delle sentenze che dispongono misure di sicurezza. Il Progetto preliminare del 1978, al comma 2 dell'art. 570, aveva previsto il solo ricorso per cassazione avverso il capo della sentenza riguardante le misure di sicurezza, motivando tale scelta col fatto che nelle disposizioni generali non e' stata riprodotta la disposizione del vigente art. 212 c.p.p. Tenuto conto che quest'ultimo fa rinvio - se l'impugnazione e' proposta per la sola misura di sicurezza - al " ricorso in appello " disciplinato dall'art. 640 c.p.p., e' parso ragionevole prevedere in via generale e con i normali mezzi di impugnazione, l'autonoma reclamabilita' delle pronunce riguardanti le misure anzidette. L'articolo 573, come si e' gia' detto in premessa, reca un'intitolazione diversa, piu' aderente al contenuto, ed esprime, soltanto in forma differente, il disposto dell'art. 514 del codice vigente, trasferito in questa sede perche' e' norma che coinvolge anche l'appello e non il solo ricorso per cassazione del quale si prevede la conversione. L'articolo 574, interpretando l'innovazione della unicita' dell'atto di impugnazione, impone un contenuto diverso dal corrispondente art. 197 del codice vigente. Si e' inteso sottolineare inoltre, allo scopo di evitare impugnazioni generiche o dilatorie, l'opportunita' di consentire in sede di legittimita' la verifica della non manifesta infondatezza del ricorso ed in appello della " serieta' " della eventuale richiesta di rinnovazione del dibattimento, nonche' permettere la verifica dell'interesse ad impugnare. Si e' cosi' ritenuto di tipizzare gli elementi che il gravame deve enunciare in modo specifico in tre categorie: i capi o i punti della decisione che costituiscono l'oggetto della impugnazione; le richieste; i motivi in fatto e in diritto; mentre e' parsa eccessiva la proposta di pretendere anche l'indicazione degli elementi e delle fonti di prova, inizialmente avanzata. L'articolo 575, che assomma il contenuto degli artt. 198 e 201 del codice vigente, si riferisce naturalmente all'atto di impugnazione e contiene, rispetto allo stesso articolo del Progetto preliminare del 1978, a parte alcune precisazioni di dettaglio, l'innovazione dell'obbligo, da parte del segretario che riceve l'atto stesso di rilasciare - a richiesta dell'interessato - un'attestazione dell'avvenuta presentazione di esso. Allo stesso modo si dovra' provvedere in caso di atto presentato da chi si trovi in stato di detenzione, secondo le forme di cui all'art. 122. La ratio e' evidentemente quella di assicurare all'interessato un controllo probatorio della presentazione e degli atti successivi. L'articolo 576 contempla la forma alternativa di spedizione dell'atto a mezzo posta raccomandata. E' stata pero' reintrodotta la possibilita' di spedizione telegrafica giacche', se e' vero che ne appare eccezionale l'utilizzazione, per la dispendiosita' del mezzo e per l'obbligo di indicare i motivi della sua utilizzazione, non e' da escludere che vi si possa far ricorso per una imminente scadenza del termine. Si e' precisato che l'impugnazione si considera proposta nello stesso giorno in cui sono spediti la raccomandata o il telegramma. Quanto all'autentica della sottoscrizione, e' parso opportuno, anziche' elencare i soggetti abilitati, rinviare alle disposizioni in merito, cosi' da non circoscrivere la categoria in via definitiva. In questa sede, a tali soggetti (" notaio... altre persone autorizzate ") e' stato aggiunto il difensore, la cui firma costituisce il normale strumento di autentica nel processo civile. Proprio per tale ragione e' stata ovviamente soppressa la previsione dell'autentica della sottoscrizione del difensore. L'articolo 577 esprime, come si e' avuto gia' occasione di rilevare, la necessita' della notifica alle altre parti, intese queste come i soggetti nei cui confronti si esercita la pretesa espressa nell'atto di impugnazione e nel singolo processo. La notifica deve essere fatta a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, sicche' dall'eventuale omissione non puo' discendere l'inammissibilita' dell'impugnazione stessa. Non potra' invece decorrere il termine per l'eventuale appello incidentale. L'articolo 578 stabilisce i termini per l'impugnazione previsti a pena di decadenza. Il diverso meccanismo di redazione e di deposito della sentenza ai sensi degli artt. 537 e 541 ha consigliato la previsione di termini diversi, in sintonia con quanto previsto nell'art. 1 del disegno di legge n. 1706 del quale si e' parlato in premessa, al fine di rendere meno gravoso il lavoro della cancelleria e di ridurre i tempi di passaggio dei procedimenti ai gradi successivi. Secondo il nuovo schema, pertanto, quando non si e' proceduto alla lettura contestuale del dispositivo e della motivazione, l'avviso di cui si e' detto e' previsto solo nel caso in cui il giudice non provveda a depositare la sentenza nel termine normale (che sara' previsto in trenta giorni) o in quello diverso (non superiore a novanta giorni) che egli e' autorizzato a fissare, dandone atto nel dispositivo della decisione, qualora la stesura della motivazione si presenti particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravita' delle imputazioni. Il termine per la presentazione della impugnazione, quindi, viene fatto decorrere dalla data di notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito solo nei casi in cui questo e' dovuto; negli altri casi il termine decorrera' dalla data in cui e' scaduto quello fissato dalla legge o dal giudice per il deposito della decisione. Nel caso in cui il deposito avvenga tempestivamente, infatti, le parti e i difensori sono posti in grado sia di conoscere l'esatto dies a quo del decorso del termine per la presentazione della impugnazione, sia di esaminare la motivazione della decisione impugnata. Diversamente da quanto previsto dal troppo articolato meccanismo stabilito dall'indicato disegno di legge, per l'imputato contumace si e' ritenuto opportuno prevedere che il termine per l'impugnazione decorra dalla notificazione dell'avviso di deposito con l'estratto del provvedimento; la notificazione congiunta dei due atti (avviso di deposito ed estratto contumaciale) mira invece a risolvere annose dispute giurisprudenziali in tema di equipollenza tra le due notificazioni. La disciplina proposta nel citato disegno di legge prevede infatti che, per il contumace, il termine per proporre impugnazione decorra o dall'avviso di deposito della sentenza, quando questa e' avvenuta fuori termine, o dalla notificazione dell'estratto della sentenza, se successiva alla scadenza dei termini " normali " ovvero, se antecedente, dallo spirare di detti termini. Meccanismo, quello indicato, che da un lato non consentirebbe il " risparmio " della notificazione mentre dall'altro non sembra particolarmente gravido di conseguenze sul piano della " accelerazione " della fase di gravame. E' sembrato pertanto preferibile, perche' piu' in linea con la direttiva 83 oltre che tecnicamente piu' agevole, prevedere che il termine decorra dalla notifica, unico actu, dell'avviso di deposito e dell'estratto contumaciale. La stessa disciplina e' stata prevista per le impugnazioni del procuratore generale della Repubblica contro i provvedimenti emessi in udienza da giudici diversi dalla corte di appello, stante la " sintonia " che tale posizione presenta rispetto alla figura del contumace. La previsione, che ricalca nelle grandi linee il disposto del comma 4 dell'art. 199 c.p.p., cosi' come novellato dall'art. 6 della l. 31 luglio 1984, n. 400, non sembra comportare oneri aggiuntivi di cancelleria, giacche' la comunicazione dell'avviso di deposito e dell'estratto rappresenta null'altro che un equipollente degli adempimenti attualmente previsti dall'art. 31 delle disposizioni regolamentari di cui al r.d. 28 maggio 1931, n. 603 e successive modificazioni. Il comma 3 e' stato formulato negli stessi termini che compaiono all'art. 3 del disegno di legge piu' volte citato: l'omologa disposizione dell'art. 547 del Progetto preliminare del 1978, infatti, risentiva del tenore della direttiva 68 della legge-delega del 1974 ("...decorrenza del termine dell'impugnazione dalla data dell'ultima notifica a tutte le parti dell'avviso di deposito del provvedimento ") che non compare piu' nella legge-delega del 1987. Nel comma 4 si e' provveduto a precisare infine che i nuovi motivi non possono sanare una inammissibilita' originaria dell'atto di impugnazione. L'articolo 579 riproduce il testo del Progetto del 1978 con le modifiche, di carattere formale e tecnico (v. Relazione al Progetto del 1978, p. 457) gia' apportate da questo all'art. 200 del codice vigente. Rimane pertanto la regola della non impugnabilita' autonoma dell'ordinanza. L'articolo 580 disciplina la possibile estensione dell'impugnazione e quindi della sentenza ai coimputati non appellanti, mantenendosi il mutamento di rubrica dettato dal Progetto preliminare del 1978 per sottolineare come si tratti non di un immanente effetto dell'impugnazione, ma soltanto di un'evenienza relativa a processi plurisoggettivi. Pur essendosi limitate consistentemente le ipotesi di connessione (art. 12), e' parso opportuno disciplinare anche la produzione delle conseguenze derivanti dall'impugnazione nel caso di riunione dei procedimenti (art. 17). L'articolo 581 mantiene fermo il principio della ineseguibilita' delle sentenze impugnabili o impugnate, con il riferimento ai momenti precedente e susseguente all'impugnazione. La disposizione del comma 2 del Progetto preliminare del 1978, inizialmente soppressa, e' stata ripristinata, poiche' essa si coordina con le corrispondenti modifiche apportate in materia di liberta' personale. L'articolo 582 fissa il principio che la rinuncia del pubblico ministero puo' essere fatta solo dal pubblico ministero che ha proposto l'impugnazione, evitando quelle situazioni di intervento gerarchico che hanno dato luogo per il passato a critiche consistenti. Non era d'altra parte possibile escludere, una volta iniziato il dibattimento in sede di impugnazione, una eguale facolta' del pubblico ministero presso il giudice che deve decidere dell'impugnazione proposta. Si e' ritenuto opportuno prevedere, al comma 3, che la rinuncia debba essere effettuata nelle forme e nei modi previsti per l'impugnazione, considerata la natura di contrarius actus che la stessa presenta ed al fine di dirimere talune perplessita' emerse in giurisprudenza. L'articolo 583 prevede la trasmissione senza ritardo degli atti al giudice dell'impugnazione, con una formulazione piu' agile rispetto all'analoga previsione del vigente art. 208 c.p.p. L'articolo 584 mantiene, come si e' detto, la scelta di attribuire solo al giudice ad quem la declaratoria di inammissibilita' dell'impugnazione, anche per dirimere le questioni sorte in dottrina e in giurisprudenza circa l'attribuzione allo stesso giudice dell'emissione di un provvedimento che inibisce di fatto il riesame di un proprio precedente provvedimento. Nell'elencazione delle cause di inammissibilita', e' stato escluso il riferimento alle notificazioni contenuto nella lettera d) del Progetto preliminare del 1978, stante il generalizzato regime della notificazione dell'atto di impugnazione e la considerazione che, dovendo la notificazione avvenire a cura del segretario del giudice, non si puo' far derivare conseguenze negative per le parti dalle inadempienze dell'ufficio. La carenza di interesse, menzionata nella lett. e) originaria, ricade ora entro il piu' generale ambito della lett. a), giacche' l'interesse ad impugnare costituisce condizione dell'azione (art. 561). Si intende che, una volta unificato l'atto di impugnazione, non sono piu' ravvisabili le ipotesi di inammissibilita' per la mancata presentazione dei motivi o, stante la possibilita' della conversione, per la erronea indicazione del mezzo di gravame. L'inammissibilita' dovra' essere dichiarata dal giudice con procedimento in camera di consiglio; procedimento che non ripete - come si e' detto nella introduzione - le formalita' garantistiche dell'art. 126. Le obiezioni mosse a tale soluzione nella Relazione al Progetto preliminare del 1978 devono ritenersi superate, stante il chiaro dettato della direttiva 89. Si trattera' di un procedimento de plano, come d'altra parte e' stato sempre ritenuto nel nostro sistema che pure conosce alcune specie di provvedimenti camerali che richiedono il contraddittorio. Cio' non toglie che, quando alla dichiarazione non si sia proceduto nel modo predetto, vi si potra' provvedere anche con la sentenza, in ogni stato e grado del procedimento. L'articolo 585 ricalca nella sostanza la norma dell'art. 213 c.p.p. e riproduce integralmente il testo dell'art. 554 del Progetto preliminare del 1978. TITOLO II APPELLO Premessa. Come si e' gia' accennato nell'introduzione premessa al presente libro, la legge-delega ha dettato per l'appello una serie di direttive nuove o comunque diverse da quelle della legge-delega del 1974, suggerite dal duplice intento, ricordato durante i lavori preparatori, di arginare la proliferazione degli appelli e di accelerare anche il corso del giudizio di impugnazione, al pari di quello di primo grado. A tali esigenze dovrebbero sopperire, da un lato, l'istituto dell'appello incidentale, dall'altro la possibilita' di decisione in camera di consiglio di talune impugnazioni, nonche' la eliminazione della regola della obbligatorieta' della rinnovazione del dibattimento, che nella delega precedente veniva sottolineata come momento rivelatore dell'appello inteso quale una sorta di rifacimento del giudizio di primo grado (Relazione, p. 461). Come e' noto, l'appello incidentale, nel sistema originario del codice vigente, era consentito a favore del solo pubblico ministero presso il giudice dell'impugnazione nei casi di appello principale dell'imputato e finiva sostanzialmente con il costituire una sorta di rimessione in termini del pubblico ministero che non avesse esercitato il diritto di impugnazione nel termine ordinario; l'istituto era stato qualificato dalla dottrina come " ibrido, incoerente ed ingiustificabile alla luce di un principio razionale ". La Corte costituzionale, con la sentenza n. 177 del 1971, ne dichiaro' l'incostituzionalita', sulla base di due fondamentali argomenti: il primo, certamente piu' vistoso, desunto dalla posizione diseguale delle parti, ed il secondo ricavato da una lettura dell'art. 112 Cost. (obbligatorieta' dell'azione penale) idonea ad esercitare la sua influenza anche nella fase di impugnazione. I rilievi da ultimo esposti hanno, come e' ovvio, indotto il legislatore delegante a dettare l'ampia formulazione della direttiva 90, ove non si fa piu' distinzione tra le parti legittimate a proporre l'appello incidentale, mentre, sul piano della disciplina attuativa, si e' ritenuto opportuno prevedere all'art. 587 un regime che ricalca, con gli opportuni adattamenti sistematici, il contenuto dell'art. 13 del gia' citato disegno di legge n.1708, anticipatore della innovazione. Allo stesso disegno di legge (art. 14) si e' fatto riferimento per disciplinare le decisioni in camera di consiglio, in relazione agli appelli aventi un determinato oggetto come prescritto dalla direttiva 93. Si e' ritenuto tuttavia di superare due limitazioni contenute nell'art. 14, comma 2 del testo governativo, costituite dalla previsione di tale forma di giudizio solo per l'appello dell'imputato e non del pubblico ministero e dalla esclusione del rito camerale quando vi sia stata costituzione di parte civile. La prima di tali eccezioni non e' legittimata dalla delega giacche' in essa non si fa menzione della parte impugnante e ci si riferisce invece all'oggetto dell'impugnazione, che ben puo' essere ravvisabile in talune impugnazioni del pubblico ministero. Altrettanto inspiegabile appare la seconda esclusione quando si riguardi l'oggetto specifico degli appelli definibili con rito camerale (specie e misura della pena, attenuanti generiche, sanzioni sostitutive, benefici di legge), argomenti tutti sui quali la parte civile non ha alcun diritto di interloquire e che non dovrebbero comportare una diminuzione della responsabilita' dell'imputato condannato in primo grado. In ogni caso, nulla vieta che si possa consentire l'intervento anche in questa sede della parte civile che lo voglia, essendo gia' previsto un contraddittorio quanto meno tra le parti principali del processo. E' stato invece condiviso il mutato indirizzo legislativo per cio' che attiene al regime della rinnovazione del dibattimento, sia per la maggiore attenzione che la direttiva 94 sottintende ai limiti della devoluzione oggettiva, sia per la eliminazione della possibilita' di rinnovazioni determinate solo da intento dilatorio. E pertanto nell'art. 596, in cui, stante il comune denominatore dell'acquisizione probatoria straordinaria, risulta disciplinata anche l'assunzione di nuove prove alle quali provvedeva invece l'art. 564 del Progetto del 1978, si e' ripristinato il sistema previsto dall'art.520 del codice vigente, nel senso di consentire la rinnovazione a domanda o di ufficio allorquando il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Nella legge-delega del 1987 non e' stata accolta la scelta operata dal Progetto preliminare del 1978 di estendere anche all'appello la possibilita' della declaratoria di inammissibilita' per manifesta infondatezza. La delega del 1974 in verita' non ne parlava, ma la direttiva 89 dell'attuale legge-delega, ammettendo la previsione di una siffatta soluzione solo per il ricorso per cassazione, non consente un'interpretazione estensiva. Sorprende tuttavia tale omissione, atteso il proposito del legislatore delegante di favorire percorsi che non comportino la trattazione del processo nelle forme ordinarie, anche se e' intuibile che sia prevalsa la considerazione che la possibile maggiore ampiezza del rimedio dell'appello e la inesistenza di parametri legislativi in relazione al contenuto dei motivi rendono del tutto marginale l'utilizzazione di una declaratoria di inammissibilita' basata su una infondatezza manifesta. Un approfondito riesame dell'argomento ha indotto a reintrodurre la relazione del consigliere, all'inizio del dibattimento (art. 595), in conformita' del parere a suo tempo espresso dalla Commissione consultiva sul Progetto preliminare del 1978 (disatteso in sede redigente nell'intento di rendere maggiormente e paritariamente partecipi tutti i componenti il collegio della materia oggetto del giudizio). E' stato ritenuto prevalente il rilievo che l'affidamento ad ognuno dei giudici dell'esame degli atti di singoli processi comporta un maggiore approfondimento e una migliore valutazione, di cui, se la relazione e' fatta con attenzione ed informazione, possono ugualmente, se non meglio, essere partecipi anche gli altri componenti del collegio. Rispetto al Progetto del 1978, la sistematica dell'articolato e' stata rimaneggiata in piu' punti, sia per la introduzione di istituti nuovi e la soppressione di istituti non piu' riprodotti, sia per rendere piu' razionali la consultazione e la lettura del testo. E' stato rilevato che l'attribuzione e la valutazione della competenza costituiscono il prioritario momento rivelatore della capacita' del giudice in concreto; che la materia degli interessi civili e' tutto sommato estranea al processo penale vero e proprio e che comunque in questa fase essa e' oggetto di una preliminare deliberazione in camera di consiglio; che infine l'eventuale rinnovazione del dibattimento non puo' che essere decisa e realizzata a processo di appello gia' iniziato. Si spiegano quindi le seguenti variazioni rispetto al testo del Progetto preliminare del 1978, e, in una certa misura, anche rispetto alla sistematica del codice vigente: a) l'art. 589 riguardante la cognizione del giudice di appello precede le norme in tema di regole processuali (art. 590) e di domicilio dell'imputato (art. 591); b) l'art. 593, che prevede i provvedimenti in ordine all'esecuzione delle condanne civili, e' posto prima della disciplina degli atti preliminari al giudizio (art. 594); c) l'art. 595, che regola il dibattimento, precede la disposizione in tema di rinnovazione del dibattimento (art. 563), che ingloba, come si e' detto, anche l'art. 564 del Progetto del 1978 che riguardava l'assunzione di nuove prove. Illustrazione degli articoli. L'articolo 586, che descrive i casi in cui puo' proporsi l'appello realizza, nel comma 1, con la sintetica formula dell'indicazione in positivo delle eccezioni, la direttiva 86, dettata dall'incidenza delle numerose sentenze della Corte costituzionale (tra cui soprattutto la n. 224 del 1983 e la n. 200 del 1986) intervenute sul testo degli artt. 512 e 513 del codice vigente. Rimane percio' ferma l'impugnabilita' di ogni sentenza che non abbia gia' accertato la totale innocenza dell'imputato con formula che non lasci adito ad ulteriori pretese nei suoi confronti. Quanto alla legittimazione del pubblico ministero sono presupposte nella norma la creazione di un ufficio del pubblico ministero presso il pretore e la scelta di affidare la cognizione dell'appello avverso tutte le sentenze, ivi comprese quelle del pretore, alla corte di appello, sicche' il comma 3 precisa quali siano gli organi del pubblico ministero legittimati a proporre impugnazione in tale grado di giudizio. Al fine di ridurre il numero delle impugnazioni (considerato anche che l'istituto dell'appello, a differenza del ricorso per cassazione, non ha avuto un riconoscimento costituzionale tale da imporne la previsione indefettibile in ogni processo penale), si e' deciso di ampliare i casi di esclusione dell'appello. Si sono tenute distinte le sentenze di condanna da quelle di proscioglimento e si e' stabilito, per le prime, l'inappellabilita' di quelle relative a contravvenzioni per le quali in concreto sia stata applicata l'ammenda (anche se in astratto sia prevista l'alternativa dell'arresto) e, per le seconde, l'inappellabilita' di quelle relative a contravvenzioni per le quali sia prevista in astratto l'ammenda o, in alternativa, l'arresto. In relazione all'articolo 587 (appello incidentale), vanno naturalmente richiamate le considerazioni esposte nelle introduzioni alle impugnazioni in generale e all'appello. Il testo ricalca l'art. 13 del disegno di legge n. 1708, con la variante, che sembra discendere chiaramente dalla direttiva 90, della legittimazione conferita a tutte le parti e non soltanto, come e' nel testo governativo, al pubblico ministero e all'imputato. Non puo' dirsi pero' risolto il nodo fondamentale costituito dalla correlazione con l'appello principale, che nella delega e' riguardato solo con riferimento all'immanente ammissibilita' di quest'ultimo. Manca percio' ogni riferimento all'area di devoluzione dell'appello incidentale, sicche' sono possibili in astratto diverse soluzioni che qui di seguito si segnalano: a) che esso debba essere limitato a contrastare la pretesa dell'appellante; b) che debba essere contenuto nei limiti segnati dall'appello principale; c) che, sia pure con la possibilita' di estendersi a punti della decisione diversi, debba comunque essere ristretto ai capi della sentenza oggetto dell'appello principale; d) che infine non sussista alcun limite derivante dal contenuto dell'appello principale. Certamente, ove si volesse privilegiare la finalita' deterrente dovrebbe essere approvata l'ultima delle soluzioni, quella piu' radicale. Ma, a parte considerazioni etiche, che pure non devono essere trascurate nel processo, sembra anche concettualmente non accettabile che la dipendenza dall'appello principale debba essere limitata al solo profilo della ammissibilita'. Se si considera peraltro che nel testo originario dell'art. 515 comma 4 c.p.p., tale dipendenza non sussisteva in quanto l'appello incidentale manteneva effetto nonostante la successiva rinunzia dell'imputato, vi e' la possibilita' per questa via di ritenere che i due appelli debbano essere tra di loro in qualche modo collegati quanto meno in relazione ai capi della sentenza impugnata. Opinando diversamente, ritenendosi cioe' del tutto libera l'area di devoluzione dell'appello incidentale, questo apparirebbe rivolto a consentire solo una generica rimessione in termini e non dettato dall'intento, certamente piu' comprensibile ed apprezzabile, di ottenere un riesame, in tutt'e due le direzioni, dei capi della sentenza posti in discussione dall'appello principale. A fronte della complessa problematica di cui si e' detto si e' ritenuto, tuttavia, di non introdurre specifiche previsioni volte a circoscrivere l'ambito applicativo dell'appello incidentale, per la prevalente considerazione che, trattandosi di istituto non nuovo, lo stesso viene a collocarsi in un ormai piu' consolidato filone interpretativo, dal quale non e' sembrato opportuno discostarsi. L'articolo 588 conferma la scelta, ormai legislativamente acquisita dopo la legge n. 400/ 84, dell'esclusiva competenza della corte di appello in merito. Le obiezioni a suo tempo formulate da alcuni uffici giudiziari, possono dirsi ormai superate anche dalla concreta esperienza di questi anni, mentre rimane ancora valida la considerazione, contenuta nella Relazione al Progetto preliminare del 1978, che nella innovazione e' possibile intravedere anche un'apertura verso l'istituzione di un giudice monocratico di prima istanza. Non senza contare che nella stessa direzione, di ridurre cioe' il carico di lavoro del tribunale, si sono mosse le piu' recenti leggi di spostamento di competenze verso il Pretore. L'articolo 589, che, come si e' detto, precede l'art. 557 del testo del Progetto preliminare del 1978, e' intitolato, al pari dell'art. 515 del codice vigente, " Cognizione del giudice di appello " e sottolinea alcuni punti fermi gia' rilevabili nel testo del Progetto del 1978, sostanzialmente qui riprodotto. Il primo di essi riflette il divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato, nonostante consistenti contrarie affermazioni registrate nel corso dei lavori preparatori della legge-delega. Esso viene rafforzato rispetto al codice vigente, con la previsione dell'obbligatoria diminuzione della pena complessiva, in caso di accoglimento dell'appello in ordine alle circostanze o al concorso di reati. In esecuzione della direttiva 91, e' prevista la possibilita' per il giudice di appello di concedere circostanze attenuanti e benefici di legge anche non richiesti con l'impugnazione proposta; ma e' parso opportuno non attribuire esplicitamente a tal fine poteri istruttori al giudice di appello, che finirebbe altrimenti con l'ottenere poteri piu' ampi di quelli attribuiti al giudice di primo grado. E, sullo stesso piano, alla lett. b) del comma 2 e' prevista per il giudice la possibilita', gia' presente nella giurisprudenza attuale, in caso di appello del pubblico ministero, di prosciogliere l'imputato per una causa diversa da quella gia' conseguita in primo grado. L'articolo 590 contiene un rinvio alle norme relative al giudizio di primo grado, con la sola riserva della compatibilita' con il giudizio di appello. E' una norma percio' analoga a quella dell'art. 519 del codice vigente. E' parso pero' opportuno trarre il massimo risultato da una norma siffatta. E' stato percio' ritenuta inutile la disposizione dell'art. 567 del Progetto del 1978 relativo alle regole sulla discussione finale, il cui contenuto puo' ritenersi qui gia' recepito. Ed infatti il rinvio esplicito all'art. 495 (ora art. 516), che tale norma effettuava, rientra nel piu' generale rinvio alle " disposizioni relative al giudizio di primo grado ". Il rinvio e' stato anche sufficiente per evitare, come gia' fu detto nella Relazione al Progetto preliminare del 1978 (p. 465) l'inserimento di una norma sulle nullita' del decreto di citazione del giudizio di appello, operando il rinvio anche in relazione a questo profilo. Con l'articolo 591 si e' inteso dare attuazione alla direttiva 9 della legge-delega, che invita alla massima semplificazione del sistema delle notificazioni. Le difficolta', che spesso si registrano per le notificazioni all'impugnante, hanno suggerito di ritenere eletto presso il difensore di fiducia il domicilio dell'impugnante, sempre che naturalmente egli non comunichi all'ufficio procedente un nuovo e diverso domicilio. L'art. 559 del Progetto preliminare del 1978 e' stato soppresso, essendo la materia (cognizione del giudice sull'appello della sola parte civile) gia' regolata dall'art. 569 (Impugnazioni della parte civile e del querelante). La disposizione, formulata come era nel Progetto del 1978, non avrebbe potuto coprire peraltro le impugnazioni proposte dalla parte offesa avverso le sentenze di proscioglimento dai reati di ingiuria e di diffamazione introdotte con la direttiva 85. Non e' stato riprodotto neanche l'art. 560, che disciplinava la dichiarazione di inammissibilita' per manifesta infondatezza, che, come si e' gia' detto, non e' parsa riproponibile, atteso il contenuto della direttiva 89. L'articolo 592 introduce nel sistema l'altra importante innovazione della legge-delega (direttiva 93), costituita dalla previsione di una decisione dell'appello al di fuori dell'udienza pubblica, in camera di consiglio. Di essa si e' gia' parlato nella parte introduttiva per segnalare le divergenze di previsioni rispetto al disegno di legge n. 1708, che gia' tale ipotesi contempla. La Commissione, come si e' detto, apprezzando le ragioni che hanno dettato la direttiva 93, ha ritenuto di dover estendere il rito anche all'ipotesi in cui impugnante sia il pubblico ministero e senza la esclusione dei casi in cui vi sia una parte civile costituita. Pur considerandosi che le ipotesi di operativita' di questo rito previste dalla delega costituiscano un'elencazione tassativa, si e' ritenuto che la ratio che ha dettato tale innovazione ne consenta l'adozione anche allorquando il dibattito pubblico si appalesi inutile. Cio' accade quando le parti abbiano raggiunto un accordo sull'accoglimento dei motivi di appello o di alcuni tra essi quando i motivi siano piu' d'uno, con contestuale rinuncia agli altri. Nell'ambito di tale estensione e' precisato che l'accordo, quando l'accoglimento comporti una nuova determinazione della pena, debba riguardare anche l'entita' della sanzione da comunicare al giudice. Il meccanismo e' completato dalla disposizione dell'ultimo comma, che consente al giudice, se non ritiene di accogliere la richiesta, di disporre la citazione a comparire al dibattimento. S'intende che in tal caso la rinunzia e l'accordo perdono la loro efficacia, anche se ne e' ammessa, come vedremo, la riproposizione in sede dibattimentale. Quanto alle forme previste per questo procedimento abbreviato, la legge-delega detta la necessita' del contraddittorio tra le parti, che si e' ritenuto potersi realizzare con le forme di cui all'art. 126. E' stato al riguardo osservato che la speditezza del rito e l'intento di consentire un risparmio di energie in fase di giudizio sarebbero in una qualche misura frustrate con la previsione della contemporanea presenza del pubblico ministero e del difensore, che nella sostanza determinerebbe lo svolgimento di un vero e proprio dibattimento. Si era pertanto proposto che il contraddittorio previsto dalla delega fosse realizzato mediante una richiesta di adesione rivolta al pubblico ministero e successiva emissione della decisione, con una sorta cioe' di contraddittorio frazionato, egualmente idoneo a rispettare quanto richiesto dalla delega. Risultava comunque chiaro che a tale procedura non si potesse far ricorso in caso di impugnazione proposta dal pubblico ministero. Pur apprezzandosi l'intento sollecitatorio che animava tale proposta, e' apparsa impraticabile innanzitutto la strada di procedure diverse a seconda che impugnante sia il pubblico ministero o l'imputato, e si e' ritenuto comunque che il risparmio di attivita' in contraddittorio nella camera di consiglio si sarebbe dovuto scontare successivamente per le doverose notifiche del provvedimento. Sulla base dell'esperienza gia' conseguita con i riti camerali oggi previsti in tema di incidente di esecuzione e di applicazione di misure di prevenzione, si e' percio' articolato un procedimento che consenta la presenza del difensore, senza tuttavia esigerla a pena di nullita', con la possibilita' di un rinvio della trattazione - alla stregua della sentenza n. 98 del 1982 della Corte costituzionale - solo per impedimento dell'imputato che abbia manifestato la volonta' di comparire (comma 2). Si e' anche prevista la possibilita' in tale sede di assumere prove (ipotesi eccezionale, atteso l'oggetto del giudizio), previo avviso alle parti eventualmente non presenti al momento in cui la rinnovazione del dibattimento e' disposta. Conseguita pertanto la possibilita' in questa sede di svolgere ogni attivita' difensiva, e' parso naturale prevedere tale rito come obbligatorio tutte le volte in cui l'oggetto della impugnazione si risolva in una delle materie per le quali e' stato introdotto lo speciale rito camerale per la decisione dell'appello. Le disposizioni che regolano tale forma di procedimento sono completate dall'articolo 594 comma 2, nel quale si precisa che col decreto di citazione l'imputato e le eventuali parti private devono essere avvertite del rito con il quale si procedera' (camera di consiglio o udienza pubblica). Questa norma, come si e' detto, semplifica peraltro le disposizioni dell'art. 517 del codice vigente, nel presupposto che il rinvio alle norme del giudizio di primo grado, contenute nell'art. 590, rende superflue ulteriori specificazioni e che le norme generali in materia di nullita' comprendono anche quelle attinenti specificamente al decreto di citazione per il giudizio di appello. L'articolo 595 e' intitolato " Dibattimento di appello ", allo stesso modo dell'art. 518 del codice vigente e fissa le regole dello svolgimento di tale fase che non siano gia' richiamate nell'art. 590. Nel comma 2 e' prevista la possibilita' di reiterazione dell'accordo tra le parti circa la misura dell'accoglimento dell'appello di una di esse o di entrambe, come prosecuzione della richiesta avanzata per il procedimento in camera di consiglio ai sensi dell'art. 592 o comunque autonomamente. Nel comma 3 e' ripetuta quella che era l'unica disposizione dell'art. 565 del Progetto preliminare del 1978 circa le letture dibattimentali, per le quali vale il generale disposto dell'art. 504 giacche' occorre negare la possibilita' di far rivivere atti gia' compiuti al di la' dei limiti previsti per il dibattimento di primo grado con riguardo agli atti della fase antecedente e di non creare alcuna preclusione in ordine alla lettura degli atti di primo grado; altrimenti il giudice di appello non avrebbe a disposizione per giudicare della impugnazione altro materiale diverso dalla sentenza del primo giudice. Nell'ultimo comma infine e' recuperata la regola d'ordine della discussione finale, gia' oggetto dell'art. 567 del Progetto del 1978, con un rinvio ancora una volta al giudizio di primo grado. Sembra infatti non piu' ormai proponibile un diverso ordine di discussione, che inizi dall'impugnante, come era un tempo nel nostro sistema di appello. Nell'articolo 596, a differenza del Progetto preliminare del 1978, che recava due diverse disposizioni (artt. 563 e 564) sono disciplinate l'assunzione di nuove prove e la rinnovazione del dibattimento, cosi' uniformemente enunciate sotto il profilo che anche la prima comporta una ripetizione della fase istruttoria dibattimentale di norma preclusa al giudice di appello, anche se naturalmente il termine " rinnovazione " piu' strettamente si riferisce alla reiterazione di atti gia' compiuti. A favore della soluzione unitaria milita la circostanza che la direttiva 94 della legge-delega attuale, al contrario della direttiva 76 del 1974, non menziona piu' l'ammissibilita' di nuove prove, in astratto evidentemente non escludibili. D'altra parte le condizioni alle quali l'art. 564 del Progetto del 1978 subordinava l'assunzione delle prove nuove (rilevanza delle stesse e richiesta nei motivi di appello) non sono incompatibili con l'attuale delega, specie se la disciplina viene rapportata ai limiti intrinseci dell'art. 489 comma 1. Ne' puo' dimenticarsi che, come si e' detto nella parte introduttiva, in tema di rinnovazione la delega del 1987 ha rovesciato il sistema introdotto dalla precedente legge-delega merce' la riproduzione del meccanismo previsto nell'art. 520 del codice vigente, secondo cui essa riposa sulla impossibilita' per il giudice di decidere allo stato degli atti, anche se occorre evitare di ridurre lo stato degli atti alle mere risultanze della sentenza impugnata. La considerazione unitaria anche dell'assunzione di nuove prove ha posto il problema dell'esistenza di un diritto delle parti alla loro ammissione quanto meno in relazione a quelle sopravvenute o scoperte dopo il dibattimento. Tale quesito e' stato risolto affermativamente, fermo restando il potere del giudice, sorretto evidentemente da adeguata motivazione, di escludere l'assunzione di tali prove, quando ne ritenga la irrilevanza. La rinnovazione e' invece dovuta quando l'imputato, contumace nel giudizio di primo grado, ne abbia fatto richiesta e si trovi nelle medesime situazioni che gli consentirebbero di ottenere la restituzione in termini. L'articolo 597 riprende il titolo dell'art. 522 del codice vigente e disciplina l'ipotesi nella quale il giudice di appello rilevi una nullita' in cui sia incorsa la sentenza di primo grado, mediante l'elencazione di una numerosa casistica. Il codice si ispira ai principi di conservazione e di economia processuale, ravvisabili nelle due regole di fondo, per le quali da un lato la nullita' di una parte della sentenza non travolge le altre parti che non siano da essa dipendenti e, dall'altro, il giudice di appello deve sostituirsi a quello di primo grado, correggendone o integrandone la decisione, senza inutili e dilatori rinvii. Si spiega in tal modo come, in presenza di una nullita' per essere state allegate circostanze aggravanti non contestate, il comma 1 consenta, se si tratta di circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o di circostanze ad effetto speciale, di evitare il rinvio al primo giudice mediante l'eliminazione diretta delle conseguenze dannose ogni volta che siano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti: in tal modo viene infatti eliminata l'incidenza particolarmente aggravatrice di tali particolari circostanze. Alle stesse ragioni di economia e' ispirata la norma parallela, secondo la quale, se si tratta di aggravanti di specie diversa dalle predette, queste vanno eliminate, e con esse la sanzione per la parte corrispondente, ferma restando la regola che, in presenza di circostanze attenuanti, si possa procedere ad un nuovo giudizio di comparazione e a conseguente rideterminazione della sanzione. Nello stesso ordine di idee e' possibile, in caso di condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo, invece di procedere al totale annullamento della sentenza, come risulta dal combinato disposto degli artt. 445 comma 3 e 622 comma 1 del vigente codice, annullare solo tale capo della sentenza con eliminazione della pena corrispondente, ferma restando la necessita' di informativa al pubblico ministero per l'esercizio dell'azione penale relativo al reato eliminato. I commi dal 4 al 7 recepiscono, in sostanza, i commi dal 2 al 5 dell'art. 522 c.p.p., con qualche precisazione terminologica. Cosi' e' nel riferimento, nel comma 4, al " giudice che procedeva ", espressione certamente piu' esatta di quella usata nel codice vigente " giudice di primo grado ", che puo' dar luogo a qualche incertezza. Correlativamente a tale esigenza, con il comma 8, infine, si e' ritenuto opportuno precisare quale sara' il giudice di rinvio dopo l'annullamento delle singole specie di sentenze, norme queste che, naturalmente, seguono la stessa logica delle lett. c ) e d) dell'art. 615, in armonia con la seconda parte della direttiva 19. L'articolo 598 riproduce il testo del Progetto preliminare del 1978 corrispondente all'ultima parte dell'art. 522 e all'art. 523 del codice vigente. Vi si aggiunge, rispetto a questi, che i capi che decidono sulle domande civili sono immediatamente esecutivi (direttiva 27 della legge-delega). Del corrispondente art. 568 del Progetto del 1978 non e' stato pero' riprodotto il comma 1, riguardante i casi di erronea estinzione del reato che risultano ora inseriti nell'art. 597 tra le questioni di nullita', ripristinandosi cosi' la sistematica dell'art. 523 del codice vigente. Gli altri commi sono nella sostanza immutati rispetto al testo di detto progetto, con piccole modifiche di carattere formale. TITOLO III RICORSO PER CASSAZIONE Premessa. Di fronte ad un tema come quello della cassazione, che di recente ha formato oggetto di studi e di dibattiti, relativi tanto al processo penale quanto al processo civile, il legislatore delegante e' rimasto sostanzialmente muto. Cio' puo' far pensare ad una sottovalutazione del tema, ma anche, e con maggior ragione, all'intento di non introdurre innovazioni radicali rimettendosi al legislatore delegato per una revisione razionalizzatrice della materia che si sviluppi seguendo le linee dell'attuale sistema. Gli interrogativi che si sono riproposti sul ruolo che dovrebbe avere e su quello che ha effettivamente assunto la corte di cassazione sono noti: ci si chiede se e in quale misura la corte debba ancora svolgere il ruolo, affidatole dall'art. 65 dell'ordinamento giudiziario, di assicurare " l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge "; se e in quale misura abbia effettivamente una funzione nomofilattica o sia piu' semplicemente da considerare un giudice di terza istanza. A questi interrogativi sono collegati quelli sui motivi per i quali deve ammettersi il ricorso e sulla deducibilita' dei vizi di motivazione. Gia' si e' detto che nel silenzio della legge-delega e' da ritenere che al legislatore delegato sia stato assegnato il compito di ridisegnare il ricorso in modo da eliminare i difetti attualmente riscontrati senza pero' mutare radicalmente i connotati dell'attuale sistema. Ora, indipendentemente da una presa di posizione sull'interrogativo di fondo relativo al ruolo della corte di cassazione (interrogativo che non e' circoscrivibile nel solo ambito del processo penale), alcuni difetti vistosi e gravi sono indiscutibili. Lo stesso primo presidente della corte ha avuto occasione di rilevare " che la giurisprudenza della cassazione presenta frequenti e gravi oscillazioni, anche non giustificate dall'interpretazione evolutiva, e che spesso essa si occupa indirettamente anche del fatto, attraverso un non corretto esercizio dei poteri di controllo dei vizi di motivazione della sentenza impugnata ". Si tratta di difetti che hanno cause diverse, non eliminabili solo mediante modifiche processuali, ma che andavano presi in considerazione nel momento in cui ci si accingeva a ridisegnare il ricorso per cassazione. Si e' ritenuto che sul piano processuale si potesse e dovesse intervenire semplificando nella massima misura consentita il ricorso e delimitando con chiarezza i motivi che lo consentono. Con riferimento ai motivi, il primo quesito al quale si e' dovuta dare risposta e' stato se e in quali limiti dovesse mantenersi il sindacato della corte sul vizio di motivazione. La risposta e' stata positiva. Innanzitutto, come si e' detto, il silenzio della legge-delega e' apparso indicativo dell'intenzione di evitare mutamenti radicali; inoltre e' sembrato che fosse opportuno non gia' escludere qualunque sindacato sulla motivazione, ma piuttosto contenerlo, in modo da evitare che il controllo della cassazione anziche' sui requisiti minimi di esistenza, completezza e logicita' della motivazione si eserciti, muovendo dagli atti del processo, sul contenuto della decisione. Per quanto piu' in particolare concerne la logicita' della motivazione si e' ritenuto che alle critiche pur argomentate mosse alla previsione di un suo controllo in sede di legittimita' si opponessero non trascurabili esigenze di garanzia. Nel momento in cui un'illegalita' organizzata e diffusa esige uno sforzo di comprensione di fenomeni complessi e, quindi, un piu' ampio ricorso alla prova critica, sarebbe fortemente rischioso amputare la giurisdizione della possibilita' di esercitare un sindacato finale su motivazioni in cui si traggono conclusioni prive di giustificazione o incompatibili con le premesse, ovvero si adottano massime di esperienza contrastanti con " il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilita' di apprezzamento ". D'altronde, il controllo di logicita', che, per sua natura, rimane all'interno del documento con cui si esterna la decisione, senza necessita' di riscontro con gli atti del processo, e' apparso in tutto compatibile con l'esigenza, da piu' parti avanzata e condivisa, di circoscrivere al massimo l'oggetto del giudizio di legittimita'. Fra i motivi di ricorso e' rimasto dunque il vizio di motivazione, ed anzi e' stato esplicitato nell'art. 599, in modo che esso, con i suoi limiti, risulti direttamente (analogamente a quanto e' disposto nel codice di procedura civile) e non, come avviene con il sistema vigente, attraverso il riferimento ai casi di nullita' della sentenza. La formula adottata nell'art. 599 comma 1 lett. e) presenta alcune diversita' rispetto all'attuale art. 475 comma 1 n. 3 c.p.p., che tendono a circoscrivere ulteriormente l'area della sindacabilita', ma e' chiaro che la disposizione non potra' ottenere gli effetti di contenimento che persegue se la corte di cassazione non l'applichera' secondo l'intenzione del legislatore. Si vuol dire che se il vizio di motivazione risulta oggi dilatato e viene talvolta addotto per giustificare una sovrapposizione dell'apprezzamento del giudice di legittimita' su quello del giudice di merito, cio' dipende piu' che dal tenore letterale della disposizione vigente dal modo in cui essa vive nell'interpretazione della corte di cassazione e che nessun mutamento potra' avvenire se non attraverso una presa di consapevolezza da parte della corte del limite del proprio potere. Oltre a quella relativa ai vizi di motivazione altre modificazioni rispetto alla disciplina vigente sono state previste per quanto concerne i motivi di ricorso e di esse si parlera' piu' diffusamente nell'illustrazione dell'art. 599. Anche il procedimento presenta alcune diversita' rispetto all'attuale; esse tendono ad una maggiore semplificazione, quando e' possibile, ma anche ad un completamento delle garanzie difensive. Significativa sotto questi aspetti e' la nuova disciplina del procedimento in camera di consiglio (art. 604) perche', da un lato, applicandosi anche nel caso di inammissibilita' del ricorso per manifesta infondatezza semplifica la relativa dichiarazione, oggi resa complessa dalla facolta' di chiedere la discussione in udienza pubblica con un conseguente prolungamento dei tempi processuali, dall'altro garantisce in tutti i casi alle parti un effettivo contraddittorio. CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI La disciplina del ricorso per cassazione ha inizio con l'articolo 599 che nelle lett. a ), b ) e c) del comma 1 ripropone sostanzialmente, anche se in diverso ordine, i numeri 1, 2 e 3 del vigente art. 524 c.p.p. Nella lett. c) si prevede come motivo di ricorso l'inosservanza, oltre che delle norme processuali stabilite a pena di nullita', inamissibilita' o decadenza, di quelle stabilite a pena di inutilizzabilita'. E' questa una particolare condizione degli atti processuali alla quale nei tempi piu' recenti il legislatore ha fatto spesso riferimento, e si e' espressamente prevista la violazione del vincolo come motivo di ricorso per cassazione anche per evitarne la deduzione, come oggi talvolta avviene, sotto il profilo del vizio di motivazione. L'aver utilizzato come prova un atto inutilizzabile costituisce infatti inosservanza di una norma processuale, di immediata rilevabilita' e dunque di autonoma deducibilita', e, d'altro canto, per ricondurre nei suoi esatti confini il vizio di motivazione e' apparso opportuno impedire che rifluissero in questo anche specifiche violazioni. Anche la lett. d) risponde ad una logica di depurazione del vizio di motivazione da possibili deviazioni della decisione che traggono origine dalla violazione di norme processuali. Percio' costituisce autonomo motivo di ricorso la lesione del diritto alla prova, che gli artt. 190 e 489 del Progetto riconoscono alle parti, in attuazione dell'art. 6 lett. d) Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (richiamato dal comma 1 dell'art. 2 legge-delega) e delle direttive 3, 69 e 75 della stessa legge-delega. Nel sistema attuale, secondo la prevalente giurisprudenza, il potere del giudice di decidere circa la rilevanza e l'ammissibilita' delle prove non contrasta con l'art. 6 lett. d) della citata convenzione (diritto di ottenere la convocazione e l'interrogazione dei testimoni a discarico), sicche' la mancata assunzione di una prova non costituisce, di per se', violazione della legge processuale e puo' essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo quando abbia dato luogo ad un vizio di motivazione, in genere ravvisato in affermazioni apodittiche o in travisamento dei fatti. In questa direzione si era mosso anche il Progetto del 1978, che aveva ritenuto di poter risolvere il problema prevedendo tra i vizi della motivazione l'omesso esame delle richieste delle parti. Era pero' rimasta elusa la questione principale: quella dell'ammissibilita' di una motivazione implicita sul rigetto della richiesta di ammissione delle prove (e, tra queste, di quella per la rinnovazione del dibattimento in appello). E, infatti, sinche' la violazione del diritto alla prova rimane nell'ambito dei vizi di completezza della motivazione, non puo' escludersi la legittimita', anche per la decisione sulle richieste delle parti, di quel modo implicito di motivare che si riconosce ammissibile per tutti i punti della decisione, mentre e' proprio con riferimento all'ammissibilita' di una motivazione implicita delle decisioni sulle istanze di prova delle parti che si manifesta oggi un contrasto nell'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale. Nel nuovo Progetto si e' adottata una soluzione del tutto diversa. Non e' l'omesso esame dell'istanza, bensi' la mancata assunzione di una prova richiesta dalle parti a norma dell'art. 489 comma 2 (diritto alla controprova) a costituire un autonomo error in procedendo, sebbene esso rilevi solo quando quella prova, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della sentenza (motivazione), risulti esere " decisiva ", nel senso che avrebbe potuto determinare una decisione diversa. E la valutazione di decisivita' sara', evidentemente, compiuta accertando se i fatti indicati dalla parte nella richiesta di prova (v. art. 487 comma 2) siano tali da inficiare le argomentazioni poste a base della decisione di merito. In tal modo, si e' operato in una prospettiva autenticamente accusatoria, privilegiando il contraddittorio tra le parti, come garanzia di una corretta formazione del convincimento del giudice, piuttosto che gli obblighi di pronuncia e di giustificazione, i quali tendono, invece, ad assicurare la correttezza della manifestazione di tale convincimento. E pur tuttavia si e' stabilito che la violazione del contraddittorio non valga in astratto ed in ogni caso, ma solo quando abbia inciso effettivamente sulla formazione del convincimento del giudice, cosi' come esso si esprime nella motivazione della sentenza impugnata. La lett. e) concerne il vizio di motivazione e gia' si e' detto nella premessa quale sia stata l'intenzione che ha guidato la redazione della disposizione: quella di mantenere il sindacato sul piano della legittimita', evitando gli eccessi da piu' parti denunciati e che hanno talvolta dato luogo ad invasioni da parte del giudice di legittimita' dell'area di giudizio riservata al giudice di merito. Questa intenzione e' stata espressa attraverso alcune diversita' rispetto alla disposizione del vigente art. 475 comma 1 n. 3 c.p.p. All'espressione " se manca... la motivazione " dell'art. 475 n. 3 c.p.p. il Progetto contrappone l'espressione " omessa motivazione ", per rendere chiaro che il vizio e' costituito da un'effettiva omissione e non, come oggi si tende ad affermare, anche da una mera insufficienza di motivazione. L'omissione certo non e' costituita solo dalla totale mancanza della parte espositiva delle ragioni della decisione ma anche dalla mancanza di singoli momenti esplicativi, sempre pero' che questi siano ineliminabili nel rapporto tra i temi sui quali si doveva esercitare il giudizio e il contenuto di questo. In ogni caso si deve trattare di un vizio, come si precisa nella parte finale della disposizione, che " risulta dal testo del provvedimento impugnato "; occorre cioe' che l'omissione appaia tale nello stesso sviluppo logico del provvedimento e non nella diversa prospettiva addotta dal ricorrente. L'omissione infatti rileva non come dato formale, ma quale sintomo di un vizio insorto nell'attivita' di giudizio. Per quanto in particolare concerne la sentenza non puo' non considerarsi che l'art. 537 prevede come normale la redazione immediata in camera di consiglio, subito dopo la decisione, della concisa esposizione dei motivi di " fatto e di diritto su cui la sentenza e' fondata " e che si intende in tal modo far riferimento ad una motivazione succinta, che esponga le ragioni che hanno determinato il giudice a prendere lo specifico provvedimento, senza che occorra l'esame analitico e la confutazione di tutti gli argomenti prospettati dalle parti a sostegno della richiesta di una decisione diversa; ragion per cui la mancanza di un siffatto esame e di una tale confutazione non potranno essere addotti come vizio di motivazione della sentenza. All'espressione " se... e' contraddittoria la motivazione ", dell'art. 475 comma 1 n. 3 c.p.p., il Progetto contrappone l'espressione " manifesta illogicita' della stessa ", chiarendo da un lato, per le ragioni gia' indicate nella premessa, che il sindacato della corte di cassazione si estende alla logicita' della motivazione, come anche oggi si ritiene da parte della giurisprudenza, in genere attraverso un'interpretazione estensiva della contraddittorieta', dall'altro pero' che tale sindacato non puo' spingersi oltre la soglia della manifesta illogicita', cioe' non puo' giustificare la sostituzione dei criteri e delle massime di esperienza adottati dai giudici di merito con quelli prescelti invece dalla cassazione. Nell'ultimo comma dell'art. 599 sono stabiliti i casi in cui i motivi dedotti danno luogo all'inammissibilita' del ricorso. Analogamente a quanto e' disposto attualmente dall'ultimo comma dell'art. 524 c.p.p., " il ricorso e' inammissibile se e' proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ". E' opportuno ricordare che l'inammissibilita' del ricorso per manifesta infondatezza e' prevista dalla stessa legge-delega nella direttiva 89, la quale richiede " adeguate garanzie per la difesa " che sono state disciplinate negli artt. 603 ultimo comma e 604. Nuova rispetto alla corrispondente disposizione dell'art. 524 ultimo comma c.p.p. e' la previsione, tra i casi di inammissibilita', dei motivi concernenti violazioni di legge non dedotte in appello. Si tratta di una disposizione, gia' presente nel Progetto del 1978 (art. 569 ultimo comma), che costituisce la codificazione di un principio ormai affermato da una consolidata giurisprudenza della corte di cassazione e che va letta in collegamento con l'art. 602 ultimo comma, il quale ne segna i confini stabilendo che in ogni caso possono essere sottoposte alla corte di cassazione le questioni rilevabili di ufficio e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Nel disciplinare il ricorso dell'imputato, il comma 1 dell'articolo 600 riproduce il comma 1 del vigente art. 526 c.p.p. e non richiede pertanto illustrazione. Il comma 2, invece, e' diverso, perche' si limita a prevedere la ricorribilita' contro le disposizioni della sentenza che riguardano le spese del processo penale, senza menzionare, al contrario di quanto avviene nell'art. 526 comma 2 c.p.p., le disposizioni relative alle restituzioni e al risarcimento dei danni e quelle relative alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti. La diversita' trova ragione nell'esistenza, tra le disposizioni generali sulle impugnazioni, dell'art. 567, che, concernendo tutte le impugnazioni dell'imputato per gli interessi civili, disciplina anche le ipotesi, oggi specificamente previste, di ricorso per cassazione. L'articolo 601 e' dedicato al ricorso del pubblico ministero e, oltre ai provvedimenti ricorribili, individua i diversi organi del pubblico ministero (procuratore generale, procuratore della Repubblica e pubblico ministero presso il pretore) di volta in volta legittimati a ricorrere. Il sistema risulta cosi' delineato: il procuratore generale puo' ricorrere contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento per la quale e' ammesso il ricorso; inoltre, quando si tratta di sentenze inappellabili, possono ricorrere il procuratore della Repubblica e il pubblico ministero presso il pretore: il primo contro le sentenze pronunciate dalla corte di assise, dal tribunale o dal giudice per le indagini preliminari; il secondo contro le sentenze pronunciate dal pretore o dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura. Tra le sentenze inappellabili del giudice per le indagini preliminari, presso il tribunale o presso la pretura, assumono nel nuovo sistema processuale un particolare rilievo quelle emesse nel giudizio abbreviato (art. 438) o su richiesta delle parti (art. 442 comma 5). Nel comma 4 dell'art. 601 si chiarisce che legittimati al ricorso per cassazione per saltum, a norma dell'art. 562, sono sia il procuratore generale, sia, alternativamente, il procuratore della Repubblica o il pubblico ministero presso il pretore, a seconda del giudice che ha emesso il provvedimento da impugnare, ed infine si stabilisce che questi tre diversi organi del pubblico ministero sono legittimati al ricorso in tutti i casi previsti " da altre disposizioni di legge ". Quest'ultima espressione, che potrebbe sembrare superflua, intende significare non solo che gli organi menzionati possono ricorrere per cassazione quando questo potere e' loro espressamente attribuito, ma anche che essi non possono proporre ricorso nei casi in cui, pur essendo ricorribile il provvedimento, non e' prevista una loro specifica legittimazione. Piu' semplicemente si vuol dire che se una disposizione riconosce al pubblico ministero, senza ulteriori specificazioni, il potere di proporre ricorso per cassazione, legittimato a ricorrere e' solo l'organo presso il giudice che ha emesso il provvedimento e non anche l'organo del pubblico ministero eventualmente sovraordinato. L'articolo 602, che e' sostanzialmente uguale alla corrispondente disposizione del Progetto del 1978 (art. 572), e' diretto a fissare l'effetto devolutivo del ricorso per cassazione ed i suoi limiti, recependo i risultati di una ormai copiosa elaborazione giurisprudenziale della materia. E' previsto che la cognizione della corte di cassazione abbia ad oggetto le questioni dedotte con i motivi (art. 602 comma 1) e quelle rilevabili di ufficio (art. 602 comma 2), tra le quali, ad esempio, sono le questioni concernenti l'incompetenza per materia (art. 21 comma 1), le nullita' assolute (art. 179), e l'inammissibilita' dell'impugnazione (art. 584 comma 4). L'ultima parte del comma 2 dell'art. 602 si collega all'ultima parte del comma 3 dell'art. 599, in quanto fa venir meno la preclusione per le questioni non dedotte con i motivi di appello tutte le volte in cui la deducibilita' sia resa possibile solo successivamente. Un caso oggi frequente e' quello della continuazione rispetto ad un fatto oggetto di giudicato, che viene dedotta per la prima volta in cassazione, perche' il giudicato si e' formato dopo la decisione di secondo grado. Nel nuovo sistema la deducibilita' di un caso del genere e' destinata a perdere rilevanza, dato che la disciplina della continuazione sara' applicata anche in sede esecutiva (art. 662). Resta pero' importante il principio, volto a garantire la cognizione della corte di cassazione nei casi di deducibilita' sopravvenuta; principio del quale piu' volte la giurisprudenza ha fatto utilmente applicazione, specie per questioni nuove (o diversamente rilevanti) emerse in seguito a modificazioni legislative, ma che piu' in generale riguarda tutte le questioni deducibili esclusivamente rispetto alla decisione di secondo grado, perche' ha riformato la decisione di primo grado o comunque si e' differenziata da questa. CAPO II PROCEDIMENTO Gli articoli 603 - 607 sul procedimento in cassazione non contengono novita' radicali, ma nel complesso danno luogo ad una disciplina che per vari aspetti si differenzia da quella vigente. Alcune delle differenze erano gia' presenti nel Progetto del 1978, che e' stato rivisto e modificato anche tenendo conto dei rilievi mossi nei pareri della corte di cassazione e della procura generale rispetto ad alcune sequenze procedimentali rivelatesi mal calibrate. L'articolo 603, che concerne gli atti preliminari, nei primi tre commi corrisponde in larga misura all'attuale art. 530 c.p.p., con alcune integrazioni. La prima e' nel comma 1, relativo all'assegnazione dei ricorsi da parte del primo presidente, ove e' contenuto un rinvio ai " criteri stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario ". Il rinvio, che in forma diversa gia' figurava nella disposizione corrispondente (art. 574 comma 1) del Progetto del 1978, e' collegato con una correlativa modificazione dell'ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e successive modificazioni) ove si prevede di inserire un art. 7- ter, il quale, per la parte che interessa, e' cosi' formulato: " L'assegnazione dei processi penali e' operata, secondo criteri obiettivi e predeterminati indicati in via generale dal Consiglio superiore della magistratura ed approvati contestualmente alle tabelle degli uffici e con la medesima procedura, dal dirigente dell'ufficio alle singole sezioni e dal presidente della sezione ai singoli collegi e giudici ". Un riferimento a questi criteri e' presente anche nell'art. 178, sulle nullita' di ordine generale, il cui ultimo comma precisa che " non costituisce causa di nullita' l'inosservanza delle disposizioni... sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici ". Nell'ultima parte del comma 3 e' espressamente prevista la riunione e la separazione dei giudizi, in modo da dare una soluzione legislativa positiva alla questione circa la possibilita' della riunione in cassazione; questione che ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali non cessati neppure in seguito all'intervento delle Sezioni unite (sent. 26 ottobre 1985, Giovinazzo) e che il Progetto ha implicitamente affrontato anche nell'art. 17 prevedendo che la riunione possa essere disposta in " ogni stato e grado del processo ". Nei commi 4 e 5 si comincia a delineare la sequenza del procedimento. Il segretario da' immediata comunicazione degli atti al procuratore generale, in modo che questi, se ne ricorrono le condizioni, possa chiedere la dichiarazione di inammissibilita'; poi viene fissata l'udienza, pubblica o in camera di consiglio, e di essa in ogni caso e' dato avviso al procuratore generale e ai difensori, con notizia dell'eventuale richiesta di dichiarazione di inammissibilita' e l'indicazione della causa sulla quale la richiesta e' fondata. Rispetto alla disciplina attuale emergono due differenze: la prima e' che viene meno l'avviso previsto dall'art. 533 c.p.p., da notificare ai difensori appena pervenuti gli atti nella cancelleria della corte; la seconda e' che l'avviso dell'udienza viene dato in ogni caso e non, come oggi di regola avviene (ai sensi dell'art. 534 c.p.p.), solo per i ricorsi da trattare in udienza pubblica. Il meccanismo non comporta aggravi per la cancelleria (che anzi viene sollevata dal lavoro, perche' e' tenuta a far notificare un solo avviso anche per i ricorsi di udienza pubblica) e determina per le parti un rilevante incremento di garanzie difensive per i procedimenti in camera di consiglio, senza sacrifici per i ricorsi da trattare in udienza pubblica. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto va notato che oggi il periodo di tempo complessivamente a disposizione delle parti nei casi di udienza pubblica e' costituito dalla somma dei due periodi di quindici giorni, previsti rispettivamente dagli artt. 533 e 534 c.p.p., e che la giurisprudenza ritiene irrilevante la mancanza dell'avviso ex art. 533 c.p.p. se l'avviso del giorno stabilito per l'udienza e' stato dato almeno trenta giorni prima. Poiche' l'art. 603 comma 5 prevede un avviso da notificare " almeno trenta giorni prima della data dell'udienza " e' chiaro che per il caso di udienza pubblica la nuova disciplina viene a risultare non dissimile da quella attuale. Per il caso di udienza in camera di consiglio, invece il vantaggio per le parti diventa rilevantissimo, perche' esse oggi non hanno notizia di tale udienza e si trovano in presenza di un procedimento sostanzialmente privo di contraddittorio, che viene reso invece possibile dal nuovo meccanismo, anche se in forme diverse da quelle realizzate mediante la discussione nella udienza pubblica. L'articolo 604 regola i casi e le forme del procedimento in camera di consiglio. Quanto ai casi non vi sono rilevanti differenze rispetto alla disciplina attuale, mentre per le forme il discorso e' diverso. La corte, come accade anche oggi, giudica senza l'intervento dei difensori; ma in seguito all'avviso dell'udienza prende avvio un meccanismo di contraddittorio scritto, scandito dalla possibilita' di presentare motivi nuovi (com'e' generalmente previsto dall'art. 578 comma 4) e memorie, fino a quindici giorni prima dell'udienza, e, successivamente, memorie in replica, fino a cinque giorni prima dell'udienza. Il comma 2 dell'art. 604 rende espressamente applicabile questo procedimento anche per le dichiarazioni di inammissibilita'. Viene meno quindi la differenza, attualmente prevista, tra l'inammissibilita' per manifesta infondatezza, in relazione alla quale sono riconosciute delle garanzie difensive (art. 531 comma 4 c.p.p.), e quella dipendente da altre cause. Per tutte le ipotesi di inammissibilita' il difensore del ricorrente deve essere avvertito sia dell'udienza fissata, sia della richiesta del procuratore generale, e per tutte e' messo in condizione di svolgere un'attivita' difensiva, presentando memorie. Questa soluzione e' stata adottata perche' la dichiarazione di inammissibilita' da parte della corte di cassazione conclude il processo ed e' insuscettibile di rimedi, sicche' occorre scongiurare qualunque possibilita' di errore. E' accaduto talvolta che sia stata dichiarata erroneamente l'inammissibilita' del ricorso per la mancata presentazione dei motivi, mentre questi in realta' erano stati presentati, e in alcuni casi a tale situazione e' stato poi messo riparo attraverso un uso dilatato del procedimento per la correzione degli errori materiali. Vicende del genere saranno evitate con il nuovo meccanismo, perche' la parte, avvertita della richiesta della dichiarazione di inammissibilita', avra' modo di farne rilevare l'eventuale infondatezza. L'articolo 605 da' attuazione alla direttiva 27 della legge-delega riproducendo inalterato l'art. 577 del Progetto del 1978, che non aveva dato luogo a rilievi. L'articolo 606 contiene varie disposizioni sulla nomina e le funzioni del difensore nel giudizio di cassazione. Le parti in questo giudizio sono rappresentate dai difensori, che devono essere iscritti nell'albo speciale della corte, e sono domiciliate presso di essi, come del resto e' stabilito anche oggi dall'art. 532 c.p.p. La nuova disciplina e' pero' congegnata in modo da offrire maggiori garanzie difensive alla parte che non abbia proposto il ricorso e non si sia in alcun modo attivata nel giudizio di cassazione ed a quella non assistita da un difensore di fiducia. Oggi, in base all'art. 532 c.p.p., l'imputato che non ha nominato un difensore per il giudizio di cassazione e' privo di informazioni sullo svolgimento di questo, perche' gli avvisi sono dovuti unicamente al difensore di ufficio, con il quale normalmente l'imputato non ha rapporti. Percio' della fissazione della udienza pubblica per la discussione del ricorso non e' avvertito ne' l'imputato che ha redatto personalmente i motivi, ne' quello nei cui confronti il pubblico ministero ha proposto ricorso. Nei commi 2 e 4 dell'art. 606 si stabilisce invece che, in mancanza della nomina per il giudizio di cassazione, " il difensore e' quello che ha assistito la parte nell'ultimo giudizio ", purche' sia iscritto nell'albo speciale, e che se l'imputato e' assistito da un difensore di ufficio gli avvisi devono essere dati all'imputato, oltre che al difensore. Quest'ultima disposizione, contenuta nel comma 6, e' uguale a quella dell'art. 17 del disegno di legge n. 1708 in materia di impugnazioni, gia' ricordato, e risponde anche all'esigenza, sottolineata nella relazione al disegno di legge, di rendere il giudizio di cassazione piu' aderente ai principi recati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (si veda in merito il parere della Commissione europea per i diritti dell'uomo nel caso Biondo contro Italia). L'ultimo comma, relativo al ricorso per gli interessi civili, prevede la nomina di un difensore di ufficio alla parte (che oltre alla parte civile potrebbe essere l'imputato, se ricorre esclusivamente per gli interessi civili) che ne faccia richiesta e si trovi nelle condizioni per godere del patrocinio in favore dei non abbienti. Il dibattimento, regolato dall'articolo 607, non presenta rilevanti differenze rispetto all'attuale. Nel comma 2 si e' fatta espressa menzione della verifica della costituzione delle parti e della regolarita' degli avvisi allo scopo di richiamare l'attenzione sull'importanza di tale attivita', diretta ad evitare errori che, se compiuti, non avrebbero rimedio. E' infatti accaduto piu' volte che non sia stata rilevata la mancanza o l'invalidita' dell'avviso al difensore e che il processo sia stato trattato con evidente violazione del diritto di difesa. La situazione che si determina in tali casi e' senza rimedio (v. Cass., sez. V, 19 febbraio 1986, Bonelli, m. 172744 e 172745) ed e' per questa ragione che deve essere posta la massima cura nell'impedirla e che si e' prevista espressamente, oltre alla verifica, la relativa attestazione nel verbale. CAPO III SENTENZA L'articolo 608 riproduce, nella sostanza, le disposizioni previste dal vigente articolo 537 c.p.p. In particolare, si e' ritenuto opportuno modificare l'impostazione del Progetto preliminare del 1978, per il quale la corte era chiamata a deliberare la sentenza subito dopo la discussione di ciascun ricorso: piu' che intuibili esigenze di funzionalita' hanno infatti indotto a preferire l'attuale disciplina che prevede la deliberazione al termine della pubblica udienza. Innovative sono, invece, le disposizioni dettate dall'articolo 609 in materia di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria nel caso di rigetto o di inammissibilita' del ricorso. Da un lato, infatti, la previsione della condanna al pagamento di una somma pecuniaria disciplinata dal vigente art. 549 c.p.p. e soppressa nel Progetto del 1978 e' stata reintrodotta quale remora alla proposizione di non infrequenti ricorsi temerari, dettati da finalita' meramente dilatorie. Sotto altro profilo, non e' apparsa ragionevole l'attuale disciplina secondo la quale la condanna al pagamento della sanzione consegue alla sentenza che rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, mentre nessuna sanzione e' prevista nel caso di inammissibilita' dichiarata in camera di consiglio, ove la pretestuosita' del ricorso puo' apparire in termini piu' macroscopici. In tale prospettiva, si e' ritenuto quindi opportuno prevedere che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria - adeguata nel suo ammontare rispetto al codice vigente - consegua necessariamente alla dichiarazione di inammissibilita', comunque pronunciata, mentre formi oggetto di valutazione caso per caso nell'ipotesi di rigetto. L'articolo 610, riproducendo una novita' introdotta nel Progetto del 1978, prevede la possibilita' che il presidente fissi una nuova camera di consiglio per la lettura e l'approvazione del testo della motivazione, avuto riguardo alla importanza che la stessa puo' assumere nella formazione degli orientamenti giurisprudenziali e all'opportunita' di sottoporre a verifica collegiale, in determinati casi, la conformita' dell'iter argomentativo alla decisione gia' adottata. In ordine alla rettificazione di errori non determinanti annullamento, l'articolo 611 contiene una disciplina in tutto analoga a quella dell'art. 538 del codice vigente nella sua formulazione antecedente alla riforma introdottavi con il d.l. 20 aprile 1974, n. 104. La disciplina dell'annullamento senza rinvio dettata dall'articolo 612 rimane, in buona sostanza, quella gia' delineata dal Progetto preliminare del 1978, a sua volta non molto dissimile dalle previsioni contenute nell'art. 519 c.p.p. Rispetto al Progetto del 1978, alla lett. e) e' stato soppresso il riferimento alla ipotesi di nullita' della sentenza a norma dell'art. 515, in relazione alla circostanza aggravante, giacche' la materia trova articolata ed innovativa disciplina nel corpo dell'art. 595: le distinzioni ivi contenute in tema di circostanze vengono recepite nel giudizio di cassazione, e quindi non occorre una previsione espressa per disciplinare il caso di annullamento senza rinvio per difetto di contestazione della aggravante, nei casi in cui rientra nei poteri della corte procedere alla declaratoria e ridurre la pena. Si e' ritenuto, a quest'ultimo riguardo, di dover modificare la lett. l), allo scopo di evitare un successivo giudizio di rinvio per la semplice determinazione della pena, tutte le volte in cui cio' non risulti in contrasto con la natura del giudizio davanti alla corte e con le relative attribuzioni. La modifica di maggior portata introdotta con l'articolo 613 riguarda gli effetti dell'annullamento nel caso in cui la sentenza impugnata abbia deciso in secondo grado su materia per la quale non e' ammesso l'appello: in tal caso, infatti, e' sembrato necessario prevedere, in luogo della esecuzione della sentenza di primo grado, la conversione dell'appello in ricorso. Se, infatti, alla parte e' consentito di far valere l'impugnazione anche in caso di erronea qualificazione della stessa (art. 561 comma 1), a maggior ragione la conversione dovra' operare nel caso in cui l'errore sia stato compiuto dal giudice di appello. L'articolo 614 detta disposizioni analoghe a quelle dell'attuale art. 541, aggiungendo il caso di accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato: quando la corte di cassazione annulla la sentenza per i soli effetti civili, l'eventuale giudizio di rinvio - fermi restando gli effetti penali si svolgera' davanti al giudice civile competente in grado di appello, anche se l'annullamento riguarda una sentenza inappellabile. Una applicazione di tale disciplina e' prevista dall'art. 571 in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione. In tema di annullamento con rinvio, l'articolo 615 introduce disposizioni in parte nuove rispetto a quelle previste dal vigente art. 543 c.p.p. : modifiche rese necessarie, in larga misura, dalla scomparsa del giudice istruttore e dalla introduzione nel procedimento pretorile del giudice per le indagini preliminari e del pubblico ministero, funzionalmente distinti dallo stesso pretore, competente per il giudizio. Piu' in particolare, la lett. a) del comma 1 mantiene inalterata l'analoga disposizione dell'art. 543 c.p.p., secondo la quale, laddove sia stata annullata una ordinanza, la corte ordina la trasmissione degli atti al giudice che l'ha pronunciata. La lett. b) richiama, invece, le ipotesi di nullita' della sentenza di condanna nei casi previsti dall'art. 597 comma 1 e stabilisce che in tali casi la corte disponga la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, in armonia con quanto il richiamato articolo prevede per i casi in cui il medesimo vizio sia stato rilevato in grado di appello: le considerazioni ivi svolte valgono, quindi, per chiarire anche la disposizione di cui qui si tratta. Le lett. c ) e d) riproducono, nella sostanza, l'attuale disciplina, pur con le modifiche di cui si e' innanzi detto e con taluni adattamenti volti alla semplificazione del sistema. Sistema, peraltro, che si e' inteso mantenere, in quanto ritenuto rispondente ai criteri enunciati nella direttiva 19) della legge-delega. E' apparsa poi superflua, quanto al giudizio di cassazione, una apposita disciplina dell'annullamento con rinvio per le ipotesi di nullita' - attualmente previsto dall'art. 543 comma 1 n. 6 c.p.p. - giacche' la materia e' regolata in via generale dall'art. 185. Le disposizioni dettate dall'articolo 616 in tema di annullamento parziale riproducono pressoche' integralmente quelle del vigente art. 545 c.p.p., salvo lievi modifiche formali. Tenuto conto della natura meramente ricognitiva del provvedimento che dichiara quali parti della sentenza annullata diventano irrevocabili, tant'e' che la relativa domanda viene proposta " senza formalita' ", si e' ritenuto necessario prevedere che la corte, nel caso di specie, non sia tenuta all'osservanza delle particolari forme previste dall'art. 126, forme che, altrimenti, avrebbero dovuto trovare applicazione, essendo previste in via generale per tutti i procedimenti in camera di consiglio. Per quanto concerne il giudizio di rinvio, regolato con l'articolo 617, si e' avuto cura di rendere piu' efficiente il meccanismo dell'effetto estensivo del ricorso, mediante la previsione della citazione dell'imputato non ricorrente, che puo' giovarsi di tale effetto, e il riconoscimento della sua facolta' di intervenire nel giudizio. Accanto alla tradizionale preclusione di proporre o rilevare nel giudizio questioni di nullita', anche assolute, verificatesi nei precedenti giudizi o nella fase delle indagini preliminari, si e' ritenuto di dover introdurre analoga preclusione in tema di inammissibilita' delle impugnazioni, considerato che, in mancanza di espressa deroga, avrebbe trovato applicazione anche per il giudizio di rinvio il diverso principio stabilito in termini generali dall'art. 584 comma 4. Con l'articolo 618 e recependo una previsione gia' contenuta nel Progetto preliminare del 1978, si e' inteso risolvere legislativamente il problema del mezzo di impugnazione esperibile contro la sentenza del giudice di rinvio. Si e' chiarito, pertanto, che se il giudizio di rinvio si svolge innanzi al giudice di appello, la relativa sentenza e' ricorribile per cassazione; negli altri casi sara' proponibile l'appello e, solo se tale mezzo di impugnazione non e' previsto dalla legge per il provvedimento adottato a conclusione del giudizio, il ricorso per cassazione. Resta fermo il tradizionale principio che la sentenza del giudice di rinvio puo' essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti gia' decisi dalla corte di cassazione ovvero per non essersi uniformata alla sentenza della corte medesima. In analogia alla soluzione gia' adottata dal Progetto del 1978, l'articolo 619, nel dettare la disciplina dei provvedimenti conseguenti alla sentenza, semplifica il complesso meccanismo dal vigente art. 550 e prevede in ogni caso la trasmissione degli atti e della copia del dispositivo o della sentenza al giudice competente. Innovative sono, invece, le disposizioni introdotte dall'articolo 620 rispetto alla disciplina attualmente prevista dall'art. 551: si e' previsto, infatti, che qualora a seguito della sentenza della corte debba cessare una misura cautelare personale o reale ovvero una pena accessoria o una misura di sicurezza, il segretario ne comunica immediatamente il dispositivo al procuratore generale presso la stessa corte per l'adozione dei provvedimenti occorrenti. Da un lato, infatti, la natura urgente dei provvedimenti ha consigliato di sopprimere l'inciso " al piu' tardi nel giorno successivo " che compare nel testo dell'art. 551 c.p.p. e sostituirlo con l'avverbio " immediatamente ". Sotto altro profilo e per le medesime ragioni di fondo, e' sembrato necessario attribuire al procuratore generale presso la medesima corte la competenza ad adottare i provvedimenti stessi, evitando l'intervento del pubblico ministero presso il giudice a quo, certo meno sollecito, specie se operante in sede diversa e lontana dalla Capitale. TITOLO IV REVISIONE Premessa. Alla revisione e' dedicata la direttiva 99 della legge-delega con l'indicazione degli elementi che devono contrassegnare l'istituto nel nuovo codice. Essi invero sono tali - ponendo a confronto gli articoli del codice vigente in materia - da far ritenere che il legislatore ha considerato valido e garantito il gravame gia' esistente. Cio' e' da dirsi certamente per le prescrizioni relative alla garanzia del contraddittorio, allo svolgimento del giudizio secondo le norme fissate per il dibattimento, all'impugnabilita' per cassazione del provvedimento che esclude la revisione, al rinvio ad altro giudice in caso di accoglimento dell'istanza di revisione, elementi tutti in sostanza gia' presenti nell'attuale istituto. Gli unici indici di novita' sarebbero nell'attribuzione della competenza alla corte di appello nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado, soluzione peraltro gia' dettata nella direttiva 80 della delega del 1974, e nella ammissibilita' della revisione anche nei casi di erronea condanna di coloro che non erano imputabili a cagione di condizioni o qualita' personali o della presenza di esimenti. Per queste ultime ipotesi, nella Relazione al Progetto del 1978 (p. 480), si sottolineava che esse erano gia' previste nel codice vigente, dopo le modificazioni apportate dalla l. 14 maggio 1965, n. 481. Ed invero l'attuale specificazione contenuta nella direttiva 99 non sembra generare particolari difficolta' interpretative. Che l'imputabilita' debba riferirsi a condizioni o qualita' personali del condannato era gia' indubitabile. D'altro canto, l'art. 623, rinviando per le possibili soluzioni del giudizio di revisione alle sentenze di improcedibilita' (art. 522), di assoluzione (art. 523) e di estinzione del reato (art. 524) - come e' a dire a tutte le possibili ipotesi di giudizio favorevoli all'imputato - consente di coprire qualsiasi interpretazione delle esplicitazioni contenute nella direttiva 99. Non solo, ma proprio la sottolineata particolare ampiezza di soluzioni consente di annoverarvi anche quelle ipotesi di revisione, gia' oggi ammesse dalla giurisprudenza (perfino in tema di querela o di remissione antecedenti al passaggio in giudicato della sentenza di cui si chiede la revisione), dirette ad ottenere soltanto l'applicazione di cause estintive del reato che non siano state accertate o valutate nella sentenza passata in giudicato, di cui si chiede la revisione a tale limitato scopo. Anche in questo Progetto, come gia' nel Progetto preliminare del 1978, rimane esclusa l'ipotesi particolare di cui all'art. 554 comma 1 n. 5 del codice vigente, introdotta appunto dalla legge n. 481 del 1965 per risolvere i problemi derivanti dalla scoperta in vita di una persona per il cui omicidio l'imputato era stato condannato. Si e' rilevato che la singolarita' del caso non consigliava l'inclusione di un'ipotesi siffatta, oggetto di pesanti critiche della migliore dottrina, in una elencazione, e che una previsione piu' generalizzata avrebbe snaturato l'istituto giacche', nel caso che ne ha fornito occasione, la revisione sarebbe diretta in realta' al conseguimento non di un'assoluzione o di un proscioglimento, ma di una condanna per lo stesso reato nella forma di tentativo o per un reato minore. Illustrazione degli articoli. Nell'articolo 621, che ricalca l'art. 553 del codice vigente, sono considerati, quale possibile oggetto di revisione anche i decreti penali di condanna, come gia' la giurisprudenza oggi ammette, interpretando estensivamente l'espressione " sentenze di condanna " di cui parla il codice. A seguito della sentenza n. 28 del 1969 della Corte costituzionale, che ha eliminato ogni limitazione in tema di condanne per contravvenzioni suscettibili di revisione, e' stata soppressa, come era gia' avvenuto nel Progetto del 1978, la distinzione, divenuta percio' ormai inutile, tra delitti e contravvenzioni. L'articolo 622 e' simile al vigente art. 554 c.p.p., una volta eliminata, per quanto gia' detto innanzi nella parte introduttiva, l'ipotesi di cui al n. 5 che non apparteneva all'originario testo legislativo. Anche qui si parla di decreto penale, con la precisazione tuttavia che, se la condanna cosi' inflitta puo' essere oggetto di revisione, non vale la reciproca, in quanto il decreto penale non presuppone, anche in questo codice, un accertamento pieno del fatto, che possa, servendo quale indiscutibile punto fermo in tema di responsabilita', condurre a rivedere altra sentenza di opposto contenuto. Trattandosi di impugnazione straordinaria, che, come tale, consente di travolgere l'efficacia del giudicato, non possono essere addotte a fondamento dell'istanza di revisione ne' una sentenza di non luogo a procedere (sempre soggetta alla revoca per la possibile riapertura delle indagini), ne' una sentenza civile (soprattutto in considerazione della notevole attenuazione della correlazione tra processo penale e civile, che e' evidente in questo codice). Rimane salva ovviamente la possibilita' di far valere le eventuali risultanze obbiettive in contrario emerse in tali sedi, utilizzate quali nuove prove ai sensi della lett. c), della norma in argomento, anche se, in tale disposizione, come elemento di qualificazione del novum dedotto, alla dizione " rendono evidente " e' stata sostituita la dizione " dimostrano ". L'articolo 623, intitolato come l'art. 555 del codice vigente " Limiti della revisione ", esprime in forma sintetica il risultato potenziale cui deve tendere l'istituto della revisione, esigenza che si spiega con la natura straordinaria dell'impugnazione. E' stato adottato il termine " prosciolto " in luogo del riferimento all'assoluzione, perche' vi e' un rinvio unitario alle disposizioni di legge, che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento: gli artt. 522 (sentenze di non doversi procedere), 523 (sentenza di assoluzione), 524 (dichiarazione di estinzione del reato). Nell'art. 523 sono incluse, come e' agevole constatare, le ipotesi, che potevano dar luogo a dubbi interpretativi, della insufficienza delle prove (formula cancellata dal Progetto, ma ovviamente tenuta ancora presente nel suo contenuto naturalistico) e della esistenza, sicura o anche solo dubbia, di una esimente, sicche' si comprende meglio come non si possa attribuire alcun carattere di novita' alla precisazione della prima parte della direttiva 99. Come si e' detto in premessa, tale direttiva ha anche attribuito la competenza in materia di revisione alla corte di appello, come era gia' nella direttiva 80 della legge-delega del 1974. Questo spiega perche' nell'articolo 624 sia stata eliminata la legittimazione del ministro e del procuratore generale presso la corte di cassazione. Per il resto questa norma non diverge dall'attuale art. 556 c.p.p., con la sola precisazione formale di rammentare nella lett. b) che " la parte privata interessata " che puo' unire la sua istanza a quella del procuratore generale della corte di appello non puo' che essere una delle persone legittimate dalla lett. a). L'articolo 625 ripete il testo del Progetto del 1978, sostituendo al termine " istanza " quello, ritenuto piu' adeguato alla posizione del legittimato e alla procedura iniziata, di " richiesta ", espressione che viene ripetuta naturalmente in tutti gli articoli del titolo. Il testo e' largamente diverso rispetto a quello del vigente art. 557 c.p.p., stante la nuova competenza a provvedere sulla richiesta di revisione. E' stato eliminato l'intervento nella procedura del giudice dell'esecuzione, peraltro non del tutto in linea con la direttiva, che da' luogo in giurisprudenza a notevoli contrasti quanto alla identificazione dei suoi poteri e alla impugnabilita' dei suoi provvedimenti, oltre tutto non in armonia con la riaffermata natura contraddittoria e giurisdizionale del provvedimento. L'articolo 626 introduce, come gia' era nel Progetto del 1978, un procedimento preliminare di delibazione, da parte della stessa corte di appello, dell'ammissibilita' della richiesta di revisione, al fine di evitare impugnazioni pretestuose o palesemente infondate, per cui si spiega la possibilita' e la previsione di una condanna del richiedente al pagamento di una somma determinata a favore della cassa delle ammende. Questa fase, gia' prevista nel comma 3 dell'art. 558 del codice vigente, anche se non esplicitamente indicata nella direttiva 99, deve essere ritenuta possibile perche', consentendosi l'espressione di una delibazione rimessa alla corte di appello, sempre rivedibile dalla corte di cassazione, il giudizio nel suo complesso risulta essere piu' garantito rispetto all'attuale procedura, assegnata al solo giudizio della corte di cassazione. Ne' tale previsione puo' dirsi contrastata dalla inesistenza in via generica di una delibazione di ammissibilita' del merito da parte del giudice di appello (direttiva 89), perche', ad onta della identita' dell'organo chiamato a provvedere, e' sembrata assorbente e decisiva la natura di impugnazione straordinaria della revisione, consentita solo per ipotesi tassative, ben diversa dall'ordinaria ampiezza devolutiva dell'appello. Il riferimento nella direttiva 99 allo svolgimento del giudizio secondo le norme fissate per il dibattimento rende inutile l'indicazione dei poteri e delle attivita' della corte di appello in materia. E' stato invece ritenuto necessario stabilire che, nel caso di accoglimento del ricorso avverso l'ordinanza di inammissibilita', la corte di cassazione rimetta il giudizio, in conformita' della direttiva 19 e a differenza di quanto stabiliva il Progetto del 1978, ad altra sezione della stessa corte di appello, la cui sentenza e' oggetto di revisione, e, solo in linea subordinata, alla corte di appello del capoluogo di circoscrizione piu' vicino. Con l'articolo 627 si consente alla corte di appello, alla quale e' proposta la richiesta, di sospendere l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza inflitte dalla sentenza impugnata, disposizione che e' parsa piu' congrua rispetto alla liberta' provvisoria oggi concedibile, attesa la posizione di gia' condannato della persona nel cui interesse la revisione e' domandata. Non senza rilevare che la liberta' provvisoria (termine che e' stato non piu' utilizzato nell'attuale procedura) si attaglia alla sola misura detentiva e non alle altre nelle quali pure si puo' concretizzare l'esecuzione. Potendo peraltro alla pena detentiva sostituirsi anche altra misura di coercizione personale, e' naturale che venga consentito al pubblico ministero, cosi' come all'imputato, di proporre ricorso contro qualsiasi provvedimento in materia, sempre che ovviamente sia ravvisabile un interesse all'impugnazione proposta. L'articolo 628 disciplina il giudizio di revisione, con richiamo espresso alle norme del dibattimento di primo grado. Cio' si spiega con la necessita', nei limiti dettati dalla richiesta di revisione, di svolgere tutte le attivita' istruttorie necessarie, che non sono proprie di un giudice di appello. E tale rinvio non puo' apparire incoerente rispetto alla previsione di un giudizio di ammissibilita', sia perche' quest'ultimo presuppone (come era detto nella Relazione al Progetto preliminare del 1978, p. 485) una norma propria delle impugnazioni, sia perche' il nostro sistema processuale, almeno in materia civile, conosce giudizi preliminari di ammissibilita' di una domanda ad opera dello stesso giudice di primo grado. Saranno naturalmente applicabili solo le norme compatibili con l'oggetto del giudizio, con riferimento sia alla specie dell'impugnazione che ai confini della devoluzione. L'articolo 629 nella prima parte richiama anche per la sentenza le norme del primo grado. Rispetto al testo del Progetto del 1978 sono state apportate alcune varianti formali, ma e' parso necessario nel comma 3 eliminare il riferimento all'inammissibilita' della revisione " per ragioni diverse da quelle indicate nell'istanza di revisione ". Cio' perche' con il termine evidentemente improprio di " ragioni " non ci si puo' riferire ne' ai casi di cui all'art. 622, ne' agli elementi di cui all'art. 623, ma verosimilmente agli argomenti adoperati, che, come tali, non possono comunque essere vincolanti per il giudice. L'articolo 630, pur ricalcando il testo dell'art. 564 del codice vigente, non ne riproduce il comma 2 che dispone l'annotazione della sentenza favorevole nell'atto di morte se da questo risulta che il decesso e' avvenuto in carcere o in luogo destinato a misura di sicurezza detentiva. Tale annotazione infatti apparirebbe ormai inutile, una volta che con l'art. 44 della legge n. 354 del 1975, lasciato intatto dalla piu' recente legge n. 663 del 1986, e' stato previsto che negli atti di stato civile non si debba far menzione dell'istituto di prevenzione e pena nel quale l'evento si sia verificato. L'articolo 631 prevede l'emissione di provvedimenti sulle spese e sugli effetti civili in caso di accoglimento della richiesta di revisione. La disposizione risulta piu' sintetica rispetto all'art. 567 del codice vigente, essendo stata concentrata nella corte di appello ogni competenza in materia di revisione e non dovendosi quindi essa sdoppiare nel giudizio di due organi diversi di giurisdizione. Anche l'articolo 632 risente dell'unitarieta' del giudizio di revisione, da cui discende la regola che contro la decisione che chiude la fase di revisione - sia essa di inammissibilita' o di merito - e' possibile un ricorso per cassazione. E' stata peraltro eliminata l'incongruenza contenuta nell'analogo testo del Progetto del 1978, che consentiva al procuratore generale il ricorso nel caso di accoglimento della revisione, dimenticando che anche il procuratore generale era uno dei soggetti legittimati a proporla. Il comma 2 precisa che l'esito sfavorevole di un primo giudizio non pregiudica il diritto di presentare una nuova richiesta fondata naturalmente su elementi diversi da quelli gia' valutati negativamente, in cio' generalizzandosi la norma del codice vigente, inserita nel comma 1 dell'art. 568 e nel comma 3 dell'art. 569. L'articolo 633 ricalca a sua volta l'art. 570 dell'attuale codice, con la precisazione che l'indicazione del giornale sul quale effettuare la pubblicazione dell'estratto della sentenza di accoglimento puo' essere contenuta nella richiesta dell'interessato. Non e' parso opportuno inoltre limitare, come faceva il testo originario del Progetto preliminare del 1978, la designazione ad un quotidiano nazionale, potendo l'interessato attribuire maggiore efficacia riparatoria alla divulgazione su un giornale locale o comunque a diffusione limitata. I cinque articoli che riguardano la riparazione dell'errore giudiziario non apportano sostanziali variazioni alla disciplina del codice vigente, quale risulta dalle innovazioni delle l. 23 maggio 1960, n. 504 e 14 maggio 1965, n. 481, che hanno trasformato in dovere la facolta' dello Stato di riconoscere una " riparazione a titolo di soccorso ", prevista nel titolo originario del codice. L'articolo 634 non si discosta dall'art. 571 del vigente codice, essendo stata mantenuta ferma l'esclusione dal diritto alle riparazioni per l'ipotesi di dolo o colpa grave dell'interessato. Il procedimento rimane in sostanza improntato ad un giudizio di equita' che si rivela anche nei modi alternativi di fare conseguire la riparazione. Non vi erano peraltro nella legge-delega direttive che consentissero una piu' soddisfacente attuazione del principio costituzionale dell'art. 24 comma 4 Cost. (Corte cost. n. 1 del 1969), ferma restando la possibilita' di una successiva migliore integrazione della disciplina. L'articolo 635, lasciando inalterato il contenuto sostanziale dell'art. 572 c.p.p., adegua alle nuove leggi civili in materia di famiglia la parte relativa ai soggetti legittimati a chiedere, come esplicazione di un diritto proprio dei congiunti e non di un diritto ereditario, la riparazione in caso di morte del condannato avvenuta prima o durante il procedimento di revisione. In tale ordine di idee, nel comma 1, sono state escluse le persone legate al condannato defunto da vincolo di affiliazione poiche' tale istituto e' stato abrogato dall'ultima legge in tema di adozione (art. 77 l. 4 maggio 1983, n. 184). Nel comma 3, tra le persone legittimate alla riparazione, non e' stato piu' incluso il coniuge separato giudizialmente per causa a lui non addebitata, in quanto si e' ritenuto iniquo un tale trattamento con riferimento al periodo intercorrente tra la sentenza di condanna (sottoposta poi a revisione) e la separazione tra i coniugi, una volta negato il carattere ereditario del diritto. In ogni caso, a norma del comma 2, a titolo di riparazione dovra' essere quindi equitativamente assegnata una somma proporzionata alle conseguenze derivate dall'errore giudiziario (e tali conseguenze saranno ovviamente rapportate alla lunghezza del periodo suddetto). L'articolo 636 estende a due anni il termine utile per chiedere la riparazione, equiparandolo a quello previsto nell'art. 315 per la riparazione dell'ingiusta custodia provvisoria. L'indicazione degli altri aventi diritto da parte di chi propone la domanda si spiega con la necessita' di una corretta instaurazione del procedimento e per la proporzionale assegnazione della somma determinata dal giudice tra tutti coloro che ne hanno diritto. L'ultimo comma dell'art. 573 del codice vigente, ricalcato in questa norma, relativo alla notifica della domanda al ministro del tesoro, e' stato spostato al comma 1 del successivo art. 637, essendo esso il primo atto compiuto nel procedimento. L'articolo 637 tratta quindi del procedimento fino alla decisione, della quale e' precisato il contenuto. Esso si svolge in camera di consiglio con le forme di cui all'art. 126 dinanzi alla corte di appello, lo stesso giudice che ha deciso sulla revisione. Si e' esplicitato che al pubblico ministero deve essere comunicata la stessa domanda e non solo un avviso, cosi' come l'ordinanza che decide sulla domanda di riparazione e' notificata al pubblico ministero e alle altre parti, al fine di consentirne l'impugnabilita' mediante ricorso per cassazione. Rimane la regola di cui al comma 5 dell'art. 574 del codice vigente secondo la quale gli interessati, cui e' notificata la domanda, devono formulare le proprie richieste entro i termini e nelle forme di cui all'art. 126, a pena di decadenza. E rimane anche la facolta' del giudice di assegnare una provvisionale a titolo di alimenti quando ne ritenga la ricorrenza delle condizioni. L'articolo 638 infine, che riproduce inalterato il testo del Progetto preliminare del 1978, non subordina piu' la presentazione della domanda, come e' nel testo dell'art. 574- bis del codice vigente dopo l'aggiunta della legge n. 504/1960, all'inutile tentativo di conseguire dal responsabile diretto il risarcimento del danno che si chiede allo Stato, nel caso di cui all'art. 554 comma 1 n. 4. La norma, con riferimento alla predetta ipotesi, qui contemplata nell'art. 622 lett. d), consente al condannato di rivolgersi direttamente allo Stato per ottenere la riparazione del danno cagionato dall'errore. Si spiega pertanto come della norma in questione sia rimasto l'ultimo comma, in base al quale lo Stato che ha effettuato il risarcimento si surroga, entro i limiti del corrisposto, nel diritto al risarcimento contro il responsabile. L'onere dell'azione verso costui rimane quindi affidato allo Stato, al quale e' imputata l'attivita' giurisdizionale, con la possibilita' di rivalersi in via di regresso, contro chi all'errore abbia dato causa volontariamente, delle somme effettivamente corrisposte. LIBRO X ESECUZIONE La legge-delega n. 108 del 1974 aveva dedicato alla materia dell'esecuzione sostanzialmente la sola direttiva 79 che enunciava il principio della giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti la modificazione e l'esecuzione della pena e l'applicazione delle misure di sicurezza, il principio dell'effettivo giudizio di pericolosita' del soggetto e quello dell'impugnabilita' dei provvedimenti. Si trattava di principi largamente acquisiti all'ordinamento anche in conseguenza delle numerose decisioni della Corte costituzionale che piu' volte aveva sottolineato la necessita' di una completa giurisdizionalizzazione del procedimento esecutivo (vedansi in proposito, tanto per citare le piu' importanti, le sentenze 29 maggio 1968, n. 53 in materia di misure di sicurezza e 18 maggio 1970, n. 69 in tema di incidenti di esecuzione). Sulla base di tale legge-delega era stato redatto a suo tempo un Progetto preliminare di nuovo codice di procedura penale: tale Progetto ha rappresentato il costante punto di riferimento del presente lavoro che, nella rielaborazione della materia, ha peraltro tenuto in ogni conto consistenti modificazioni intervenute, dal 1974 ad oggi, sulla legislazione di diritto penale, sostanziale e processuale, riguardante direttamente o indirettamente il tema della " esecuzione ". In proposito, appare importante sottolineare che la nuova legge-delega dedica al procedimento di esecuzione le direttive 96, 97 e 98 nonche' la direttiva 101 che ha specifico riferimento alla riabilitazione. La direttiva 96 ripete sostanzialmente il contenuto della direttiva 79 della legge-delega del 1974; la direttiva 97 introduce il nuovo principio della possibilita' di valutare anche in sede di esecuzione il concorso formale di reati e la continuazione, sempre che non siano stati precedentemente esclusi dal giudice di cognizione; infine, la direttiva 98 indica la necessita' che il legislatore delegato provveda al coordinamento, con i principi della delega, dei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, e cio' anche attraverso una nuova disciplina della competenza degli organi. Un capitolo a parte e' invece da ravvisare nella direttiva 101 riguardante, essenzialmente, la previsione del principio del contraddittorio anche nel procedimento di riabilitazione (il che costituisce attuazione dei criteri indicati in materia dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del 1976). Nel periodo intercorrente fra la prima e la seconda delega sono intervenute due leggi che hanno profondamente inciso anche nella specifica materia dell'esecuzione penale. La legge 24 novembre 1981, n. 689 ha introdotto le sanzioni sostitutive con un particolare meccanismo, diverso da quello tradizionale, per la loro esecuzione; ha poi modificato il sistema dell'esecuzione delle sanzioni pecuniarie con particolare riferimento al tema della conversione delle pene medesime, di cui si era interessata la Corte costituzionale (sentenza 16 novembre 1979 n. 131). La disciplina delle misure alternative alla detenzione, contenuta nella legge 26 luglio 1975, n. 354, di cui la precedente Commissione redigente aveva tenuto conto nella formulazione delle norme del Progetto del 1978, ha subito a sua volta un'ulteriore e profonda trasformazione a seguito della legge 10 ottobre 1986, n. 663. Le regole particolari contenute nei suddetti testi legislativi ed attinenti all'esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza devono necessariamente trovare un nuovo e definitivo assetto nel nuovo codice di procedura penale al fine di unificare e semplificare i procedimenti di esecuzione e di sorveglianza riguardanti materie quanto meno analoghe se non addirittura identiche. In tal senso deve essere necessariamente interpretata la direttiva 98 concernente appunto il coordinamento con i principi della legge-delega della disciplina legislativa delle materie attribuite alla magistratura di sorveglianza e di quelle che rimangono di competenza del giudice dell'esecuzione. Da tale direttiva si desume anche che il legislatore delegante non ha voluto limitare il campo di operativita' delle scelte del legislatore delegato indirizzandole aprioristicamente verso la concentrazione di tutta l'attivita' esecutiva penale in un solo organo (magistratura di sorveglianza); ha preferito invece prevedere la possibilita' che anche piu' organi possano essere competenti per l'emanazione dei diversi provvedimenti che si rendono necessari nel corso del procedimento di esecuzione. A tale riguardo, va osservato che lo sforzo e' stato diretto a predisporre un sistema processuale armonico che finisse per ricondurre ad unita' procedure disciplinate da leggi diverse emanate in tempi relativamente lontani fra loro: cosi' da facilitare il compito dell'interprete e il lavoro degli uffici preposti all'esecuzione delle pene. Ci si e' resi altresi' conto dell'estrema importanza attribuita dal legislatore delegante alla fase dell'esecuzione, quale strumento per l'attuazione del principio costituzionale dell'umanizzazione della pena da cui deriva poi quello dell'adeguatezza della medesima con riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato. Sotto tale profilo appare estremamente significativa la direttiva volta a consentire la valutazione in sede esecutiva del concorso formale dei reati e della continuazione. Essa costituisce un notevole passo avanti verso l'effettivo adeguamento della pena ai fatti commessi dal condannato prescindendo vicende che possono aver comunque contrassegnato i vari procedimenti penali riguardanti il condannato medesimo. Tale direttiva e' venuta sicuramente incontro agli auspici formulati dalla dottrina e dagli operatori del diritto che di frequente avevano constatato, da un lato, l'inaccettabilita' delle preclusioni e degli sbarramenti previsti dal sistema per la valutazione in sede esecutiva della posizione globale del condannato e, dall'altro, la necessita' di rimediare alle storture poste in atto dalla celebrazione contemporanea in sedi diverse di vari procedimenti penali a carico degli stessi imputati per fatti simili e commessi sotto la spinta di un'identita' criminogena evidente. Resta fermo comunque quanto gia' segnalato nella Relazione al precedente Progetto circa i limiti che il legislatore delegante ha inteso stabilire per la fase dell'esecuzione penale. Anche se invero notevoli e penetranti sono gli strumenti che consentono una modificazione sostanziale della pena inflitta al condannato, si puo' ragionevolmente escludere che la delega consenta l'introduzione di un sistema bifasico puro, tale cioe' da far risultare riservata alla sola fase dell'esecuzione la determinazione della pena. Secondo l'originario Progetto, l'introduzione di un siffatto sistema era precluso dal contenuto della direttiva 79, che riferendo l'esigenza della giurisdizionalizzazione alla modificazione ed esecuzione della pena, muoveva inequivocabilmente dal presupposto che quest'ultima fosse gia' stata inflitta con la sentenza divenuta irrevocabile. Poiche' la direttiva 96 dell'attuale legge-delega ripete, come si e' gia' detto, il contenuto di quella sopraindicata, ne consegue ineluttabilmente l'esclusione della possibilita' di determinare la pena in sede di esecuzione. Si e' ritenuto, inoltre, di non poter disciplinare nel nuovo Progetto istituti attinenti al diritto penale sostanziale (quali sono quelli modificativi della pena) e di dover invece limitare il " campo di operativita' " ai soli procedimenti di attuazione delle modificazioni della pena o di applicazione delle misure di sicurezza. Per questo motivo, ad esempio, la materia dell'applicazione delle sanzioni sostitutive o delle misure alternative alla detenzione e' stato preso in esame solo con riferimento alla disciplina processuale, in fase di esecuzione, delle medesime sanzioni o misure. Il libro X del Progetto disciplina poi solo le attivita' successive alla formazione del giudicato. Non prende, invece, in esame tutto cio' che, attenendo all'esecuzione provvisoria dei provvedimenti emanati dal giudice di cognizione, trova altrove la sua regolamentazione. Fondamento dell'esecuzione e' il titolo esecutivo costituito dal provvedimento irrevocabile, intendendosi per " provvedimento " ogni atto dell'autorita' giudiziaria ordinaria (sentenza, ordinanza, decreto) che non sia piu' soggetto a impugnazione ed abbia conseguito il carattere della definitivita'. Si e' cercato di far coincidere la " irrevocabilita' " e la " esecutivita' " di un provvedimento; tale coincidenza, che si ricava in via generale dall'effetto sospensivo attribuito all'impugnazione dall'art. 581, e' stata esplicitata, per quel che concerne le sentenze pronunciate in giudizio e i decreti penali, attraverso il combinato disposto degli artt. 639 e 641 comma 1. Nei casi in cui eccezionalmente si e' riconosciuta efficacia esecutiva a provvedimenti non ancora definitivi (come, ad esempio, le ordinanze del giudice dell'esecuzione o della magistratura di sorveglianza), si e' provveduto a formulare una previsione espressa (v., nell'esempio citato, il comma 7 dell'art. 657). Una ipotesi particolare e' quella della sentenza di non luogo a procedere non piu' impugnabile, che non puo' essere definita " irrevocabile " in quanto soggetta alla procedura di revoca prevista dal titolo X del libro V. La sua esecutivita' e' regolata dal comma 2 dell'art. 641. A seguito dell'introduzione, fra le misure cautelari, di quelle " interdittive ", non e' piu' prevista, nella fase di cognizione, l'applicazione provvisoria delle pene accessorie. Di qui, la soppressione di ogni riferimento alla relativa procedura di esecuzione. Non si e' ravvisata neppure la necessita' di una disciplina particolare in tema di applicazione provvisoria di misure di sicurezza. Al riguardo e' da rilevare che la legge 10 ottobre 1986, n. 663, contenente modifiche all'ordinamento penitenziario, ha fra l'altro abrogato l'art. 204 c.p. ed ha subordinato l'applicazione di tutte le misure di sicurezza personali all'accertamento concreto della pericolosita' sociale del soggetto. Una volta compiuto tale accertamento, l'esecuzione provvisoria delle predette misure seguira' necessariamente la disciplina apprestata per l'esecuzione conseguente a provvedimento esecutivo, non sussistendo alcuna differenza operativa ed attuativa. Quanto poi alle sentenze di proscioglimento, la loro esecuzione provvisoria con riferimento alla eventuale liberazione dell'imputato trova gia' la sua disciplina specifica in altre parti del codice (art. 300). Quanto infine all'esecuzione delle misure di sicurezza che possono essere applicate al prosciolto, il problema non differisce da quello sopra esaminato relativo all'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza personali e cioe' in definitiva dovra' seguirsi la disciplina relativa all'esecuzione delle stesse misure applicate con un provvedimento non piu' soggetto ad impugnazione. Il provvedimento, a cura del pubblico ministero, dovra' essere trasmesso al magistrato di sorveglianza competente, il quale, accertata la pericolosita' sociale del soggetto, procedera' all'esecuzione delle medesime secondo le regole proprie del procedimento di sorveglianza. Cosi' tratteggiati i contenuti della disciplina inserita nel libro dell'esecuzione, vanno riconfermate le osservazioni della Relazione al precedente Progetto circa le funzioni attribuite in materia al pubblico ministero, al giudice dell'esecuzione ed alla magistratura di sorveglianza. A tal fine la lettura della direttiva 79 della legge-delega del 1974 (corrispondente alla direttiva 96 dell'attuale legge-delega), secondo cui tutta la fase dell'esecuzione penale doveva acquisire carattere giurisdizionale, poteva indurre a ritenere non solo che al pubblico ministero non potesse piu' competere una posizione di preminenza, come quella riconosciuta nel codice vigente, ma che il suo ruolo dovesse essere limitato a quella partecipazione ai procedimenti di modificazione ed esecuzione della pena e delle misure di sicurezza insita nel principio del contraddittorio. Conformemente appunto alla decisione adottata nel precedente Progetto, e' invece apparso naturale conservare al pubblico ministero la sua posizione di organo promotore dell'esecuzione penale, attribuendogli anche il potere di emettere l'ordine di carcerazione e di scarcerazione, di emanare cioe' provvedimenti che incidono sulla liberta' personale dell'individuo. Come e' gia' stato infatti rilevato, nella fase dell'esecuzione, quando cioe' sia stata emanata una sentenza di condanna ormai irrevocabile, non vi e' spazio per l'uso di poteri discrezionali, dovendosi invece semplicemente dare esecuzione al provvedimento del giudice; dal che, e' facile la deduzione dell'inesistenza di ostacoli a riconoscere nel pubblico ministero l'organo naturale per il promovimento dell'attivita' esecutiva. E' ovvio, del resto, che l'inizio di tale fase implica necessariamente l'esame della posizione processuale del soggetto e quindi l'eventualita' dell'adozione di iniziative volte ad individuare l'esatta espiazione della pena irrogata dal giudice di cognizione anche con riferimento ad altre sentenze di condanna emanate contestualmente a carico dello stesso soggetto. Si tratta di iniziative istituzionalmente attribuite al pubblico ministero nella sua veste di parte processuale e che non potrebbero essere svolte senza la sua richiesta da altri organi giurisdizionali, quali il giudice dell'esecuzione o il magistrato di sorveglianza. Si condivide altresi' il pensiero espresso nella Relazione al Progetto del 1978 in ordine al mantenimento di una specifica competenza del giudice dell'esecuzione, quale organo destinato a decidere tutte le questioni che in relazione ai limiti posti dal titolo esecutivo possono sorgere nel corso dell'esecuzione; di conseguenza, l'intervento della magistratura di sorveglianza deve essere limitato a quelle materie, facenti parte del diritto penale sostanziale e non di quello processuale, in cui prevalente appare il giudizio sulla funzionalita' ed efficienza della pena in relazione al fine specifico della rieducazione del condannato e in quelle ove appare essenziale l'accertamento della pericolosita' del soggetto (come ad esempio in tema di misure di sicurezza). A siffatti scopi per cosi' dire finali della sanzione si ricollega necessariamente la valutazione dei risultati parziali del trattamento penitenziario, compito questo istituzionalmente attribuito alla magistratura di sorveglianza. Al di fuori tuttavia di tali compiti deve rimanere impregiudicata la competenza del giudice dell'esecuzione chiamato a risolvere tutti i multiformi problemi che il titolo esecutivo e' destinato inevitabilmente a porre. Del resto, anche dal punto di vista funzionale e dell'efficienza dell'amministrazione della giustizia, che trova nell'esecuzione della sentenza e del decreto di condanna il suo punto culminante, l'attribuzione di ogni competenza in materia alla magistratura di sorveglianza sarebbe stata fonte di serie difficolta' applicative, comportando essa la concentrazione presso gli uffici di sorveglianza di una quantita' enorme di fascicoli provenienti dagli uffici piu' diversi: fatto questo che sul piano burocratico avrebbe finito per rendere impossibile la pronta esecuzione delle sentenze con grave pregiudizio per l'efficacia della macchina giudiziaria. Sul piano del procedimento, si e' tenuto conto che, allo stato attuale della legislazione, l'ordinamento prevede l'intervento dell'organo giurisdizionale in materia di esecuzione in due forme: la prima definita incidente di esecuzione, disciplinata dal codice di rito e che si applica a tutte le questioni concernenti la regolarita' del titolo esecutivo e ai problemi per cosi' dire connessi, quali l'applicazione dell'amnistia, del condono, la revoca dei benefici, l'esecuzione civile nel procedimento penale, etc.; l'altra, definita procedimento di sorveglianza, attinente all'applicazione delle misure alternative, all'esecuzione delle sanzioni sostitutive, nonche' all'applicazione ed esecuzione delle misure di sicurezza. Queste ultime, come e' noto, sono regolate dalla l. 26 luglio 1975, n. 354, modificata dalla l. 24 novembre 1981, n. 689. Si e' ritenuto essenziale procedere all'unificazione dei due sistemi, prevedendo una disciplina prevalentemente comune anche per quanto attiene ai mezzi di impugnazione, pur con le varianti rese necessarie dalle caratteristiche intrinseche di talune materie, avendo tuttavia cura di non incidere sulla formazione degli organi chiamati a decidere, la cui diversificazione appariva giustificata. Di conseguenza, tanto il procedimento di esecuzione quanto quello di sorveglianza hanno regole comuni per tutto cio' che attiene al potere di iniziativa, all'intervento delle parti, ai termini ed alle modalita' di convocazione delle parti medesime o alle formalita' dell'impugnazione, mentre contro le ordinanze che concludono i suddetti procedimenti e' esperibile il solo ricorso per cassazione, conformemente alla disciplina vigente. Solo in materia di misure di sicurezza, ove deve essere valutata dal magistrato di sorveglianza la pericolosita' sociale del soggetto, giudizio questo che e' prevalentemente ancorato a dati di fatto, e' parso criterio corrispondente alle regole del sistema prevedere la possibilita' di un secondo giudizio esteso al merito mediante la proposizione dell'appello. Siffatto sistema si pone certamente in armonia con la disciplina dettata in proposito dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 che ha previsto un doppio grado di giudizio di merito per i provvedimenti attinenti all'applicazione o alla revoca delle misure di sicurezza. Il libro dell'esecuzione si presenta distinto in cinque titoli: il primo riguarda il giudicato, il secondo l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, il terzo le attribuzioni degli organi giurisdizionali (suddiviso in due capi, il primo attinente al giudice dell'esecuzione e il secondo alla magistratura di sorveglianza); il quarto titolo contiene la disciplina del casellario giudiziale e il quinto le regole sul recupero delle spese di giustizia. La sistematica, come si vede, e' profondamente diversa rispetto a quella del codice vigente ed a quella adottata nel precedente Progetto. Il codice vigente suddivide il libro dell'esecuzione sempre in cinque titoli, aventi per oggetto le disposizioni generali, l'esecuzione penale, l'esecuzione civile in materia penale, gli incidenti di esecuzione e infine l'esecuzione delle misure di sicurezza, mentre il Progetto del 1978 aveva suddiviso la materia in due titoli, rispettivamente denominati " disposizioni generali " ed " attribuzioni degli organi giurisdizionali ". La scelta operata nel presente Progetto deriva dall'esigenza di porre a base di tutta l'esecuzione la nozione di giudicato, e cioe' l'identificazione del provvedimento irrevocabile ed esecutivo che costituisce il punto di partenza della fase dell'esecuzione penale. In tale sede hanno trovato naturale collocazione anche la norma che prevede il divieto di un nuovo giudizio per lo stesso fatto (il c. d. ne bis in idem), e quelle che regolano gli effetti del giudicato penale in altri giudizi. Si tratta, come e' evidente, dell'enunciazione di principi generali che debbono precedere necessariamente la descrizione delle regole attinenti all'esecuzione. Segue quindi la descrizione delle modalita' di esecuzione delle sanzioni che scaturiscono dal giudicato, separatamente considerando le pene detentive, quelle pecuniarie, le sanzioni sostitutive, le sanzioni amministrative inflitte dal giudice penale per ragioni di connessione e le misure di sicurezza con la relativa indicazione dell'organo cui compete il promovimento dell'attivita' esecutiva (pubblico ministero). Pur essendo chiaro il collegamento logico delle norme contenute in detto titolo con quelle attinenti al giudicato, e' apparso utile ed opportuno collocarle in un titolo diverso, data la loro autonomia sostanziale e formale rispetto alle regole generali che attengono alla formazione del titolo esecutivo. Il titolo terzo ha un'autonomia evidente rispetto alle materie regolate negli altri titoli; del resto, anche nel precedente Progetto si era ritenuto necessario disciplinare autonomamente la materia attinente ai problemi nascenti nel corso dell'esecuzione ed all'attivita' della magistratura di sorveglianza. In due titoli separati e', infine, descritta la disciplina del casellario giudiziale e delle spese del procedimento, trattandosi di argomenti che hanno ben poco in comune fra loro. La suddetta suddivisione e la progressione delle norme e' apparsa la piu' coerente e la piu' logica con il naturale sviluppo della fase esecutiva e quella che rende, anche alla luce della disciplina sostanziale della materia contenuta nell'ordinamento penitenziario e nella legge sulle modifiche al sistema penale, la lettura delle norme piu' facile e chiara. Puo' essere interessante notare che la disciplina dell'esecuzione e' stata contenuta in appena 48 articoli rispetto agli 80 del codice vigente. La differenza e' facilmente spiegabile ove si tenga conto che sono scomparsi gli istituti dell'esecuzione immobiliare per il recupero dei crediti nascenti da reato, dell'ipoteca immobiliare e del relativo procedimento per l'esecuzione. Il sequestro penale e quello conservativo sono regolati in altra parte del codice. Si aggiunga, inoltre che la disciplina particolareggiata contenuta nel codice vigente per l'applicazione fuori del giudizio delle misure di sicurezza ha subi'to un notevole ridimensionamento, essendo stato abolito ogni motivo di distinzione fra provvedimenti impugnabili ed altre attivita' del giudice di sorveglianza non soggette a riesame. Non sono state ribadite, infine, quelle disposizioni che, per la loro natura regolamentare, potranno trovare piu' idonea collocazione fra le norme di attuazione. TITOLO I GIUDICATO L'articolo 639 fornisce la definizione di " irrevocabilita' " delle sentenze e dei decreti. Esso ripete sostanzialmente la formulazione del vigente art. 576, nonche' quella dell'art. 611 del precedente Progetto. Rispetto al contenuto dell'art. 576 non e' stato ripetuto l'accenno all'esecuzione provvisoria delle sentenze per le ragioni gia' specificate nella premessa al libro X e comunque perche' essa e' gia' disciplinata in altre parti del Progetto. Rispetto invece alla formulazione del Progetto del 1978 non e' stata ripetuta la disposizione concernente le sentenze istruttorie (oggi, sentenze di non luogo a procedere). Al riguardo, e' sembrato superfluo fornire una specifica definizione di irrevocabilita' che, essendo necessariamente sganciata dalla esecutivita' per il peculiare regime di revoca cui si e' gia' accennato, avrebbe assolto soltanto a funzioni classificatorie prive di pratica rilevanza. L'articolo 640 enuncia il classico principio del ne bis in idem, che costituisce un cardine indefettibile del nostro ordinamento. Sono state fatte ovviamente salve quelle decisioni di carattere processuale che, come gia' previsto negli artt. 66 e 345, non impediscono un nuovo procedimento quando ne vengono meno le ragioni giustificatrici. L'articolo 641 regola la esecutivita' delle sentenze e dei decreti penali, ricollegandoli in via generale alla irrevocabilita' (comma 1) e, per quanto concerne le sentenze di non luogo a procedere, alla scadenza dei termini per l'impugnazione (comma 2). Gli articoli che chiudono il titolo I disciplinano gli effetti non penali della sentenza penale. Seguendo la stessa sistematica del Progetto del 1978, si e' ritenuto di non collocare la materia nel settore del codice dedicato all'azione civile (v., invece, gli artt. da 25 a 28 c.p.p.). La collocazione nel libro concernente l'esecuzione (e piu' in particolare nel titolo concernente il giudicato) e' parsa sistematicamente piu' rigorosa considerato che le disposizioni riguardanti l'efficacia non penale del giudicato penale si riferiscono direttamente non all'azione ma al giudizio civile o amministrativo nel quale il giudicato penale viene fatto valere: con la conseguenza che,nel processo non penale, il giudice, in presenza di una pronuncia penale divenuta irrevocabile, dovra' attenersi - se venga formulata l'exceptio iudicati - al relativo decisum. Il nuovo assetto normativo giustifica l'assenza di una espressa previsione simile a quella dell'art. 25 c.p.p., il quale oltre a risultare intrinsecamente collegato alla sospensione del processo - un istituto, che, nel sistema della riforma, rappresenta, a differenza di quanto previsto nel sistema vigente (v. art. 3), l'eccezione - riguardando la proponibilita' o la proseguibilita' dell'azione civile o amministrativa nella sua sede naturale, resta implicitamente ricompreso nelle piu' generali prescrizioni del libro X. Passando alla descrizione dei contenuti, la linea da cui muoveva il Progetto del 1978 era nel senso che, avuto riguardo al tipo di decisione ed all'ambito di efficacia soggettiva di essa, la legge-delega ponesse " rigorosi limiti restrittivi " all'efficacia delle sentenze penali di condanna o di assoluzione nei giudizi civili o amministrativi. Nella Relazione si osservava che, sul piano oggettivo, dal raffronto tra le direttive 19, 20 e 21 e gli artt. 25, 27 e 28 del codice vigente, nonche' dall'esame dei lavori preparatori della legge-delega del 1974, emergesse il preciso intento di limitare l'efficacia vincolante della sentenza penale irrevocabile pronunciata in esito a giudizio al solo accertamento del fatto materiale e della sua riferibilita' all'imputato, " cosi' da escludere ogni efficacia vincolante per quanto riguarda l'accertamento della colpa, della imputabilita' e delle cause di giustificazione " (pag. 505). Altrettanto restrittivi i criteri da seguire sotto il profilo soggettivo. Le sentenze costituzionali n. 55 del 1971, n. 99 del 1973 e n. 165 del 1975, introducendo ulteriori limitazioni all'efficacia del giudicato penale, si sarebbero limitate ad " indicare in astratto il limite e la garanzia minima, al di la' della quale la legge positiva deve considerarsi incostituzionale con riferimento al sistema del codice vigente ispirato ai principi del processo inquisitorio, che riconosce la preminenza del processo penale su quello civile come principio fondamentale subordinato soltanto alle norme di ordine costituzionale ". Con il che il legislatore delegato resterebbe assolutamente libero di " precisare i limiti e le condizioni necessarie affinche' possa considerarsi instaurato il contraddittorio ", cosi' da evitare soluzioni normative ambigue, produttive in concreto di " dubbi e incertezze circa la sostanziale osservanza delle regole del contraddittorio ". Per quanto concerne i rapporti fra giudizio penale e giudizio civile o amministrativo, si e' preso innanzitutto atto delle significative innovazioni introdotte dalla legge-delega del 1987. In particolare, le direttive della nuova legge-delega che hanno sostituito le direttive 19, 20 e 21 della legge-delega del 1974, mentre, da un lato, hanno esteso l'incidenza del vincolo della sentenza penale alla " illiceita' penale del fatto " (direttiva 22) e alla circostanza che il fatto " e' stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facolta' legittima " (direttiva 23), hanno, dall'altro, subordinato tale incidenza alla condizione che le parti abbiano partecipato o siano state poste in grado di partecipare al processo penale. Inoltre, la direttiva 24, radicalmente innovando rispetto al sistema della delega precedente, ha imposto al legislatore delegato di predisporre un assetto normativo in grado di disciplinare gli effetti " del giudicato penale in altri giudizi civili e amministrativi ", diversi, ovviamente, dal giudizio per le restituzioni e il risarcimento del danno. Si e' ritenuto peraltro che gli elementi di novita' desumibili dalle dette direttive della legge-delega non siano tali da indurre il legislatore delegato ad apprestare una integrale riformulazione delle norme contenute nel precedente Progetto. La scelta e' stata, quindi, nel senso di non abbandonare - se non nei casi in cui il mantenimento delle relative disposizioni avesse determinato una situazione di conflittualita' con la nuova delega - la linea tracciata nel 1978, una linea gia' seguita nella regolamentazione dei tempi di intervento delle parti " accessorie " nel processo penale e del correlativo sistema di preclusioni, rimasto sostanzialmente immutato rispetto all'originario Progetto. L'articolo 642, nel dettare il regime dell'efficacia del giudicato penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno, ricalca il testo del corrispondente articolo del Progetto del 1978 (l'art. 614): la nuova norma risulta, peraltro, divisa ora in due commi per disciplinare anche l'efficacia della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, un istituto non figurante nel sistema della legge-delega del 1974. Nel comma 1 dell'art. 642 non si fa, percio', piu' riferimento alla sentenza irrevocabile di condanna (questa la formula adottata dall'art. 614 del precedente Progetto), ma si riconosce efficacia di giudicato alla " sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ", cosi' da porre un discrimine fra tale tipo di decisione e quella pronunciata a seguito di giudizio abbreviato: una decisione, la seconda che, pur restando assoggettata, sul punto, ad un'identica disciplina, ha richiesto una collocazione autonoma al fine di adeguare la sistematica dell'articolo a quella adottata - ma per motivi di sostanza - nell'art. 643, in base al quale la sentenza pronunciata in esito all'abbreviazione del rito soggiace, quanto agli effetti in altri giudizi, ad una normativa diversa rispetto a quella riguardante la decisione emessa in dibattimento. L'attuazione della direttiva 22 (con la quale e' stata modificata la precedente direttiva 19) ha, tuttavia, imposto nell'art. 642 comma 1 di " aggiornare " sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo il testo del Progetto del 1978. Sotto il primo profilo, e' stato previsto che la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno, non solo quanto all'accertamento che il fatto sussiste o che l'imputato lo ha commesso (v. art. 614 del precedente Progetto), ma anche con riguardo all'accertamento dell'illiceita' penale del fatto: l'inserimento di detto inciso ha, peraltro, richiesto qualche adattamento, solo di ordine formale, del testo del 1978. Sotto il profilo soggettivo, considerato che la direttiva 22 subordina l'efficacia del giudicato penale nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno alla condizione " che le parti abbiano partecipato o siano state poste in grado di partecipare al giudizio penale ", si e' ritenuto di coinvolgere nell'effetto vincolante anche il responsabile civile (l'unico altro soggetto " svantaggiato " dal giudicato di condanna) purche' questo, attraverso la citazione o l'intervento, abbia avuto la possibilita' di partecipare al processo penale. Poiche', a norma dell'art. 85 comma 2, il responsabile civile costituito (non anche quello intervenuto) puo' essere escluso, a sua richiesta, (anche) " qualora gli elementi di prova raccolti prima della citazione possano recare pregiudizio alla sua difesa in relazione a quanto previsto dall'articolo 642 ", quest'ultimo precetto non trovera', ovviamente, applicazione se la richiesta di esclusione venga accolta. Comportando l'esclusione la perdita della qualita' di parte, nessuna esplicita riserva circa l'efficacia del giudicato di condanna nei confronti del responsabile civile che sia stato escluso per i detti motivi e', percio', stata ritenuta necessaria. Si e' dovuto poi farsi carico di attuare la direttiva 53 che, con riguardo al " giudizio abbreviato ", subordina l'efficacia della sentenza irrevocabile conseguente a tale tipo di giudizio alla condizione che la parte civile consenta all'abbreviazione del rito. Il comma 2 dell'art. 642 stabilisce percio' che gli stessi effetti indicati nel comma 1 derivano dalla sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato. Poiche', poi, l'efficacia vincolante della sentenza di condanna riguarda l'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceita' penale e l'affermazione che l'imputato lo ha commesso, si e' ritenuto che, giovando tale regime comunque al danneggiato sia esso o no costituito parte civile - sarebbe stato del tutto illogico subordinare la detta efficacia alla condizione indicata nella predetta direttiva: sia perche' la prestazione del consenso (non del semplice danneggiato ma della parte civile) sembra richiesta in funzione dell'eventualita' che il giudizio si concluda con una pronuncia diversa dalla condanna, sia per non privare il danneggiato che non abbia esercitato l'azione civile in sede penale della possibilita' di usufruire degli effetti di una decisione per lui favorevole, rispetto a cui l'imputato, promotore dell'abbreviazione del rito, nulla potrebbe opporre. L'omessa menzione nell'art. 642 del danneggiato (comma 1) e, soprattutto, della parte civile (comma 2), pare in grado di impedire il perpetuarsi di quelle discutibili estensioni interpretative che hanno avuto ad oggetto l'art. 27 del codice vigente, applicato dalla giurisprudenza anche in relazione a decisioni di proscioglimento contenenti un'affermazione di responsabilita' (ad es., sentenza che applica una causa di estinzione del reato per effetto della concessione di attenuanti o del giudizio di prevalenza o di equivalenza di queste rispetto alle aggravanti contestate, ovvero a seguito di derubricazione del titolo del reato): in questi casi, infatti, non sempre il danneggiato rimasto estraneo al giudizio penale puo' additarsi come " avvantaggiato " dalla decisione e, quindi, come sempre interessato alla produzione dell'effetto vincolante. Per quel che concerne l'articolo 643 (che, nel sistema del nuovo Progetto, a differenza di quanto previsto dall'art. 615 del testo del 1978, riguardante anche gli effetti della sentenza di assoluzione del giudizio disciplinare, si limita a regolare - per evidenti ragioni di rigore sistematico - l'efficacia della sentenza di assoluzione nel solo giudizio di danno), si e' rilevato che l'indirizzo restrittivo seguito nel precedente Progetto circa l'efficacia extrapenale della decisione penale sembra ancor piu' accentuato rispetto a quanto previsto per la sentenza di assoluzione. Al riguardo, la Relazione (p. 507), richiamando le decisioni costituzionali n. 55 del 1971, n. 99 del 1973 e n. 165 del 1975, stigmatizzava la difficolta' di stabilire quando il danneggiato possa considerarsi " posto in grado di partecipare al processo ": si ipotizzavano sia il caso in cui venga omessa la citazione sia il caso della citazione invalida sia il caso in cui il danneggiato venga citato in modo non idoneo a consentirgli una efficace difesa (ad esempio, quando sia stato citato per il dibattimento, dopo l'assunzione di atti di istruzione idonei ad acquistare valore probatorio nel giudizio). Non si trascurava, poi, l'evenienza che il danneggiato sia estromesso dal processo con provvedimento inoppugnabile, inidoneo a vincolare il giudice civile, o sia stato citato semplicemente come testimone, senza l'indicazione dell'imputazione; o ancora, che egli sia stato citato come persona offesa in relazione ad una imputazione sostanzialmente modificata nel dibattimento. Considerata, da un lato, la necessita' che fossero precisate inequivocabilmente le condizioni che determinano l'efficacia vincolante nel processo civile della pronuncia penale (anche al fine di evitare inutili sospensioni del processo civile in attesa di una decisione penale ininfluente), e, dall'altro, l'estrema difficolta' di riassumere tali conclusioni in una formula non ambigua, la Relazione del 1978 affermava come fosse opportuno che l'effetto vincolante della pronuncia di assoluzione emessa in seguito a giudizio dovesse operare soltanto nei confronti del danneggiato costituitosi parte civile (ancorche' la costituzione sia stata revocata): " ravvisando nella costituzione il segno inequivoco della avvenuta instaurazione del contraddittorio fra le parti del rapporto processuale civile ". Serratissime le critiche rivolte al testo del 1978 dalla Commissione consultiva. Si osservava (p. 446 del Parere) che la prescrizione limitativa dell'efficacia di giudicato ai giudizi promossi da chi si sia costituito parte civile finisse per avvantaggiare il danneggiato, in quanto costui, non costituendosi parte civile, non corre il rischio del possibile risultato negativo del processo penale; mentre potra' agire in sede civile quali che siano state le conclusioni penali: infatti, potra' giovarsi della condanna, che avra' in ogni caso efficacia di giudicato e non sara' ostacolato dal proscioglimento. Donde la necessita' di prevedere l'efficacia del giudicato penale di assoluzione non soltanto nei confronti del danneggiato che si sia costituito parte civile ma anche nei confronti del danneggiato che " sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile ": sarebbe stata in tal modo evidenziata la differenza tra gli effetti della sentenza di condanna, che si verificano rispetto ad ogni interessato, e gli effetti della sentenza di assoluzione, che si verificano solo rispetto alle parti " potenziali ". La disciplina contenuta nel Progetto del 1978 con riferimento all'efficacia nel giudizio di danno della sentenza di assoluzione, e' parsa - sotto il profilo dell'efficacia soggettiva del giudicato per alcuni aspetti, non piu' percorribile. L'introduzione della direttiva 22 (comune alla sentenza di condanna), riguardante il vincolo per il giudice civile, ha indotto a condividere, sia pure in parte, i rilievi della Commissione consultiva: cio' in quanto la nuova delega, aggiungendo che il vincolo si forma " sempre che le parti abbiano partecipato o siano state poste in grado di partecipare al giudizio penale ", sembra necessariamente richiedere la predisposizione di un sistema in cui il costituirsi parte civile non e' piu' (come nel Progetto del 1978) condizione per la produzione dell'effetto vincolante, essendo sufficiente, perche' tale effetto si realizzi, che il danneggiato da reato sia stato posto in grado di partecipare al processo penale. Si e' provveduto, percio', ad inserire nel comma 1 dell'art. 643 la prescrizione che l'efficacia vincolante del giudicato di assoluzione si produce non soltanto nei confronti del danneggiato che si sia costituito parte civile ma anche nei confronti del danneggiato che sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile (e non si sia costituito). Se e' vero che, come osservava la Relazione al Progetto del 1978 (p. 507), e' il piu' delle volte difficile stabilire il momento in cui il danneggiato possa considerarsi " posto in grado di partecipare al processo ", e' vero altresi' che subordinare l'efficacia del giudicato penale di assoluzione alla costituzione di parte civile avrebbe considerevolmente favorito il danneggiato rispetto all'imputato: per quest'ultimo, infatti, la possibilita' di far valere una decisione a lui favorevole restava subordinata alla mera volonta' del primo di divenire parte del processo penale. L'inciso " salvo che il danneggiato da reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'articolo 74 comma 1 " (non figurante nel Progetto del 1978 e neppure desumibile dal sistema dei rapporti fra l'azione civile e processo penale da esso predisposto) ha lo scopo di bilanciare il regime delle preclusioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede propria dopo l'inizio dell'azione penale con il regime dell'efficacia del giudicato penale. Al contempo, adempie anche la funzione di disincentivare il danneggiato dal far valere la sua pretesa nel processo penale, seguendo una linea solcata in piu' parti del nuovo Progetto e che trova una delle espressioni piu' significative, in tema di incidente probatorio, nell'art. 401: una norma volta a consentire al danneggiato, il quale possa temere le prove assunte in quella sede, di evitare che la sentenza pronunciata sulla base di esse produca effetti vincolanti nel giudizio di danno. Attraverso l'ultima parte del comma 1 dell'art. 643, il danneggiato da reato e', quindi, abilitato a sfuggire agli effetti del giudicato di assoluzione solo facendo valere la pretesa di danno, in qualunque stato e grado il processo penale si trovi - purche', ovviamente, non sia stata ancora pronunciata sentenza irrevocabile - davanti al giudice civile. Nessun problema di legittimita' costituzionale del tipo di quello a suo tempo prospettato dalla Commissione consultiva potra', al riguardo, essere avanzato per il fatto che mentre il danneggiato e' in grado di far sempre valere il giudicato di condanna, l'imputato non e' sempre in grado di far valere il giudicato di assoluzione: la diversita' delle discipline poste a confronto non sembra affatto irrazionale, essendo destinata a soddisfare - nei limiti indicati dalla legge-delega - l'esigenza di attuare il principio di separazione dei giudizi cui deve informarsi un processo di tipo accusatorio. Ulteriori modifiche al Progetto del 1978 si sono rese necessarie anche sotto il profilo oggettivo: cio' in conseguenza della direttiva 23 della legge-delega del 1978, la quale, aggiungendo alle ipotesi di efficacia vincolante della sentenza di assoluzione gia' previste nel regime della legge-delega del 1974 la statuizione che il " fatto fu compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facolta' legittima ", ha imposto l'inserimento nel comma 1 dell'art. 643 di un identico inciso. Per il resto, si e' seguita la stessa metodologia adottata a proposito dell'art. 614 del Progetto del 1978, creando, pero', nel nuovo testo, un comma 2 dedicato al giudizio abbreviato. Peraltro, in attuazione della direttiva 53 ultima parte, la sentenza pronunciata dopo tale forma di giudizio fara' stato solo se la parte civile abbia prestato consenso alla abbreviazione del rito: con il che resta, a fortiori, anche escluso che la relativa decisione possa comunque produrre effetti nei confronti del danneggiato da reato non costituito parte civile. L'articolo 644, concernente l'efficacia del giudicato di assoluzione nel giudizio disciplinare, corrisponde al comma 2 dell'art. 615 del Progetto del 1978: il testo e' stato scorporato dalla disposizione " madre " (l'attuale art. 643) sia per evidenti motivi di coerenza sistematica sia per assegnare alla norma una autonomia precettiva corrispondente alla autonomia concettuale che deve caratterizzarla. Quanto al lessico adottato e ai conseguenti contenuti precettivi, anzitutto l'espressione " giudizio amministrativo per la responsabililta' disciplinare " e' parsa inadeguata - considerando che esistono anche procedure disciplinari aventi natura non propriamente amministrativa - a descrivere il fenomeno. Ma la consapevolezza che la soppressione nel comma 1 dell'aggettivo " amministrativo " avrebbe dilatato in modo esorbitante l'ambito di operativita' della norma, finendo per ricomprendervi ogni giudizio per responsabilita' disciplinare, pubblico o privato che sia - cosi' violando palesemente la direttiva 24 che, col riferirsi al " procedimento amministrativo per responsabilita' disciplinare ", intende delineare (conformemente alla normativa, generale e speciale, vigente nella materia) un assetto comprensivo esclusivamente delle procedure disciplinari di natura pubblicistica - ha indotto a prescegliere la formula " giudizi disciplinari davanti alle pubbliche autorita' " adottata dall'art. 3 comma 3 del codice vigente: una formula che, oltre ad essere piu' comprensiva di quella dell'art. 615 comma 2 del Progetto del 1978, non ha dato luogo a problemi nell'attuale regime. Per quel che attiene, poi, agli effetti soggettivi del giudicato di assoluzione nel giudizio disciplinare, poiche' la direttiva 24 (che, sostanzialmente, riproduce la direttiva 22 del 1974) manca di ogni riferimento alla partecipazione della pubblica autorita' al giudizio penale, si e' optato per la soluzione che consente il prodursi dell'effetto vincolante della pronuncia assolutoria anche nei confronti dell'amministrazione che non abbia partecipato o non sia stata posta in condizione di partecipare al processo penale, perche' non soltanto non danneggiata ma nemmeno offesa dal reato o, comunque, non posta a conoscenza di tale processo. E' stato, inoltre, segnalato, che, pur non essendo nel Progetto contenuta una disposizione del tipo di quella dell'art. 3 comma 3 del codice del 1930, alla stregua della normativa speciale attualmente vigente (art. 117 del testo unico degli impiegati civili dello Stato, in base al quale, qualora per il fatto addebitato all'impiegato sia stata iniziata azione penale, il procedimento disciplinare non puo' essere promosso fino al termine di quello penale e, se gia' iniziato, deve essere sospeso) il procedimento disciplinare vedra' comunque arrestare il suo corso. La Commissione aveva, in un primo tempo, stabilito di estendere il principio dell'efficacia vincolante del giudicato di assoluzione anche riguardo alle sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, cosi' da incentivare il ricorso a tale procedura e sul presupposto che una scelta del genere non comportasse violazione della direttiva 24, dato che questa fa riferimento, sic et simpliciter, alla " sentenza di assoluzione ". Ma la decisione di introdurre un comma 2, estensivo della efficacia di giudicato alle sentenze di assoluzione perche' il fatto non sussiste o perche' l'imputato non l'ha commesso pronunciate a seguito del giudizio abbreviato, e' stata successivamente rimeditata, sia perche' apparsa in contrasto con la legge-delega, sia perche' risultata non conforme ai principi che regolano, nel nuovo processo, l'efficacia extrapenale del giudicato penale. Sotto il profilo del contrasto con la legge-delega, e' stato rilevato che la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato e' pur sempre una decisione emessa nell'udienza preliminare, con riguardo alla quale opera la prescrizione della direttiva 25 (a fortiori riferibile al procedimento per responsabilita' disciplinare): la considerazione che il rito abbreviato rappresenta una forma di " giudizio " e che la decisione pronunciata a seguito di tale rito sia in grado di costituire cosa giudicata non vale a far ritenere inoperante rispetto ad essa la direttiva 25 e la conseguente inefficacia extrapenale di ogni sentenza che non sia stata pronunciata a seguito di dibattimento. Del resto, dall'ultima parte della direttiva 53, che, derogando alla direttiva 25, detta la disciplina degli effetti non penali della sentenza pronunciata in conseguenza dell'abbreviazione del rito, emerge come tali effetti - per giunta condizionati - sono di stretta interpretazione. Sotto il profilo della incoerenza con il sistema dei rapporti fra giudizi (in una materia in cui, almeno di norma, la relativa tematica sta ad indicare una - peraltro eccezionale - incidenza del giudicato penale in un procedimento amministrativo, anche se designato da caratteristiche del tutto peculiari) non e' sembrata irrilevante la considerazione che la sentenza di assoluzione pronunciata a seguito di giudizio abbreviato proviene da un procedimento fondato su un summatim cognoscere (la cognizione e' certamente molto piu' sommaria, e non soltanto quanto all'acquisizione della prova, rispetto alla cognizione dibattimentale), cosicche', se ad essa si attribuisse la stessa efficacia riconosciuta alla sentenza dibattimentale, ne deriverebbero conseguenze paralizzanti l'esercizio dei poteri dell'autorita' disciplinare anche senza che quest'ultima sia stata posta in grado, in ipotesi, di partecipare al giudizio penale. Con l'articolo 645 e' stata data attuazione alla prima parte della direttiva 24 della legge- delega che ha imposto al legislatore delegato di disciplinare gli " effetti del giudicato penale in altri giudizi civili o amministrativi ". La prescrizione ha lo scopo di colmare quella che e' stata ritenuta una lacuna della delega del 1974, provocata dalla assenza di una norma " di chiusura " informata, quanto alla sua tipologia, al precetto contenuto nell'art. 28 del codice vigente - in grado di disciplinare gli effetti del giudicato penale di condanna o di proscioglimento nei giudizi civili o amministrativi diversi dal giudizio per le restituzioni e il risarcimento del danno. Ad una prima lettura, parrebbe che la direttiva abbia conferito al legislatore delegato una sorta di delega " in bianco ": fermo restando che occorre disciplinare gli ulteriori effetti della sentenza penale, il legislatore delegato potrebbe considerarsi del tutto libero nello stabilire anche " se " detti effetti debbano o no prodursi. Nel corso del dibattito in Commissione tale tesi e' stata avanzata da chi ha proposto la previsione di un assetto informato alla assoluta esclusione dell' efficacia vincolante della sentenza penale oltre l'area del giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. Il fatto, pero', che l'efficacia del giudicato penale negli " altri " giudizi non rappresenti un fenomeno da regolamentare necessariamente (in assenza di ogni previsione della legge-delega, il Progetto del 1978 si limitava, infatti, a contemplare gli effetti della decisione penale nel " giudizio amministrativo per responsabilita' disciplinare "), ha indotto da ultimo a ritenere che la direttiva 24 abbia reso necessaria per il legislatore delegato la formulazione di una norma in base alla quale gli " altri " giudizi civili o amministrativi non restino del tutto insensibili alle statuizioni della sentenza penale passata in giudicato. La preoccupazione maggiore e' stata, piuttosto, quella di ridimensionare la misura della efficacia vincolante della decisione del giudice penale quale risulta dall'art. 28 del codice vigente: un precetto, per alcuni versi, eccedente dallo stesso schema dei rapporti fra giudizi delineato nel codice del 1930. La perplessita' che ha quasi sempre caratterizzato le posizioni della dottrina nei confronti dell'art. 28 e l'incidenza sulla sua dimensione precettiva della decisione costituzionale n. 55 del 1971 (la quale, limitando l'efficacia soggettiva di tale disposizione, ne ha praticamente snaturato l'originario valore di norma attuativa - oltre che dell'unita' della funzione giurisdizionale - del principio dell'efficacia erga ommes del giudicato penale) hanno imposto una linea di estremo rigore nello stabilire l'ambito oggettivo e soggettivo dell'efficacia del giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi diversi dal giudizio di danno; una linea, del resto, assolutamente percorribile alla stregua della prima parte della direttiva 24 che ha, sostanzialmente, conferito al legislatore delegato la massima liberta' nella disciplina di detti effetti. Avendo come dato di riferimento l'art. 28 del codice vigente, ed in conformita' con quanto disposto per il giudizio di danno dall'art. 454 comma 5 del nuovo Progetto, si e', in primo luogo, negata ogni forza vincolante al decreto di condanna. Al riguardo, e' stato osservato come, gia' in relazione al codice vigente, far derivare l'effetto vincolante ex art. 28 da tale provvedimento costituisce un meccanismo esorbitante il regime dei rapporti fra giudizi: non soltanto perche' il fondamento della pretesa penale puo' essere del tutto diverso da quello posto a base della pretesa civile o amministrativa ma soprattutto perche' il procedimento per decreto e' tale da non consentire - se non in via del tutto eventuale - il contraddittorio fra le parti interessate. D'altro canto, non e' parsa esatta la considerazione che sarebbe comunque onere del condannato provvedere a dolersi contro il decreto attraverso l'opposizione: infatti, se cio' puo' essere vero in relazione agli effetti previsti dall'art. 642 (che, pure, alla stregua della direttiva 22 - la cui prescrizione e' stata espressamente ribadita dall'art. 454 comma 5 del Progetto circoscrive il vincolo alla sola " sentenza penale irrevocabile "), non lo e' in alcun modo in relazione agli effetti indicati nella direttiva 24: nell'un caso, attesa la sostanziale identita' delle ragioni a fondamento delle pretese, e' possibile prevedere gli effetti del decreto anche sul piano extrapenale; nell'altro caso, la non coincidenza delle ragioni a fondamento delle pretese comporterebbe, invece, da parte del condannato, la previsione di ogni possibile effetto extrapenale del provvedimento: una previsione la cui mancanza ben difficilmente potrebbe essere addebitata al soggetto " svantaggiato " dalla decisione penale. Senza contare che il decreto non contiene alcuna motivazione in ordine ai fatti materiali accertati quali presupposto per la decisione di condanna. Non si e' ritenuto opportuno riprodurre l'inciso di apertura dell'art. 28, risultando chiaro che l'efficacia vincolante del giudicato penale disciplinato dall'art. 645 opera al di fuori sia degli effetti del giudicato di condanna e di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno sia degli effetti del giudicato di assoluzione nel giudizio per responsabilita' disciplinare. L'omissione dell'inciso - disposta al fine di assegnare al precetto in esame la piu' piena autonomia rispetto ai tre articoli che lo precedono - consente anche di prevenire ogni qualificazione dell'art. 645 in termini di complementarita' rispetto agli artt. 642 e 643: una qualificazione che avrebbe rischiato di perpetuare la discutibile linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza, costante nel ritenere che il rapporto tra l'art. 28, da un lato, e gli artt. 25, 26 e 27, dall'altro, debba intendersi non come di reciproca esclusione ma come di reciproca integrazione: nel senso che poiche' questi ultimi precetti non sarebbero in grado di coprire tutta l'area del danno risarcibile, la disciplina dettata dall'art. 28 verrebbe in loro soccorso, trovando applicazione tanto nei giudizi di danno conseguenti a sentenza di proscioglimento non preclusiva, tanto nei giudizi di danno conseguenti a condanna per gli aspetti non compresi nell'art. 27, quanto nei giudizi diversi da quello di danno. Traducendosi il vincolo derivante dall'art. 28 del codice vigente in una penetrante limitazione dei poteri del giudice civile o amministrativo, nella formulazione dell'art. 645 si e' ritenuto necessario chiarire che l'efficacia vincolante del giudicato penale ricorre solo quando l'accertamento riguarda gli " stessi fatti " che vengono in considerazione nel giudizio civile: cio' anche in vista di coordinare gli effetti del giudicato penale sia con il disposto dell'art. 2 del Progetto che esclude ogni efficacia vincolante in altri giudizi degli accertamenti incidentali compiuti dal giudice penale sia con la soppressione del regime della pregiudiziale facoltativa quale disciplinata dall'art. 20 del codice vigente. Poiche', stando alla corrente interpretazione dell'art. 28, l'espressione " diritto " equivale a posizione giuridica soggettiva, e' parso opportuno puntualizzare (pure al fine di rendere esplicito che anche la nuova norma si riferisce al solo giudizio amministrativo di legittimita' e non si estende al giudizio amministrativo di merito) che, per l'operativita' del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo diverso da quello di danno, si deve controvertere intorno a un diritto o ad un interesse legittimo. Allo scopo di collegare con maggiore incisivita' l'efficacia oggettiva del giudicato penale al thema decidendi della pronuncia del giudice penale, e' stata prospettata l'opportunita' di fare riferimento all'imputazione e di limitare l'effetto vincolante del detto giudicato ai fatti che furono oggetto di essa: la considerazione, pero', che, cosi' operando, si sarebbe escluso ogni richiamo sia all'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza di circostanze attenuanti, sia ai criteri di commisurazione della pena, sia, soprattutto, all'accertamento di fatti che costituiscono il presupposto per l'applicabilita' di cause di giustificazione, ha indotto a seguire la stessa formulazione - " accertamento dei fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale " - adottata dall'art. 28 del codice vigente. Peraltro, attenendo l'effetto vincolante non al dispositivo ma alla motivazione, si e' conseguentemente prescritto che i fatti materiali accertati devono essere rilevanti ai fini della formazione del dispositivo della sentenza penale. Sul piano soggettivo, si e' rilevato come, dopo la sentenza costituzionale n. 55 del 1971, il contenuto precettivo dell'art. 28 si sia considerevolmente ridotto, operando l'accertamento dei fatti materiali compiuto dal giudice penale soltanto nei confronti delle parti in causa e di coloro che, attraverso gli opportuni strumenti di conoscenza o di conoscibilita' del processo penale, siano stati posti in condizione di partecipare a tale processo. Peraltro, la liberta' riservata al legislatore delegato dalla prima parte della direttiva 24 (che non contiene alcuna prescrizione circa l'ambito soggettivo di efficacia del giudicato) e' parsa significativa dell'intento della legge-delega di circoscrivere gli effetti del giudicato penale alle sole parti in causa: si tratta, invero, di effetti esorbitanti dagli schemi dei rapporti tra giudizi quali costruiti dal Progetto preliminare; operanti, per di piu', in un regime che non implica, come un tempo, l'incondizionata efficacia extra moenia del giudicato penale, essendo il nuovo processo costruito non sulla base dei principi inquisitori propri del codice vigente ma come processo di parti. L'incidenza degli effetti del giudicato penale nei giudizi civili o amministrativi diversi da quello per le restituzioni ed il risarcimento del danno nei confronti delle sole parti in causa (imputato, parte civile, responsabile civile che si sia costituito o sia intervenuto nel processo penale) sembra anche superare le obiezioni formulate dalla Commissione consultiva in relazione all'art. 615 del Progetto del 1978 (l'attuale art. 643), dato che, con riguardo alla parte civile, non puo' parlarsi di posizione privilegiata, riguardando l'art. 645 non soltanto le sentenze di condanna ma anche le sentenze di assoluzione. Pur riferendosi la direttiva 24 al " giudicato penale ", si e' ritenuto necessario circoscrivere gli effetti previsti dall'art. 645 a quelli derivanti dalle sentenze pronunciate a seguito di dibattimento, escludendo che tali effetti possano conseguire da decisioni pronunciate a seguito di giudizio abbreviato. Cio' sia perche' la sentenza emessa dopo l'abbreviazione del rito e' pur sempre una decisione pronunciata in esito ad una udienza preliminare (con riguardo alla quale opera il precetto della direttiva 25) e perche' la disciplina degli effetti extrapenali delle sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato e' regolata in via esclusiva dall'ultima parte della direttiva 53, sia in quanto la cognizione " imperfetta " propria del giudizio abbreviato e' parsa incompatibile con quella minuziosa acquisizione dei dati probatori che sola puo' determinare la forza vincolante nel giudizio civile o amministrativo dell'accertamento dei fatti materiali posto a fondamento della decisione penale; una forza vincolante, quindi, che puo' derivare esclusivamente dal dibattimento. Si e' ritenuto, ovviamente, di lasciar fermo il principio sancito dall'art. 28 del codice vigente - in base al quale l'accertamento vincolante dei fatti materiali e' subordinato alla condizione che la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa: un principio ancor piu' valido per il nuovo processo, fondato, come esso e', sulla regola della separazione fra le giurisdizioni. TITOLO II ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI L'articolo 646 stabilisce la competenza generale del pubblico ministero quale promotore dell'esecuzione secondo le scelte descritte nella parte introduttiva della Relazione al presente libro. Il primo comma individua il pubblico ministero competente attraverso il riferimento all'organo giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui esecuzione si tratta. A tale regola generale si fa eccezione in due ipotesi. Della prima, concernente i provvedimenti del tribunale di sorveglianza che incidono sullo stato di detenzione, si dira' in occasione dell'esame dell'art. 650, che espressamente la prevede; la seconda ha ad oggetto i provvedimenti della corte di cassazione. Si sono infatti andati sempre piu' estendendo i casi in cui alla corte e' demandata la competenza a decidere nel merito, in deroga al principio del rinvio: tale competenza pone inevitabilmente problemi di esecuzione. L'art. 620 gia' prevede che determinati provvedimenti liberatori, per l'urgenza che e' connessa alla loro incisivita' sullo status dell'imputato, siano eseguiti dal pubblico ministero presso la stessa corte: e' sembrato in questa sede opportuno esplicitare che eventuali altri provvedimenti di minore importanza, conseguenti alla decisione sul merito, vadano invece eseguiti dal pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza impugnata, e cio' per evitare che alle strutture della cassazione vengano accollati, al di la' del necessario, compiti che sono estranei alla sua naturale funzione di giudice di diritto e che creerebbero rilevanti problemi organizzativi. Il comma 2 dell'art. 646 conferisce al pubblico ministero il potere di iniziativa per l'emanazione dei provvedimenti da parte del giudice dell'esecuzione, senza che cio' pregiudichi ovviamente il corrispondente diritto dell'interessato e del difensore. E' stato anche prescritto l'intervento del pubblico ministero in tutti i procedimenti di esecuzione, intervento la cui obbligatorieta', pur in assenza di una specifica sanzione processuale, si desume anche dal comma 4 dell'art. 657. Sotto tale profilo deve osservarsi che, una volta adottato il principio della piena giurisdizionalizzazione del procedimento esecutivo, appare del tutto illogico pensare ad uno svolgimento del procedimento senza l'instaurazione di un vero e proprio contraddittorio, il che implica la presenza contestuale e necessaria del difensore (il condannato non puo' certo essere costretto a presentarsi fisicamente dinanzi al giudice dell'esecuzione) e del rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero, in modo tale che il giudice dell'esecuzione possa adottare le sue decisioni dopo aver ascoltato nella naturale dialettica dell'orale dibattito le ragioni delle parti. Le funzioni del pubblico ministero non si esauriscono nella promozione dell'esecuzione, nella proposizione delle sue richieste e nella partecipazione all'udienza davanti all'organo giurisdizionale, perche' la sua attivita' deve anche comprendere la compilazione dell'eventuale provvedimento di cumulo, la riduzione dei condoni applicati da vari giudici all'insaputa l'uno dell'altro, la revoca o l'eliminazione di benefici che possono derivare dall'esame della posizione processuale di ciascun condannato, nonche' la tenuta dei fascicoli dell'esecuzione. Tali molteplici funzioni sono descritte solo in parte nelle disposizioni che seguono. Le altre formeranno oggetto di disposizioni di attuazione e regolamentari, conformemente alla disciplina attuale. Il comma 3 riprende la previsione vigente che consente l'espletamento di rogatorie anche in tema di esecuzione, limitandone per altro l'ambito al compimento di singoli atti, non essendovi ragione di derogare alla competenza naturale per l'intero procedimento. Il comma 4 richiama i casi nei quali l'esecuzione non puo' aver luogo per difetto della prescritta autorizzazione a procedere. L'articolo 647 disciplina la emanazione dell'" ordine di esecuzione " della pena detentiva. Si e' preferita tale piu' generica denominazione, in luogo di quella tradizionale di " ordine di carcerazione ", in quanto idonea a ricomprendere anche le ipotesi in cui la esecuzione non comporti restrizione in carcere (ad esempio detenzione domiciliare). All'interessato deve essere consegnata copia dell'ordine di esecuzione che, come prescritto nel comma 4, deve contenere le generalita' della persona nei cui confronti il provvedimento deve essere eseguito e quanto valga a identificarla, nonche' l'imputazione, il dispositivo del provvedimento e le disposizioni necessarie alla sua esecuzione. Tali requisiti devono essere considerati essenziali per la validita' dell'atto e per la instaurazione di un valido rapporto processuale esecutivo. Siffatte indicazioni consentiranno altresi' di superare i problemi interpretativi attualmente esistenti circa il carattere di equipollenza dell'ordine di carcerazione rispetto alla mancata notifica dell'estratto della sentenza al contumace, quale atto dalla cui consegna decorre il termine per l'impugnazione del provvedimento e quindi per l'instaurazione del procedimento di appello sulla base di un'impugnazione " apparentemente " tardiva. I commi 2 e 3 riproducono le analoghe disposizioni dei commi secondo e terzo del vigente art. 581; peraltro, la emanazione della ingiunzione a costituirsi volontariamente, in luogo dell'ordine di carcerazione, e' adesso obbligatoria quando ne ricorrano i presupposti.