i criteri cui si ispira la disciplina tracciata nel comma 2 dell'articolo 404 sono agevolmente desumibili dal tenore letterale delle disposizioni: gravita' e allarme sociale di alcune ipotesi criminose in cui si profila la struttura associativa (lett. a); maxi-indagini sia dal punto di vista dell'estensione oggettiva e soggettiva dell'accertamento, sia con riguardo all'elevato numero delle persone offese (lett. b); necessita' di compiere atti fuori del territorio dello Stato (lett. c); esigenza di mantenere il collegamento tra piu' uffici del pubblico ministero nei casi in cui sia stato instaurato un modus procedendi che postula una continuita' di rapporti tra i magistrati impegnati nelle indagini (lett. d). Ancora piu' delicato e' sembrato il problema della efficacia degli atti compiuti dal pubblico ministero dopo la scadenza del termine massimo di durata delle indagini, stabilito dalla legge o risultante dal provvedimento di proroga del giudice. E' bensi' vero che la direttiva 48 della legge-delega prevede la "inutilizzabilita' degli atti compiuti dal pubblico ministero oltre i termini stabiliti o prorogati", ma questa sanzione e' ricollegata espressamente alla omissione del deposito della richiesta dell'udienza preliminare cosi' da suscitare l'interrogativo circa la sorte degli atti compiuti eventualmente dallo stesso pubblico ministero dopo l'inizio dell'azione penale nei termini previsti dalla legge-delega. E poiche', da un lato, la direttiva 49 parla di "atti integrativi" di indagine per il periodo successivo al provvedimento che dispone il giudizio, e, dall'altro, non era possibile riprodurre l'art. 403 del Progetto 1978 che attribuiva al giudice dell'udienza preliminare il potere di compiere atti urgenti nel periodo intercorrente tra il deposito della richiesta del pubblico ministero e la data dell'udienza, la Commissione si e' trovata a dover scegliere tra la previsione del divieto di ogni indagine dopo la scadenza del termine e il conferimento al pubblico ministero di un potere di compiere atti non dissimili da quelli che la direttiva 49 definisce integrativi. L'orientamento in favore della seconda prospettiva si e' imposto non solo alla luce di esigenze di carattere pratico-operativo che hanno sconsigliato di creare un "periodo bianco" nel quale fosse vietato il compimento di qualsiasi atto, ma anche in considerazione della struttura del nuovo processo che non puo' negare alla parte pubblica il potere di compiere le investigazioni cui e' ovviamente legittimata, parallelamente, anche la parte privata. Questa scelta non si e' tradotta in una espressa formulazione normativa (v. invece art. 378 Progetto 1978), ma puo' desumersi sia dal tenore letterale dell'art. 404 ultimo comma, sia, e ancor piu' chiaramente, dall'art. 416 comma 3 che fa riferimento "alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio". La disciplina dell'archiviazione per infondatezza della notizia di reato (articoli 405, 406 e 407) ricalca le linee degli artt. 379 381 del Progetto del 1978 cui le direttive 50 e 51 della legge-delega mostrano del resto di aver attinto per definire i profili di fondo dell'istituto, anche con riguardo ai poteri dell'offeso dal reato. Va segnalato che con la richiesta di archiviazione il pubblico ministero deve depositare, a norma dell'art. 495 comma 1, il suo fascicolo con tutti gli atti acquisiti nel corso delle indagini (v. invece la diversa disciplina che si desume a contrario dall'art. 403 comma 3 quanto alla richiesta di proroga). L'eventuale udienza fissata dal giudice delle indagini preliminari, in caso di rigetto della richiesta del pubblico ministero, si svolge nelle forme del procedimento in camera di consiglio (art. 126). Per le ragioni gia' anticipate nella illustrazione dell'art. 403, la Commissione ha ritenuto che la locuzione "udienza preliminare" nelle direttive 50 e 51 non potesse essere interpretata come richiamo all'istituto delineato nella direttiva 52, il cui presupposto e' la formulazione dell'accusa. Nell'articolo 407 e' regolata piu' puntualmente l'iniziativa dell'offeso dal reato che si rivolge al giudice per sollecitare il proseguimento delle indagini. Si e' pensato di denominare il rimedio di cui si avvale l'offeso come "opposizione" per sottolineare piu' chiaramente la funzione dialetticamente contrapposta all'assunto del pubblico ministero che si e' espresso nel senso di non promuovere l'azione penale. L'articolo 408 estende la normativa dettata per i casi di manifesta infondatezza alle ipotesi di improcedibilita' ed estinzione del reato (v. gia' art. 382 Progetto 1978) nonche' alle situazioni in cui risulta che il fatto non e' previsto dalla legge come reato. Il provvedimento di archiviazione e' in questi casi subordinato all'evidenza della causa che lo giustifica ("senza necessita' di particolari indagini"). La previsione del termine massimo delle indagini, con la conseguente decadenza del pubblico ministero dal potere di presentare al giudice le richieste di cui agli artt. 402 e 404, ha posto il problema della tutela degli interessi pubblici e privati di fronte all'inerzia dell'organi dell'accusa. Respinta l'idea che il decorso del termine possa configurarsi come una vera e propria decadenza dall'azione penale, la Commissione ha ritenuto indispensabile prevedere un meccanismo capace di condurre le indagini al loro epilogo naturale. Sulla scia del Progetto del 1978 (cfr. artt. 384 e 386) e della legge-delega (cfr. direttiva 42), il congegno piu' appropriato e' sembrato l'avocazione disposta dal procuratore generale sia di propria iniziativa, sia a richiesta dell'indiziato o dell'offeso dal reato (articoli 409 e 410). Ad evitare, comunque, che l'istituto venga utilizzato al fine di aggirare il limite massimo per le indagini stabilito dalla legge, si e' previsto che il procuratore generale possa disporre di un termine non superiore a trenta giorni per compiere le indagini integrative necessarie a formulare le sue richieste. In tema di riapertura delle indagini l'articolo 411 stabilisce, in attuazione della direttiva 56 della legge-delega, che dopo il decreto di archiviazione - cui non viene riconosciuta una efficacia preclusiva analoga a quella della sentenza di non luogo a procedere (art. 430) -, il pubblico ministero debba rivolgersi al giudice per essere autorizzato ad investigare sui medesimi fatti e nei confronti della stessa persona. L'autorizzazione sara' concessa anche quando non siano emersi nuovi elementi e l'organo dell'accusa si limiti a prospettare al giudice un nuovo piano di indagine che puo' scaturire dalla diversa interpretazione degli elementi gia' acquisiti. L'articolo 412 disciplina l'archiviazione per le ipotesi di reato commesso da persone ignote prevedendo forme di controllo che possono assicurare il rispetto della obbligatorieta' dell'azione penale nei casi in cui il pubblico ministero non abbia adempiuto al dovere di procedere all'iscrizione del nome della persona indiziata nel registro previsto dall'art. 335, cosi' impedendo la decorrenza del termine stabilito dall'art. 402. TITOLO IX UDIENZA PRELIMINARE Premessa. Al tema dell'udienza preliminare la Commissione si e' dedicata con particolare impegno nella consapevolezza sia del rilievo centrale che spetta all'istituto nella struttura del nuovo processo, sia dell'esistenza di profili problematici che si prospettano nella messa a punto della disciplina normativa alla luce del complesso iter di elaborazione delle direttive della legge-delega riguardanti questo argomento. Escluso anzitutto l'impiego della nozione di udienza preliminare nelle situazioni in cui manca la formulazione dell'accusa (udienza di proroga delle indagini: art. 403; udienza per l'archiviazione: artt. 406 e 407), la Commissione ha ritenuto di scorgere nell'istituto delineato dalla direttiva 52 della legge una duplice ratio, di garanzia del diritto di difesa dell'imputato e, al tempo stesso, di economia processuale. Sul punto sono illuminanti gli orientamenti espressi dal Parlamento la' dove ha assegnato all'udienza preliminare il ruolo di "filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero" (v. Relazione Coco, Senato, p. 12) mettendone in luce la "funzione di decongestione del sistema" (v. Relazione Casini, Camera, p. 16). Il controllo giurisdizionale volto a delibare il fondamento dell'accusa non si traduce peraltro in un intervento cosi' penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell'esercizio della attivita' difensiva. Al riguardo la scelta fissata dalla legge-delega e' chiarissima: al giudice dell'udienza preliminare e' negato qualsiasi potere di iniziativa nella raccolta della prova, anche quello suppletivo e residuale che viene riconosciuto al giudice del dibattimento (direttiva 73). Si e' voluto porre "rimedio al pericolo della rinascita di un'attivita' istruttoria" (Relazione Casini, Camera, p. 16) accogliendo l'orientamento secondo cui, abolito il giudice istruttore, il giudice dell'udienza preliminare "e' privato di ogni potere o facolta' di istruzione" (Relazione Coco, Senato, p. 12). Preso atto della nuova dimensione strutturale e funzionale impressa dalla legge-delega all'istituto, gia' concepito come "udienza di smistamento" nel Progetto del 1978, la Commissione si e' sforzata di risolvere in modo coerente al sistema e rispettoso dei diritti delle parti il problema del supplemento istruttorio in sede di udienza preliminare. La legge-delega non ha trascurato di esprimersi sulla eventualita' di una situazione di stallo dovuta alla impossibilita' di decidere allo stato degli atti. Abbandonata l'idea che il giudice possa disporre l'assunzione degli atti indispensabili per la decisione (v. direttiva 48, testo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera il 15 luglio 1982), la direttiva 52 gli riconosce il potere di " rinviare ad altra udienza affinche' le parti forniscano ulteriori elementi ai fini della decisione ". Di qui un'alternativa nella delineazione del congegno operativo: l'integrazione probatoria e' da realizzarsi fuori udienza, per consentirne poi il rifluire davanti al giudice nella forma del verbale o deve formarsi nella sede giurisdizionale, sia pure con una tecnica diversa da quella del dibattimento cosi' da non creare quel pregiudizio di una formazione anticipata della prova che il Parlamento ha inteso escludere? Dopo un ampio dibattito, nel quale i sostenitori del modello della " udienza cartolare " hanno confrontato i loro argomenti con quelli avanzati da chi ha sottolineato l'imprescindibilita' di una elaborazione probatoria, sia pure eventuale e contratta, davanti al giudice, la Commissione ha deciso di privilegiare la seconda prospettiva per ragioni d'ordine sistematico allineate allo spirito e alla lettera della legge-delega. La tesi che colloca l'acquisizione degli " ulteriori elementi ai fini della decisione " fuori dell'udienza preliminare comporta una abnorme regressione da una fase propriamente processuale ad uno stadio preprocessuale qual e' quello delle indagini preliminari. Al pubblico ministero sarebbe consentito di assumere, ad esempio, una prova testimoniale nel segreto del suo ufficio per poi produrre il verbale al giudice dell'udienza preliminare che dovrebbe servirsene per la decisione. E l'imputato che intendesse far assumere la deposizione del testimone dalle cui dichiarazioni intende far emergere l'evidenza della non sussistenza del fatto, sarebbe costretto a chiederne l'audizione proprio a quel pubblico ministero che, nel corso delle indagini preliminari, potrebbe essersi rifiutato di sentirlo nonostante le reiterate richieste presentate dal difensore. Non si puo' del resto ritenere praticabile il ricorso all'incidente probatorio, i cui presupposti sono ben diversi da quelli che caratterizzano il " supplemento istruttorio " ai fini della decisione nell'udienza preliminare. Senza dire che, anche per questa via, si determinerebbe una regressione della fase giurisdizionale, segnata dall'inizio dell'azione penale, ad un momento procedimentale in cui gli interventi del giudice hanno un carattere puramente incidentale. La Commissione si e' percio' orientata verso una interpretazione della legge-delega capace di coniugare la garanzia del diritto alla prova, attribuito all'imputato dalla direttiva 69, e il principio di economia processuale, sotteso alla direttiva della semplificazione di cui alla direttiva 1, con l'abolizione della funzione inquisitoria del giudice della fase anteriore al dibattimento, voluta dal Parlamento per evitare l'attuale invadenza delle valutazioni istruttorie nella successiva fase del giudizio. Seguendo questo impianto costruttivo, la disciplina tracciata negli artt. 413 - 419 si incentra su un regime ordinario che vede l'udienza preliminare modellata come procedimento allo stato degli atti, cui puo' far seguito, eventualmente, un regime eccezionale imperniato su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una efficacia interna alla fase. Mentre nel regime ordinario l'iter procedurale richiama alla mente l'attuale procedimento incidentale di esecuzione, trattandosi essenzialmente di discutere i risultati delle indagini e il contenuto dei documenti prodotti dalle parti private (art. 418), il regime extra ordinem consente l'ingresso di testimonianze, consulenze tecniche e interrogatori di coimputati quando, sui temi nuovi o incompleti indicati dal giudice, il pubblico ministero o le parti private ne facciano richiesta e il giudice ritenga decisiva la prova ai fini della sua pronuncia (art. 419). Per evitare l'assimilazione dell'attivita' probatoria svolta in udienza a quella propria del dibattimento si e' disciplinata l'escussione della prova orale secondo una tecnica diversa dall'esame diretto. Poiche' il " supplemento istruttorio ", pur essendo introdotto dalla iniziativa delle parti, in assolvimento dei rispettivi oneri probatori, nasce dalla posizione del tema da parte del giudice, e' sembrato corretto attribuire a quest'ultimo il potere di condurre l'audizione o l'interrogatorio, salvo ovviamente il diritto delle parti di porre domande, ribaltando il regime tipico della fase dibattimentale. Conseguentemente la prova elaborata con questa modalita' non puo' essere utilizzata nel giudizio, per il suo carattere atipico rispetto alla regola dell'esame diretto che trova invece applicazione nell'incidente probatorio (art. 398 comma 5). La conferma di questo regime in tema di utilizzabilita' si ricava dall'art. 427 che non menziona il verbale dell'udienza preliminare nell'elenco degli atti che formano il fascicolo per il dibattimento. Illustrazione degli articoli. Nell'articolo 413 si prevede che, con la richiesta di rinvio a giudizio, il pubblico ministero debba depositare anche il suo fascicolo contenente l'intera documentazione degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria e dallo stesso pubblico ministero. Si realizza cosi', sostanzialmente, una anticipazione del deposito che la direttiva 57 della legge-delega ha previsto con riguardo alla fase dibattimentale. Un simile adempimento e' sembrato indispensabile al fine di rendere possibile all'imputato e al suo difensore di compiere le scelte nell'ambito delle diverse alternative poste dai cosiddetti riti differenziati. Solo prendendo visione di tutti gli elementi di prova acquisiti nelle indagini preliminari (v. art. 416 comma 2) l'imputato e' in grado di stabilire se sia conveniente, ai fini della sua difesa, rinunciare all'udienza preliminare (art. 416 comma 5), richiedere il giudizio abbreviato (art. 434) ovvero chiedere l'applicazione della pena o prestare il suo consenso a norma dell'art. 439. Tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio si era proposto di includere l'esposizione sintetica dei risultati conseguiti nelle indagini preliminari. Si e' preferito pero' non appesantire il lavoro del pubblico ministero con la previsione di un simile obbligo. L'articolo 414 si limita percio' a richiedere l'elencazione delle fonti di prova acquisite. Gli articoli 415 e 416 delineano la disciplina della fissazione dell'udienza preliminare e dei suoi atti introduttivi secondo uno schema che ricalca in gran parte le disposizioni degli artt. 401 e 402 del Progetto 1978. Come si e' gia' osservato sub art. 404, l'avviso comunicato al pubblico ministero menziona la facolta' di produrre la documentazione delle indagini che il pubblico ministero ha eventualmente compiuto dopo il deposito della richiesta (art. 416 comma 3). La Commissione ha confermato l'esclusione della pubblicita' relativamente all'udienza preliminare, come risulta chiaramente dal comma 1 dell'articolo 417 (" l'udienza si svolge in camera di consiglio ") (v. gia' la rubrica dell'art. 405 Progetto 1978: " svolgimento dell'udienza in camera di consiglio "). Rispetto alla legge-delega del 1974 risulta invece notevolmente rafforzata la garanzia della partecipazione dell'imputato, la cui mancata comparizione rende operanti gli stessi adempimenti previsti per la fase dibattimentale (cfr. la direttiva 82 della legge-delega nonche' l'art. 417 comma 4). L'articolo 418 descrive l'iter processuale ordinario dell'udienza nella quale il giudice decide allo stato degli atti. Esauriti gli accertamenti concernenti la costituzione delle parti l'imputato, che gode del diritto di non essere sottoposto all'interrogatorio come nella fase del giudizio, puo' chiedere di essere sentito. Come si e' gia' anticipato in sede di considerazioni generali sull'udienza preliminare, non si e' ritenuto opportuno, nell'assenza di specifiche direttive della legge-delega, introdurre la tecnica dell'esame diretto che avrebbe consacrato la piena efficacia probatoria dell'atto. All'eventuale interrogatorio dell'imputato seguono l'esposizione del pubblico ministero e le difese delle parti private. Gli argomenti e le conclusioni formulati nella discussione si fondano sugli atti depositati dal pubblico ministero o prodotti dallo stesso all'udienza nonche', ovviamente, sui documenti prodotti dalle parti private (art. 418 comma 3). Qualora non sia possibile decidere allo stato degli atti, si apre una nuova fase dell'udienza destinata ad acquisire " sommarie informazioni ai fini della decisione ". Con questa formula, deliberatamente riduttiva, si e' voluta designare l'attivita' probatoria eccezionalmente inserita nell'udienza preliminare a seguito della richiesta delle parti cui il giudice ha segnalato temi nuovi o incompleti (articolo 419). Si sono gia' illustrate piu' sopra (v. premessa) le ragioni che hanno indotto a dare spazio ad una limitata attivita' probatoria nell'udienza preliminare. Qui bastera' osservare che l'onere delle parti di " fornire gli elementi di prova ", secondo quanto richiesto dalla direttiva 52, e' puntualmente descritto nel comma 2 dell'art. 419 imperniato sulla distinzione tra prove a carico e prove a discarico. Quanto poi alla diversa nomenclatura impiegata nelle disposizioni in cui si parla di " ammissione di prove " e non di " elementi di prova ", val la pena di ricordare come proprio il Parlamento abbia ammonito il legislatore delegato a non recepire acriticamente il linguaggio della legge-delega nel settore attinente al fenomeno probatorio (v. Relazione Casini, Camera, p. 13, a proposito della distinzione tra " prova " e " fonte di prova "). Non si puo' evidentemente ignorare come, in una fase genuinamente giurisdizionale ove c'e' ormai pienezza di contraddittorio, gli espedienti lessicali volti a degradare il valore di cio' che si compie ai fini della decisione finisca con il disorientare piu' che aiutare l'interprete. E' sembrato percio' che, a far intendere l'efficacia interna alla fase propria degli atti compiuti nell'udienza preliminare, sia piu' idonea la tecnica di escussione probatoria, diversa da quella dibattimentale, che non invece la pura e semplice variante linguistica che ripudia il vocabolo "prova" nella sua pura e semplice valenza semantica. L'articolo 420 autorizza alcune ipotesi di modificazione dell'accusa sulla falsariga dell'art. 407 del Progetto del 1978, innovando per quanto attiene alla contestazione, demandata interamente al pubblico ministero. Anche la disciplina prevista per i casi di assenza dell'imputato, e' frutto di una messa a punto della Commissione che ha inteso semplificare la procedura dell'udienza. Quanto ai provvedimenti terminativi dell'udienza, gli articoli 421 e 422 riproducono quasi alla lettera la direttiva 52 della legge-delega. Preso atto dell'orientamento del legislatore delegante, preoccupato di sottolineare la portata puramente interlocutoria del provvedimento che dispone il giudizio, la Commissione non ha potuto peraltro fare a meno di rilevare quanto singolare sia, alla luce della nostra cultura processualistica, denominare "decreto" il provvedimento emesso da un giudice che si pronuncia nel contraddittorio delle parti, dopo l'inizio dell'azione penale. Ne deriva, tra l'altro, una certa dissonanza sul piano sistematico tenuto conto che si e' denominato "ordinanza" il provvedimento con il quale e' disposta l'archiviazione a seguito del procedimento in contraddittorio che si svolge in camera di consiglio (art. 406 comma 3). Nell'articolo 423 e' contenuta la normativa sulla condanna del querelante alle spese ed ai danni. Le disposizioni ricalcano le linee dell'art. 432 del Progetto del 1978 con alcune varianti imposte dalla nuova struttura del sistema. Il giudice collegiale competente a conoscere dall'appello proposto contro la sentenza di non luogo a procedere (v. direttiva 59 della legge-delega) e' stato individuato nella corte di appello (articolo 424), per ovvie ragioni di coerenza al principio ormai impostosi nel nostro ordinamento con la legge n. 400/1984. Del resto la legge-delega mostra chiaramente di aver voluto abolire la sezione istruttoria, lasciata cadere a seguito della eliminazione dell'istituto del giudice istruttore. Il comma 6 dell'art. 424 introduce il divieto della reformatio in peius in caso di appello del solo imputato, innovando rispetto al sistema vigente. Con il decreto che dispone il giudizio, il giudice dell'udienza preliminare deve fissare la data di comparizione dell'imputato davanti all'organo giurisdizionale competente per il dibattimento (articolo 425 comma 1 lett. f). Il provvedimento assume dunque la duplice funzione di atto di rinvio a giudizio, che attesta l'avvenuta verifica dei risultati delle indagini preliminari, e di decreto di citazione, atto introduttivo della ulteriore fase processuale. Sulla praticabilita' del congegno che attribuisce al giudice dell'udienza preliminare la facolta' di ingerirsi nel ruolo delle cause di competenza del giudice dibattimentale, si e' sollevata qualche riserva da parte di alcuni componenti della Commissione, preoccupati della eventualita' di continui rinvii dell'udienza disposti dal presidente del tribunale o della corte di assise a causa della pluralita' di processi fissati da diversi giudici nella stessa data (v. del resto, sul punto, quanto prevede l'art. 459). Si e' peraltro ritenuto che, almeno negli uffici giudiziari di piccole e medie dimensioni, il congegno previsto dall'art. 425 sia in pratica realizzabile e che i vantaggi da esso derivanti prevalgono sui possibili inconvenienti operativi. Nell'articolo 426 e' recepita la direttiva 49 della legge-delega in una formulazione letterale che ne riproduce quasi testualmente il contenuto. Sui rapporti tra atti integrativi di indagine, compiuti dopo il decreto che dispone il giudizio, ed investigazioni del pubblico ministero realizzate dopo il deposito della richiesta di rinvio a giudizio, v. sub art. 404. La formazione del fascicolo per il dibattimento (direttiva 57 leggedelega) e di quello del pubblico ministero (direttiva 58 legge-delega) e' regolata dagli articoli 427 e 429. Quanto al primo, sara' il giudice dell'udienza preliminare a compiere una selezione degli atti in suo possesso, seguendo le indicazioni contenute nella norma. Qualsiasi errore nella scelta degli atti non ripetibili puo' comunque essere rilevato dalle parti in sede di decisione delle questioni preliminari nella fase dibattimentale (art. 485 commi 4 e 5). Le regole per la formazione del secondo sono dettate dall'art. 429, ma assumono evidentemente minore rilievo poiche' il contenuto del fascicolo del pubblico ministero e' delineato dall'art. 413. Il diritto delle parti di prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nei due fascicoli e' sancito dall'art. 429, quanto al fascicolo del pubblico ministero, e dall'art. 460 per quello che viene trasmesso al giudice del dibattimento. TITOLO X REVOCA DELLA SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE Alla direttiva 56 della legge-delega e' stata data attuazione negli articoli 430 - 433. Il raffronto con l'art. 411, in tema di riapertura delle indagini dopo l'archiviazione lascia intendere, al di la' della formulazione letterale dell'articolo 430, come la sentenza di non luogo a procedere emessa nell'udienza preliminare sia assistita da una specifica efficacia preclusiva: non e' consentito dare avvio a nuove indagini fuori dei casi in cui sopravvengono o si scoprono nuove prove che, da sole o unitamente a quelle gia' acquisite, possono giustificare il rinvio a giudizio. In questo presupposto e nell'intervento del giudice, che decide sulla richiesta del pubblico ministero nel contraddittorio dell'indiziato o dell'imputato (articolo 431 comma 3), si integrano le "garanzie" cui fa riferimento la direttiva 56 della legge-delega. Una ulteriore garanzia, in senso lato, puo' desumersi dall'articolo 432 (comma 3) nel quale e' previsto un termine massimo di sei mesi per lo svolgimento delle nuove indagini, fuori dei casi in cui il pubblico ministero richieda, con la revoca della sentenza, il rinvio a giudizio dell'imputato avendo gia' acquisito aliunde ulteriori elementi di prova. LIBRO VI PROCEDIMENTI SPECIALI Il libro VI raggruppa i "procedimenti speciali" previsti dalla legge-delega. La specialita' va vista in relazione al procedimento ordinario per i reati di competenza del tribunale, che si sviluppa nella seguente sequenza: indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio di primo grado, impugnazioni (appello e ricorso per cassazione). Le deviazioni che nei procedimenti speciali si riscontrano rispetto al modello del procedimento ordinario tendono tutte a semplificare i meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme del giudizio dibattimentale. In particolare: il giudizio abbreviato (titolo I) consente di definire il procedimento di primo grado nell'udienza preliminare e prevede riduzioni dell'ambito dell'appello; l'applicazione della pena su richiesta delle parti (titolo II) determina un immediato epilogo processuale, che elimina anche l'appello; con il giudizio direttissimo (titolo III) ed il giudizio immediato (titolo IV) e' evitata l'udienza preliminare; il procedimento per decreto (titolo V) ha una struttura del tutto autonoma, gia' conosciuta peraltro dal codice vigente. Alcune differenze rispetto al modello ordinario sono collegate ai caratteri oggettivi del processo (evidenza della prova), altre si basano sulla volonta' delle parti (e' questo il caso del giudizio abbreviato e dell'applicazione della pena su richiesta); il giudizio direttissimo (titolo III) si fonda sull'arresto in flagranza ovvero sull'intervenuta confessione dell'imputato. Alcuni di questi procedimenti possono essere introdotti durante le indagini preliminari e prima che si sia instaurato un vero e proprio processo: da qui l'uso del termine piu' ampio di "procedimenti speciali", anziche' di processi. Nel libro VI trovano la loro disciplina quelli che, durante i lavori preparatori della legge-delega sono stati spesso indicati come " riti differenziati " e che si e' cercato di incrementare il piu' possibile. E' diffuso il convincimento che ad essi e' affidata in gran parte la possibilita' di funzionamento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata, per evidenti ragioni di economia processuale. Soprattutto ai riti abbreviati (titoli I e II) e' affidata la funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti, secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio. Si e' efficacemente detto, nel corso della approvazione della legge-delega, che il nuovo processo " funzionera' se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una parte piccola di processi " (Intervento on. Casini alla Camera dei deputati, Aula, 10 luglio 1984). E' innegabile che l'accordo tra accusa e difesa su cui si fondano i procedimenti speciali previsti nei primi due titoli rappresenta una rilevante novita' del nostro sistema processuale, in quanto anche l'istituto del titolo II - che pur si rifa' al c.d. " patteggiamento " introdotto dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 - e' stato sensibilmente ampliato ed ha assunto nuove caratteristiche. Ma la scelta del sistema accusatorio - alla quale si ispira il nuovo processo - non puo' non comportare anche maggiori poteri nella posizione delle parti e la possibilita' per le stesse - su un piano di parita' - di decidere dello sviluppo del rito processuale. D'altro canto l'esperienza dei paesi anglosassoni insegna che e' ritenuto del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell'imputato delle proprie responsabilita', cioe' in situazioni in cui l'unico aspetto controverso puo' essere la determinazione in concreto della pena. Ove l'imputato rinunci alla celebrazione del dibattimento, deve percio' essere incentivata la sua propensione ad avvalersi dei riti semplificati. Nei limiti in cui la legge-delega ha ritenuto di attribuire rilevanza alle pattuizioni delle parti, delineando gli istituti maggiormente innovativi previsti nella direttiva 45 (applicazione della pena sulla richiesta delle parti) e 53 (giudizio abbreviato), il Progetto ha cercato di costruire una disciplina degli stessi (rispettivamente, nel titolo II e nel titolo I) che offrisse ampie possibilita' di applicazione. TITOLO I GIUDIZIO ABBREVIATO Premessa. Tra i procedimenti speciali il giudizio abbreviato costituisce una importante novita' del nuovo codice. Esso e' cosi' delineato nella direttiva 53 della legge-delega: " potere del giudice di pronunciare nell'udienza preliminare anche sentenza di merito, se vi e' richiesta dell'imputato e consenso del pubblico ministero a che il processo venga definito nell'udienza preliminare stessa e se il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti; previsione che nel caso di condanna le pene previste per il reato ritenuto in sentenza siano diminuite di un terzo; previsione di limiti all'appellabilita' della sentenza; previsione che la sentenza faccia stato nel giudizio civile soltanto quando la parte civile consente all'abbreviazione del rito ". Il procedimento speciale cosi' configurato dalla delega e' stato denominato " giudizio abbreviato ", perche' consente di anticipare all'udienza preliminare la sentenza di assoluzione o di condanna quando l'imputato ne faccia richiesta e il pubblico ministero vi consenta. Idoneo incentivo a richiedere il giudizio abbreviato e' la previsione di usufruire, in caso di condanna, della riduzione della pena di un terzo; dal canto suo il pubblico ministero si determinera', nei debiti casi, ad acconsentirvi in ragione della particolare semplicita' del rito e quindi dell'opportunita' di addivenire ad una sentenza definitiva con una notevole economia processuale. Durante i lavori preparatori della legge-delega l'istituto qui considerato e' stato efficacemente qualificato come " patteggiamento sul rito " e in tal modo distinto dal " patteggiamento sulla pena ", che trova la sua disciplina nel titolo successivo (applicazione della pena su richiesta delle parti): in tal senso l'intervento dell'on. Casini alla Camera dei Deputati (Aula, 26 giugno 1984). La contrapposizione chiarisce bene le analogie e le differenze tra i procedimenti speciali disciplinati nei primi due titoli del libro VI. Il " patteggiamento sulla pena " sta ad indicare un accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell'imputazione (responsabilita' dell'imputato e pena conseguente); il " patteggiamento sul rito " non tocca in alcun modo il merito della imputazione, in quanto l'accordo tra pubblico ministero e imputato concerne esclusivamente il rito semplificato da seguire. Differente e', di conseguenza, nei due procedimenti, la posizione del pubblico ministero. Nel patteggiamento sulla pena, al pubblico ministero (non diversamente che all'imputato) puo' essere riconosciuto un potere decisionale in ordine al rito processuale, non anche in merito alla sanzione. Egli ha la facolta' (art. 442) di impedire, con il suo dissenso sulla richiesta dell'imputato, la definizione anticipata del processo, ma tale dissenso non e' di ostacolo a che il giudice, in esito al procedimento ordinario, accolga tale richiesta ed applichi la relativa sanzione. Nel giudizio abbreviato, al contrario, l'oggetto esclusivo dell'accordo tra le parti e' il particolare rito da seguire: il potere del pubblico ministero (come quello dell'imputato) e' al riguardo pieno, nel senso che la sua scelta dell'uno o dell'altro tipo di procedimento non e' sindacabile dal giudice, onde al dissenso del pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato e' attribuita una efficacia ostativa alla esperibilita' di tale procedimento. Una correlativa differenza caratterizza la posizione del giudice nei due procedimenti. Nell'applicazione della pena sulla richiesta delle parti il giudice conserva, pur di fronte a tale accordo, un potere di giudizio sulla responsabilita' dell'imputato e sulla correttezza delle conseguenze che le parti ne hanno tratte (art. 439), ma in nessun modo puo' interloquire nella scelta del rito. Infatti se non ha obiezioni sul merito, e' tenuto a disporre la definizione anticipata al processo voluta dalle parti. Corrispondentemente, nel giudizio abbreviato, la scelta delle parti in ordine al rito non forma oggetto di controllo del giudice se non sotto il limitato aspetto - essenziale all'esercizio della funzione giudiziaria - che egli ritenga di potere decidere allo stato degli atti e cioe' di potere emanare la pronunzia conclusiva del giudizio sulla base dei soli atti esistenti nel momento in cui, recependo l'accordo delle parti, dispone il giudizio abbreviato. Nessuna altra valutazione relativa al rito puo' entrare nella considerazione del giudice, che e' tenuto a rispettare le scelte inerenti al potere di azione del pubblico ministero ed al diritto di difesa dell'imputato. La diversita' di oggetto della richiesta dell'imputato spiega perche' il giudizio abbreviato e' caratterizzato, rispetto al " patteggiamento sulla pena ", dalla insindacabilita' sia della scelta del pubblico ministero di consentire o meno alla richiesta dell'imputato, sia della decisione del giudice, di fronte al consenso delle parti, di disporre o meno il giudizio abbreviato. Va qui osservato - in aggiunta alle considerazioni che si sono tratte dai poteri che, in linea generale, il pubblico ministero ha sulla scelta del rito - che il consenso o il dissenso di tale organo al giudizio abbreviato si determina sulla base di parametri non tipizzati ne' tipizzabili dalla legge. Sulla scelta del pubblico ministero potranno, di volta in volta, avere valore decisivo tutti o solo alcuni degli aspetti che differenziano il giudizio abbreviato rispetto al giudizio ordinario, oltre alla economia processuale che costituisce la ragione ispiratrice del nuovo istituto: la diversita' di organo decisorio (singolo o collegiale nei processi di competenza del tribunale e della Corte di assise), la segretezza o la pubblicita' del giudizio, la opportunita' o meno di facilitare la partecipazione al giudizio della parte civile, la utilita' che sia limitata la proponibilita' dell'appello, la rilevanza che rispetto all'esito del giudizio puo' assumere il diverso regime di utilizzabilita' degli atti compiuti ai fini della decisione di merito, la stessa diminuzione della pena nel caso che l'imputato venga condannato. Tutti questi aspetti di profonda diversita' tra i due tipi di giudizio entreranno nella scelta - dell'imputato come del pubblico ministero - di richiedere e di consentire al giudizio abbreviato, scelta che sara' il frutto di una valutazione tanto complessa da rendere estremamente difficile anche la mera configurabilita' in astratto di un riesame (del consenso o del dissenso del pubblico ministero). Per la decisione del giudice, a differenza che per la scelta del pubblico ministero, il parametro legale esiste: come si desume chiaramente dalla direttiva 53 della delega, il giudice dispone il giudizio abbreviato se " ritiene di poter decidere allo stato degli atti ". L'accordo delle parti che precede tale decisione del giudice proprio perche' e' un accordo limitato al rito processuale (anche se con conseguenze sull'entita' della pena in caso di condanna) - in nessun modo riguarda il merito dell'imputazione. Come gia' si legge nella relazione al disegno di legge n. 691 presentato alla Camera dei deputati dal ministro Martinazzoli, il giudizio abbreviato potra' essere utilizzato nel caso di " ammissione di colpevolezza da parte dell'imputato, ma non solo in questo, dato che il procedimento abbreviato non comporta necessariamente una sentenza di condanna ". Non puo' non essere attribuito al giudice che deve decidere sull'imputazione il potere di accertare previamente se la situazione degli atti lo ponga in grado di prendere tale decisione, in un momento che e' anticipato rispetto all'esito normale del processo. Anche di questa valutazione, pero', puo' essere difficilmente configurata una sindacabilita': la possibilita' o meno per il giudice di pronunciare la sentenza di merito e' gia' in se' un fatto che attiene alla sua coscienza ed e' percio' il frutto di valutazioni personali. A cio' si aggiunga che con l'inciso " allo stato degli atti " si e' inteso fare riferimento a tutti gli atti fino a quel momento compiuti, mentre solo alcuni di essi saranno poi conosciuti dai giudici delle successive fasi processuali. Pertanto anche sotto il profilo tecnico diventa impossibile un controllo nel corso dell'ulteriore iter del processo sull'eventuale decisione del giudice di non disporre il giudizio abbreviato, nonostante il consenso delle parti su tale rito. Non puo' sottovalutarsi il fatto che il dissenso del pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato proposta dall'imputato ovvero la decisione negativa del giudice impediscono all'imputato condannato di beneficiare della riduzione del terzo della pena inflittagli. Emergono qui le ragioni di qualche perplessita' che l'innovazione del giudizio abbreviato ha fatto emergere nel corso dei lavori preparatori della legge-delega, e che sono state bene espresse nell'intervento del sen. Vassalli (Aula Senato, 19 novembre 1986): " Ho qualche intima riserva sul fatto che in questo caso si dia al condannato il premio della riduzione di un terzo della pena, solo perche' egli consente di procedere al giudizio nell'udienza preliminare, ma si sa che si danno dei premi anche agli imputati che agevolano l'andamento del processo. E' un aspetto un po' curioso, che puo' dare spazio a qualche perplessita' dal punto di vista dei principi ". Indubbiamente l'innovazione del giudizio abbreviato crea una commistione tra decisioni processuali e trattamento sanzionatorio dell'imputato responsabile e questa commistione, per il nostro ordinamento, ha caratteri di assoluta originalita'. L'innovazione, come si e' detto, e' determinata dalla finalita' pratica di creare un incentivo alla richiesta di giudizi abbreviati da parte degli imputati ed e' certo che l'assenza dell'incentivo renderebbe l'istituto pressoche' inutile. La previsione che sia pero' sufficiente la sola proposizione della richiesta per poter beneficiare comunque della riduzione di pena renderebbe, all'inverso, tale richiesta una formalistica attivita' che ogni imputato non si asterrebbe dal compiere per l'evidente vantaggio che da essa potrebbe trarre anche nel caso in cui il pubblico ministero non consentisse al " giudizio abbreviato " (in tal senso, gia', lucidamente, l'intervento dell'on. Casini alla Camera dei deputati, Aula 26 giugno 1984). Illustrazione degli articoli. Una prima indicazione sistematica che si trae dalla legge-delega e' che il giudizio abbreviato si inscrive nell'udienza preliminare come possibile modo di definizione del processo in tale udienza. L'articolo 434 comma 1, esprime questa correlazione quando indica come oggetto della richiesta di giudizio abbreviato " che il processo sia definito nell'udienza preliminare ". In via generale tale atto di iniziativa presuppone, pertanto, che il pubblico ministero abbia presentato la richiesta di rinvio a giudizio dell'imputato (art. 413), da disporsi nell'udienza preliminare fissata dal giudice (art. 415). Prima che il pubblico ministero concluda le indagini preliminari e formuli l'imputazione, una richiesta di giudizio abbreviato da parte dell'indiziato risulterebbe chiaramente prematura. Poiche' la richiesta di rinvio a giudizio e la conseguente fissazione dell'udienza preliminare presuppongono non solo la formulazione della imputazione (art. 414), ma altresi' il deposito di tutti gli atti relativi alle indagini espletate e la facolta' dell'imputato di prenderne visione (art. 416), l'imputato e' posto in grado di conoscere tutti gli elementi del processo prima di decidere se chiedere o meno il giudizio abbreviato. La correlazione tra udienza preliminare e giudizio abbreviato, se e' coerente con lo sviluppo del processo ordinario, pone alcuni problemi per i processi nei quali non vi e' l'udienza preliminare (procedimenti speciali, come il giudizio direttissimo, il giudizio immediato o il giudizio conseguente ad opposizione a decreto penale ed altresi' il processo pretorile). Si e' ritenuto di non privare l'imputato della possibilita' di chiedere il giudizio abbreviato anche in tali processi e di potere cosi' beneficiare - in presenza degli altri presupposti - della riduzione di pena del terzo. Disposizioni particolari sono state, percio', previste per la richiesta di giudizio abbreviato dopo che il pubblico ministero abbia instaurato il giudizio direttissimo (art. 446 comma 2), ovvero dopo che il giudice abbia disposto il giudizio immediato (art. 452), ovvero contestualmente alla opposizione a decreto penale (art. 458 comma 1). Una disciplina del tutto particolare del giudizio abbreviato e' prevista, altresi', nel processo pretorile, ed essa resta percio' esclusa dalla illustrazione qui compiuta. Sempre dall'art. 434 si desume che l'impulso del giudizio abbreviato spetta in via esclusiva all'imputato, mentre il pubblico ministero ha il potere di consentire o meno alla richiesta. Per ambedue gli atti il codice non impone alcun contenuto specifico, pure se potra' essere opportuno che tali atti motivino sulla sussistenza del presupposto della definibilita' del processo allo stato degli atti, posto che sulla base di questo parametro il giudice decidera' se disporre o meno il giudizio abbreviato. Nel giudizio ordinario due possono essere le sequenze procedimentali che instaurano il giudizio abbreviato. I tre presupposti di esso (richiesta dell'imputato, consenso del pubblico ministero, ordinanza del giudice che dispone il giudizio speciale) possono intervenire prima della data fissata per l'udienza preliminare ovvero anche nel corso di tale udienza. Le due sequenze implicano alcune sensibili differenze. Al fine di accelerare i tempi del giudizio abbreviato, l'art. 434 comma 2 stabilisce che l'imputato, quando intende farne richiesta, debba procurare di acquisire il consenso del pubblico ministero cosi' da depositare congiuntamente i due atti in cancelleria almeno cinque giorni prima della data dell'udienza. Quando la richiesta sia presentata entro questo termine il giudice, se l'accoglie, dispone senz'altro il giudizio abbreviato (articolo 435 comma 1), di modo che l'udienza preliminare avra' per oggetto la decisione del merito. A questa sequenza si e' ritenuto di aggiungerne un'altra, in modo da dare la possibilita' all'imputato di proporre la richiesta di giudizio abbreviato anche nel corso dell'udienza preliminare, sino a che non sono formulate le conclusioni previste dall'art. 418 comma 3, ovvero anche le successive conclusioni previste dall'art. 419 comma 8 (nell'ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto di acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione sul rinvio a giudizio chiesto dal pubblico ministero). L'accoglimento della richiesta proposta nel corso dell'udienza preliminare (art. 434 comma 3 e art. 435 comma 2, ultima parte) determina una sorta di conversione di tale udienza, che, da momento di decisione tra il rinvio a giudizio e il non luogo a procedere, diventa momento di decisione a norma degli artt. 522 e seguenti (condanna, assoluzione, non doversi procedere). La previsione del giudizio abbreviato disposto nel corso dell'udienza preliminare e' stata dettata dalla esigenza di ampliare il piu' possibile la possibilita' di instaurazione di tale procedimento speciale. Il fatto che la decisione debba avvenire come afferma la delega- " allo stato degli atti " sembra impedire ulteriori acquisizioni probatorie una volta che sia stata disposta tale forma di giudizio. L'esistenza di una preclusione rigida e' stata ampiamente di battuta durante i lavori della Commissione che ha redatto il Progetto, perche' si ritiene che essa possa avere un'efficacia sensibilmente disincentivante per l'applicazione del nuovo istituto. D'altro canto, l'esistenza della preclusione trova il suo fondamento non solo nell'espressione usata dalla delega, ma altresi' nel fatto che, durante i lavori preparatori, e' stata eliminata l'espressa previsione della possibilita' di compiere, nel corso del giudizio abbreviato, atti ritenuti necessari per la decisione (cfr. la formulazione della direttiva 47 esistente nel testo approvato dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati). Va, inoltre, rilevato che il consenso delle parti al rito abbreviato si forma sulla base del materiale probatorio esistente in un determinato momento processuale, onde sarebbe scorretto mantenere l'efficacia di quel consenso pur in presenza di un sopravvenuto mutamento di tale materiale. Si e' mantenuta ferma, pertanto, pur nel dissenso di ampia parte della Commissione redigente, l'esclusione di ogni attivita' probatoria nel corso del giudizio abbreviato, e cioe' dopo che si sia avuto il consenso delle parti e la susseguente ordinanza del giudice. La possibilita', pero', che l'udienza preliminare si converta nel giudizio abbreviato consente di utilizzare in tale giudizio tutte le eventuali acquisizioni probatorie che si siano avute in tale udienza (a norma dell'art. 419), le quali peraltro dovranno necessariamente precedere il consenso delle parti al rito abbreviato e l'ordinanza che disporra' il giudizio allo " stato degli atti " sino a quel momento acquisiti. Il meccanismo escogitato finisce, cosi', con l'essere rispettoso non solo della formulazione della delega, ma altresi' della corretta formazione del consenso delle parti al giudizio abbreviato e della stessa decisione del giudice sulla idoneita' degli atti compiuti fino a quel momento a consentire la definizione del giudizio. Le finalita' della sequenza procedimentale qui illustrata spiegano il contenuto dell'art. 435 comma 3, secondo cui la richiesta dell'imputato di giudizio abbreviato puo' essere proposta anche piu' volte nel corso dell'udienza preliminare (e sempre sino al momento preclusivo della formulazione delle conclusioni), senza che cio' trovi ostacolo nel dissenso in precedenza espresso dal pubblico ministero o nel rigetto della richiesta che il giudice abbia anteriormente pronunziato. Il consenso del pubblico ministero ed il provvedimento favorevole del giudice potranno, infatti, sempre intervenire in ogni momento successivo dell'udienza preliminare. Ovviamente, quando la richiesta di giudizio abbreviato si inserisce nei procedimenti speciali che non hanno l'udienza preliminare, il giudizio abbreviato non puo' essere chiesto nel corso di tale udienza, ma l'ordinanza che lo dispone dovra' sempre precedere l'effettuazione dell'udienza destinata allo svolgimento di tale giudizio. Dopo quanto detto non ha bisogno di illustrazione l'articolo 436 comma 1, che, per lo svolgimento del giudizio abbreviato, rinvia alle norme sull'udienza preliminare, fatta eccezione per le disposizioni concernenti l'assunzione di prove (art. 419). Va esplicitata soltanto un'implicazione di tale rinvio. Per la decisione di merito in esito al giudizio abbreviato sono utilizzabili tutti gli atti delle indagini preliminari, non diversamente da cio' che avviene per la decisione di rito da prendere alla fine dell'udienza preliminare. Si e' gia' posta in luce la correlazione che la delega pone tra disciplina dell'udienza preliminare (direttiva 52) e previsione del giudizio abbreviato (direttiva 53). D'altronde, anche sotto il profilo tecnico, il giudice dell'udienza preliminare, quando dispone il giudizio abbreviato, gia' e' in grado di conoscere (nella prima sequenza procedimentale) o conosce effettivamente (nella seconda sequenza) gli atti delle indagini, cosi' che apparirebbe del tutto teorico inibirne l'utilizzabilita' per la decisione di merito. L'art. 436 comma 2, contiene una norma che presuppone il principio che si desume dall'art. 643 comma 2, secondo cui la sentenza di assoluzione nel giudizio abbreviato ha efficacia di giudicato rispetto alla parte civile solo se questa parte ha accettato il rito abbreviato. Questo principio, mentre esclude che la parte civile possa interloquire in ordine alla decisione di procedere al giudizio abbreviato, da' ad essa la possibilita' di impedire - non accettando espressamente tale rito - che la sentenza di assoluzione emessa nel giudizio abbreviato faccia stato nel giudizio civile. Come unica eccezione alla necessita' di espressa accettazione si e' prevista, nel comma che si commenta, un'ipotesi di tacito consenso al giudizio abbreviato ad opera della parte civile che si costituisca dopo avere avuto conoscenza dell'ordinanza che lo dispone. Nell'articolo 437 comma 1 la decisione che conclude il giudizio abbreviato e' disciplinata con un rinvio alla tipologia dibattimentale della sentenza (artt. 522 e segg.). L'art. 437 comma 2 contiene la norma relativa alla diminuzione della pena di un terzo nel caso di condanna. Questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stato effettuato il giudizio di comparazione tra le circostanze. La Commissione redigente ha ampiamente discusso sulla limitazione o meno dei reati per i quali e' possibile il giudizio abbreviato, e in particolare sulla esclusione dall'ambito dello stesso giudizio dei reati di competenza della corte di assise. Pur tra le molte perplessita' emerse, e' stata adottata la soluzione piu' ampia sulla base della considerazione che il Senato della Repubblica ha modificato il testo della delega approvato dalla Camera dei deputati, che ancorava la previsione del giudizio abbreviato a categorie di reato predeterminate (cfr. la relazione del sen. Coco del 18 novembre 1986). D'altro canto si e' ritenuto di consentire il maggiore spazio possibile al giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto che esso e' richiesto dall'imputato, il quale - nella logica del processo accusatorio - puo' anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise. Si e' posto allora il problema di rendere possibile la riduzione del terzo rispetto ai reati per i quali il giudice debba infliggere l'ergastolo. L'applicabilita' del criterio di diminuzione previsto dall'art. 65 n. 2 c.p. (reclusione da venti a ventiquattro anni) e' stata scartata anche per la considerazione che la delega prevede una diminuzione " secca " (di un terzo), onde e' sembrato preferibile determinare in modo fisso la pena da sostituire all'ergastolo. L'entita' della pena indicata nell'art. 437 (trenta anni) e' motivata da esigenze di prevenzione generale, che giustificano il richiamo al limite massimo della pena della reclusione consentito dal nostro ordinamento penale (art. 66 c.p.). L'articolo 438 da' attuazione alla direttiva della legge-delega circa la limitazione dell'appellabilita' della sentenza emessa nel giudizio abbreviato. Si sono previste ipotesi in cui non puo' appellare nessuna delle due parti (comma 1), alle quali vanno aggiunti i casi di non appellabilita' da parte dell'imputato (comma 2) o del pubblico ministero (comma 3). Il comma 4 prevede che il giudizio di appello si svolge con il procedimento in camera diconsiglio (art. 592). Le disposizioni dell'art. 438 tendono ad evitare, in attuazione delle finalita' espresse dalla legge-delega, che il giudizio svoltosi con rito abbreviato in primo grado possa ritardare la sua completa definizione, cosa che avrebbe reso inutile l'accelerazione del primo grado del giudizio. TITOLO II APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI Premessa. L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ha fatto la sua comparsa, nell'iter parlamentare della legge-delega, nella direttiva 35 terza parte del testo licenziato nel marzo 1982 dal comitato ristretto della Commissione giustizia della Camera dei deputati. L'esigenza di un'adeguata differenziazione dei riti penali era stata tradotta, per l'appunto, non solo nella previsione di un giudizio immediato (che era venuto a sostituire il giudizio direttissimo gia' indicato nelle proposte governative del febbraio 1980) e nella delineazione di un giudizio per decreto (nuovamente limitato alle sole pene pecuniarie, sia pure sostitutive della pena detentiva), bensi' anche nell'individuazione di due nuovi schemi processuali, nei quali era stato attuato in termini inediti il principio del " premio-incentivo " per atteggiamenti di " meritorieta' processuale " dell'imputato. Ed uno dei procedimenti cosi' strutturati era quello della direttiva 35 terza parte, che richiamava da vicino le forme del c.d. patteggiamento, introdotto pochi mesi prima con la l. 24 novembre 1981, n. 689. Rispetto all'istituto disciplinato negli artt. 77 - 85 della l. n. 689 del 1981, comunque, si poteva subito rilevare l'indubbio ampliamento delle ipotesi applicative e la particolare significativita' della previsione premiale: difatti, si prevedeva che il " pubblico ministero, ottenuto il consenso dell'indiziato o dell'imputato, e questi ultimi, ottenuto il consenso del pubblico ministero, potessero chiedere al giudice in apposita udienza, o nella udienza preliminare o nel giudizio fino a che non siano state compiute le formalita' di apertura, l'applicazione - nei casi consentiti - di una delle sanzioni sostitutive della detenzione previste dalla legge " (e non piu' soltanto della pena pecuniaria e della liberta' controllata) " ovvero di una pena detentiva in misura pari a quella edittale per il reato per cui si procede, diminuita di un terzo e comunque non superiore a tre mesi di reclusione o di arresto ". Il prosieguo del cammino parlamentare della futura legge-delega doveva segnare, senza alcuna inversione di rotta, un ulteriore e progressivo allargamento degli spazi operativi dell'istituto in esame, sulla base della consapevolezza degli innegabili vantaggi per la deflazione e la celerita' della giustizia derivanti dal potenziamento, in generale, dei meccanismi processuali differenziati e, in particolare, di questa nuova specie di " patteggiamento ". Si e' cosi' giunti all'attuale testo della direttiva 45, nella quale si prevede che " il pubblico ministero, con il consenso dell'imputato, ovvero l'imputato con il consenso del pubblico ministero, possano chiedere al giudice, fino all'apertura del dibattimento, l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti, o della pena detentiva irrogabile per il reato quando essa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non superi due anni di reclusione o di arresto soli o congiunti a pena pecuniaria " e che " il giudice, in udienza, applichi la sanzione nella misura richiesta, provvedendo con sentenza inappellabile ". E' stato inoltre demandato al legislatore delegato il compito di disciplinare, " in rapporto ai diversi tipi di sanzioni applicate ", gli " altri effetti della pronuncia ". Si tratta indubbiamente di una scelta coraggiosa, in quanto consente il ricorso al rito differenziato per una gamma assai ampia di imputazioni. Del resto, nella sua relazione alla Camera (29 gennaio 1987), l'on. Casini aveva fatto rilevare come "buona parte dell'efficienza del nuovo codice" fosse "affidata a questo istituto", che consente non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma anche di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita' della sentenza emessa su accordo delle parti; istituto che se da un lato si ricollega nell'ispirazione al " patteggiamento " della l. n. 689 del 1981, dall'altro se ne differenzia notevolmente per una impostazione piu' matura e robusta, che ha superato le originarie incertezze, anche di natura costituzionale. Il " patteggiamento " della legge n. 689 puo' dar luogo solo all'applicazione di una sanzione sostitutiva (sanzione pecuniaria o liberta' controllata), della cui natura penale si e' discusso, con una sentenza che dichiara estinto il reato e mette capo ad un meccanismo esecutivo diverso da quello relativo alle pene, rafforzato, per il caso di inosservanza, da un'apposita fattispecie delittuosa (art. 83 l. n. 689). Si tratta, secondo una ricostruzione, di un "beneficio" (v. Corte cost., sent. n. 267/87), per la cui fruizione sono previste esclusioni soggettive (art. 80 l. n. 689) e che, per la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, e' incompatibile con l'altro " beneficio " della sospensione condizionale della pena. In sostanza nel " patteggiamento " della l. n. 689 alla diversita' del procedimento si ricollega un regime sanzionatorio radicalmente diverso da quello generale, che sembra giustificabile solo in ragione delle particolari sanzioni applicabili (sanzione pecuniaria e liberta' controllata). Nel nuovo " patteggiamento ", quello della direttiva 45, e' invece applicabile una pena, di qualunque specie (escluso l'ergastolo), e quindi la sua costruzione e' diversa: non si tratta di un " beneficio ", ma di uno speciale procedimento, collegato (come ha rilevato il relatore on. Casini) ad un accordo tra imputato e pubblico ministero sull'applicazione della pena, che quindi riguarda il merito e si riflette sul rito, a differenza dell'accordo del giudizio abbreviato che riguarda invece esclusivamente il rito. Il nuovo " patteggiamento " esce dunque dall'ambiguita', che aveva connotato quello della legge n. 689 anche per la prevista estinzione del reato, che era sembrata difficilmente conciliabile con la contestuale applicazione della sanzione. Nella direttiva 45 e' caduta la previsione estintiva (che invece figurava nella direttiva 35 terza parte del testo del comitato ristretto, inizialmente ricordata, ed anche nella direttiva 44 del testo approvato dalla Camera nella seduta del 18 luglio 1984) e l'accordo e' stato incentivato attraverso la diminuzione di un terzo della pena ed ulteriori misure rimesse al legislatore delegato, tenuto a disciplinare gli "altri effetti della pronuncia"; il che puntualmente e' stato fatto. La specifica individuazione di queste misure, ed anche dei contenuti e degli effetti della sentenza applicativa della pena, ha evitato non solo, come si e' detto, le ambiguita' teoriche della legge n. 689 ma anche le numerose questioni pratiche che da quelle ambiguita' avevano tratto origine. Caratteristica del nuovo " patteggiamento " e' anche la sua generale applicabilita', nei limiti di pena della direttiva 45, in quanto non sono previste esclusioni soggettive (del genere di quelle dell'art. 80 l. n. 689) od oggettive (in relazione a specifici reati o a categorie di reati). E' significativa in proposito la modificazione della direttiva operata dal Senato, che ha sostituito le parole " l'applicazione, nei casi consentiti, delle sanzioni sostitutive o della pena detentiva " con le parole " l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti ", chiarendo cosi', da un lato, che il legislatore delegato non ha il compito di specificare, al di la' delle previsioni del delegante, i casi in cui e' consentita l'applicazione delle pene su richiesta delle parti e, dall'altro, che l'applicazione delle sanzioni sostitutive su richiesta e' ammessa nei soli casi in cui queste sanzioni risultano applicabili in generale (indipendentemente cioe' dalla richiesta delle parti), in base alla l. n. 689 del 1981, che le ha introdotte nel nostro ordinamento e le disciplina. Le diverse caratteristiche del " patteggiamento " previsto dalla direttiva 45 lo rendono sicuramente compatibile con la sospensione condizionale della pena, perche', al contrario di quello della l. n. 689, non costituisce un " beneficio " che possa apparire alternativo alla sospensione condizionale. Cio' significa che, se ne ricorrono le condizioni, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti puo' disporsi la sospensione condizionale e che viene quindi meno, con il nuovo istituto, quello che e' stato ritenuto l'ostacolo piu' rilevante alla diffusione dell'attuale " patteggiamento ". Illustrazione degli articoli. L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti emerge, nei suoi aspetti fondamentali, dalle disposizioni dell'articolo 439. Nel silenzio della direttiva 45 sulle pene pecuniarie, il comma 1 dell'art. 439 chiarisce che anche per queste e' ammesso il " patteggiamento ". Una soluzione diversa avrebbe riproposto le questioni cui ha dato origine l'art. 77 l. n. 689 e sarebbe risultata irrazionale, perche' nel caso di applicabilita' della pena pecuniaria non vi sono ragioni per negare gli effetti vantaggiosi previsti dalle disposizioni in esame all'imputato che ne voglia usufruire. D'altro canto la circostanza che nella direttiva 45 non si parli della pena pecuniaria non e' sembrata di ostacolo, perche' la menzione solo delle sanzioni sostitutive e della pena detentiva si puo' spiegare con la considerazione che per queste il legislatore delegante ha ritenuto di dover fissare direttive specifiche: per le prime allo scopo di chiarire che le sanzioni sostitutive su richiesta sono applicabili nei soli casi attualmente previsti, sicche' non potrebbe il legislatore delegato, nel disciplinare gli " altri effetti della pronuncia ", ampliare l'utilizzabilita' di tali sanzioni o renderne diversa la disciplina (come invece era stato previsto nel disegno di legge n. 2609/C presentato dal ministro di grazia e giustizia nella nona legislatura); per la seconda allo scopo di fissare i limiti entro i quali e' ammesso il " patteggiamento " in relazione alle pene detentive. E' da ritenere quindi che la mancata menzione della pena pecuniaria sia dovuta al fatto che il legislatore non ha avvertito alcun motivo per prenderla in considerazione e che percio' abbia un significato non di esclusione ma di inserimento nel nuovo istituto senza limiti, che altrimenti sarebbero stati espressamente previsti, come e' accaduto per la pena detentiva. Nel comma 1 si stabilisce inoltre che nel caso di applicazione su richiesta la pena e' sempre diminuita fino a un terzo. Di una diminuzione siffatta nella direttiva si parla solo con riferimento alle pene detentive (ed in modo indiretto, quando si fissa il limite di due anni); ma, se vengono diminuite le pene detentive, eguale deve essere il trattamento delle pene sostitutive, visto che queste si applicano in un secondo tempo dopo aver determinato la pena detentiva da sostituire. Per le pene pecuniarie si e' poi ritenuto che una volta inserite nell'ambito di operativita' dell'istituto non possa non riferirsi anche ad esse il dato caratteristico della " premialita' ", costituito dalla riduzione di pena. Nel comma 2 e' delineata l'attivita' demandata al giudice per la decisione sulla richiesta. La decisione viene presa " sulla base degli atti ", senza quindi acquisire ulteriori elementi probatori. Anche alla luce di alcune indicazioni ricavabili dai lavori parlamentari (v. la relazione dell'on. Casini del 29 gennaio 1987 alla Camera), si e' peraltro riconosciuto al giudice il potere di rifiutare la " ratifica " dell'accordo (sia esso espresso da una richiesta congiunta o da una richiesta con il consenso dell'altra parte) quando egli non conviene sugli elementi giuridici che determinano la " cornice " entro cui e' avvenuta la commisurazione della pena. Pertanto il giudice non provvedera' secondo la richiesta quando riterra' che la qualificazione giuridica del fatto sia diversa da quella operata e comporti una pena maggiore o che le circostanze attenuanti prospettate non ricorrano od ancora che diverso debba essere l'esito del giudizio di comparazione. Per contro, al giudice non viene riconosciuto alcun sindacato sulla congruita' della pena richiesta, trattandosi di materia riservata alla deteminazione esclusiva delle parti. Quindi, una volta verificata la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione delle circostanze e del giudizio di comparazione, il giudice non potra' fare altro che applicare la pena nella specie e nella misura indicate dalle parti. Resta pero' fermo il potere-dovere del giudice di pronunciare il proscioglimento a norma dell'art. 128, se ne ricorrono le condizioni. In conclusione il compito del giudice e' di accertare, sulla base degli atti, se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se e' esatto il quadro (qualificazione giuridica, circostanze e comparazione) nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilita' penale. Soprattutto per questa ragione si e' escluso che il giudice possa decidere su eventuali domande della parte civile, ma si e' anche considerato che una soluzione diversa sarebbe stata fortemente disincentivante per l'imputato, la cui richiesta avrebbe finito normalmente con il comportarne la soccombenza nella controversia civile. Poiche', come si e' ricordato, e' possibile concedere la sospensione condizionale della pena, si e' ritenuto di dover evitare che l'imputato rinunci a formulare la richiesta di applicazione della pena, per l'incertezza sulla concessione della sospensione. E' evidente infatti che, nel caso in cui si trovi in condizione di ottenere la sospensione, l'imputato potrebbe essere disposto a farsi applicare la pena solo in quanto questa venga anche sospesa. D'altro canto, la prognosi che giustifica la sospensione e la valutazione circa eventuali obblighi ai quali subordinarla non possono non essere rimesse al giudice. Pertanto, nel comma 3 dell'art. 439 si e' espressamente prevista la possibilita' per l'imputato di subordinare la richiesta di applicazione della pena alla concessione della sospensione condizionale, di modo che il giudice si trovera' di fronte all'alternativa di accogliere integralmente la richiesta, concedendo anche la sospensione condizionale, ovvero di rigettarla facendo venir meno la possibilita' di adottare le forme del procedimento speciale. L'articolo 440 regola gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta, risolvendo espressamente alcune delle questioni che si sono poste con riferimento all'art. 77 l. n. 689 del 1981. Sono stati quindi ribaditi gli aspetti di premialita' gia' presenti nell'art. 77 cit. (e cioe', l'esclusione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca ex art. 240 comma 2 c.p.), aspetti che acquistano senza dubbio un peso consistente in considerazione dell'ampio ambito di operativita' del nuovo istituto, e si e' chiarito che la sentenza emessa su accordo delle parti non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento e non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Per quanto non espressamente previsto la sentenza e' equiparata a una pronuncia di condanna, cosi', ad esempio, e' valutabile ai fini della recidiva, se non vi e' stata l'estinzione degli effetti penali, prevista dal comma 2. Nel comma 2 emergono gli altri aspetti premiali, costituiti, nell'ordine, dall'estinzione del reato, dall'estinzione di ogni effetto penale e dalla non ostativita' dell'applicazione su richiesta rispetto ad una successiva sospensione condizionale. A differenza di quanto e' previsto dall'art. 77 l. n. 689 del 1981, l'effetto estintivo non e' collegato in modo diretto ed esclusivo all'applicazione su richiesta, ma postula anche un comportamento successivo uguale a quello previsto per l'estinzione del reato in caso di sospensione condizionale della pena. Cosi', se nell'applicare la sanzione e' stata concessa dal giudice la sospensione condizionale, la pena non viene eseguita e gli effetti estintivi si cumulano, mentre se la sospensione condizionale non e' stata concessa la pena deve essere eseguita, ma se nel periodo previsto non sono commessi reati si determina l'estinzione del reato. Si estingue inoltre ogni altro effetto penale della condanna, e cio' comporta che dell'applicazione su richiesta non si tiene conto neppure agli effetti della recidiva e dell'abitualita' nel reato (art. 106 comma 2 c.p.). Infine si e' stabilito che, nel caso in cui " e' stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l'applicazione non e' di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena "; e con la previsione di quest'ultimo e assai vantaggioso effetto si e' data applicazione a quella parte della direttiva 45 che impone di disciplinare gli " altri effetti della pronuncia ", " in rapporto ai diversi tipi di sanzioni applicate ". Nell'articolo 441 si individua innanzi tutto il momento finale entro il quale le parti possono formulare la richiesta, e la dizione della direttiva 45 " fino all'apertura del dibattimento " e' stata tradotta con l'espressione " fino al termine dell'esposizione introduttiva del giudizio di primo grado " (art. 487), dato che e' con questa esposizione che le parti intervengono nella fase iniziale del dibattimento. Si e' ritenuto di non poter consentire al difensore di formulare la richiesta o di dare il consenso, trattandosi di atti personalissimi, che possono incidere sulla sfera della liberta' personale e su quella patrimoniale dell'imputato oltre che sull'iter processuale. Per semplificare pero' e' stato riconosciuto al difensore il potere di autenticare la dichiarazione, come risulta dal rinvio operato all'art. 576 comma 3. L'ultimo comma dell'art. 441, nello stabilire che nel caso di dissenso sulla richiesta dell'imputato il pubblico ministero e' tenuto ad enunciarne le ragioni, introduce una disposizione che si ricollega, come si vedra', a quella del comma 3 dell'articolo successivo, il quale da' al giudice il potere di sindacare l'eventuale dissenso dell'organo dell'accusa. Occorre sottolineare che la determinazione del pubblico ministero e' discrezionale, non arbitraria; per negare il consenso devono esistere delle valide ragioni, che vanno esternate. Nell'articolo 442 sono delineate, all'inizio, le sequenze che possono condurre alla pronuncia di una sentenza di applicazione della pena su richiesta ancor prima dell'udienza preliminare. La direttiva 45 non contiene piu' la specificazione " in apposita udienza, o nell'udienza preliminare o nel giudizio " ma cio' non significa che la decisione del giudice possa essere presa solo nell'udienza preliminare e nel giudizio, ed e' parso opportuno consentire in caso di richiesta un immediato epilogo processuale anche durante le indagini preliminari, mediante la fissazione di una udienza ad hoc. A tal fine, per il caso in cui non vi e' una richiesta congiunta o accompagnata dal consenso dell'altra parte, e' stato congegnato un meccanismo di interpello volto ad evitare inutili attese ed inutili prosecuzioni di indagini. L'irrevocabilita' e l'immodificabilita' della richiesta nel periodo dell'interpello, stabilite nell'ultima parte del comma 2, si giustificano appunto con l'apertura di una fase incidentale, che deve giungere a compimento senza trovare ostacoli nella stessa parte che l'ha provocata. In ogni caso, e cioe' anche se prima e' stato negato, come precisa il comma 3, il consenso puo' essere dato fino a quando non e' spirato il termine finale, che e' quello dell'esposizione introduttiva del giudizio di primo grado. Quando vi e' la concorde volonta' delle parti e ricorrono le condizioni indicate nell'art. 439, il giudice (se non e' stato in grado di provvedere durante le indagini preliminari), nell'udienza preliminare o nel giudizio, pronuncia immediatamente la sentenza di applicazione della pena su richiesta. Il comma 4 aggiunge che dopo la chiusura del giudizio di primo grado o nel giudizio di impugnazione il giudice puo' accogliere la richiesta dell'imputato anche in mancanza del consenso del pubblico ministero, se ritiene che il consenso e' stato negato ingiustificatamente. Con quest'ultima disposizione sono state recepite le indicazioni contenute nella sentenza 30 aprile 1984, n. 120 della Corte costituzionale, che con una pronuncia interpretativa di rigetto ha escluso l'illegittimita' costituzionale degli artt. 77 e 78 l. n. 689 del 1981. La Corte ha ritenuto che il parere del pubblico ministero sia vincolante per il rito ma non per il merito e cioe', che nel caso di parere negativo sia precluso l'epilogo anticipato del procedimento, ma non l'accoglimento della richiesta dell'imputato da parte del giudice, una volta completato regolarmente il dibattimento. Si e' gia' detto che il pubblico ministero si muove in un quadro di discrezionalita' e deve enunciare le ragioni del proprio dissenso; non e' e non puo' essere arbitro delle sorti dell'imputato, e quindi non puo' precludergli un trattamento vantaggioso quando ne ricorrono le condizioni ed il dissenso, all'esame del giudice, risulta ingiustificato. E' invece un potere tipico del pubblico ministero come parte, non sindacabile dal giudice, quello di consentire o meno che il procedimento si svolga in forme diverse dalle ordinarie, ed e' per questa ragione che se manca il consenso del pubblico ministero, cosi' come da un lato deve essere escluso un epilogo anticipato, dall'altro deve essere riconosciuto a tale parte il diritto di proporre l'appello contro la sentenza di primo grado, anziche' il ricorso per cassazione, che e' l'unico mezzo consentito invece per le parti che hanno richiesto l'applicazione della pena o che su di essa hanno concordato. Nell'ultimo comma, infine, si stabilisce che quando la sentenza di applicazione della pena su richiesta e' emessa nel giudizio di impugnazione, il giudice, se in precedenza era stata pronunciata condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni, decide sull'azione civile com'e' previsto nel caso di dichiarazione di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione. Puo' infatti accadere che nel giudizio d'impugnazione venga riformata la sentenza che non aveva accolto la richiesta per aver ritenuto che ne mancassero le condizioni o che fosse giustificato il dissenso del pubblico ministero, ma in questo caso, come in quello in cui viene dichiarata l'estinzione del reato, ci si trova in presenza di un accertamento gia' compiuto e di una decisione sull'azione civile, che non puo' essere messa nel nulla con la vanificazione di un'attivita' processuale non breve e la frustrazione delle legittime aspettative della parte civile. TITOLO III GIUDIZIO DIRETTISSIMO Premessa. Il giudizio direttissimo presenta una caratteristica comune al giudizio immediato, che evidenzia la diversita' di questi due procedimenti rispetto agli altri procedimenti speciali disciplinati nel libro VI: entrambi si atteggiano come meccanismi processuali semplificati che tuttavia hanno il loro epilogo nella udienza dibattimentale. Piu' precisamente essi sono accomunati dalla mancata previsione dell'udienza preliminare. Va sottolineato che i due istituti (giudizio direttissimo e giudizio immediato) si presentano come tipologie procedimentali semplificate delle quali tuttavia l'una comprende l'altra senza residui, nel senso che e' consentito al pubblico ministero, ogni qual volta non sia possibile accedere alla piu' rapida delle due forme (il giudizio direttissimo), di operare un recupero verso l'altra forma, come si osservera' meglio in seguito. E' stato notato nel corso dei lavori preparatori che la novita' della nuova legge-delega rispetto alla precedente sta proprio nell'ampio spazio di operativita' attribuito ai procedimenti differenziati. Con riferimento al giudizio direttissimo, il sen. Vassalli aveva giudicato estremamente positivo il recupero di un istituto che, cancellato nel Progetto del 1978, presenta invece una accentuata caratterizzazione sugli schemi del processo accusatorio (Senato, Aula, 19 novembre 1986). La marcata accentuazione accusatoria del giudizio direttissimo unitamente al positivo bilancio che deve trarsi dalla esperienza degli ultimi anni (soprattutto con riferimento al giudizio direttissimo davanti al pretore disciplinato dal vigente art. 505 c.p.p. cosi' come novellato nel 1984) ha pertanto indotto il Parlamento a introdurre l'istituto del giudizio direttissimo con una previsione molto ampia, analiticamente descritta nella direttiva 43 della legge-delega. In particolare il legislatore delegante ha inteso ampliare, rispetto alla situazione attuale, la possibilita' di ricorso al giudizio direttissimo, aggiungendo alla condizione dell'arresto in flagranza o comunque dello stato di custodia dell'imputato, e in alternativa a questa, la circostanza dell'avvenuta confessione ad opera dell'imputato in stato di liberta'. Elemento caratterizzante il giudizio direttissimo e' pertanto l'esistenza originaria di una situazione di evidenza della prova, della quale l'arresto in flagranza e la confessione dell'imputato rappresentano le due sole ipotesi predeterminate dalla legge. In quest'ottica, i quindici giorni concessi al pubblico ministero per l'instaurazione del giudizio direttissimo vanno intesi come tempo utilizzabile per verificare l'effettivita' della iniziale situazione di evidenza e quindi per valutare preliminarmente se la vicenda concreta sia suscettibile di presentare o meno, al dibattimento, aspetti di difficolta' probatoria tali da richiedere accertamenti, che, per la loro natura, non potrebbero essere svolti agevolmente e speditamente all'udienza stessa. Di regola, ove si profili sin dall'inizio l'esigenza di indagini non esperibili in dibattimento, la mancanza di evidenza probatoria impone al pubblico ministero di rinunciare alla pretesa di instaurare il giudizio direttissimo, potendo tuttavia ancora usufruire del giudizio immediato ogni qualvolta le indagini rimangano comunque contenute nello spazio di novanta giorni. Le disposizioni sul giudizio direttissimo erano nel codice del 1930 collocate tra i giudizi speciali nel capo IV del libro III, per l'esatto criterio sistematico che vedeva in un rito tendenzialmente accusatorio un quid di derogante rispetto alle cadenze usuali dell'istruttoria. Nel corso dei lavori preparatori era sembrato opportuno sottolineare anche nella collocazione topografica che tutti i modelli processuali hanno le medesime caratteristiche di accusatorieta' e si distinguono soltanto per aspetti marginali ed adattamenti imposti dalla natura delle cose. Il riferimento a " Procedimenti differenziati " sarebbe stato preferibile; ma se continua a parlarsi di " Procedimenti speciali " e' soltanto perche' la terminologia e' di uso comune. Illustrazione degli articoli. Quanto ai casi ed ai modi di questo giudizio, per l'art. 502 c.p.p. del 1930 nel testo piu' volte innovato, il pubblico ministero puo' direttamente condurre all'udienza l'imputato in vinculis, dopo un sommario interrogatorio, la convalida (in caso di arresto in flagranza), e l'apprezzamento circa la non necessita' di speciali indagini, non oltre il decimo giorno dall'arresto; mentre per i reati di sua competenza l'art. 505 c.p.p. del 1930 impone al pretore il rito direttissimo immediatamente dopo la convalida dell'arresto in flagranza. L'articolo 443 ha generalizzato, al comma 1, questa previsione, consentendo la convalida ed il contestuale giudizio direttissimo anche per i reati di competenza del tribunale e della corte d'assise (per i reati di competenza pretorile v. l'art. 559). Il comma 2 riproduce il nucleo del giudizio direttissimo tradizionale, elevando a quindici giorni il termine di presentazione dell'arrestato al dibattimento. E' stato eliminato il riferimento alla non necessita' di speciali indagini; d'altronde e' implicito che in tanto il pubblico ministero si determinera' ad esercitare la facolta' di instaurare il giudizio direttissimo, in quanto le fonti di " prova " denotino una situazione di particolare evidenza, potendo optare altrimenti per i tempi meno ristretti del giudizio immediato. Il comma 3 " recupera " una situazione specifica di evidenza, circoscritta alla confessione resa nel corso dell'interrogatorio o dell'esame: in tal caso puo' procedersi col rito differenziato anche nei confronti dell'imputato libero (che deve essere regolarmente citato) ed il termine decorre dal giorno dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato. Il comma 4 prescrive di regola la separazione per i reati connessi in ordine ai quali non si giustifichi la scelta del direttissimo; altrimenti prevale il rito ordinario. Venuta meno la tradizionale condizione dello stato detentivo dell'imputato, l'articolo 444 prevede una duplice disciplina per l'instaurazione del giudizio direttissimo. Il comma 1 si riferisce alla presentazione diretta in udienza dell'imputato arrestato in flagranza o in stato di custodia cautelare per il reato per cui si procede; i commi 2, 3 e 4 descrivono le formalita' predibattimentali da adempiere nel caso di imputato libero che abbia reso confessione. Da segnalare che, nel rispetto di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 164 del 1983 ed alla luce delle vivaci critiche emerse in dottrina contrarie alla prassi oggi invalsa per cui il pubblico ministero stabilisce a suo illimitato piacimento il giudice dibattimentale, non ci si poteva sottrarre all'imperativo che " anche su tal punto la disciplina venga adeguatamente migliorata e l'udienza per il giudizio direttissimo sia fissata mediante il normale meccanismo dalla legge predisposto per gli altri processi, pur con i necessari adeguamenti alla rapidita' che e' propria di detto giudizio " (Corte cost., sentenza n. 164 del 1983). Per questo motivo e' stato recuperato il meccanismo di investitura del giudice dibattimentale delineato per il processo di pretura. Quanto al comma 3, da un lato l'omesso riferimento alla lettera d) dell'art. 425 si spiega col fatto che qui la confessione non solo e' fonte di prova ma soprattutto e' il presupposto per l'instaurazione del rito; dall'altro non poteva operarsi un richiamo integrale alla lettera f) della medesima disposizione, concernente l'avvertimento relativo all'instaurazione del giudizio contumaciale in caso di non comparizione, esito escluso dall'art. 445 comma 4. L'articolo 445, nel disciplinare lo svolgimento del giudizio direttissimo, migliora la formulazione dell'articolo 503 c.p.p. attuale. Nel comma 4 e' chiarito che la contestazione e' compito del pubblico ministero e che il rito differenziato in tanto puo' essere concretamente celebrato in quanto l'imputato sia presente. Nel comma 5 e' prevista la possibilita' per l'imputato di chiedere la trasformazione del giudizio direttissimo in rito abbreviato ed il c.d. patteggiamento. Nel comma 6, il meccanismo del termine a difesa e' stato radicalmente innovato, passandosi da un regime di mera discrezionalita' ad un sistema di obbligatorieta', che lo rende effettivo e non piu' meramente illusorio. Il presidente e' tenuto ad avvertire l'imputato del suo diritto al termine a difesa ed, a fronte di una richiesta in tal senso, e' obbligato a sospendere il dibattimento; rimane la discrezionalita' soltanto circa il quantum della sospensione, comunque non superiore a dieci giorni. L'articolo 446 disciplina in modo piu' lineare i cosiddetti epiloghi atipici del giudizio direttissimo. TITOLO IV GIUDIZIO IMMEDIATO Premessa. Il giudizio immediato si traduce in un meccanismo di sfoltimento che assume, assieme agli altri procedimenti speciali, importanza e rilievo fondamentali nel nuovo sistema processuale. E' stato piu' volte sottolineato che solo con un ricorso frequentissimo ai riti differenziati "sara' possibile dispiegare le energie senza impacci laddove si percorrono per intero indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento" (on. Casini, Camera deputati, Aula, 20 gennaio 1987). Significativa al riguardo e' la autonomia reciproca acquisita dal giudizio immediato e dal giudizio direttissimo, che nel testo originario (della Commissione giustizia della Camera dei deputati) erano accorpati nella stessa previsione (direttiva 40) nonche' la estensione della sfera di applicabilita' del giudizio immediato mediante: a) la esclusione della condizione della non necessita' di indagini; b) la fissazione di un dies a quo diverso rispetto al testo originario (l'iscrizione della notizia di reato anziche' la commissione del reato). Analogamente al giudizio direttissimo, il giudizio immediato e' espressione ulteriore della accentuazione delle caratteristiche accusatorie del nuovo processo penale indicata dalla mancanza della udienza preliminare. Deve pero' precisarsi che e' proprio questo aspetto l'elemento caratterizzante il giudizio immediato, e non la mancanza delle indagini preliminari che possono e devono svolgersi secondo le regole generali. La prevedibilita' di effettuazione delle indagini preliminari consente peraltro di comprendere le ragioni della previsione dell'intervento del giudice, senza la quale potrebbe risultare arduo distinguere tra giudizio direttissimo e giudizio immediato. In realta' nei lavori preparatori vi e' traccia delle perplessita' circa la opportunita' o addirittura la validita' di siffatta distinzione posto che un rito snello fortemente accusatorio avrebbe dovuto consentire sempre la presentazione diretta da parte del pubblico ministero. Tuttavia e' stato evidenziato che " l'intervento del giudice svolge un ruolo di garanzia perche' il dibattimento puo' di per se' determinare conseguenze negative per l'imputato e suppone una valutazione degli elementi per rinviare a giudizio " (rel. on. Casini, p. 8). Va pero' precisato, come si dira' appresso, che si tratta di un " controllo " molto rapido: non viene svolto dal giudice nell'udienza preliminare, non vi e' contraddittorio, ma " vi sono soltanto due occhi in piu' che giudicano se il rinvio a giudizio e' o non e' opportuno " (on. Casini, Camera dei deputati, Aula, 12 luglio 1984). Come e' stato detto a proposito del giudizio direttissimo, il giudizio immediato e' stato costruito in maniera tale da potere essere raccordato, con riferimento alle valutazioni del pubblico ministero in ordine al modus procedendi, al giudizio direttissimo: ove l'organo della pubblica accusa rinunci alla pretesa di instaurare il giudizio direttissimo (per la mancanza della condizione di evidenza probatoria), potra' egli tuttavia ancora usufruire del