(parte 8)
delle sentenze  che  dispongono  misure  di  sicurezza.  Il  Progetto
preliminare  del  1978,  al  comma 2 dell'art. 570, aveva previsto il
solo  ricorso  per  cassazione  avverso  il   capo   della   sentenza
riguardante  le  misure di sicurezza, motivando tale scelta col fatto
che  nelle  disposizioni  generali  non  e'   stata   riprodotta   la
disposizione   del   vigente   art.   212  c.p.p.  Tenuto  conto  che
quest'ultimo fa rinvio - se l'impugnazione e' proposta  per  la  sola
misura  di  sicurezza  -  al  "  ricorso  in  appello  " disciplinato
dall'art. 640 c.p.p., e' parso ragionevole prevedere in via  generale
e  con  i  normali  mezzi  di impugnazione, l'autonoma reclamabilita'
delle pronunce riguardanti le misure anzidette.
   L'articolo   573,   come  si  e'  gia'  detto  in  premessa,  reca
un'intitolazione diversa, piu' aderente  al  contenuto,  ed  esprime,
soltanto  in  forma  differente, il disposto dell'art. 514 del codice
vigente, trasferito in questa sede perche'  e'  norma  che  coinvolge
anche  l'appello  e  non  il solo ricorso per cassazione del quale si
prevede la conversione.
   L'articolo   574,   interpretando   l'innovazione  della  unicita'
dell'atto  di  impugnazione,  impone   un   contenuto   diverso   dal
corrispondente art. 197 del codice vigente. Si e' inteso sottolineare
inoltre, allo scopo di evitare impugnazioni  generiche  o  dilatorie,
l'opportunita'  di  consentire  in  sede  di legittimita' la verifica
della non manifesta infondatezza del ricorso ed in  appello  della  "
serieta'   "   della   eventuale   richiesta   di   rinnovazione  del
dibattimento,  nonche'  permettere  la  verifica  dell'interesse   ad
impugnare.  Si  e'  cosi'  ritenuto  di tipizzare gli elementi che il
gravame deve enunciare in modo specifico in tre categorie: i capi o i
punti della decisione che costituiscono l'oggetto della impugnazione;
le richieste; i motivi  in  fatto  e  in  diritto;  mentre  e'  parsa
eccessiva   la  proposta  di  pretendere  anche  l'indicazione  degli
elementi e delle fonti di prova, inizialmente avanzata.
   L'articolo 575, che assomma il contenuto degli artt. 198 e 201 del
codice vigente, si riferisce naturalmente all'atto di impugnazione  e
contiene,  rispetto allo stesso articolo del Progetto preliminare del
1978,  a  parte  alcune  precisazioni  di  dettaglio,   l'innovazione
dell'obbligo,  da  parte  del  segretario che riceve l'atto stesso di
rilasciare  -  a   richiesta   dell'interessato   -   un'attestazione
dell'avvenuta  presentazione  di  esso.  Allo  stesso  modo si dovra'
provvedere in caso di atto presentato da chi si  trovi  in  stato  di
detenzione,  secondo  le  forme  di  cui  all'art.  122.  La ratio e'
evidentemente  quella  di  assicurare  all'interessato  un  controllo
probatorio della presentazione e degli atti successivi.
   L'articolo  576  contempla  la  forma  alternativa  di  spedizione
dell'atto a mezzo posta raccomandata. E' stata pero' reintrodotta  la
possibilita'  di  spedizione  telegrafica giacche', se e' vero che ne
appare eccezionale l'utilizzazione, per la dispendiosita' del mezzo e
per l'obbligo di indicare i motivi della sua utilizzazione, non e' da
escludere che vi si possa far ricorso per una imminente scadenza  del
termine.  Si  e'  precisato  che l'impugnazione si considera proposta
nello stesso  giorno  in  cui  sono  spediti  la  raccomandata  o  il
telegramma.  Quanto  all'autentica  della  sottoscrizione,  e'  parso
opportuno, anziche' elencare  i  soggetti  abilitati,  rinviare  alle
disposizioni  in  merito,  cosi' da non circoscrivere la categoria in
via definitiva. In questa sede, a tali soggetti  ("  notaio...  altre
persone  autorizzate  ") e' stato aggiunto il difensore, la cui firma
costituisce il normale strumento di autentica  nel  processo  civile.
Proprio  per tale ragione e' stata ovviamente soppressa la previsione
dell'autentica della sottoscrizione del difensore.
   L'articolo  577  esprime,  come  si  e'  avuto  gia'  occasione di
rilevare, la necessita'  della  notifica  alle  altre  parti,  intese
queste  come  i  soggetti  nei  cui  confronti si esercita la pretesa
espressa  nell'atto  di  impugnazione  e  nel  singolo  processo.  La
notifica  deve  essere fatta a cura della cancelleria del giudice che
ha  emesso  il  provvedimento   impugnato,   sicche'   dall'eventuale
omissione  non  puo'  discendere l'inammissibilita' dell'impugnazione
stessa. Non  potra'  invece  decorrere  il  termine  per  l'eventuale
appello incidentale.
   L'articolo  578 stabilisce i termini per l'impugnazione previsti a
pena di decadenza. Il diverso meccanismo di redazione e  di  deposito
della  sentenza  ai  sensi  degli  artt.  537 e 541 ha consigliato la
previsione di  termini  diversi,  in  sintonia  con  quanto  previsto
nell'art.  1  del disegno di legge n. 1706 del quale si e' parlato in
premessa, al fine di rendere meno gravoso il lavoro della cancelleria
e  di  ridurre  i  tempi  di  passaggio  dei  procedimenti  ai  gradi
successivi. Secondo il nuovo  schema,  pertanto,  quando  non  si  e'
proceduto   alla   lettura   contestuale   del  dispositivo  e  della
motivazione, l'avviso di cui si e' detto e' previsto solo nel caso in
cui  il  giudice  non  provveda  a depositare la sentenza nel termine
normale (che sara' previsto in trenta giorni)  o  in  quello  diverso
(non  superiore  a novanta giorni) che egli e' autorizzato a fissare,
dandone atto nel dispositivo  della  decisione,  qualora  la  stesura
della motivazione si presenti particolarmente complessa per il numero
delle parti o per il numero  e  la  gravita'  delle  imputazioni.  Il
termine  per la presentazione della impugnazione, quindi, viene fatto
decorrere dalla data di notificazione o comunicazione dell'avviso  di
deposito  solo  nei casi in cui questo e' dovuto; negli altri casi il
termine decorrera' dalla data in cui e' scaduto quello fissato  dalla
legge  o dal giudice per il deposito della decisione. Nel caso in cui
il deposito avvenga tempestivamente, infatti, le parti e i  difensori
sono  posti in grado sia di conoscere l'esatto dies a quo del decorso
del termine per la presentazione della impugnazione, sia di esaminare
la motivazione della decisione impugnata.
   Diversamente  da  quanto previsto dal troppo articolato meccanismo
stabilito dall'indicato disegno di legge, per l'imputato contumace si
e'  ritenuto  opportuno  prevedere  che il termine per l'impugnazione
decorra dalla notificazione dell'avviso di  deposito  con  l'estratto
del provvedimento; la notificazione congiunta dei due atti (avviso di
deposito ed estratto contumaciale) mira  invece  a  risolvere  annose
dispute   giurisprudenziali  in  tema  di  equipollenza  tra  le  due
notificazioni. La disciplina proposta nel  citato  disegno  di  legge
prevede  infatti  che,  per  il  contumace,  il  termine per proporre
impugnazione decorra o dall'avviso di deposito della sentenza, quando
questa e' avvenuta fuori termine, o dalla notificazione dell'estratto
della sentenza, se successiva alla scadenza dei termini "  normali  "
ovvero,  se  antecedente, dallo spirare di detti termini. Meccanismo,
quello indicato, che da un lato non consentirebbe il  "  risparmio  "
della  notificazione  mentre  dall'altro  non  sembra particolarmente
gravido di conseguenze sul piano della " accelerazione "  della  fase
di  gravame.  E' sembrato pertanto preferibile, perche' piu' in linea
con la direttiva 83 oltre che tecnicamente  piu'  agevole,  prevedere
che  il  termine  decorra  dalla notifica, unico actu, dell'avviso di
deposito e dell'estratto contumaciale. La stessa disciplina e'  stata
prevista   per   le   impugnazioni  del  procuratore  generale  della
Repubblica contro  i  provvedimenti  emessi  in  udienza  da  giudici
diversi  dalla  corte  di  appello,  stante  la " sintonia " che tale
posizione presenta rispetto alla figura del contumace. La previsione,
che  ricalca nelle grandi linee il disposto del comma 4 dell'art. 199
c.p.p., cosi' come novellato dall'art. 6 della
  l.  31  luglio 1984, n. 400, non sembra comportare oneri aggiuntivi
di cancelleria, giacche' la comunicazione dell'avviso di  deposito  e
dell'estratto   rappresenta  null'altro  che  un  equipollente  degli
adempimenti attualmente  previsti  dall'art.  31  delle  disposizioni
regolamentari  di  cui  al  r.d.  28 maggio 1931, n. 603 e successive
modificazioni.
   Il  comma  3 e' stato formulato negli stessi termini che compaiono
all'art.  3  del  disegno  di  legge  piu'  volte  citato:  l'omologa
disposizione   dell'art.  547  del  Progetto  preliminare  del  1978,
infatti, risentiva del tenore della direttiva 68  della  legge-delega
del  1974  ("...decorrenza  del  termine dell'impugnazione dalla data
dell'ultima notifica a tutte le parti  dell'avviso  di  deposito  del
provvedimento  ")  che  non compare piu' nella legge-delega del 1987.
Nel comma 4 si e' provveduto a precisare infine che  i  nuovi  motivi
non  possono  sanare  una  inammissibilita'  originaria  dell'atto di
impugnazione.
   L'articolo  579  riproduce  il  testo del Progetto del 1978 con le
modifiche, di carattere formale e tecnico (v. Relazione  al  Progetto
del  1978,  p.  457) gia' apportate da questo all'art. 200 del codice
vigente. Rimane pertanto la regola della non impugnabilita'  autonoma
dell'ordinanza.
   L'articolo     580     disciplina    la    possibile    estensione
dell'impugnazione  e  quindi  della  sentenza   ai   coimputati   non
appellanti, mantenendosi il mutamento di rubrica dettato dal Progetto
preliminare del 1978 per  sottolineare  come  si  tratti  non  di  un
immanente  effetto  dell'impugnazione,  ma  soltanto  di un'evenienza
relativa  a  processi   plurisoggettivi.   Pur   essendosi   limitate
consistentemente  le  ipotesi  di  connessione  (art.  12),  e' parso
opportuno  disciplinare  anche  la   produzione   delle   conseguenze
derivanti  dall'impugnazione  nel  caso  di riunione dei procedimenti
(art. 17).
   L'articolo  581  mantiene fermo il principio della ineseguibilita'
delle sentenze impugnabili o impugnate, con il riferimento ai momenti
precedente  e susseguente all'impugnazione. La disposizione del comma
2 del Progetto preliminare del 1978, inizialmente soppressa, e' stata
ripristinata,   poiche'   essa  si  coordina  con  le  corrispondenti
modifiche apportate in materia di liberta' personale.
   L'articolo  582  fissa  il  principio che la rinuncia del pubblico
ministero puo' essere  fatta  solo  dal  pubblico  ministero  che  ha
proposto  l'impugnazione,  evitando  quelle  situazioni di intervento
gerarchico  che  hanno  dato  luogo  per  il   passato   a   critiche
consistenti.  Non  era  d'altra  parte possibile escludere, una volta
iniziato il dibattimento in sede di impugnazione, una eguale facolta'
del   pubblico   ministero   presso  il  giudice  che  deve  decidere
dell'impugnazione proposta.
   Si  e'  ritenuto  opportuno prevedere, al comma 3, che la rinuncia
debba  essere  effettuata  nelle  forme  e  nei  modi  previsti   per
l'impugnazione,  considerata  la  natura  di  contrarius actus che la
stessa presenta ed al fine di dirimere talune perplessita' emerse  in
giurisprudenza.
   L'articolo 583 prevede la trasmissione senza ritardo degli atti al
giudice dell'impugnazione, con una formulazione piu'  agile  rispetto
all'analoga previsione del vigente art. 208 c.p.p.
   L'articolo 584 mantiene, come si e' detto, la scelta di attribuire
solo  al  giudice  ad  quem  la  declaratoria   di   inammissibilita'
dell'impugnazione,  anche per dirimere le questioni sorte in dottrina
e  in  giurisprudenza  circa  l'attribuzione  allo   stesso   giudice
dell'emissione  di  un provvedimento che inibisce di fatto il riesame
di un proprio precedente provvedimento. Nell'elencazione delle  cause
di   inammissibilita',   e'   stato   escluso   il  riferimento  alle
notificazioni contenuto nella lettera d) del Progetto preliminare del
1978, stante il generalizzato regime della notificazione dell'atto di
impugnazione  e  la  considerazione  che,  dovendo  la  notificazione
avvenire  a cura del segretario del giudice, non si puo' far derivare
conseguenze negative per le parti dalle inadempienze dell'ufficio. La
carenza  di  interesse,  menzionata nella lett. e) originaria, ricade
ora  entro  il  piu'  generale  ambito  della  lett.   a),   giacche'
l'interesse  ad  impugnare  costituisce  condizione dell'azione (art.
561). Si intende che, una volta unificato l'atto di impugnazione, non
sono  piu'  ravvisabili le ipotesi di inammissibilita' per la mancata
presentazione dei motivi o, stante la possibilita' della conversione,
per  la  erronea indicazione del mezzo di gravame. L'inammissibilita'
dovra' essere dichiarata dal giudice con procedimento  in  camera  di
consiglio;  procedimento  che  non  ripete  -  come si e' detto nella
introduzione  -  le  formalita'  garantistiche  dell'art.   126.   Le
obiezioni   mosse  a  tale  soluzione  nella  Relazione  al  Progetto
preliminare del 1978 devono  ritenersi  superate,  stante  il  chiaro
dettato della direttiva 89. Si trattera' di un procedimento de plano,
come d'altra parte e' stato sempre ritenuto nel  nostro  sistema  che
pure  conosce  alcune specie di provvedimenti camerali che richiedono
il contraddittorio. Cio' non toglie che,  quando  alla  dichiarazione
non si sia proceduto nel modo predetto, vi si potra' provvedere anche
con la sentenza, in ogni stato e grado del procedimento.
   L'articolo  585  ricalca  nella  sostanza  la  norma dell'art. 213
c.p.p.  e riproduce integralmente il testo dell'art. 554 del Progetto
preliminare del 1978.
                              TITOLO II
                               APPELLO
Premessa.
   Come  si  e' gia' accennato nell'introduzione premessa al presente
libro,  la  legge-delega  ha  dettato  per  l'appello  una  serie  di
direttive  nuove  o comunque diverse da quelle della legge-delega del
1974, suggerite dal  duplice  intento,  ricordato  durante  i  lavori
preparatori,  di  arginare  la  proliferazione  degli  appelli  e  di
accelerare anche il corso del giudizio di impugnazione,  al  pari  di
quello di primo grado.
   A  tali  esigenze  dovrebbero  sopperire,  da  un lato, l'istituto
dell'appello incidentale, dall'altro la possibilita' di decisione  in
camera  di  consiglio di talune impugnazioni, nonche' la eliminazione
della   regola   della   obbligatorieta'   della   rinnovazione   del
dibattimento,  che  nella  delega precedente veniva sottolineata come
momento rivelatore dell'appello inteso quale una sorta di rifacimento
del giudizio di primo grado (Relazione, p. 461).
   Come  e'  noto,  l'appello incidentale, nel sistema originario del
codice vigente, era consentito a favore del solo  pubblico  ministero
presso  il  giudice  dell'impugnazione nei casi di appello principale
dell'imputato e finiva sostanzialmente con il costituire una sorta di
rimessione   in   termini  del  pubblico  ministero  che  non  avesse
esercitato  il  diritto  di  impugnazione  nel   termine   ordinario;
l'istituto  era  stato  qualificato  dalla  dottrina  come  " ibrido,
incoerente ed ingiustificabile alla luce di un principio razionale ".
La  Corte  costituzionale,  con  la  sentenza  n.  177  del  1971, ne
dichiaro'  l'incostituzionalita',  sulla  base  di  due  fondamentali
argomenti: il primo, certamente piu' vistoso, desunto dalla posizione
diseguale  delle  parti,  ed  il  secondo  ricavato  da  una  lettura
dell'art.  112  Cost.  (obbligatorieta' dell'azione penale) idonea ad
esercitare la sua influenza anche nella fase di impugnazione.
   I  rilievi  da  ultimo  esposti  hanno,  come e' ovvio, indotto il
legislatore delegante a dettare l'ampia formulazione della  direttiva
90,  ove  non  si  fa  piu'  distinzione  tra  le parti legittimate a
proporre l'appello incidentale, mentre, sul  piano  della  disciplina
attuativa,  si e' ritenuto opportuno prevedere all'art. 587 un regime
che ricalca, con gli opportuni adattamenti sistematici, il  contenuto
dell'art.  13  del  gia' citato disegno di legge n.1708, anticipatore
della innovazione.
   Allo stesso disegno di legge (art. 14) si e' fatto riferimento per
disciplinare le decisioni in camera di consiglio, in  relazione  agli
appelli aventi un determinato oggetto come prescritto dalla direttiva
93. Si e' ritenuto tuttavia di  superare  due  limitazioni  contenute
nell'art.  14,  comma  2  del  testo  governativo,  costituite  dalla
previsione di tale forma di giudizio solo per l'appello dell'imputato
e  non  del  pubblico  ministero e dalla esclusione del rito camerale
quando vi sia stata costituzione di parte civile.
   La  prima  di  tali  eccezioni  non  e'  legittimata  dalla delega
giacche' in essa non si fa menzione della parte impugnante  e  ci  si
riferisce  invece  all'oggetto dell'impugnazione, che ben puo' essere
ravvisabile  in   talune   impugnazioni   del   pubblico   ministero.
Altrettanto  inspiegabile  appare  la  seconda  esclusione  quando si
riguardi  l'oggetto  specifico  degli  appelli  definibili  con  rito
camerale  (specie e misura della pena, attenuanti generiche, sanzioni
sostitutive, benefici di legge), argomenti tutti sui quali  la  parte
civile  non  ha  alcun  diritto  di interloquire e che non dovrebbero
comportare  una  diminuzione  della   responsabilita'   dell'imputato
condannato  in  primo  grado.  In ogni caso, nulla vieta che si possa
consentire l'intervento anche in questa sede della parte  civile  che
lo  voglia,  essendo gia' previsto un contraddittorio quanto meno tra
le parti principali del processo.
   E' stato invece condiviso il mutato indirizzo legislativo per cio'
che attiene al regime della rinnovazione del dibattimento, sia per la
maggiore  attenzione  che la direttiva 94 sottintende ai limiti della
devoluzione oggettiva, sia per la eliminazione della possibilita'  di
rinnovazioni  determinate  solo  da  intento  dilatorio.  E  pertanto
nell'art.   596,   in   cui,   stante    il    comune    denominatore
dell'acquisizione   probatoria  straordinaria,  risulta  disciplinata
anche l'assunzione di nuove prove alle quali provvedeva invece l'art.
564  del  Progetto  del  1978, si e' ripristinato il sistema previsto
dall'art.520  del  codice  vigente,  nel  senso  di   consentire   la
rinnovazione a domanda o di ufficio allorquando il giudice ritenga di
non poter decidere allo stato degli atti.
   Nella legge-delega del 1987 non e' stata accolta la scelta operata
dal Progetto preliminare del 1978 di estendere anche  all'appello  la
possibilita'  della  declaratoria  di  inammissibilita' per manifesta
infondatezza. La delega del 1974 in verita' non  ne  parlava,  ma  la
direttiva  89  dell'attuale legge-delega, ammettendo la previsione di
una siffatta soluzione  solo  per  il  ricorso  per  cassazione,  non
consente   un'interpretazione   estensiva.  Sorprende  tuttavia  tale
omissione, atteso il proposito del legislatore delegante di  favorire
percorsi  che  non comportino la trattazione del processo nelle forme
ordinarie, anche se e' intuibile che sia prevalsa  la  considerazione
che  la  possibile  maggiore  ampiezza  del rimedio dell'appello e la
inesistenza di parametri legislativi in relazione  al  contenuto  dei
motivi   rendono   del   tutto   marginale   l'utilizzazione  di  una
declaratoria  di  inammissibilita'   basata   su   una   infondatezza
manifesta.
   Un  approfondito  riesame dell'argomento ha indotto a reintrodurre
la relazione del consigliere, all'inizio del dibattimento (art. 595),
in  conformita'  del  parere  a  suo tempo espresso dalla Commissione
consultiva sul Progetto  preliminare  del  1978  (disatteso  in  sede
redigente  nell'intento  di  rendere  maggiormente  e  paritariamente
partecipi tutti i componenti il collegio della  materia  oggetto  del
giudizio).  E' stato ritenuto prevalente il rilievo che l'affidamento
ad ognuno dei giudici  dell'esame  degli  atti  di  singoli  processi
comporta  un  maggiore approfondimento e una migliore valutazione, di
cui, se la relazione e' fatta con attenzione ed informazione, possono
ugualmente,   se   non  meglio,  essere  partecipi  anche  gli  altri
componenti del collegio.
   Rispetto  al  Progetto del 1978, la sistematica dell'articolato e'
stata rimaneggiata in piu' punti, sia per la introduzione di istituti
nuovi  e  la  soppressione  di  istituti non piu' riprodotti, sia per
rendere piu' razionali la consultazione e la lettura  del  testo.  E'
stato  rilevato  che l'attribuzione e la valutazione della competenza
costituiscono il prioritario momento rivelatore della  capacita'  del
giudice  in  concreto; che la materia degli interessi civili e' tutto
sommato estranea al processo penale vero e proprio e che comunque  in
questa  fase  essa  e'  oggetto  di  una preliminare deliberazione in
camera  di  consiglio;  che  infine  l'eventuale   rinnovazione   del
dibattimento  non  puo'  che essere decisa e realizzata a processo di
appello gia' iniziato. Si  spiegano  quindi  le  seguenti  variazioni
rispetto  al testo del Progetto preliminare del 1978, e, in una certa
misura, anche rispetto alla sistematica del codice vigente:
     a)  l'art.  589 riguardante la cognizione del giudice di appello
precede le norme in tema  di  regole  processuali  (art.  590)  e  di
domicilio dell'imputato (art. 591);
     b)   l'art.   593,   che   prevede  i  provvedimenti  in  ordine
all'esecuzione delle condanne civili, e' posto prima della disciplina
degli atti preliminari al giudizio (art. 594);
     c)   l'art.   595,   che  regola  il  dibattimento,  precede  la
disposizione in tema di rinnovazione del dibattimento (art. 563), che
ingloba, come si e' detto, anche l'art. 564 del Progetto del 1978 che
riguardava l'assunzione di nuove prove.
Illustrazione degli articoli.
   L'articolo 586, che descrive i casi in cui puo' proporsi l'appello
realizza, nel comma 1, con la sintetica formula  dell'indicazione  in
positivo  delle  eccezioni,  la  direttiva 86, dettata dall'incidenza
delle  numerose  sentenze  della  Corte   costituzionale   (tra   cui
soprattutto  la n. 224 del 1983 e la n. 200 del 1986) intervenute sul
testo degli artt. 512 e 513 del codice vigente. Rimane percio'  ferma
l'impugnabilita'  di  ogni  sentenza  che non abbia gia' accertato la
totale innocenza dell'imputato con formula che  non  lasci  adito  ad
ulteriori pretese nei suoi confronti.
   Quanto alla legittimazione del pubblico ministero sono presupposte
nella norma la creazione di un ufficio del pubblico ministero  presso
il pretore e la scelta di affidare la cognizione dell'appello avverso
tutte le sentenze, ivi comprese quelle del  pretore,  alla  corte  di
appello,  sicche'  il  comma  3  precisa  quali  siano gli organi del
pubblico ministero legittimati a proporre impugnazione in tale  grado
di giudizio.
   Al fine di ridurre il numero delle impugnazioni (considerato anche
che l'istituto dell'appello, a differenza del ricorso per cassazione,
non  ha  avuto  un  riconoscimento  costituzionale tale da imporne la
previsione indefettibile in ogni processo penale), si  e'  deciso  di
ampliare  i  casi di esclusione dell'appello. Si sono tenute distinte
le sentenze  di  condanna  da  quelle  di  proscioglimento  e  si  e'
stabilito,  per  le  prime,  l'inappellabilita'  di quelle relative a
contravvenzioni  per  le  quali  in  concreto  sia  stata   applicata
l'ammenda   (anche   se   in   astratto  sia  prevista  l'alternativa
dell'arresto)  e,  per  le  seconde,  l'inappellabilita'  di   quelle
relative  a  contravvenzioni  per  le  quali sia prevista in astratto
l'ammenda o, in alternativa, l'arresto.
   In   relazione   all'articolo  587  (appello  incidentale),  vanno
naturalmente richiamate le considerazioni esposte nelle  introduzioni
alle impugnazioni in generale e all'appello.
   Il  testo  ricalca  l'art. 13 del disegno di legge n. 1708, con la
variante, che sembra discendere chiaramente dalla direttiva 90, della
legittimazione conferita a tutte le parti e non soltanto, come e' nel
testo governativo, al pubblico ministero e all'imputato.
   Non puo' dirsi pero' risolto il nodo fondamentale costituito dalla
correlazione con l'appello principale, che nella delega e' riguardato
solo  con  riferimento  all'immanente ammissibilita' di quest'ultimo.
Manca percio' ogni riferimento all'area di  devoluzione  dell'appello
incidentale, sicche' sono possibili in astratto diverse soluzioni che
qui di seguito si segnalano: a) che  esso  debba  essere  limitato  a
contrastare la pretesa dell'appellante; b) che debba essere contenuto
nei limiti segnati dall'appello principale; c) che, sia pure  con  la
possibilita'  di  estendersi  a  punti della decisione diversi, debba
comunque essere ristretto ai capi della sentenza oggetto dell'appello
principale;  d)  che  infine  non sussista alcun limite derivante dal
contenuto dell'appello principale.
   Certamente,  ove  si  volesse privilegiare la finalita' deterrente
dovrebbe essere  approvata  l'ultima  delle  soluzioni,  quella  piu'
radicale.  Ma,  a  parte  considerazioni  etiche, che pure non devono
essere trascurate nel  processo,  sembra  anche  concettualmente  non
accettabile  che  la  dipendenza dall'appello principale debba essere
limitata al  solo  profilo  della  ammissibilita'.  Se  si  considera
peraltro  che nel testo originario dell'art. 515 comma 4 c.p.p., tale
dipendenza non sussisteva in quanto l'appello  incidentale  manteneva
effetto  nonostante  la  successiva  rinunzia dell'imputato, vi e' la
possibilita' per questa via di ritenere che  i  due  appelli  debbano
essere tra di loro in qualche modo collegati quanto meno in relazione
ai capi della sentenza impugnata. Opinando diversamente,  ritenendosi
cioe'   del   tutto   libera   l'area   di  devoluzione  dell'appello
incidentale,  questo  apparirebbe  rivolto  a  consentire  solo   una
generica rimessione in termini e non dettato dall'intento, certamente
piu' comprensibile ed apprezzabile, di ottenere un riesame, in tutt'e
due  le  direzioni,  dei  capi  della  sentenza  posti in discussione
dall'appello principale.
   A  fronte  della  complessa  problematica di cui si e' detto si e'
ritenuto, tuttavia, di non introdurre specifiche previsioni  volte  a
circoscrivere  l'ambito  applicativo dell'appello incidentale, per la
prevalente considerazione che, trattandosi di istituto non nuovo,  lo
stesso  viene  a  collocarsi  in  un  ormai  piu'  consolidato filone
interpretativo, dal quale non e' sembrato opportuno discostarsi.
   L'articolo   588   conferma   la  scelta,  ormai  legislativamente
acquisita dopo la legge n. 400/ 84, dell'esclusiva  competenza  della
corte  di  appello  in  merito. Le obiezioni a suo tempo formulate da
alcuni uffici giudiziari, possono dirsi ormai  superate  anche  dalla
concreta  esperienza  di  questi anni, mentre rimane ancora valida la
considerazione, contenuta nella Relazione al Progetto preliminare del
1978,   che   nella   innovazione   e'  possibile  intravedere  anche
un'apertura verso l'istituzione di un giudice  monocratico  di  prima
istanza.  Non  senza  contare  che nella stessa direzione, di ridurre
cioe' il carico di lavoro  del  tribunale,  si  sono  mosse  le  piu'
recenti leggi di spostamento di competenze verso il Pretore.
   L'articolo  589,  che,  come  si  e' detto, precede l'art. 557 del
testo del Progetto preliminare  del  1978,  e'  intitolato,  al  pari
dell'art. 515 del codice vigente, " Cognizione del giudice di appello
" e sottolinea alcuni punti  fermi  gia'  rilevabili  nel  testo  del
Progetto del 1978, sostanzialmente qui riprodotto.
   Il  primo  di  essi riflette il divieto di reformatio in peius nel
caso di appello del solo imputato, nonostante  consistenti  contrarie
affermazioni  registrate  nel  corso  dei  lavori  preparatori  della
legge-delega. Esso viene rafforzato rispetto al codice  vigente,  con
la  previsione  dell'obbligatoria diminuzione della pena complessiva,
in caso di accoglimento dell'appello in ordine alle circostanze o  al
concorso  di  reati. In esecuzione della direttiva 91, e' prevista la
possibilita' per il  giudice  di  appello  di  concedere  circostanze
attenuanti e benefici di legge anche non richiesti con l'impugnazione
proposta; ma e' parso opportuno non attribuire esplicitamente  a  tal
fine   poteri   istruttori  al  giudice  di  appello,  che  finirebbe
altrimenti con l'ottenere poteri piu' ampi di  quelli  attribuiti  al
giudice  di  primo  grado.  E,  sullo stesso piano, alla lett. b) del
comma 2 e' prevista per il giudice  la  possibilita',  gia'  presente
nella  giurisprudenza  attuale,  in  caso  di  appello  del  pubblico
ministero, di prosciogliere  l'imputato  per  una  causa  diversa  da
quella gia' conseguita in primo grado.
   L'articolo  590 contiene un rinvio alle norme relative al giudizio
di primo grado, con la  sola  riserva  della  compatibilita'  con  il
giudizio  di appello. E' una norma percio' analoga a quella dell'art.
519 del codice vigente.
   E'  parso pero' opportuno trarre il massimo risultato da una norma
siffatta. E' stato percio' ritenuta inutile la disposizione dell'art.
567  del  Progetto  del  1978  relativo alle regole sulla discussione
finale, il cui contenuto puo' ritenersi qui gia' recepito. Ed infatti
il  rinvio  esplicito  all'art.  495  (ora  art. 516), che tale norma
effettuava, rientra nel piu'  generale  rinvio  alle  "  disposizioni
relative  al  giudizio  di  primo  grado  ". Il rinvio e' stato anche
sufficiente per evitare,  come  gia'  fu  detto  nella  Relazione  al
Progetto  preliminare  del  1978  (p. 465) l'inserimento di una norma
sulle nullita' del decreto di  citazione  del  giudizio  di  appello,
operando il rinvio anche in relazione a questo profilo.
   Con  l'articolo  591 si e' inteso dare attuazione alla direttiva 9
della legge-delega,  che  invita  alla  massima  semplificazione  del
sistema delle notificazioni. Le difficolta', che spesso si registrano
per le notificazioni  all'impugnante,  hanno  suggerito  di  ritenere
eletto  presso  il difensore di fiducia il domicilio dell'impugnante,
sempre che naturalmente egli non comunichi all'ufficio procedente  un
nuovo e diverso domicilio.
   L'art.  559  del Progetto preliminare del 1978 e' stato soppresso,
essendo la materia (cognizione del giudice  sull'appello  della  sola
parte  civile)  gia' regolata dall'art. 569 (Impugnazioni della parte
civile e del querelante). La disposizione,  formulata  come  era  nel
Progetto   del   1978,   non   avrebbe  potuto  coprire  peraltro  le
impugnazioni proposte dalla  parte  offesa  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento  dai  reati  di ingiuria e di diffamazione introdotte
con la direttiva 85.
   Non  e'  stato  riprodotto neanche l'art. 560, che disciplinava la
dichiarazione di inammissibilita' per  manifesta  infondatezza,  che,
come  si  e'  gia'  detto,  non  e'  parsa  riproponibile,  atteso il
contenuto della direttiva 89.
   L'articolo   592   introduce   nel   sistema   l'altra  importante
innovazione  della  legge-delega  (direttiva  93),  costituita  dalla
previsione  di  una  decisione  dell'appello al di fuori dell'udienza
pubblica, in camera di consiglio. Di essa si e'  gia'  parlato  nella
parte introduttiva per segnalare le divergenze di previsioni rispetto
al disegno di legge n. 1708, che  gia'  tale  ipotesi  contempla.  La
Commissione,  come  si  e'  detto,  apprezzando  le ragioni che hanno
dettato la direttiva 93, ha ritenuto di dover estendere il rito anche
all'ipotesi  in  cui  impugnante sia il pubblico ministero e senza la
esclusione dei casi in cui vi sia una parte civile costituita.
   Pur  considerandosi  che le ipotesi di operativita' di questo rito
previste dalla delega costituiscano un'elencazione tassativa,  si  e'
ritenuto  che  la  ratio  che ha dettato tale innovazione ne consenta
l'adozione  anche  allorquando  il  dibattito  pubblico  si  appalesi
inutile.  Cio'  accade  quando  le parti abbiano raggiunto un accordo
sull'accoglimento dei motivi di appello o di alcuni tra essi quando i
motivi  siano  piu'  d'uno,  con  contestuale  rinuncia  agli  altri.
Nell'ambito di tale estensione e'  precisato  che  l'accordo,  quando
l'accoglimento  comporti  una  nuova determinazione della pena, debba
riguardare anche l'entita' della sanzione da comunicare  al  giudice.
Il meccanismo e' completato dalla disposizione dell'ultimo comma, che
consente al giudice, se non ritiene di accogliere  la  richiesta,  di
disporre  la  citazione a comparire al dibattimento. S'intende che in
tal caso la rinunzia e l'accordo perdono la loro efficacia, anche  se
ne   e'   ammessa,   come   vedremo,   la   riproposizione   in  sede
dibattimentale.
   Quanto  alle forme previste per questo procedimento abbreviato, la
legge-delega detta la necessita' del contraddittorio  tra  le  parti,
che  si  e'  ritenuto potersi realizzare con le forme di cui all'art.
126.
   E'  stato  al  riguardo  osservato  che  la  speditezza del rito e
l'intento di consentire un risparmio di energie in fase  di  giudizio
sarebbero  in  una  qualche  misura frustrate con la previsione della
contemporanea presenza del pubblico ministero e  del  difensore,  che
nella  sostanza  determinerebbe  lo  svolgimento di un vero e proprio
dibattimento.  Si  era  pertanto  proposto  che  il   contraddittorio
previsto  dalla  delega  fosse  realizzato  mediante una richiesta di
adesione rivolta al pubblico ministero e successiva  emissione  della
decisione,   con  una  sorta  cioe'  di  contraddittorio  frazionato,
egualmente  idoneo  a  rispettare  quanto  richiesto  dalla   delega.
Risultava  comunque  chiaro  che  a tale procedura non si potesse far
ricorso in caso di impugnazione proposta dal pubblico ministero.
   Pur   apprezzandosi  l'intento  sollecitatorio  che  animava  tale
proposta,  e'  apparsa  impraticabile  innanzitutto  la   strada   di
procedure  diverse a seconda che impugnante sia il pubblico ministero
o l'imputato, e si e' ritenuto comunque che il risparmio di attivita'
in  contraddittorio  nella  camera  di  consiglio  si  sarebbe dovuto
scontare successivamente per le doverose notifiche del provvedimento.
Sulla  base  dell'esperienza gia' conseguita con i riti camerali oggi
previsti in tema di incidente di  esecuzione  e  di  applicazione  di
misure  di  prevenzione, si e' percio' articolato un procedimento che
consenta la presenza del difensore, senza tuttavia esigerla a pena di
nullita',  con  la possibilita' di un rinvio della trattazione - alla
stregua della sentenza n. 98 del 1982 della  Corte  costituzionale  -
solo  per impedimento dell'imputato che abbia manifestato la volonta'
di comparire (comma 2). Si e' anche prevista la possibilita' in  tale
sede  di  assumere  prove  (ipotesi eccezionale, atteso l'oggetto del
giudizio), previo avviso alle parti  eventualmente  non  presenti  al
momento   in  cui  la  rinnovazione  del  dibattimento  e'  disposta.
Conseguita pertanto la possibilita' in questa sede di  svolgere  ogni
attivita'  difensiva,  e'  parso  naturale  prevedere  tale rito come
obbligatorio tutte le volte in cui l'oggetto  della  impugnazione  si
risolva  in  una  delle  materie  per le quali e' stato introdotto lo
speciale rito camerale per la decisione dell'appello.
   Le  disposizioni  che  regolano  tale  forma  di procedimento sono
completate dall'articolo 594 comma 2, nel quale si  precisa  che  col
decreto  di  citazione l'imputato e le eventuali parti private devono
essere avvertite del rito con  il  quale  si  procedera'  (camera  di
consiglio o udienza pubblica).
   Questa   norma,   come   si   e'  detto,  semplifica  peraltro  le
disposizioni dell'art. 517 del codice vigente, nel presupposto che il
rinvio  alle  norme  del giudizio di primo grado, contenute nell'art.
590, rende superflue ulteriori specificazioni e che le norme generali
in   materia   di   nullita'   comprendono   anche  quelle  attinenti
specificamente al decreto di citazione per il giudizio di appello.
   L'articolo  595  e'  intitolato  " Dibattimento di appello ", allo
stesso modo dell'art. 518 del codice vigente e fissa le regole  dello
svolgimento di tale fase che non siano gia' richiamate nell'art. 590.
   Nel   comma   2   e'  prevista  la  possibilita'  di  reiterazione
dell'accordo  tra  le  parti  circa   la   misura   dell'accoglimento
dell'appello  di  una  di esse o di entrambe, come prosecuzione della
richiesta avanzata per il procedimento  in  camera  di  consiglio  ai
sensi dell'art. 592 o comunque autonomamente.
   Nel  comma  3  e'  ripetuta  quella  che  era l'unica disposizione
dell'art. 565 del Progetto preliminare  del  1978  circa  le  letture
dibattimentali,  per le quali vale il generale disposto dell'art. 504
giacche' occorre negare la possibilita' di  far  rivivere  atti  gia'
compiuti  al  di la' dei limiti previsti per il dibattimento di primo
grado con riguardo agli atti della fase antecedente e di  non  creare
alcuna  preclusione in ordine alla lettura degli atti di primo grado;
altrimenti il giudice di  appello  non  avrebbe  a  disposizione  per
giudicare  della  impugnazione altro materiale diverso dalla sentenza
del primo giudice.
   Nell'ultimo  comma  infine  e' recuperata la regola d'ordine della
discussione finale, gia' oggetto dell'art. 567 del Progetto del 1978,
con  un  rinvio  ancora  una volta al giudizio di primo grado. Sembra
infatti non piu' ormai proponibile un diverso ordine di  discussione,
che  inizi  dall'impugnante,  come era un tempo nel nostro sistema di
appello.
   Nell'articolo 596, a differenza del Progetto preliminare del 1978,
che  recava  due  diverse  disposizioni  (artt.  563  e   564)   sono
disciplinate  l'assunzione  di  nuove  prove  e  la  rinnovazione del
dibattimento, cosi' uniformemente  enunciate  sotto  il  profilo  che
anche  la  prima  comporta  una  ripetizione  della  fase istruttoria
dibattimentale di norma preclusa al  giudice  di  appello,  anche  se
naturalmente  il  termine  "  rinnovazione  "  piu'  strettamente  si
riferisce alla reiterazione di atti gia'  compiuti.  A  favore  della
soluzione  unitaria  milita  la circostanza che la direttiva 94 della
legge-delega attuale, al contrario della direttiva 76 del  1974,  non
menziona   piu'   l'ammissibilita'   di   nuove  prove,  in  astratto
evidentemente non escludibili. D'altra parte le condizioni alle quali
l'art. 564 del Progetto del 1978 subordinava l'assunzione delle prove
nuove (rilevanza delle stesse e richiesta nei motivi di appello)  non
sono  incompatibili  con  l'attuale  delega,  specie se la disciplina
viene rapportata ai limiti intrinseci dell'art. 489 comma 1. Ne' puo'
dimenticarsi  che, come si e' detto nella parte introduttiva, in tema
di  rinnovazione  la  delega  del  1987  ha  rovesciato  il   sistema
introdotto  dalla  precedente legge-delega merce' la riproduzione del
meccanismo previsto nell'art. 520 del  codice  vigente,  secondo  cui
essa  riposa  sulla  impossibilita'  per  il giudice di decidere allo
stato degli atti, anche se occorre evitare di ridurre lo stato  degli
atti alle mere risultanze della sentenza impugnata.
   La considerazione unitaria anche dell'assunzione di nuove prove ha
posto il problema dell'esistenza di un diritto delle parti alla  loro
ammissione  quanto meno in relazione a quelle sopravvenute o scoperte
dopo il dibattimento. Tale quesito e' stato risolto affermativamente,
fermo  restando  il  potere  del  giudice,  sorretto evidentemente da
adeguata motivazione, di escludere l'assunzione di tali prove, quando
ne ritenga la irrilevanza.
   La  rinnovazione e' invece dovuta quando l'imputato, contumace nel
giudizio di primo grado, ne abbia fatto richiesta e  si  trovi  nelle
medesime   situazioni   che   gli   consentirebbero  di  ottenere  la
restituzione in termini.
   L'articolo 597 riprende il titolo dell'art. 522 del codice vigente
e disciplina l'ipotesi nella quale il giudice di appello  rilevi  una
nullita'  in  cui  sia  incorsa  la sentenza di primo grado, mediante
l'elencazione di una numerosa casistica.
   Il  codice  si  ispira  ai principi di conservazione e di economia
processuale, ravvisabili nelle due regole di fondo, per le  quali  da
un lato la nullita' di una parte della sentenza non travolge le altre
parti che non siano da essa dipendenti e, dall'altro, il  giudice  di
appello  deve  sostituirsi  a  quello di primo grado, correggendone o
integrandone la decisione, senza inutili e dilatori rinvii.
   Si spiega in tal modo come, in presenza di una nullita' per essere
state allegate circostanze aggravanti  non  contestate,  il  comma  1
consenta,  se  si  tratta  di  circostanze  per  le  quali  la  legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o
di  circostanze  ad  effetto  speciale, di evitare il rinvio al primo
giudice mediante l'eliminazione  diretta  delle  conseguenze  dannose
ogni  volta  che  siano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze
attenuanti:  in  tal  modo  viene   infatti   eliminata   l'incidenza
particolarmente  aggravatrice  di  tali particolari circostanze. Alle
stesse ragioni di economia e' ispirata la norma parallela, secondo la
quale,  se  si tratta di aggravanti di specie diversa dalle predette,
queste  vanno  eliminate,  e  con  esse  la  sanzione  per  la  parte
corrispondente,   ferma  restando  la  regola  che,  in  presenza  di
circostanze attenuanti, si possa procedere ad un  nuovo  giudizio  di
comparazione e a conseguente rideterminazione della sanzione.
   Nello  stesso ordine di idee e' possibile, in caso di condanna per
un reato concorrente o per un fatto nuovo,  invece  di  procedere  al
totale  annullamento  della  sentenza,  come  risulta  dal  combinato
disposto degli artt. 445 comma 3 e 622 comma 1  del  vigente  codice,
annullare  solo  tale capo della sentenza con eliminazione della pena
corrispondente,  ferma  restando  la  necessita'  di  informativa  al
pubblico  ministero  per  l'esercizio  dell'azione penale relativo al
reato eliminato.
   I  commi  dal  4 al 7 recepiscono, in sostanza, i commi dal 2 al 5
dell'art. 522 c.p.p., con qualche precisazione  terminologica.  Cosi'
e'  nel  riferimento,  nel  comma  4,  al  " giudice che procedeva ",
espressione certamente piu' esatta di quella usata nel codice vigente
"  giudice di primo grado ", che puo' dar luogo a qualche incertezza.
   Correlativamente  a  tale  esigenza, con il comma 8, infine, si e'
ritenuto opportuno precisare quale sara' il giudice  di  rinvio  dopo
l'annullamento  delle  singole  specie di sentenze, norme queste che,
naturalmente, seguono la stessa logica delle lett. c ) e d) dell'art.
615, in armonia con la seconda parte della direttiva 19.
   L'articolo  598  riproduce  il  testo del Progetto preliminare del
1978 corrispondente all'ultima parte dell'art. 522 e all'art. 523 del
codice  vigente.  Vi  si  aggiunge, rispetto a questi, che i capi che
decidono  sulle  domande   civili   sono   immediatamente   esecutivi
(direttiva  27  della  legge-delega). Del corrispondente art. 568 del
Progetto  del  1978  non  e'  stato  pero'  riprodotto  il  comma  1,
riguardante  i casi di erronea estinzione del reato che risultano ora
inseriti nell'art. 597 tra le questioni di nullita',  ripristinandosi
cosi'  la  sistematica  dell'art.  523  del codice vigente. Gli altri
commi sono  nella  sostanza  immutati  rispetto  al  testo  di  detto
progetto, con piccole modifiche di carattere formale.
                              TITOLO III
                        RICORSO PER CASSAZIONE
Premessa.
   Di  fronte ad un tema come quello della cassazione, che di recente
ha formato oggetto  di  studi  e  di  dibattiti,  relativi  tanto  al
processo  penale  quanto al processo civile, il legislatore delegante
e' rimasto  sostanzialmente  muto.  Cio'  puo'  far  pensare  ad  una
sottovalutazione   del   tema,  ma  anche,  e  con  maggior  ragione,
all'intento di non introdurre innovazioni  radicali  rimettendosi  al
legislatore   delegato  per  una  revisione  razionalizzatrice  della
materia che si sviluppi seguendo le linee dell'attuale sistema.
   Gli  interrogativi  che  si sono riproposti sul ruolo che dovrebbe
avere  e  su  quello  che  ha  effettivamente  assunto  la  corte  di
cassazione  sono  noti:  ci  si  chiede se e in quale misura la corte
debba   ancora   svolgere   il   ruolo,   affidatole   dall'art.   65
dell'ordinamento  giudiziario,  di assicurare " l'esatta osservanza e
l'uniforme interpretazione della legge "; se e in quale misura  abbia
effettivamente una funzione nomofilattica o sia piu' semplicemente da
considerare un giudice di terza istanza. A questi interrogativi  sono
collegati  quelli sui motivi per i quali deve ammettersi il ricorso e
sulla deducibilita' dei vizi di motivazione.
   Gia'  si  e'  detto  che  nel  silenzio  della  legge-delega e' da
ritenere che al legislatore delegato sia stato assegnato  il  compito
di  ridisegnare il ricorso in modo da eliminare i difetti attualmente
riscontrati senza pero' mutare radicalmente i connotati  dell'attuale
sistema.   Ora,   indipendentemente   da   una   presa  di  posizione
sull'interrogativo  di  fondo  relativo  al  ruolo  della  corte   di
cassazione  (interrogativo che non e' circoscrivibile nel solo ambito
del  processo  penale),  alcuni  difetti   vistosi   e   gravi   sono
indiscutibili.  Lo  stesso  primo  presidente  della  corte  ha avuto
occasione di  rilevare  "  che  la  giurisprudenza  della  cassazione
presenta  frequenti  e  gravi  oscillazioni,  anche  non giustificate
dall'interpretazione  evolutiva,  e  che  spesso   essa   si   occupa
indirettamente  anche del fatto, attraverso un non corretto esercizio
dei poteri di  controllo  dei  vizi  di  motivazione  della  sentenza
impugnata  ".  Si  tratta  di  difetti  che  hanno cause diverse, non
eliminabili solo mediante  modifiche  processuali,  ma  che  andavano
presi  in  considerazione  nel  momento  in  cui  ci  si  accingeva a
ridisegnare il ricorso per cassazione.
   Si  e'  ritenuto  che  sul  piano processuale si potesse e dovesse
intervenire semplificando nella massima misura consentita il  ricorso
e delimitando con chiarezza i motivi che lo consentono.
   Con  riferimento ai motivi, il primo quesito al quale si e' dovuta
dare risposta e' stato se e in quali  limiti  dovesse  mantenersi  il
sindacato  della corte sul vizio di motivazione. La risposta e' stata
positiva.  Innanzitutto,  come  si  e'  detto,  il   silenzio   della
legge-delega   e'   apparso  indicativo  dell'intenzione  di  evitare
mutamenti radicali; inoltre e' sembrato che fosse opportuno non  gia'
escludere   qualunque   sindacato  sulla  motivazione,  ma  piuttosto
contenerlo, in modo da evitare  che  il  controllo  della  cassazione
anziche'  sui  requisiti minimi di esistenza, completezza e logicita'
della motivazione si eserciti, muovendo dagli atti del processo,  sul
contenuto della decisione.
   Per  quanto  piu'  in  particolare  concerne  la  logicita'  della
motivazione si e' ritenuto che alle critiche  pur  argomentate  mosse
alla  previsione  di  un  suo  controllo  in  sede di legittimita' si
opponessero non trascurabili esigenze di garanzia. Nel momento in cui
un'illegalita' organizzata e diffusa esige uno sforzo di comprensione
di fenomeni complessi e, quindi, un piu'  ampio  ricorso  alla  prova
critica, sarebbe fortemente rischioso amputare la giurisdizione della
possibilita' di esercitare un sindacato finale su motivazioni in  cui
si  traggono conclusioni prive di giustificazione o incompatibili con
le premesse, ovvero si adottano massime  di  esperienza  contrastanti
con  "  il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilita'
di apprezzamento ". D'altronde, il controllo di logicita',  che,  per
sua  natura,  rimane  all'interno del documento con cui si esterna la
decisione, senza necessita' di riscontro con gli atti  del  processo,
e'  apparso  in  tutto  compatibile  con  l'esigenza,  da  piu' parti
avanzata e condivisa,  di  circoscrivere  al  massimo  l'oggetto  del
giudizio di legittimita'.
   Fra i motivi di ricorso e' rimasto dunque il vizio di motivazione,
ed anzi e' stato esplicitato nell'art. 599, in modo che esso,  con  i
suoi  limiti, risulti direttamente (analogamente a quanto e' disposto
nel codice di procedura civile) e non, come avviene  con  il  sistema
vigente,   attraverso  il  riferimento  ai  casi  di  nullita'  della
sentenza. La formula adottata nell'art. 599 comma 1 lett. e) presenta
alcune  diversita' rispetto all'attuale art. 475 comma 1 n. 3 c.p.p.,
che   tendono   a   circoscrivere    ulteriormente    l'area    della
sindacabilita',  ma e' chiaro che la disposizione non potra' ottenere
gli effetti di contenimento che persegue se la  corte  di  cassazione
non  l'applichera' secondo l'intenzione del legislatore. Si vuol dire
che se il vizio di motivazione risulta oggi dilatato e viene talvolta
addotto  per  giustificare una sovrapposizione dell'apprezzamento del
giudice di legittimita' su quello del giudice di merito, cio' dipende
piu'  che dal tenore letterale della disposizione vigente dal modo in
cui essa vive nell'interpretazione della corte di  cassazione  e  che
nessun  mutamento  potra'  avvenire  se  non  attraverso una presa di
consapevolezza da parte della corte del limite del proprio potere.
   Oltre a quella relativa ai vizi di motivazione altre modificazioni
rispetto alla disciplina  vigente  sono  state  previste  per  quanto
concerne  i motivi di ricorso e di esse si parlera' piu' diffusamente
nell'illustrazione dell'art.  599.  Anche  il  procedimento  presenta
alcune  diversita' rispetto all'attuale; esse tendono ad una maggiore
semplificazione, quando e' possibile, ma anche  ad  un  completamento
delle  garanzie  difensive.  Significativa sotto questi aspetti e' la
nuova disciplina del procedimento in camera di consiglio  (art.  604)
perche',  da un lato, applicandosi anche nel caso di inammissibilita'
del  ricorso  per  manifesta  infondatezza  semplifica  la   relativa
dichiarazione,  oggi  resa  complessa  dalla  facolta' di chiedere la
discussione in udienza pubblica con un conseguente prolungamento  dei
tempi  processuali,  dall'altro garantisce in tutti i casi alle parti
un effettivo contraddittorio.
                                CAPO I
                        DISPOSIZIONI GENERALI
   La  disciplina del ricorso per cassazione ha inizio con l'articolo
599  che  nelle  lett.  a  ),  b  )  e  c)  del  comma  1   ripropone
sostanzialmente,  anche  se  in diverso ordine, i numeri 1, 2 e 3 del
vigente art. 524 c.p.p. Nella lett. c)  si  prevede  come  motivo  di
ricorso l'inosservanza, oltre che delle norme processuali stabilite a
pena di nullita', inamissibilita' o decadenza, di quelle stabilite  a
pena di inutilizzabilita'. E' questa una particolare condizione degli
atti processuali alla quale nei tempi piu' recenti il legislatore  ha
fatto   spesso   riferimento,  e  si  e'  espressamente  prevista  la
violazione del vincolo come motivo di ricorso  per  cassazione  anche
per  evitarne  la  deduzione,  come  oggi  talvolta avviene, sotto il
profilo del vizio di motivazione. L'aver  utilizzato  come  prova  un
atto  inutilizzabile  costituisce  infatti  inosservanza di una norma
processuale,  di  immediata  rilevabilita'  e  dunque   di   autonoma
deducibilita',  e,  d'altro  canto,  per  ricondurre  nei suoi esatti
confini il vizio di motivazione e'  apparso  opportuno  impedire  che
rifluissero in questo anche specifiche violazioni.
   Anche  la lett. d) risponde ad una logica di depurazione del vizio
di motivazione da possibili deviazioni della decisione  che  traggono
origine  dalla  violazione  di norme processuali. Percio' costituisce
autonomo motivo di ricorso la lesione del diritto alla prova, che gli
artt.  190  e  489 del Progetto riconoscono alle parti, in attuazione
dell'art. 6  lett.  d)  Convenzione  Europea  dei  diritti  dell'uomo
(richiamato  dal  comma 1 dell'art. 2 legge-delega) e delle direttive
3, 69 e 75 della stessa legge-delega.
   Nel  sistema  attuale,  secondo  la  prevalente giurisprudenza, il
potere del giudice di decidere circa la rilevanza e  l'ammissibilita'
delle  prove  non  contrasta  con  l'art.  6  lett.  d)  della citata
convenzione (diritto di ottenere la convocazione  e  l'interrogazione
dei  testimoni  a  discarico),  sicche'  la mancata assunzione di una
prova non costituisce, di per se', violazione della legge processuale
e  puo'  essere  dedotta  come  motivo di ricorso per cassazione solo
quando abbia dato  luogo  ad  un  vizio  di  motivazione,  in  genere
ravvisato in affermazioni apodittiche o in travisamento dei fatti. In
questa direzione si era mosso anche il Progetto del 1978,  che  aveva
ritenuto  di  poter risolvere il problema prevedendo tra i vizi della
motivazione l'omesso esame delle richieste  delle  parti.  Era  pero'
rimasta  elusa la questione principale: quella dell'ammissibilita' di
una motivazione implicita sul rigetto della richiesta  di  ammissione
delle  prove  (e,  tra  queste,  di  quella  per  la rinnovazione del
dibattimento in appello).  E,  infatti,  sinche'  la  violazione  del
diritto  alla  prova rimane nell'ambito dei vizi di completezza della
motivazione, non  puo'  escludersi  la  legittimita',  anche  per  la
decisione  sulle  richieste  delle  parti,  di quel modo implicito di
motivare che  si  riconosce  ammissibile  per  tutti  i  punti  della
decisione,  mentre  e'  proprio con riferimento all'ammissibilita' di
una motivazione implicita delle  decisioni  sulle  istanze  di  prova
delle  parti  che si manifesta oggi un contrasto nell'interpretazione
dottrinale e giurisprudenziale.
   Nel nuovo Progetto si e' adottata una soluzione del tutto diversa.
   Non  e'  l'omesso esame dell'istanza, bensi' la mancata assunzione
di una prova richiesta dalle parti a  norma  dell'art.  489  comma  2
(diritto   alla  controprova)  a  costituire  un  autonomo  error  in
procedendo, sebbene esso rilevi solo quando quella prova, confrontata
con  le  ragioni  addotte  a  sostegno  della sentenza (motivazione),
risulti esere " decisiva ", nel senso che avrebbe potuto  determinare
una  decisione  diversa.  E  la  valutazione  di  decisivita'  sara',
evidentemente, compiuta accertando se i fatti  indicati  dalla  parte
nella  richiesta  di  prova  (v.  art.  487  comma  2)  siano tali da
inficiare le argomentazioni poste a base della decisione di merito.
   In  tal  modo,  si  e'  operato  in una prospettiva autenticamente
accusatoria, privilegiando il  contraddittorio  tra  le  parti,  come
garanzia  di  una  corretta formazione del convincimento del giudice,
piuttosto che gli obblighi di pronuncia e di giustificazione, i quali
tendono, invece, ad assicurare la correttezza della manifestazione di
tale convincimento. E pur tuttavia si e' stabilito che la  violazione
del  contraddittorio  non  valga in astratto ed in ogni caso, ma solo
quando abbia inciso effettivamente sulla formazione del convincimento
del  giudice,  cosi'  come  esso  si  esprime nella motivazione della
sentenza impugnata.
   La  lett.  e)  concerne il vizio di motivazione e gia' si e' detto
nella premessa  quale  sia  stata  l'intenzione  che  ha  guidato  la
redazione  della  disposizione:  quella di mantenere il sindacato sul
piano  della  legittimita',  evitando  gli  eccessi  da  piu'   parti
denunciati  e che hanno talvolta dato luogo ad invasioni da parte del
giudice di legittimita' dell'area di giudizio riservata al giudice di
merito.   Questa  intenzione  e'  stata  espressa  attraverso  alcune
diversita' rispetto alla disposizione del vigente art. 475 comma 1 n.
3 c.p.p.
   All'espressione  " se manca... la motivazione " dell'art. 475 n. 3
c.p.p. il Progetto contrappone l'espressione " omessa motivazione  ",
per  rendere  chiaro  che  il  vizio  e'  costituito  da un'effettiva
omissione e non, come oggi si tende ad affermare, anche da  una  mera
insufficienza  di  motivazione.  L'omissione  certo non e' costituita
solo dalla totale mancanza della parte espositiva delle ragioni della
decisione  ma  anche  dalla  mancanza di singoli momenti esplicativi,
sempre pero' che questi siano ineliminabili nel rapporto tra  i  temi
sui  quali si doveva esercitare il giudizio e il contenuto di questo.
In ogni caso si deve trattare di un  vizio,  come  si  precisa  nella
parte  finale  della  disposizione,  che  "  risulta  dal  testo  del
provvedimento impugnato "; occorre cioe' che l'omissione appaia  tale
nello  stesso  sviluppo  logico del provvedimento e non nella diversa
prospettiva addotta dal ricorrente. L'omissione  infatti  rileva  non
come   dato   formale,   ma   quale   sintomo  di  un  vizio  insorto
nell'attivita' di giudizio. Per quanto  in  particolare  concerne  la
sentenza  non  puo'  non  considerarsi  che  l'art.  537 prevede come
normale la redazione immediata in camera di consiglio, subito dopo la
decisione,  della  concisa  esposizione  dei  motivi  di " fatto e di
diritto su cui la sentenza e' fondata " e che si intende in tal  modo
far  riferimento  ad una motivazione succinta, che esponga le ragioni
che  hanno  determinato  il   giudice   a   prendere   lo   specifico
provvedimento,  senza che occorra l'esame analitico e la confutazione
di tutti gli argomenti  prospettati  dalle  parti  a  sostegno  della
richiesta  di una decisione diversa; ragion per cui la mancanza di un
siffatto esame e di una tale confutazione non potranno essere addotti
come vizio di motivazione della sentenza.
   All'espressione  "  se...  e'  contraddittoria  la  motivazione ",
dell'art.  475  comma  1  n.  3  c.p.p.,  il   Progetto   contrappone
l'espressione " manifesta illogicita' della stessa ", chiarendo da un
lato, per le ragioni gia' indicate nella premessa, che  il  sindacato
della   corte   di   cassazione   si  estende  alla  logicita'  della
motivazione,  come   anche   oggi   si   ritiene   da   parte   della
giurisprudenza,  in  genere  attraverso  un'interpretazione estensiva
della contraddittorieta', dall'altro pero'  che  tale  sindacato  non
puo' spingersi oltre la soglia della manifesta illogicita', cioe' non
puo' giustificare la sostituzione dei  criteri  e  delle  massime  di
esperienza adottati dai giudici di merito con quelli prescelti invece
dalla cassazione.
   Nell'ultimo  comma  dell'art.  599  sono stabiliti i casi in cui i
motivi  dedotti  danno  luogo   all'inammissibilita'   del   ricorso.
Analogamente  a  quanto  e'  disposto  attualmente  dall'ultimo comma
dell'art. 524 c.p.p., " il ricorso e' inammissibile  se  e'  proposto
per  motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente
infondati  ".  E'  opportuno  ricordare  che  l'inammissibilita'  del
ricorso   per   manifesta   infondatezza  e'  prevista  dalla  stessa
legge-delega  nella  direttiva  89,  la  quale  richiede  "  adeguate
garanzie  per la difesa " che sono state disciplinate negli artt. 603
ultimo comma e 604.
   Nuova  rispetto  alla  corrispondente  disposizione  dell'art. 524
ultimo comma c.p.p. e' la previsione, tra i casi di inammissibilita',
dei motivi concernenti violazioni di legge non dedotte in appello. Si
tratta di una disposizione, gia' presente nel Progetto del 1978 (art.
569  ultimo  comma), che costituisce la codificazione di un principio
ormai affermato da una  consolidata  giurisprudenza  della  corte  di
cassazione  e  che  va  letta  in  collegamento con l'art. 602 ultimo
comma, il quale ne segna  i  confini  stabilendo  che  in  ogni  caso
possono  essere  sottoposte  alla  corte  di  cassazione le questioni
rilevabili di ufficio  e  quelle  che  non  sarebbe  stato  possibile
dedurre in grado di appello.
  Nel disciplinare il ricorso dell'imputato, il comma 1 dell'articolo
600 riproduce il comma 1 del vigente art. 526 c.p.p. e  non  richiede
pertanto  illustrazione.  Il  comma 2, invece, e' diverso, perche' si
limita a prevedere la ricorribilita'  contro  le  disposizioni  della
sentenza   che   riguardano  le  spese  del  processo  penale,  senza
menzionare, al contrario di quanto  avviene  nell'art.  526  comma  2
c.p.p.,  le disposizioni relative alle restituzioni e al risarcimento
dei danni e quelle relative alla rifusione  delle  spese  processuali
sostenute  dalle  parti.  La diversita' trova ragione nell'esistenza,
tra le disposizioni generali sulle impugnazioni, dell'art. 567,  che,
concernendo  tutte  le  impugnazioni  dell'imputato per gli interessi
civili, disciplina anche le ipotesi, oggi specificamente previste, di
ricorso per cassazione.
   L'articolo  601  e'  dedicato al ricorso del pubblico ministero e,
oltre ai provvedimenti ricorribili, individua i  diversi  organi  del
pubblico   ministero   (procuratore   generale,   procuratore   della
Repubblica e pubblico ministero presso il pretore) di volta in  volta
legittimati  a  ricorrere.  Il  sistema  risulta  cosi' delineato: il
procuratore generale puo' ricorrere contro ogni sentenza di  condanna
o  di  proscioglimento  per  la quale e' ammesso il ricorso; inoltre,
quando si tratta di  sentenze  inappellabili,  possono  ricorrere  il
procuratore  della  Repubblica  e  il  pubblico  ministero  presso il
pretore: il primo contro  le  sentenze  pronunciate  dalla  corte  di
assise,  dal  tribunale o dal giudice per le indagini preliminari; il
secondo contro le sentenze pronunciate dal pretore o dal giudice  per
le   indagini   preliminari   presso  la  pretura.  Tra  le  sentenze
inappellabili del giudice per  le  indagini  preliminari,  presso  il
tribunale o presso la pretura, assumono nel nuovo sistema processuale
un particolare rilievo quelle emesse nel  giudizio  abbreviato  (art.
438) o su richiesta delle parti (art. 442 comma 5).
   Nel  comma 4 dell'art. 601 si chiarisce che legittimati al ricorso
per cassazione per  saltum,  a  norma  dell'art.  562,  sono  sia  il
procuratore  generale,  sia,  alternativamente,  il procuratore della
Repubblica o il pubblico ministero presso il pretore, a  seconda  del
giudice  che  ha  emesso  il provvedimento da impugnare, ed infine si
stabilisce che questi tre diversi organi del pubblico ministero  sono
legittimati   al  ricorso  in  tutti  i  casi  previsti  "  da  altre
disposizioni di  legge  ".  Quest'ultima  espressione,  che  potrebbe
sembrare  superflua,  intende  significare  non  solo  che gli organi
menzionati possono ricorrere per cassazione quando questo  potere  e'
loro espressamente attribuito, ma anche che essi non possono proporre
ricorso nei casi in cui, pur essendo  ricorribile  il  provvedimento,
non e' prevista una loro specifica legittimazione. Piu' semplicemente
si vuol dire che se una disposizione riconosce al pubblico ministero,
senza  ulteriori  specificazioni,  il  potere di proporre ricorso per
cassazione, legittimato  a  ricorrere  e'  solo  l'organo  presso  il
giudice  che  ha  emesso  il  provvedimento  e non anche l'organo del
pubblico ministero eventualmente sovraordinato.
   L'articolo  602, che e' sostanzialmente uguale alla corrispondente
disposizione del Progetto del 1978 (art. 572), e' diretto  a  fissare
l'effetto  devolutivo  del  ricorso  per cassazione ed i suoi limiti,
recependo   i   risultati   di   una   ormai   copiosa   elaborazione
giurisprudenziale  della materia. E' previsto che la cognizione della
corte di cassazione abbia ad  oggetto  le  questioni  dedotte  con  i
motivi  (art.  602  comma 1) e quelle rilevabili di ufficio (art. 602
comma 2), tra le quali, ad esempio,  sono  le  questioni  concernenti
l'incompetenza  per  materia  (art. 21 comma 1), le nullita' assolute
(art. 179), e l'inammissibilita' dell'impugnazione  (art.  584  comma
4).
   L'ultima  parte  del  comma  2 dell'art. 602 si collega all'ultima
parte del  comma  3  dell'art.  599,  in  quanto  fa  venir  meno  la
preclusione  per  le  questioni  non  dedotte con i motivi di appello
tutte le volte in  cui  la  deducibilita'  sia  resa  possibile  solo
successivamente. Un caso oggi frequente e' quello della continuazione
rispetto ad un fatto oggetto di giudicato, che viene dedotta  per  la
prima volta in cassazione, perche' il giudicato si e' formato dopo la
decisione di secondo grado. Nel nuovo sistema la deducibilita' di  un
caso  del  genere  e'  destinata  a  perdere  rilevanza,  dato che la
disciplina  della  continuazione  sara'  applicata  anche   in   sede
esecutiva  (art.  662).  Resta pero' importante il principio, volto a
garantire la  cognizione  della  corte  di  cassazione  nei  casi  di
deducibilita'   sopravvenuta;  principio  del  quale  piu'  volte  la
giurisprudenza ha fatto utilmente applicazione, specie per  questioni
nuove  (o  diversamente  rilevanti) emerse in seguito a modificazioni
legislative, ma che piu' in  generale  riguarda  tutte  le  questioni
deducibili  esclusivamente  rispetto alla decisione di secondo grado,
perche' ha riformato la decisione di primo grado  o  comunque  si  e'
differenziata da questa.
                               CAPO II
                             PROCEDIMENTO
   Gli  articoli  603  -  607  sul  procedimento  in  cassazione  non
contengono novita' radicali, ma nel  complesso  danno  luogo  ad  una
disciplina  che  per  vari  aspetti si differenzia da quella vigente.
Alcune delle differenze erano gia' presenti nel  Progetto  del  1978,
che  e'  stato  rivisto  e modificato anche tenendo conto dei rilievi
mossi nei pareri della corte di cassazione e della  procura  generale
rispetto  ad alcune sequenze procedimentali rivelatesi mal calibrate.
   L'articolo  603,  che concerne gli atti preliminari, nei primi tre
commi corrisponde in larga misura all'attuale art.  530  c.p.p.,  con
alcune   integrazioni.   La   prima   e'   nel   comma   1,  relativo
all'assegnazione dei ricorsi da parte del primo  presidente,  ove  e'
contenuto un rinvio ai " criteri stabiliti dalle leggi di ordinamento
giudiziario ".
   Il  rinvio,  che in forma diversa gia' figurava nella disposizione
corrispondente (art. 574 comma 1) del Progetto del 1978, e' collegato
con  una correlativa modificazione dell'ordinamento giudiziario (r.d.
30 gennaio 1941, n. 12 e successive modificazioni) ove si prevede  di
inserire  un  art.  7-  ter, il quale, per la parte che interessa, e'
cosi' formulato: " L'assegnazione dei  processi  penali  e'  operata,
secondo  criteri  obiettivi e predeterminati indicati in via generale
dal   Consiglio   superiore   della   magistratura    ed    approvati
contestualmente   alle   tabelle  degli  uffici  e  con  la  medesima
procedura, dal dirigente dell'ufficio  alle  singole  sezioni  e  dal
presidente   della  sezione  ai  singoli  collegi  e  giudici  ".  Un
riferimento a questi criteri e' presente anche nell'art.  178,  sulle
nullita'  di  ordine  generale, il cui ultimo comma precisa che " non
costituisce causa di nullita'  l'inosservanza  delle  disposizioni...
sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici ".
   Nell'ultima  parte  del  comma  3  e'  espressamente  prevista  la
riunione e la separazione dei giudizi, in modo da dare una  soluzione
legislativa  positiva  alla  questione  circa  la  possibilita' della
riunione in cassazione; questione  che  ha  dato  luogo  a  contrasti
giurisprudenziali non cessati neppure in seguito all'intervento delle
Sezioni unite (sent. 26 ottobre 1985, Giovinazzo) e che  il  Progetto
ha  implicitamente  affrontato  anche  nell'art. 17 prevedendo che la
riunione possa essere disposta in " ogni stato e grado  del  processo
".
   Nei  commi  4  e  5  si  comincia  a  delineare  la  sequenza  del
procedimento. Il segretario da' immediata comunicazione degli atti al
procuratore  generale,  in  modo  che  questi,  se  ne  ricorrono  le
condizioni, possa chiedere la dichiarazione di inammissibilita';  poi
viene fissata l'udienza, pubblica o in camera di consiglio, e di essa
in ogni caso e' dato avviso al procuratore generale e  ai  difensori,
con    notizia   dell'eventuale   richiesta   di   dichiarazione   di
inammissibilita' e l'indicazione della causa sulla quale la richiesta
e' fondata.
   Rispetto alla disciplina attuale emergono due differenze: la prima
e'  che  viene  meno  l'avviso  previsto  dall'art.  533  c.p.p.,  da
notificare  ai  difensori appena pervenuti gli atti nella cancelleria
della corte; la seconda e' che l'avviso dell'udienza  viene  dato  in
ogni  caso e non, come oggi di regola avviene (ai sensi dell'art. 534
c.p.p.), solo per i ricorsi  da  trattare  in  udienza  pubblica.  Il
meccanismo  non  comporta  aggravi per la cancelleria (che anzi viene
sollevata dal lavoro, perche' e' tenuta  a  far  notificare  un  solo
avviso  anche  per  i ricorsi di udienza pubblica) e determina per le
parti  un  rilevante  incremento  di   garanzie   difensive   per   i
procedimenti in camera di consiglio, senza sacrifici per i ricorsi da
trattare in udienza pubblica.
   Per  quanto  riguarda  quest'ultimo  aspetto va notato che oggi il
periodo di tempo complessivamente a disposizione delle parti nei casi
di  udienza  pubblica  e'  costituito  dalla somma dei due periodi di
quindici giorni, previsti  rispettivamente  dagli  artt.  533  e  534
c.p.p.,  e  che  la  giurisprudenza  ritiene  irrilevante la mancanza
dell'avviso ex art. 533 c.p.p. se l'avviso del giorno  stabilito  per
l'udienza  e'  stato  dato almeno trenta giorni prima. Poiche' l'art.
603 comma 5 prevede un avviso da notificare "  almeno  trenta  giorni
prima  della data dell'udienza " e' chiaro che per il caso di udienza
pubblica la nuova disciplina  viene  a  risultare  non  dissimile  da
quella attuale. Per il caso di udienza in camera di consiglio, invece
il vantaggio per le parti diventa rilevantissimo, perche'  esse  oggi
non  hanno  notizia  di  tale  udienza e si trovano in presenza di un
procedimento sostanzialmente privo di contraddittorio, che viene reso
invece  possibile  dal nuovo meccanismo, anche se in forme diverse da
quelle realizzate mediante la discussione nella udienza pubblica.
   L'articolo 604 regola i casi e le forme del procedimento in camera
di consiglio.  Quanto  ai  casi  non  vi  sono  rilevanti  differenze
rispetto  alla disciplina attuale, mentre per le forme il discorso e'
diverso. La corte, come accade anche oggi, giudica senza l'intervento
dei  difensori; ma in seguito all'avviso dell'udienza prende avvio un
meccanismo di contraddittorio scritto, scandito dalla possibilita' di
presentare  motivi  nuovi (com'e' generalmente previsto dall'art. 578
comma 4) e memorie, fino a quindici  giorni  prima  dell'udienza,  e,
successivamente,  memorie  in  replica,  fino  a  cinque giorni prima
dell'udienza.
   Il  comma  2  dell'art. 604 rende espressamente applicabile questo
procedimento anche per le dichiarazioni  di  inammissibilita'.  Viene
meno    quindi    la    differenza,    attualmente    prevista,   tra
l'inammissibilita' per  manifesta  infondatezza,  in  relazione  alla
quale  sono  riconosciute  delle garanzie difensive (art. 531 comma 4
c.p.p.), e quella dipendente da altre cause. Per tutte le ipotesi  di
inammissibilita'  il  difensore  del ricorrente deve essere avvertito
sia  dell'udienza  fissata,  sia  della  richiesta  del   procuratore
generale, e per tutte e' messo in condizione di svolgere un'attivita'
difensiva, presentando memorie. Questa soluzione  e'  stata  adottata
perche'  la dichiarazione di inammissibilita' da parte della corte di
cassazione conclude il  processo  ed  e'  insuscettibile  di  rimedi,
sicche'  occorre  scongiurare  qualunque  possibilita'  di errore. E'
accaduto   talvolta   che   sia   stata    dichiarata    erroneamente
l'inammissibilita'  del  ricorso  per  la  mancata  presentazione dei
motivi, mentre questi in realta' erano stati presentati, e in  alcuni
casi  a  tale  situazione e' stato poi messo riparo attraverso un uso
dilatato del procedimento per la correzione degli  errori  materiali.
Vicende  del  genere saranno evitate con il nuovo meccanismo, perche'
la  parte,  avvertita  della   richiesta   della   dichiarazione   di
inammissibilita',   avra'   modo   di   farne   rilevare  l'eventuale
infondatezza.
   L'articolo 605 da' attuazione alla direttiva 27 della legge-delega
riproducendo inalterato l'art. 577 del Progetto  del  1978,  che  non
aveva dato luogo a rilievi.
   L'articolo  606  contiene  varie  disposizioni  sulla  nomina e le
funzioni del difensore nel giudizio di cassazione. Le parti in questo
giudizio sono rappresentate dai difensori, che devono essere iscritti
nell'albo speciale della corte, e sono domiciliate  presso  di  essi,
come  del resto e' stabilito anche oggi dall'art. 532 c.p.p. La nuova
disciplina e' pero' congegnata in modo da offrire  maggiori  garanzie
difensive  alla  parte che non abbia proposto il ricorso e non si sia
in alcun modo attivata nel giudizio di cassazione  ed  a  quella  non
assistita da un difensore di fiducia.
   Oggi,  in base all'art. 532 c.p.p., l'imputato che non ha nominato
un difensore per il giudizio di cassazione e' privo  di  informazioni
sullo   svolgimento   di  questo,  perche'  gli  avvisi  sono  dovuti
unicamente  al  difensore  di  ufficio,  con  il  quale   normalmente
l'imputato  non  ha  rapporti. Percio' della fissazione della udienza
pubblica  per  la  discussione  del  ricorso  non  e'  avvertito  ne'
l'imputato  che ha redatto personalmente i motivi, ne' quello nei cui
confronti il pubblico ministero ha proposto ricorso. Nei commi 2 e  4
dell'art.  606 si stabilisce invece che, in mancanza della nomina per
il giudizio di cassazione, " il difensore e' quello che ha  assistito
la  parte  nell'ultimo  giudizio  ",  purche'  sia iscritto nell'albo
speciale, e che se l'imputato e' assistito da un difensore di ufficio
gli avvisi devono essere dati all'imputato, oltre che al difensore.
   Quest'ultima  disposizione,  contenuta  nel  comma  6, e' uguale a
quella dell'art. 17 del disegno  di  legge  n.  1708  in  materia  di
impugnazioni,   gia'   ricordato,   e  risponde  anche  all'esigenza,
sottolineata nella relazione al  disegno  di  legge,  di  rendere  il
giudizio  di  cassazione  piu'  aderente  ai  principi  recati  dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali (si veda in merito il parere della Commissione
europea per i diritti dell'uomo nel caso Biondo contro Italia).
   L'ultimo  comma,  relativo  al  ricorso  per gli interessi civili,
prevede la nomina di un difensore di ufficio alla  parte  (che  oltre
alla   parte   civile   potrebbe   essere   l'imputato,   se  ricorre
esclusivamente per gli interessi civili) che ne faccia richiesta e si
trovi  nelle  condizioni  per godere del patrocinio in favore dei non
abbienti.
   Il   dibattimento,   regolato   dall'articolo  607,  non  presenta
rilevanti differenze rispetto all'attuale. Nel comma 2  si  e'  fatta
espressa  menzione  della  verifica  della costituzione delle parti e
della regolarita' degli avvisi allo scopo di richiamare  l'attenzione
sull'importanza  di tale attivita', diretta ad evitare errori che, se
compiuti, non avrebbero rimedio. E' infatti accaduto piu'  volte  che
non  sia  stata  rilevata  la mancanza o l'invalidita' dell'avviso al
difensore  e  che  il  processo  sia  stato  trattato  con   evidente
violazione  del  diritto di difesa. La situazione che si determina in
tali casi e' senza rimedio (v.  Cass.,  sez.  V,  19  febbraio  1986,
Bonelli, m. 172744 e 172745) ed e' per questa ragione che deve essere
posta  la  massima  cura  nell'impedirla  e  che   si   e'   prevista
espressamente,  oltre  alla  verifica,  la  relativa attestazione nel
verbale.
                               CAPO III
                               SENTENZA
   L'articolo 608 riproduce, nella sostanza, le disposizioni previste
dal vigente articolo  537  c.p.p.  In  particolare,  si  e'  ritenuto
opportuno  modificare  l'impostazione  del  Progetto  preliminare del
1978, per il quale la corte era chiamata  a  deliberare  la  sentenza
subito  dopo  la  discussione  di ciascun ricorso: piu' che intuibili
esigenze di funzionalita' hanno infatti indotto a preferire l'attuale
disciplina  che  prevede  la  deliberazione al termine della pubblica
udienza.
   Innovative sono, invece, le disposizioni dettate dall'articolo 609
in materia di condanna al pagamento di una  sanzione  pecuniaria  nel
caso  di  rigetto  o  di  inammissibilita'  del  ricorso. Da un lato,
infatti, la previsione della  condanna  al  pagamento  di  una  somma
pecuniaria  disciplinata  dal vigente art. 549 c.p.p. e soppressa nel
Progetto  del  1978  e'  stata   reintrodotta   quale   remora   alla
proposizione   di   non  infrequenti  ricorsi  temerari,  dettati  da
finalita' meramente dilatorie. Sotto altro profilo,  non  e'  apparsa
ragionevole  l'attuale  disciplina  secondo  la  quale la condanna al
pagamento  della  sanzione  consegue  alla  sentenza  che  rigetta  o
dichiara   inammissibile  il  ricorso,  mentre  nessuna  sanzione  e'
prevista  nel  caso  di  inammissibilita'  dichiarata  in  camera  di
consiglio, ove la pretestuosita' del ricorso puo' apparire in termini
piu'  macroscopici.  In  tale  prospettiva,  si  e'  ritenuto  quindi
opportuno  prevedere  che  la  condanna  al  pagamento della sanzione
pecuniaria - adeguata nel suo ammontare rispetto al codice vigente  -
consegua  necessariamente  alla  dichiarazione  di  inammissibilita',
comunque pronunciata, mentre formi oggetto di  valutazione  caso  per
caso nell'ipotesi di rigetto.
   L'articolo  610,  riproducendo una novita' introdotta nel Progetto
del 1978, prevede la possibilita' che il presidente fissi  una  nuova
camera  di  consiglio per la lettura e l'approvazione del testo della
motivazione, avuto  riguardo  alla  importanza  che  la  stessa  puo'
assumere  nella  formazione  degli  orientamenti  giurisprudenziali e
all'opportunita' di sottoporre a verifica collegiale, in  determinati
casi,  la  conformita'  dell'iter  argomentativo  alla decisione gia'
adottata.
   In   ordine   alla   rettificazione  di  errori  non  determinanti
annullamento, l'articolo 611 contiene una disciplina in tutto analoga
a  quella  dell'art.  538  del  codice vigente nella sua formulazione
antecedente alla riforma introdottavi con il d.l. 20 aprile 1974,  n.
104.
   La disciplina dell'annullamento senza rinvio dettata dall'articolo
612 rimane, in buona sostanza, quella  gia'  delineata  dal  Progetto
preliminare   del  1978,  a  sua  volta  non  molto  dissimile  dalle
previsioni contenute nell'art. 519 c.p.p.
   Rispetto al Progetto del 1978, alla lett. e) e' stato soppresso il
riferimento alla ipotesi di nullita' della sentenza a norma dell'art.
515,  in  relazione  alla circostanza aggravante, giacche' la materia
trova articolata ed innovativa disciplina nel corpo dell'art. 595: le
distinzioni ivi contenute in tema di circostanze vengono recepite nel
giudizio di cassazione, e quindi non occorre una previsione  espressa
per  disciplinare il caso di annullamento senza rinvio per difetto di
contestazione della aggravante, nei casi in cui  rientra  nei  poteri
della  corte  procedere  alla  declaratoria  e ridurre la pena. Si e'
ritenuto, a quest'ultimo riguardo, di dover modificare la  lett.  l),
allo  scopo  di  evitare  un  successivo  giudizio  di  rinvio per la
semplice determinazione della pena, tutte le volte in  cui  cio'  non
risulti  in contrasto con la natura del giudizio davanti alla corte e
con le relative attribuzioni.
   La  modifica  di  maggior  portata  introdotta  con l'articolo 613
riguarda gli effetti dell'annullamento nel caso in  cui  la  sentenza
impugnata  abbia  deciso in secondo grado su materia per la quale non
e' ammesso l'appello: in tal caso, infatti,  e'  sembrato  necessario
prevedere,  in  luogo della esecuzione della sentenza di primo grado,
la conversione dell'appello in ricorso. Se, infatti,  alla  parte  e'
consentito  di  far  valere  l'impugnazione  anche in caso di erronea
qualificazione della stessa (art. 561 comma 1), a maggior ragione  la
conversione  dovra'  operare  nel  caso  in  cui  l'errore  sia stato
compiuto dal giudice di appello.
   L'articolo  614  detta disposizioni analoghe a quelle dell'attuale
art. 541, aggiungendo il caso di accoglimento del ricorso della parte
civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato: quando la
corte di cassazione annulla la sentenza per i  soli  effetti  civili,
l'eventuale giudizio di rinvio - fermi restando gli effetti penali si
svolgera' davanti al giudice civile competente in grado  di  appello,
anche  se  l'annullamento  riguarda  una sentenza inappellabile.  Una
applicazione di tale disciplina e' prevista dall'art. 571 in tema  di
decisione  sugli  effetti civili nel caso di estinzione del reato per
amnistia o prescrizione.
   In  tema  di  annullamento  con  rinvio,  l'articolo 615 introduce
disposizioni in parte nuove rispetto a quelle  previste  dal  vigente
art.  543  c.p.p. : modifiche rese necessarie, in larga misura, dalla
scomparsa  del  giudice   istruttore   e   dalla   introduzione   nel
procedimento  pretorile del giudice per le indagini preliminari e del
pubblico ministero, funzionalmente  distinti  dallo  stesso  pretore,
competente  per  il  giudizio.  Piu'  in particolare, la lett. a) del
comma 1 mantiene  inalterata  l'analoga  disposizione  dell'art.  543
c.p.p.,  secondo la quale, laddove sia stata annullata una ordinanza,
la corte ordina la  trasmissione  degli  atti  al  giudice  che  l'ha
pronunciata.  La  lett.  b)  richiama, invece, le ipotesi di nullita'
della sentenza di condanna nei casi previsti dall'art. 597 comma 1  e
stabilisce  che  in tali casi la corte disponga la trasmissione degli
atti al giudice di primo grado, in armonia con quanto  il  richiamato
articolo  prevede  per  i  casi  in  cui  il medesimo vizio sia stato
rilevato in grado di appello: le considerazioni ivi  svolte  valgono,
quindi,  per  chiarire anche la disposizione di cui qui si tratta. Le
lett. c ) e d) riproducono, nella sostanza, l'attuale disciplina, pur
con  le modifiche di cui si e' innanzi detto e con taluni adattamenti
volti alla semplificazione del sistema. Sistema, peraltro, che si  e'
inteso mantenere, in quanto ritenuto rispondente ai criteri enunciati
nella direttiva 19) della legge-delega.  E'  apparsa  poi  superflua,
quanto   al   giudizio   di   cassazione,   una  apposita  disciplina
dell'annullamento con rinvio per le ipotesi di nullita' - attualmente
previsto  dall'art.  543 comma 1 n. 6 c.p.p. - giacche' la materia e'
regolata in via generale dall'art. 185.
   Le  disposizioni dettate dall'articolo 616 in tema di annullamento
parziale riproducono pressoche' integralmente quelle del vigente art.
545  c.p.p., salvo lievi modifiche formali. Tenuto conto della natura
meramente ricognitiva del  provvedimento  che  dichiara  quali  parti
della  sentenza  annullata  diventano  irrevocabili,  tant'e'  che la
relativa domanda viene proposta " senza formalita' ", si e'  ritenuto
necessario prevedere che la corte, nel caso di specie, non sia tenuta
all'osservanza delle particolari forme previste dall'art. 126,  forme
che,  altrimenti,  avrebbero  dovuto  trovare  applicazione,  essendo
previste in via generale  per  tutti  i  procedimenti  in  camera  di
consiglio.
   Per quanto concerne il giudizio di rinvio, regolato con l'articolo
617, si e' avuto  cura  di  rendere  piu'  efficiente  il  meccanismo
dell'effetto  estensivo  del  ricorso,  mediante  la previsione della
citazione dell'imputato non ricorrente, che  puo'  giovarsi  di  tale
effetto,  e  il  riconoscimento della sua facolta' di intervenire nel
giudizio.  Accanto  alla  tradizionale  preclusione  di  proporre   o
rilevare   nel   giudizio  questioni  di  nullita',  anche  assolute,
verificatesi nei precedenti  giudizi  o  nella  fase  delle  indagini
preliminari,  si  e' ritenuto di dover introdurre analoga preclusione
in tema di inammissibilita' delle impugnazioni, considerato  che,  in
mancanza  di  espressa deroga, avrebbe trovato applicazione anche per
il giudizio di rinvio  il  diverso  principio  stabilito  in  termini
generali dall'art. 584 comma 4.
   Con  l'articolo  618 e recependo una previsione gia' contenuta nel
Progetto   preliminare   del   1978,   si   e'    inteso    risolvere
legislativamente  il  problema  del  mezzo di impugnazione esperibile
contro la sentenza del giudice di rinvio. Si e'  chiarito,  pertanto,
che se il giudizio di rinvio si svolge innanzi al giudice di appello,
la relativa sentenza e' ricorribile per cassazione; negli altri  casi
sara' proponibile l'appello e, solo se tale mezzo di impugnazione non
e' previsto dalla legge per il provvedimento adottato  a  conclusione
del  giudizio, il ricorso per cassazione. Resta fermo il tradizionale
principio che la sentenza del giudice di rinvio puo' essere impugnata
soltanto  per  motivi non riguardanti i punti gia' decisi dalla corte
di cassazione ovvero per non essersi uniformata alla  sentenza  della
corte medesima.
   In  analogia  alla  soluzione gia' adottata dal Progetto del 1978,
l'articolo  619,  nel  dettare  la   disciplina   dei   provvedimenti
conseguenti  alla  sentenza,  semplifica  il complesso meccanismo dal
vigente art. 550 e prevede in ogni caso la trasmissione degli atti  e
della copia del dispositivo o della sentenza al giudice competente.
   Innovative  sono, invece, le disposizioni introdotte dall'articolo
620 rispetto alla disciplina attualmente prevista dall'art.  551:  si
e'  previsto,  infatti,  che  qualora  a seguito della sentenza della
corte debba cessare una misura cautelare personale o reale ovvero una
pena  accessoria o una misura di sicurezza, il segretario ne comunica
immediatamente il  dispositivo  al  procuratore  generale  presso  la
stessa corte per l'adozione dei provvedimenti occorrenti. Da un lato,
infatti, la  natura  urgente  dei  provvedimenti  ha  consigliato  di
sopprimere  l'inciso  "  al  piu'  tardi  nel giorno successivo " che
compare nel testo dell'art. 551 c.p.p. e sostituirlo con l'avverbio "
immediatamente  ".  Sotto  altro profilo e per le medesime ragioni di
fondo, e' sembrato  necessario  attribuire  al  procuratore  generale
presso  la  medesima  corte la competenza ad adottare i provvedimenti
stessi,  evitando  l'intervento  del  pubblico  ministero  presso  il
giudice  a  quo,  certo  meno  sollecito,  specie se operante in sede
diversa e lontana dalla Capitale.
                              TITOLO IV
                              REVISIONE
Premessa.
   Alla  revisione e' dedicata la direttiva 99 della legge-delega con
l'indicazione degli elementi che devono contrassegnare l'istituto nel
nuovo  codice.  Essi  invero  sono  tali  -  ponendo  a confronto gli
articoli del codice vigente in materia  -  da  far  ritenere  che  il
legislatore  ha  considerato  valido  e  garantito  il  gravame  gia'
esistente.
   Cio'  e'  da  dirsi  certamente  per le prescrizioni relative alla
garanzia del contraddittorio, allo svolgimento del  giudizio  secondo
le   norme   fissate  per  il  dibattimento,  all'impugnabilita'  per
cassazione del provvedimento che esclude la revisione, al  rinvio  ad
altro  giudice  in  caso  di  accoglimento dell'istanza di revisione,
elementi tutti in sostanza gia' presenti nell'attuale istituto.
   Gli  unici  indici  di  novita'  sarebbero nell'attribuzione della
competenza alla corte di appello nella cui circoscrizione si trova il
giudice  che  ha  pronunciato  la  sentenza di primo grado, soluzione
peraltro gia' dettata nella direttiva 80 della  delega  del  1974,  e
nella  ammissibilita'  della  revisione  anche  nei  casi  di erronea
condanna di coloro che non erano imputabili a cagione di condizioni o
qualita'  personali  o  della presenza di esimenti. Per queste ultime
ipotesi,  nella  Relazione  al  Progetto  del  1978  (p.   480),   si
sottolineava che esse erano gia' previste nel codice vigente, dopo le
modificazioni apportate dalla l. 14 maggio 1965, n. 481.
   Ed  invero  l'attuale  specificazione contenuta nella direttiva 99
non  sembra  generare  particolari  difficolta'  interpretative.  Che
l'imputabilita' debba riferirsi a condizioni o qualita' personali del
condannato  era  gia'  indubitabile.  D'altro  canto,   l'art.   623,
rinviando  per  le possibili soluzioni del giudizio di revisione alle
sentenze di improcedibilita' (art. 522), di assoluzione (art. 523)  e
di  estinzione  del  reato  (art.  524)  -  come e' a dire a tutte le
possibili ipotesi di giudizio favorevoli all'imputato -  consente  di
coprire  qualsiasi  interpretazione  delle  esplicitazioni  contenute
nella direttiva 99. Non solo, ma proprio la sottolineata  particolare
ampiezza di soluzioni consente di annoverarvi anche quelle ipotesi di
revisione, gia' oggi ammesse dalla giurisprudenza (perfino in tema di
querela  o  di remissione antecedenti al passaggio in giudicato della
sentenza di cui si chiede la revisione), dirette ad ottenere soltanto
l'applicazione  di  cause  estintive  del  reato  che non siano state
accertate o valutate nella sentenza passata in giudicato, di  cui  si
chiede la revisione a tale limitato scopo.
   Anche  in  questo Progetto, come gia' nel Progetto preliminare del
1978, rimane esclusa l'ipotesi particolare di cui all'art. 554  comma
1  n. 5 del codice vigente, introdotta appunto dalla legge n. 481 del
1965 per risolvere i problemi derivanti dalla scoperta in vita di una
persona  per  il  cui omicidio l'imputato era stato condannato. Si e'
rilevato che la singolarita' del caso non consigliava l'inclusione di
un'ipotesi  siffatta,  oggetto  di  pesanti  critiche  della migliore
dottrina, in una elencazione, e che una previsione piu' generalizzata
avrebbe  snaturato  l'istituto  giacche',  nel caso che ne ha fornito
occasione, la revisione sarebbe diretta in realta'  al  conseguimento
non di un'assoluzione o di un proscioglimento, ma di una condanna per
lo stesso reato nella forma di tentativo o per un reato minore.
 Illustrazione degli articoli.
   Nell'articolo 621, che ricalca l'art. 553 del codice vigente, sono
considerati, quale possibile oggetto di  revisione  anche  i  decreti
penali  di  condanna,  come  gia'  la  giurisprudenza  oggi  ammette,
interpretando estensivamente l'espressione " sentenze di  condanna  "
di cui parla il codice. A seguito della sentenza n. 28 del 1969 della
Corte costituzionale, che ha eliminato ogni limitazione  in  tema  di
condanne  per  contravvenzioni  suscettibili  di  revisione, e' stata
soppressa,  come  era  gia'  avvenuto  nel  Progetto  del  1978,   la
distinzione,   divenuta   percio'   ormai   inutile,  tra  delitti  e
contravvenzioni.
   L'articolo  622  e'  simile  al vigente art. 554 c.p.p., una volta
eliminata, per quanto gia' detto innanzi  nella  parte  introduttiva,
l'ipotesi  di  cui  al  n. 5 che non apparteneva all'originario testo
legislativo.
   Anche qui si parla di decreto penale, con la precisazione tuttavia
che, se la condanna cosi' inflitta puo' essere oggetto di  revisione,
non  vale  la  reciproca, in quanto il decreto penale non presuppone,
anche in questo codice, un accertamento pieno del fatto,  che  possa,
servendo  quale indiscutibile punto fermo in tema di responsabilita',
condurre a rivedere altra sentenza di opposto contenuto.
   Trattandosi   di   impugnazione  straordinaria,  che,  come  tale,
consente di travolgere l'efficacia del giudicato, non possono  essere
addotte  a  fondamento  dell'istanza di revisione ne' una sentenza di
non luogo a procedere (sempre soggetta alla revoca per  la  possibile
riapertura  delle  indagini), ne' una sentenza civile (soprattutto in
considerazione della notevole  attenuazione  della  correlazione  tra
processo  penale  e civile, che e' evidente in questo codice). Rimane
salva  ovviamente  la  possibilita'  di  far  valere   le   eventuali
risultanze  obbiettive  in  contrario emerse in tali sedi, utilizzate
quali nuove prove ai sensi della lett. c), della norma in  argomento,
anche  se,  in tale disposizione, come elemento di qualificazione del
novum dedotto, alla dizione " rendono evidente " e' stata  sostituita
la dizione " dimostrano ".
   L'articolo  623,  intitolato  come l'art. 555 del codice vigente "
Limiti della revisione ", esprime in  forma  sintetica  il  risultato
potenziale  cui deve tendere l'istituto della revisione, esigenza che
si spiega con la natura  straordinaria  dell'impugnazione.  E'  stato
adottato   il  termine  "  prosciolto  "  in  luogo  del  riferimento
all'assoluzione, perche' vi e' un rinvio unitario  alle  disposizioni
di  legge,  che  si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento: gli
artt. 522 (sentenze di  non  doversi  procedere),  523  (sentenza  di
assoluzione),  524 (dichiarazione di estinzione del reato). Nell'art.
523 sono  incluse,  come  e'  agevole  constatare,  le  ipotesi,  che
potevano  dar luogo a dubbi interpretativi, della insufficienza delle
prove (formula cancellata dal Progetto, ma ovviamente  tenuta  ancora
presente nel suo contenuto naturalistico) e della esistenza, sicura o
anche solo dubbia, di una esimente, sicche' si comprende meglio  come
non  si possa attribuire alcun carattere di novita' alla precisazione
della prima parte della direttiva 99.
   Come  si  e' detto in premessa, tale direttiva ha anche attribuito
la competenza in materia di revisione alla corte di appello, come era
gia'  nella  direttiva  80 della legge-delega del 1974. Questo spiega
perche' nell'articolo 624 sia stata eliminata la  legittimazione  del
ministro  e  del  procuratore generale presso la corte di cassazione.
Per il resto questa norma non diverge dall'attuale art.  556  c.p.p.,
con  la  sola precisazione formale di rammentare nella lett. b) che "
la parte privata interessata " che puo' unire la sua istanza a quella
del  procuratore  generale della corte di appello non puo' che essere
una delle persone legittimate dalla lett. a).
   L'articolo  625 ripete il testo del Progetto del 1978, sostituendo
al termine " istanza " quello, ritenuto piu' adeguato alla  posizione
del  legittimato  e  alla  procedura  iniziata,  di  "  richiesta  ",
espressione che viene ripetuta naturalmente in tutti gli articoli del
titolo.
   Il  testo e' largamente diverso rispetto a quello del vigente art.
557 c.p.p., stante la nuova competenza a provvedere  sulla  richiesta
di  revisione.  E'  stato  eliminato l'intervento nella procedura del
giudice dell'esecuzione, peraltro non  del  tutto  in  linea  con  la
direttiva,  che  da'  luogo  in  giurisprudenza  a notevoli contrasti
quanto alla identificazione dei suoi poteri e alla impugnabilita' dei
suoi  provvedimenti,  oltre  tutto  non in armonia con la riaffermata
natura contraddittoria e giurisdizionale del provvedimento.
   L'articolo  626 introduce, come gia' era nel Progetto del 1978, un
procedimento preliminare di delibazione, da parte della stessa  corte
di appello, dell'ammissibilita' della richiesta di revisione, al fine
di evitare impugnazioni pretestuose o palesemente infondate, per  cui
si  spiega  la  possibilita'  e  la  previsione  di  una condanna del
richiedente al pagamento di una  somma  determinata  a  favore  della
cassa delle ammende. Questa fase, gia' prevista nel comma 3 dell'art.
558 del codice vigente, anche se non  esplicitamente  indicata  nella
direttiva  99,  deve essere ritenuta possibile perche', consentendosi
l'espressione di una  delibazione  rimessa  alla  corte  di  appello,
sempre  rivedibile  dalla  corte  di  cassazione, il giudizio nel suo
complesso  risulta  essere  piu'   garantito   rispetto   all'attuale
procedura,  assegnata al solo giudizio della corte di cassazione. Ne'
tale previsione puo'  dirsi  contrastata  dalla  inesistenza  in  via
generica di una delibazione di ammissibilita' del merito da parte del
giudice di appello (direttiva 89), perche', ad onta  della  identita'
dell'organo  chiamato a provvedere, e' sembrata assorbente e decisiva
la natura di impugnazione straordinaria della  revisione,  consentita
solo  per  ipotesi  tassative,  ben  diversa  dall'ordinaria ampiezza
devolutiva dell'appello.
   Il  riferimento  nella  direttiva 99 allo svolgimento del giudizio
secondo  le  norme  fissate  per  il   dibattimento   rende   inutile
l'indicazione  dei poteri e delle attivita' della corte di appello in
materia. E' stato invece ritenuto necessario stabilire che, nel  caso
di  accoglimento del ricorso avverso l'ordinanza di inammissibilita',
la corte di cassazione rimetta  il  giudizio,  in  conformita'  della
direttiva 19 e a differenza di quanto stabiliva il Progetto del 1978,
ad altra sezione della stessa corte di appello, la  cui  sentenza  e'
oggetto  di  revisione,  e,  solo in linea subordinata, alla corte di
appello del capoluogo di circoscrizione piu' vicino.
   Con  l'articolo  627 si consente alla corte di appello, alla quale
e' proposta la richiesta, di sospendere  l'esecuzione  della  pena  o
della   misura   di  sicurezza  inflitte  dalla  sentenza  impugnata,
disposizione  che  e'  parsa  piu'  congrua  rispetto  alla  liberta'
provvisoria  oggi concedibile, attesa la posizione di gia' condannato
della persona nel cui interesse la revisione e' domandata. Non  senza
rilevare  che  la liberta' provvisoria (termine che e' stato non piu'
utilizzato nell'attuale  procedura)  si  attaglia  alla  sola  misura
detentiva  e  non  alle  altre nelle quali pure si puo' concretizzare
l'esecuzione. Potendo peraltro alla pena detentiva sostituirsi  anche
altra   misura  di  coercizione  personale,  e'  naturale  che  venga
consentito  al  pubblico  ministero,  cosi'  come  all'imputato,   di
proporre  ricorso  contro  qualsiasi provvedimento in materia, sempre
che  ovviamente  sia  ravvisabile   un   interesse   all'impugnazione
proposta.
   L'articolo  628  disciplina il giudizio di revisione, con richiamo
espresso alle norme del dibattimento di primo grado. Cio'  si  spiega
con  la  necessita', nei limiti dettati dalla richiesta di revisione,
di svolgere tutte le attivita' istruttorie necessarie, che  non  sono
proprie  di  un  giudice  di appello. E tale rinvio non puo' apparire
incoerente rispetto alla previsione di un giudizio di ammissibilita',
sia  perche'  quest'ultimo presuppone (come era detto nella Relazione
al Progetto preliminare del 1978, p. 485)  una  norma  propria  delle
impugnazioni,  sia  perche'  il nostro sistema processuale, almeno in
materia civile, conosce giudizi preliminari di ammissibilita' di  una
domanda  ad  opera  dello  stesso  giudice  di  primo  grado. Saranno
naturalmente applicabili solo le norme compatibili con l'oggetto  del
giudizio,  con  riferimento  sia alla specie dell'impugnazione che ai
confini della devoluzione.
   L'articolo 629 nella prima parte richiama anche per la sentenza le
norme del primo grado. Rispetto al testo del Progetto del  1978  sono
state  apportate  alcune varianti formali, ma e' parso necessario nel
comma 3 eliminare il riferimento all'inammissibilita' della revisione
" per ragioni diverse da quelle indicate nell'istanza di revisione ".
Cio' perche' con il termine evidentemente improprio di  "  ragioni  "
non  ci  si  puo'  riferire ne' ai casi di cui all'art. 622, ne' agli
elementi di  cui  all'art.  623,  ma  verosimilmente  agli  argomenti
adoperati, che, come tali, non possono comunque essere vincolanti per
il giudice.
   L'articolo  630,  pur ricalcando il testo dell'art. 564 del codice
vigente, non ne riproduce il comma 2 che dispone l'annotazione  della
sentenza  favorevole  nell'atto  di morte se da questo risulta che il
decesso e' avvenuto in carcere o  in  luogo  destinato  a  misura  di
sicurezza  detentiva.  Tale  annotazione  infatti  apparirebbe  ormai
inutile, una volta che con l'art. 44 della legge  n.  354  del  1975,
lasciato  intatto  dalla piu' recente legge n. 663 del 1986, e' stato
previsto che negli atti di stato civile non  si  debba  far  menzione
dell'istituto  di  prevenzione  e  pena  nel  quale  l'evento  si sia
verificato.
   L'articolo  631 prevede l'emissione di provvedimenti sulle spese e
sugli effetti civili in  caso  di  accoglimento  della  richiesta  di
revisione.  La  disposizione risulta piu' sintetica rispetto all'art.
567 del codice vigente, essendo  stata  concentrata  nella  corte  di
appello  ogni  competenza  in  materia  di  revisione e non dovendosi
quindi  essa  sdoppiare  nel  giudizio  di  due  organi  diversi   di
giurisdizione.
   Anche  l'articolo  632  risente  dell'unitarieta'  del giudizio di
revisione, da cui discende la regola  che  contro  la  decisione  che
chiude  la  fase  di  revisione  -  sia essa di inammissibilita' o di
merito - e' possibile un ricorso per cassazione.  E'  stata  peraltro
eliminata  l'incongruenza  contenuta  nell'analogo testo del Progetto
del 1978, che consentiva al procuratore generale il ricorso nel  caso
di   accoglimento   della   revisione,   dimenticando  che  anche  il
procuratore generale era uno dei soggetti legittimati a proporla.
   Il  comma  2  precisa che l'esito sfavorevole di un primo giudizio
non pregiudica il diritto di presentare una nuova  richiesta  fondata
naturalmente   su   elementi   diversi   da   quelli   gia'  valutati
negativamente, in cio' generalizzandosi la norma del codice  vigente,
inserita nel comma 1 dell'art. 568 e nel comma 3 dell'art. 569.
   L'articolo 633 ricalca a sua volta l'art. 570 dell'attuale codice,
con  la  precisazione  che  l'indicazione  del  giornale  sul   quale
effettuare   la   pubblicazione   dell'estratto   della  sentenza  di
accoglimento puo' essere contenuta nella richiesta  dell'interessato.
Non  e'  parso  opportuno  inoltre  limitare,  come  faceva  il testo
originario del Progetto preliminare del 1978, la designazione  ad  un
quotidiano   nazionale,  potendo  l'interessato  attribuire  maggiore
efficacia riparatoria alla  divulgazione  su  un  giornale  locale  o
comunque a diffusione limitata.
   I  cinque  articoli  che  riguardano  la  riparazione  dell'errore
giudiziario non apportano sostanziali variazioni alla disciplina  del
codice  vigente,  quale  risulta dalle innovazioni delle l. 23 maggio
1960, n. 504 e 14 maggio 1965,  n.  481,  che  hanno  trasformato  in
dovere  la  facolta'  dello  Stato di riconoscere una " riparazione a
titolo di soccorso ", prevista nel titolo originario del codice.
   L'articolo  634  non si discosta dall'art. 571 del vigente codice,
essendo  stata  mantenuta  ferma  l'esclusione   dal   diritto   alle
riparazioni  per l'ipotesi di dolo o colpa grave dell'interessato. Il
procedimento rimane in sostanza improntato ad un giudizio di  equita'
che  si  rivela  anche  nei  modi  alternativi  di fare conseguire la
riparazione. Non vi erano peraltro nella legge-delega  direttive  che
consentissero   una   piu'  soddisfacente  attuazione  del  principio
costituzionale dell'art. 24 comma 4  Cost.  (Corte  cost.  n.  1  del
1969),  ferma  restando  la  possibilita'  di una successiva migliore
integrazione della disciplina.
   L'articolo  635,  lasciando  inalterato  il  contenuto sostanziale
dell'art. 572 c.p.p., adegua alle nuove leggi civili  in  materia  di
famiglia  la  parte relativa ai soggetti legittimati a chiedere, come
esplicazione di un diritto proprio dei congiunti e non di un  diritto
ereditario,  la  riparazione in caso di morte del condannato avvenuta
prima o durante il procedimento di revisione. In tale ordine di idee,
nel  comma  1,  sono  state  escluse  le persone legate al condannato
defunto da vincolo di affiliazione poiche'  tale  istituto  e'  stato
abrogato  dall'ultima  legge in tema di adozione (art. 77 l. 4 maggio
1983,  n.  184).  Nel  comma  3,  tra  le  persone  legittimate  alla
riparazione,   non   e'   stato  piu'  incluso  il  coniuge  separato
giudizialmente per causa a  lui  non  addebitata,  in  quanto  si  e'
ritenuto  iniquo  un  tale  trattamento  con  riferimento  al periodo
intercorrente  tra  la  sentenza  di  condanna  (sottoposta   poi   a
revisione)  e  la  separazione  tra  i  coniugi,  una volta negato il
carattere ereditario del diritto. In ogni caso, a norma del comma  2,
a   titolo   di  riparazione  dovra'  essere  quindi  equitativamente
assegnata  una  somma   proporzionata   alle   conseguenze   derivate
dall'errore   giudiziario  (e  tali  conseguenze  saranno  ovviamente
rapportate alla lunghezza del periodo suddetto).
   L'articolo 636 estende a due anni il termine utile per chiedere la
riparazione, equiparandolo a quello previsto  nell'art.  315  per  la
riparazione  dell'ingiusta  custodia provvisoria. L'indicazione degli
altri aventi diritto da parte di chi propone la domanda si spiega con
la necessita' di una corretta instaurazione del procedimento e per la
proporzionale assegnazione della somma determinata  dal  giudice  tra
tutti  coloro  che ne hanno diritto. L'ultimo comma dell'art. 573 del
codice vigente, ricalcato in questa  norma,  relativo  alla  notifica
della  domanda  al  ministro del tesoro, e' stato spostato al comma 1
del successivo art. 637, essendo esso  il  primo  atto  compiuto  nel
procedimento.
   L'articolo 637 tratta quindi del procedimento fino alla decisione,
della quale e' precisato il contenuto. Esso si svolge  in  camera  di
consiglio  con  le  forme  di  cui all'art. 126 dinanzi alla corte di
appello, lo stesso giudice che ha deciso sulla revisione.
   Si e' esplicitato che al pubblico ministero deve essere comunicata
la stessa domanda e non solo un avviso, cosi'  come  l'ordinanza  che
decide  sulla  domanda  di  riparazione  e'  notificata  al  pubblico
ministero e alle altre parti, al fine di consentirne l'impugnabilita'
mediante  ricorso  per cassazione. Rimane la regola di cui al comma 5
dell'art. 574 del codice vigente secondo la  quale  gli  interessati,
cui  e'  notificata la domanda, devono formulare le proprie richieste
entro i termini e  nelle  forme  di  cui  all'art.  126,  a  pena  di
decadenza.  E  rimane  anche la facolta' del giudice di assegnare una
provvisionale a titolo di alimenti quando ne  ritenga  la  ricorrenza
delle condizioni.
   L'articolo  638  infine,  che  riproduce  inalterato  il testo del
Progetto preliminare del 1978, non subordina  piu'  la  presentazione
della  domanda,  come  e'  nel  testo  dell'art.  574- bis del codice
vigente  dopo  l'aggiunta  della  legge  n.   504/1960,   all'inutile
tentativo  di conseguire dal responsabile diretto il risarcimento del
danno che si chiede allo Stato, nel caso di cui all'art. 554 comma  1
n.   4.   La  norma,  con  riferimento  alla  predetta  ipotesi,  qui
contemplata  nell'art.  622  lett.  d),  consente  al  condannato  di
rivolgersi  direttamente  allo  Stato per ottenere la riparazione del
danno cagionato dall'errore. Si spiega pertanto come della  norma  in
questione  sia  rimasto l'ultimo comma, in base al quale lo Stato che
ha  effettuato  il  risarcimento  si  surroga,  entro  i  limiti  del
corrisposto,  nel  diritto  al  risarcimento  contro il responsabile.
L'onere dell'azione verso costui rimane quindi affidato  allo  Stato,
al quale e' imputata l'attivita' giurisdizionale, con la possibilita'
di rivalersi in via di regresso, contro  chi  all'errore  abbia  dato
causa volontariamente, delle somme effettivamente corrisposte.
                               LIBRO X
                              ESECUZIONE
   La  legge-delega  n.  108  del  1974  aveva  dedicato alla materia
dell'esecuzione sostanzialmente la sola direttiva 79 che enunciava il
principio  della giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti
la modificazione e l'esecuzione della  pena  e  l'applicazione  delle
misure   di   sicurezza,  il  principio  dell'effettivo  giudizio  di
pericolosita'  del  soggetto   e   quello   dell'impugnabilita'   dei
provvedimenti.   Si   trattava   di   principi  largamente  acquisiti
all'ordinamento anche in conseguenza delle numerose  decisioni  della
Corte  costituzionale che piu' volte aveva sottolineato la necessita'
di una completa giurisdizionalizzazione  del  procedimento  esecutivo
(vedansi  in  proposito,  tanto  per  citare  le  piu' importanti, le
sentenze 29 maggio 1968, n. 53 in materia di misure di sicurezza e 18
maggio 1970, n. 69 in tema di incidenti di esecuzione).
   Sulla  base  di tale legge-delega era stato redatto a suo tempo un
Progetto preliminare  di  nuovo  codice  di  procedura  penale:  tale
Progetto  ha  rappresentato  il  costante  punto  di  riferimento del
presente lavoro che, nella rielaborazione della materia, ha  peraltro
tenuto  in ogni conto consistenti modificazioni intervenute, dal 1974
ad  oggi,  sulla  legislazione  di  diritto  penale,  sostanziale   e
processuale,  riguardante direttamente o indirettamente il tema della
" esecuzione ".
   In   proposito,   appare  importante  sottolineare  che  la  nuova
legge-delega dedica al procedimento di esecuzione le direttive 96, 97
e  98  nonche'  la  direttiva  101  che ha specifico riferimento alla
riabilitazione. La direttiva 96 ripete sostanzialmente  il  contenuto
della  direttiva  79  della  legge-delega  del  1974; la direttiva 97
introduce il nuovo principio della possibilita' di valutare anche  in
sede  di  esecuzione il concorso formale di reati e la continuazione,
sempre che non siano stati precedentemente  esclusi  dal  giudice  di
cognizione;  infine,  la  direttiva  98  indica  la necessita' che il
legislatore delegato provveda al coordinamento, con i principi  della
delega,  dei  procedimenti  di  esecuzione  e di sorveglianza, e cio'
anche attraverso una nuova disciplina della competenza degli  organi.
Un  capitolo  a  parte  e'  invece  da  ravvisare nella direttiva 101
riguardante,  essenzialmente,  la  previsione   del   principio   del
contraddittorio  anche  nel  procedimento  di  riabilitazione (il che
costituisce attuazione dei criteri indicati in  materia  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 5 del 1976).
   Nel  periodo  intercorrente  fra la prima e la seconda delega sono
intervenute due leggi che  hanno  profondamente  inciso  anche  nella
specifica materia dell'esecuzione penale.
   La  legge  24  novembre  1981,  n.  689  ha introdotto le sanzioni
sostitutive  con  un  particolare  meccanismo,  diverso   da   quello
tradizionale,  per  la  loro esecuzione; ha poi modificato il sistema
dell'esecuzione delle sanzioni pecuniarie con particolare riferimento
al  tema  della  conversione  delle  pene  medesime,  di  cui  si era
interessata la Corte costituzionale (sentenza  16  novembre  1979  n.
131).
   La  disciplina delle misure alternative alla detenzione, contenuta
nella legge 26 luglio 1975, n. 354, di cui la precedente  Commissione
redigente  aveva  tenuto  conto  nella  formulazione  delle norme del
Progetto del 1978, ha subito a  sua  volta  un'ulteriore  e  profonda
trasformazione a seguito della legge 10 ottobre 1986, n. 663.
   Le  regole particolari contenute nei suddetti testi legislativi ed
attinenti all'esecuzione delle  pene  e  delle  misure  di  sicurezza
devono  necessariamente  trovare  un  nuovo  e definitivo assetto nel
nuovo codice di procedura penale al fine di unificare e  semplificare
i  procedimenti  di  esecuzione e di sorveglianza riguardanti materie
quanto meno analoghe se non addirittura identiche.
   In tal senso deve essere necessariamente interpretata la direttiva
98  concernente  appunto  il  coordinamento  con  i  principi   della
legge-delega  della  disciplina  legislativa delle materie attribuite
alla magistratura di  sorveglianza  e  di  quelle  che  rimangono  di
competenza  del  giudice dell'esecuzione. Da tale direttiva si desume
anche che il legislatore delegante non ha voluto limitare il campo di
operativita'  delle  scelte  del  legislatore delegato indirizzandole
aprioristicamente  verso  la  concentrazione  di  tutta   l'attivita'
esecutiva penale in un solo organo (magistratura di sorveglianza); ha
preferito invece prevedere la  possibilita'  che  anche  piu'  organi
possano  essere competenti per l'emanazione dei diversi provvedimenti
che si rendono necessari nel corso del procedimento di esecuzione.
   A  tale  riguardo,  va  osservato che lo sforzo e' stato diretto a
predisporre  un  sistema  processuale  armonico   che   finisse   per
ricondurre  ad unita' procedure disciplinate da leggi diverse emanate
in tempi relativamente lontani  fra  loro:  cosi'  da  facilitare  il
compito   dell'interprete   e   il   lavoro   degli  uffici  preposti
all'esecuzione delle pene.
   Ci  si  e'  resi altresi' conto dell'estrema importanza attribuita
dal legislatore delegante alla fase dell'esecuzione, quale  strumento
per  l'attuazione  del  principio  costituzionale  dell'umanizzazione
della pena da cui deriva poi quello dell'adeguatezza  della  medesima
con  riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato.
Sotto tale profilo appare  estremamente  significativa  la  direttiva
volta  a  consentire  la  valutazione  in sede esecutiva del concorso
formale dei reati e della continuazione. Essa costituisce un notevole
passo  avanti  verso  l'effettivo  adeguamento  della  pena  ai fatti
commessi  dal  condannato  prescindendo  vicende  che  possono   aver
comunque  contrassegnato  i  vari  procedimenti penali riguardanti il
condannato medesimo. Tale direttiva e'  venuta  sicuramente  incontro
agli  auspici  formulati dalla dottrina e dagli operatori del diritto
che di frequente avevano constatato, da un  lato,  l'inaccettabilita'
delle  preclusioni  e  degli  sbarramenti previsti dal sistema per la
valutazione in sede esecutiva della posizione globale del  condannato
e, dall'altro, la necessita' di rimediare alle storture poste in atto
dalla celebrazione contemporanea in sedi diverse di vari procedimenti
penali  a  carico  degli  stessi imputati per fatti simili e commessi
sotto la spinta di un'identita' criminogena evidente.
   Resta  fermo  comunque  quanto  gia'  segnalato nella Relazione al
precedente Progetto circa i limiti che il  legislatore  delegante  ha
inteso  stabilire per la fase dell'esecuzione penale. Anche se invero
notevoli  e  penetranti  sono  gli  strumenti  che   consentono   una
modificazione  sostanziale della pena inflitta al condannato, si puo'
ragionevolmente escludere che la delega consenta l'introduzione di un
sistema  bifasico  puro,  tale  cioe' da far risultare riservata alla
sola fase  dell'esecuzione  la  determinazione  della  pena.  Secondo
l'originario  Progetto,  l'introduzione  di  un  siffatto sistema era
precluso dal contenuto della direttiva 79, che  riferendo  l'esigenza
della  giurisdizionalizzazione alla modificazione ed esecuzione della
pena, muoveva inequivocabilmente  dal  presupposto  che  quest'ultima
fosse  gia'  stata  inflitta  con  la sentenza divenuta irrevocabile.
Poiche' la direttiva 96 dell'attuale legge-delega ripete, come si  e'
gia'  detto,  il  contenuto  di  quella  sopraindicata,  ne  consegue
ineluttabilmente l'esclusione della possibilita'  di  determinare  la
pena in sede di esecuzione.
   Si  e'  ritenuto,  inoltre,  di  non  poter disciplinare nel nuovo
Progetto istituti attinenti al diritto penale sostanziale (quali sono
quelli modificativi della pena) e di dover invece limitare il " campo
di  operativita'  "  ai  soli  procedimenti   di   attuazione   delle
modificazioni della pena o di applicazione delle misure di sicurezza.
Per questo motivo, ad esempio,  la  materia  dell'applicazione  delle
sanzioni  sostitutive  o  delle misure alternative alla detenzione e'
stato  preso  in  esame  solo   con   riferimento   alla   disciplina
processuale, in fase di esecuzione, delle medesime sanzioni o misure.
   Il   libro  X  del  Progetto  disciplina  poi  solo  le  attivita'
successive alla formazione del  giudicato.  Non  prende,  invece,  in
esame  tutto  cio'  che,  attenendo  all'esecuzione  provvisoria  dei
provvedimenti emanati dal giudice di cognizione, trova altrove la sua
regolamentazione.  Fondamento  dell'esecuzione e' il titolo esecutivo
costituito  dal  provvedimento  irrevocabile,  intendendosi   per   "
provvedimento   "  ogni  atto  dell'autorita'  giudiziaria  ordinaria
(sentenza,  ordinanza,  decreto)  che  non  sia   piu'   soggetto   a
impugnazione ed abbia conseguito il carattere della definitivita'. Si
e'  cercato  di  far  coincidere  la  "  irrevocabilita'  "  e  la  "
esecutivita'  "  di un provvedimento; tale coincidenza, che si ricava
in via generale dall'effetto sospensivo  attribuito  all'impugnazione
dall'art.  581,  e'  stata  esplicitata,  per  quel  che  concerne le
sentenze pronunciate in giudizio e i decreti  penali,  attraverso  il
combinato  disposto  degli  artt.  639 e 641 comma 1. Nei casi in cui
eccezionalmente   si   e'   riconosciuta   efficacia   esecutiva    a
provvedimenti  non  ancora definitivi (come, ad esempio, le ordinanze
del giudice dell'esecuzione o della magistratura di sorveglianza), si
e'  provveduto  a formulare una previsione espressa (v., nell'esempio
citato, il comma 7 dell'art. 657). Una ipotesi particolare e'  quella
della sentenza di non luogo a procedere non piu' impugnabile, che non
puo' essere  definita  "  irrevocabile  "  in  quanto  soggetta  alla
procedura  di  revoca  prevista  dal  titolo  X  del  libro V. La sua
esecutivita' e' regolata dal comma 2 dell'art. 641.
   A  seguito dell'introduzione, fra le misure cautelari, di quelle "
interdittive ", non e'  piu'  prevista,  nella  fase  di  cognizione,
l'applicazione   provvisoria   delle  pene  accessorie.  Di  qui,  la
soppressione  di  ogni  riferimento  alla   relativa   procedura   di
esecuzione.
   Non  si  e'  ravvisata  neppure  la  necessita'  di una disciplina
particolare  in  tema  di  applicazione  provvisoria  di  misure   di
sicurezza.  Al  riguardo e' da rilevare che la legge 10 ottobre 1986,
n. 663, contenente modifiche all'ordinamento  penitenziario,  ha  fra
l'altro  abrogato l'art. 204 c.p. ed ha subordinato l'applicazione di
tutte le misure  di  sicurezza  personali  all'accertamento  concreto
della  pericolosita'  sociale  del  soggetto. Una volta compiuto tale
accertamento, l'esecuzione provvisoria delle predette misure seguira'
necessariamente la disciplina apprestata per l'esecuzione conseguente
a  provvedimento  esecutivo,  non   sussistendo   alcuna   differenza
operativa ed attuativa.
   Quanto  poi  alle  sentenze di proscioglimento, la loro esecuzione
provvisoria con riferimento alla eventuale liberazione  dell'imputato
trova  gia'  la  sua  disciplina  specifica in altre parti del codice
(art. 300). Quanto infine all'esecuzione delle  misure  di  sicurezza
che   possono   essere  applicate  al  prosciolto,  il  problema  non
differisce  da  quello  sopra  esaminato  relativo   all'applicazione
provvisoria delle misure di sicurezza personali e cioe' in definitiva
dovra' seguirsi la disciplina relativa  all'esecuzione  delle  stesse
misure   applicate   con   un  provvedimento  non  piu'  soggetto  ad
impugnazione. Il provvedimento, a cura del pubblico ministero, dovra'
essere  trasmesso al magistrato di sorveglianza competente, il quale,
accertata  la  pericolosita'   sociale   del   soggetto,   procedera'
all'esecuzione   delle   medesime   secondo  le  regole  proprie  del
procedimento di sorveglianza.
   Cosi' tratteggiati i contenuti della disciplina inserita nel libro
dell'esecuzione, vanno riconfermate le osservazioni  della  Relazione
al  precedente  Progetto  circa  le funzioni attribuite in materia al
pubblico ministero, al giudice dell'esecuzione ed  alla  magistratura
di sorveglianza.
   A  tal  fine  la lettura della direttiva 79 della legge-delega del
1974 (corrispondente alla direttiva  96  dell'attuale  legge-delega),
secondo  cui  tutta  la  fase dell'esecuzione penale doveva acquisire
carattere giurisdizionale, poteva indurre a ritenere non solo che  al
pubblico  ministero  non  potesse  piu'  competere  una  posizione di
preminenza, come quella riconosciuta nel codice vigente,  ma  che  il
suo   ruolo  dovesse  essere  limitato  a  quella  partecipazione  ai
procedimenti di modificazione ed esecuzione della pena e delle misure
di  sicurezza insita nel principio del contraddittorio. Conformemente
appunto alla decisione adottata nel precedente  Progetto,  e'  invece
apparso naturale conservare al pubblico ministero la sua posizione di
organo promotore  dell'esecuzione  penale,  attribuendogli  anche  il
potere  di  emettere  l'ordine di carcerazione e di scarcerazione, di
emanare cioe' provvedimenti che  incidono  sulla  liberta'  personale
dell'individuo.   Come  e'  gia'  stato  infatti rilevato, nella fase
dell'esecuzione, quando cioe'  sia  stata  emanata  una  sentenza  di
condanna  ormai  irrevocabile,  non  vi e' spazio per l'uso di poteri
discrezionali, dovendosi  invece  semplicemente  dare  esecuzione  al
provvedimento   del   giudice;   dal  che,  e'  facile  la  deduzione
dell'inesistenza di ostacoli a  riconoscere  nel  pubblico  ministero
l'organo  naturale  per  il promovimento dell'attivita' esecutiva. E'
ovvio, del resto, che l'inizio di tale fase  implica  necessariamente
l'esame   della   posizione   processuale   del   soggetto  e  quindi
l'eventualita'  dell'adozione  di  iniziative  volte  ad  individuare
l'esatta  espiazione  della  pena  irrogata dal giudice di cognizione
anche  con  riferimento  ad  altre  sentenze  di   condanna   emanate
contestualmente   a  carico  dello  stesso  soggetto.  Si  tratta  di
iniziative istituzionalmente attribuite al pubblico  ministero  nella
sua  veste  di  parte  processuale e che non potrebbero essere svolte
senza la sua richiesta da  altri  organi  giurisdizionali,  quali  il
giudice dell'esecuzione o il magistrato di sorveglianza. Si condivide
altresi' il pensiero espresso nella Relazione al Progetto del 1978 in
ordine  al  mantenimento  di  una  specifica  competenza  del giudice
dell'esecuzione, quale organo destinato a decidere tutte le questioni
che in relazione ai limiti posti dal titolo esecutivo possono sorgere
nel  corso  dell'esecuzione;  di  conseguenza,   l'intervento   della
magistratura  di  sorveglianza deve essere limitato a quelle materie,
facenti  parte  del  diritto  penale  sostanziale  e  non  di  quello
processuale, in cui prevalente appare il giudizio sulla funzionalita'
ed efficienza  della  pena  in  relazione  al  fine  specifico  della
rieducazione  del  condannato  e  in  quelle  ove  appare  essenziale
l'accertamento della pericolosita' del soggetto (come ad  esempio  in
tema  di misure di sicurezza). A siffatti scopi per cosi' dire finali
della  sanzione  si  ricollega  necessariamente  la  valutazione  dei
risultati  parziali  del  trattamento  penitenziario,  compito questo
istituzionalmente attribuito alla magistratura di sorveglianza.
   Al  di fuori tuttavia di tali compiti deve rimanere impregiudicata
la competenza del giudice dell'esecuzione chiamato a risolvere  tutti
i   multiformi   problemi   che  il  titolo  esecutivo  e'  destinato
inevitabilmente a porre.
   Del  resto,  anche dal punto di vista funzionale e dell'efficienza
dell'amministrazione della giustizia, che trova nell'esecuzione della
sentenza   e  del  decreto  di  condanna  il  suo  punto  culminante,
l'attribuzione di ogni competenza in  materia  alla  magistratura  di
sorveglianza  sarebbe  stata  fonte di serie difficolta' applicative,
comportando essa la concentrazione presso gli uffici di  sorveglianza
di  una  quantita'  enorme di fascicoli provenienti dagli uffici piu'
diversi: fatto questo che sul piano burocratico  avrebbe  finito  per
rendere  impossibile  la  pronta  esecuzione delle sentenze con grave
pregiudizio per l'efficacia della macchina giudiziaria.
   Sul  piano  del  procedimento,  si e' tenuto conto che, allo stato
attuale  della  legislazione,  l'ordinamento   prevede   l'intervento
dell'organo giurisdizionale in materia di esecuzione in due forme: la
prima definita incidente di esecuzione, disciplinata  dal  codice  di
rito e che si applica a tutte le questioni concernenti la regolarita'
del titolo esecutivo e ai problemi per  cosi'  dire  connessi,  quali
l'applicazione  dell'amnistia,  del  condono, la revoca dei benefici,
l'esecuzione civile nel procedimento penale, etc.; l'altra,  definita
procedimento di sorveglianza, attinente all'applicazione delle misure
alternative,  all'esecuzione  delle  sanzioni  sostitutive,   nonche'
all'applicazione  ed  esecuzione  delle  misure  di sicurezza. Queste
ultime, come e' noto, sono regolate dalla l. 26 luglio 1975, n.  354,
modificata  dalla  l.  24  novembre  1981,  n.  689.  Si  e' ritenuto
essenziale procedere all'unificazione dei due sistemi, prevedendo una
disciplina  prevalentemente  comune anche per quanto attiene ai mezzi
di  impugnazione,  pur  con  le  varianti   rese   necessarie   dalle
caratteristiche  intrinseche  di talune materie, avendo tuttavia cura
di non incidere sulla formazione degli organi chiamati a decidere, la
cui  diversificazione appariva giustificata. Di conseguenza, tanto il
procedimento di esecuzione quanto quello di sorveglianza hanno regole
comuni   per   tutto  cio'  che  attiene  al  potere  di  iniziativa,
all'intervento  delle  parti,  ai  termini  ed  alle   modalita'   di
convocazione    delle    parti    medesime    o    alle    formalita'
dell'impugnazione,  mentre  contro  le  ordinanze  che  concludono  i
suddetti  procedimenti  e' esperibile il solo ricorso per cassazione,
conformemente alla disciplina vigente. Solo in materia di  misure  di
sicurezza, ove deve essere valutata dal magistrato di sorveglianza la
pericolosita'  sociale  del  soggetto,   giudizio   questo   che   e'
prevalentemente   ancorato   a  dati  di  fatto,  e'  parso  criterio
corrispondente alle regole del sistema prevedere la  possibilita'  di
un  secondo  giudizio  esteso  al  merito  mediante  la  proposizione
dell'appello. Siffatto sistema si pone certamente in armonia  con  la
disciplina  dettata  in proposito dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663
che ha  previsto  un  doppio  grado  di  giudizio  di  merito  per  i
provvedimenti  attinenti  all'applicazione o alla revoca delle misure
di sicurezza.
   Il libro dell'esecuzione si presenta distinto in cinque titoli: il
primo  riguarda   il   giudicato,   il   secondo   l'esecuzione   dei
provvedimenti  giurisdizionali, il terzo le attribuzioni degli organi
giurisdizionali (suddiviso in due capi, il primo attinente al giudice
dell'esecuzione  e  il secondo alla magistratura di sorveglianza); il
quarto titolo contiene la disciplina del casellario giudiziale  e  il
quinto   le   regole  sul  recupero  delle  spese  di  giustizia.  La
sistematica, come si vede, e' profondamente diversa rispetto a quella
del  codice  vigente ed a quella adottata nel precedente Progetto. Il
codice vigente suddivide il libro dell'esecuzione  sempre  in  cinque
titoli,  aventi  per  oggetto  le disposizioni generali, l'esecuzione
penale, l'esecuzione civile  in  materia  penale,  gli  incidenti  di
esecuzione e infine l'esecuzione delle misure di sicurezza, mentre il
Progetto  del  1978  aveva  suddiviso  la  materia  in  due   titoli,
rispettivamente   denominati   "   disposizioni   generali   "  ed  "
attribuzioni degli organi giurisdizionali ". La  scelta  operata  nel
presente  Progetto  deriva  dall'esigenza  di  porre  a base di tutta
l'esecuzione la nozione di giudicato, e cioe'  l'identificazione  del
provvedimento  irrevocabile  ed esecutivo che costituisce il punto di
partenza della  fase  dell'esecuzione  penale.  In  tale  sede  hanno
trovato  naturale  collocazione anche la norma che prevede il divieto
di un nuovo giudizio per lo stesso fatto (il c. d. ne bis in idem), e
quelle  che  regolano  gli  effetti  del  giudicato  penale  in altri
giudizi. Si tratta, come e' evidente, dell'enunciazione  di  principi
generali  che  debbono precedere necessariamente la descrizione delle
regole attinenti all'esecuzione.
   Segue  quindi  la  descrizione delle modalita' di esecuzione delle
sanzioni che scaturiscono dal giudicato,  separatamente  considerando
le  pene  detentive,  quelle  pecuniarie, le sanzioni sostitutive, le
sanzioni amministrative inflitte dal giudice penale  per  ragioni  di
connessione  e  le  misure  di  sicurezza con la relativa indicazione
dell'organo cui  compete  il  promovimento  dell'attivita'  esecutiva
(pubblico ministero). Pur essendo chiaro il collegamento logico delle
norme contenute in detto titolo con quelle attinenti al giudicato, e'
apparso  utile  ed opportuno collocarle in un titolo diverso, data la
loro autonomia sostanziale e formale rispetto  alle  regole  generali
che attengono alla formazione del titolo esecutivo.
   Il  titolo  terzo  ha  un'autonomia evidente rispetto alle materie
regolate negli altri titoli; del resto, anche nel precedente Progetto
si  era  ritenuto  necessario  disciplinare  autonomamente la materia
attinente  ai  problemi  nascenti  nel   corso   dell'esecuzione   ed
all'attivita' della magistratura di sorveglianza.
   In  due  titoli  separati  e', infine, descritta la disciplina del
casellario giudiziale e delle spese del procedimento, trattandosi  di
argomenti che hanno ben poco in comune fra loro.
   La  suddetta suddivisione e la progressione delle norme e' apparsa
la piu' coerente e la piu' logica con il naturale sviluppo della fase
esecutiva  e  quella  che  rende,  anche  alla  luce della disciplina
sostanziale della materia contenuta nell'ordinamento penitenziario  e
nella legge sulle modifiche al sistema penale, la lettura delle norme
piu' facile e chiara.
   Puo'  essere interessante notare che la disciplina dell'esecuzione
e' stata contenuta in appena 48 articoli rispetto agli 80 del  codice
vigente.  La  differenza  e' facilmente spiegabile ove si tenga conto
che sono scomparsi gli istituti dell'esecuzione  immobiliare  per  il
recupero  dei  crediti  nascenti da reato, dell'ipoteca immobiliare e
del relativo procedimento per l'esecuzione.  Il  sequestro  penale  e
quello  conservativo  sono  regolati  in  altra  parte del codice. Si
aggiunga, inoltre che la disciplina particolareggiata  contenuta  nel
codice  vigente per l'applicazione fuori del giudizio delle misure di
sicurezza ha subi'to un  notevole  ridimensionamento,  essendo  stato
abolito  ogni  motivo di distinzione fra provvedimenti impugnabili ed
altre attivita' del giudice di sorveglianza non soggette  a  riesame.
Non sono state ribadite, infine, quelle disposizioni che, per la loro
natura regolamentare, potranno trovare piu' idonea  collocazione  fra
le norme di attuazione.
                               TITOLO I
                              GIUDICATO
   L'articolo  639  fornisce  la  definizione  di " irrevocabilita' "
delle  sentenze  e  dei  decreti.  Esso  ripete  sostanzialmente   la
formulazione  del  vigente art. 576, nonche' quella dell'art. 611 del
precedente Progetto. Rispetto al contenuto dell'art. 576 non e' stato
ripetuto  l'accenno  all'esecuzione provvisoria delle sentenze per le
ragioni gia' specificate nella premessa al libro X e comunque perche'
essa  e'  gia'  disciplinata  in  altre  parti del Progetto. Rispetto
invece alla formulazione del Progetto del 1978 non e' stata  ripetuta
la  disposizione  concernente le sentenze istruttorie (oggi, sentenze
di non luogo a procedere). Al riguardo, e' sembrato superfluo fornire
una   specifica   definizione   di   irrevocabilita'   che,   essendo
necessariamente sganciata dalla esecutivita' per il peculiare  regime
di  revoca  cui  si  e'  gia'  accennato,  avrebbe assolto soltanto a
funzioni classificatorie prive di pratica rilevanza.
   L'articolo  640  enuncia il classico principio del ne bis in idem,
che costituisce un cardine indefettibile del nostro ordinamento. Sono
state   fatte   ovviamente   salve   quelle  decisioni  di  carattere
processuale che, come  gia'  previsto  negli  artt.  66  e  345,  non
impediscono  un  nuovo procedimento quando ne vengono meno le ragioni
giustificatrici.
   L'articolo 641 regola la esecutivita' delle sentenze e dei decreti
penali, ricollegandoli in via generale alla irrevocabilita' (comma 1)
e,  per  quanto  concerne  le sentenze di non luogo a procedere, alla
scadenza dei termini per l'impugnazione (comma 2).
  Gli  articoli che chiudono il titolo I disciplinano gli effetti non
penali della sentenza penale.  Seguendo  la  stessa  sistematica  del
Progetto  del  1978,  si  e' ritenuto di non collocare la materia nel
settore del codice dedicato all'azione civile (v., invece, gli  artt.
da   25   a   28  c.p.p.).  La  collocazione  nel  libro  concernente
l'esecuzione  (e  piu'  in  particolare  nel  titolo  concernente  il
giudicato) e' parsa sistematicamente piu' rigorosa considerato che le
disposizioni riguardanti l'efficacia non penale del giudicato  penale
si  riferiscono  direttamente  non all'azione ma al giudizio civile o
amministrativo nel quale il giudicato penale viene fatto valere:  con
la  conseguenza  che,nel processo non penale, il giudice, in presenza
di una pronuncia penale divenuta irrevocabile, dovra' attenersi -  se
venga  formulata  l'exceptio iudicati - al relativo decisum. Il nuovo
assetto normativo giustifica l'assenza  di  una  espressa  previsione
simile  a  quella  dell'art.  25  c.p.p.,  il quale oltre a risultare
intrinsecamente  collegato  alla  sospensione  del  processo   -   un
istituto,  che,  nel sistema della riforma, rappresenta, a differenza
di quanto previsto nel sistema vigente (v.  art.  3),  l'eccezione  -
riguardando la proponibilita' o la proseguibilita' dell'azione civile
o  amministrativa  nella  sua  sede  naturale,  resta  implicitamente
ricompreso nelle piu' generali prescrizioni del libro X.
   Passando  alla  descrizione dei contenuti, la linea da cui muoveva
il Progetto del 1978 era nel senso che, avuto  riguardo  al  tipo  di
decisione   ed   all'ambito  di  efficacia  soggettiva  di  essa,  la
legge-delega ponesse " rigorosi limiti  restrittivi  "  all'efficacia
delle sentenze penali di condanna o di assoluzione nei giudizi civili
o  amministrativi.  Nella  Relazione  si  osservava  che,  sul  piano
oggettivo, dal raffronto tra le direttive 19, 20 e 21 e gli artt. 25,
27 e 28 del codice vigente, nonche' dall'esame dei lavori preparatori
della legge-delega del 1974, emergesse il preciso intento di limitare
l'efficacia vincolante della sentenza penale irrevocabile pronunciata
in  esito a giudizio al solo accertamento del fatto materiale e della
sua riferibilita' all'imputato, " cosi' da escludere  ogni  efficacia
vincolante  per  quanto  riguarda  l'accertamento  della colpa, della
imputabilita' e delle cause di giustificazione " (pag. 505).
   Altrettanto  restrittivi  i  criteri  da  seguire sotto il profilo
soggettivo. Le sentenze costituzionali n. 55 del 1971, n. 99 del 1973
e  n.  165 del 1975, introducendo ulteriori limitazioni all'efficacia
del giudicato penale, si sarebbero limitate ad " indicare in astratto
il  limite  e  la  garanzia  minima,  al  di la' della quale la legge
positiva  deve  considerarsi  incostituzionale  con  riferimento   al
sistema   del  codice  vigente  ispirato  ai  principi  del  processo
inquisitorio, che riconosce la  preminenza  del  processo  penale  su
quello  civile  come principio fondamentale subordinato soltanto alle
norme di ordine costituzionale ". Con il che il legislatore  delegato
resterebbe  assolutamente  libero  di  "  precisare  i  limiti  e  le
condizioni necessarie  affinche'  possa  considerarsi  instaurato  il
contraddittorio  ",  cosi'  da  evitare  soluzioni normative ambigue,
produttive in concreto di " dubbi e incertezze circa  la  sostanziale
osservanza delle regole del contraddittorio ".
   Per  quanto  concerne  i  rapporti  fra giudizio penale e giudizio
civile  o  amministrativo,  si  e'  preso  innanzitutto  atto   delle
significative  innovazioni introdotte dalla legge-delega del 1987. In
particolare,  le  direttive  della  nuova  legge-delega   che   hanno
sostituito  le  direttive  19,  20  e 21 della legge-delega del 1974,
mentre, da un  lato,  hanno  esteso  l'incidenza  del  vincolo  della
sentenza penale alla " illiceita' penale del fatto " (direttiva 22) e
alla circostanza che il fatto " e' stato compiuto nell'adempimento di
un  dovere  o  nell'esercizio  di una facolta' legittima " (direttiva
23), hanno, dall'altro, subordinato tale  incidenza  alla  condizione
che  le  parti  abbiano  partecipato  o siano state poste in grado di
partecipare  al  processo   penale.   Inoltre,   la   direttiva   24,
radicalmente  innovando  rispetto al sistema della delega precedente,
ha  imposto  al  legislatore  delegato  di  predisporre  un   assetto
normativo in grado di disciplinare gli effetti " del giudicato penale
in altri giudizi civili e amministrativi ", diversi, ovviamente,  dal
giudizio per le restituzioni e il risarcimento del danno.
   Si  e'  ritenuto  peraltro  che gli elementi di novita' desumibili
dalle dette direttive della legge-delega non siano tali da indurre il
legislatore delegato ad apprestare una integrale riformulazione delle
norme contenute nel precedente Progetto. La scelta e' stata,  quindi,
nel senso di non abbandonare - se non nei casi in cui il mantenimento
delle relative disposizioni  avesse  determinato  una  situazione  di
conflittualita'  con  la  nuova delega - la linea tracciata nel 1978,
una linea gia' seguita nella regolamentazione dei tempi di intervento
delle  parti  "  accessorie  "  nel processo penale e del correlativo
sistema di preclusioni,  rimasto  sostanzialmente  immutato  rispetto
all'originario Progetto.
    L'articolo   642,   nel  dettare  il  regime  dell'efficacia  del
giudicato penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo  di
danno,  ricalca il testo del corrispondente articolo del Progetto del
1978 (l'art. 614): la nuova norma risulta, peraltro,  divisa  ora  in
due   commi   per   disciplinare  anche  l'efficacia  della  sentenza
irrevocabile  di  condanna  pronunciata   a   seguito   di   giudizio
abbreviato,  un istituto non figurante nel sistema della legge-delega
del 1974.
   Nel  comma  1  dell'art.  642 non si fa, percio', piu' riferimento
alla sentenza irrevocabile di condanna (questa  la  formula  adottata
dall'art.  614 del precedente Progetto), ma si riconosce efficacia di
giudicato alla " sentenza irrevocabile  di  condanna  pronunciata  in
seguito  a dibattimento ", cosi' da porre un discrimine fra tale tipo
di decisione e quella pronunciata a seguito di  giudizio  abbreviato:
una  decisione, la seconda che, pur restando assoggettata, sul punto,
ad un'identica disciplina, ha richiesto una collocazione autonoma  al
fine  di adeguare la sistematica dell'articolo a quella adottata - ma
per motivi di sostanza - nell'art. 643, in base al quale la  sentenza
pronunciata in esito all'abbreviazione del rito soggiace, quanto agli
effetti in altri giudizi, ad una normativa diversa rispetto a  quella
riguardante la decisione emessa in dibattimento.
   L'attuazione  della direttiva 22 (con la quale e' stata modificata
la precedente direttiva 19) ha, tuttavia, imposto nell'art. 642 comma
1  di " aggiornare " sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo
il testo del Progetto del 1978.
   Sotto  il  primo  profilo,  e'  stato  previsto  che  la  sentenza
irrevocabile di condanna  ha  efficacia  di  giudicato  nel  giudizio
civile  o  amministrativo  per  le restituzioni e il risarcimento del
danno, non solo quanto all'accertamento che il fatto sussiste  o  che
l'imputato  lo  ha commesso (v. art. 614 del precedente Progetto), ma
anche con riguardo all'accertamento dell'illiceita' penale del fatto:
l'inserimento   di  detto  inciso  ha,  peraltro,  richiesto  qualche
adattamento, solo di ordine formale, del testo del 1978.
   Sotto  il  profilo  soggettivo,  considerato  che  la direttiva 22
subordina l'efficacia del giudicato penale nel giudizio civile per le
restituzioni e per il risarcimento del danno alla condizione " che le
parti abbiano partecipato o siano state poste in grado di partecipare
al  giudizio  penale  ",  si  e' ritenuto di coinvolgere nell'effetto
vincolante anche il responsabile civile  (l'unico  altro  soggetto  "
svantaggiato  " dal giudicato di condanna) purche' questo, attraverso
la  citazione  o  l'intervento,  abbia  avuto  la   possibilita'   di
partecipare al processo penale.
   Poiche',  a  norma  dell'art.  85  comma 2, il responsabile civile
costituito (non anche quello intervenuto) puo' essere escluso, a  sua
richiesta,  (anche)  "  qualora  gli elementi di prova raccolti prima
della  citazione  possano  recare  pregiudizio  alla  sua  difesa  in
relazione   a  quanto  previsto  dall'articolo  642  ",  quest'ultimo
precetto non trovera', ovviamente, applicazione se  la  richiesta  di
esclusione  venga accolta.  Comportando l'esclusione la perdita della
qualita' di parte, nessuna esplicita riserva  circa  l'efficacia  del
giudicato  di  condanna nei confronti del responsabile civile che sia
stato  escluso  per  i  detti  motivi  e',  percio',  stata  ritenuta
necessaria.  Si e' dovuto poi farsi carico di attuare la direttiva 53
che, con riguardo al " giudizio abbreviato ",  subordina  l'efficacia
della  sentenza irrevocabile conseguente a tale tipo di giudizio alla
condizione che la parte civile consenta all'abbreviazione  del  rito.
Il  comma  2  dell'art. 642 stabilisce percio' che gli stessi effetti
indicati nel comma 1 derivano dalla sentenza di condanna  pronunciata
a   seguito   di   giudizio  abbreviato.  Poiche',  poi,  l'efficacia
vincolante della sentenza di condanna riguarda  l'accertamento  della
sussistenza  del  fatto, della sua illiceita' penale e l'affermazione
che l'imputato lo ha commesso, si  e'  ritenuto  che,  giovando  tale
regime  comunque al danneggiato sia esso o no costituito parte civile
- sarebbe stato del tutto illogico  subordinare  la  detta  efficacia
alla  condizione  indicata  nella  predetta direttiva: sia perche' la
prestazione del consenso (non del semplice danneggiato ma della parte
civile)   sembra  richiesta  in  funzione  dell'eventualita'  che  il
giudizio si concluda con una pronuncia diversa  dalla  condanna,  sia
per  non  privare  il  danneggiato  che non abbia esercitato l'azione
civile in sede penale della possibilita' di usufruire  degli  effetti
di  una  decisione  per  lui  favorevole,  rispetto a cui l'imputato,
promotore dell'abbreviazione del rito, nulla potrebbe opporre.
   L'omessa  menzione  nell'art.  642  del  danneggiato  (comma 1) e,
soprattutto, della parte civile (comma 2), pare in grado di  impedire
il  perpetuarsi  di  quelle discutibili estensioni interpretative che
hanno avuto ad oggetto l'art. 27 del codice vigente, applicato  dalla
giurisprudenza  anche  in  relazione  a  decisioni di proscioglimento
contenenti un'affermazione di responsabilita' (ad es.,  sentenza  che
applica   una  causa  di  estinzione  del  reato  per  effetto  della
concessione  di  attenuanti  o  del  giudizio  di  prevalenza  o   di
equivalenza  di  queste rispetto alle aggravanti contestate, ovvero a
seguito di derubricazione del titolo  del  reato):  in  questi  casi,
infatti,  non  sempre  il  danneggiato  rimasto  estraneo al giudizio
penale puo' additarsi come  "  avvantaggiato  "  dalla  decisione  e,
quindi,   come   sempre   interessato  alla  produzione  dell'effetto
vincolante.
   Per  quel  che concerne l'articolo 643 (che, nel sistema del nuovo
Progetto, a differenza di quanto previsto dall'art. 615 del testo del
1978, riguardante anche gli effetti della sentenza di assoluzione del
giudizio disciplinare, si limita a regolare - per evidenti ragioni di
rigore  sistematico  -  l'efficacia della sentenza di assoluzione nel
solo giudizio di danno), si e' rilevato che  l'indirizzo  restrittivo
seguito  nel  precedente Progetto circa l'efficacia extrapenale della
decisione penale sembra  ancor  piu'  accentuato  rispetto  a  quanto
previsto  per  la  sentenza di assoluzione. Al riguardo, la Relazione
(p. 507), richiamando le decisioni costituzionali n. 55 del 1971,  n.
99  del  1973  e  n.  165  del  1975, stigmatizzava la difficolta' di
stabilire quando il danneggiato possa considerarsi " posto  in  grado
di  partecipare  al  processo  ":  si ipotizzavano sia il caso in cui
venga omessa la citazione sia il caso della citazione invalida sia il
caso  in  cui  il  danneggiato  venga  citato  in  modo  non idoneo a
consentirgli una efficace difesa (ad esempio, quando sia stato citato
per  il  dibattimento, dopo l'assunzione di atti di istruzione idonei
ad acquistare valore probatorio nel  giudizio).  Non  si  trascurava,
poi,  l'evenienza  che il danneggiato sia estromesso dal processo con
provvedimento inoppugnabile, inidoneo a vincolare il giudice  civile,
o  sia stato citato semplicemente come testimone, senza l'indicazione
dell'imputazione; o ancora, che egli sia stato  citato  come  persona
offesa in relazione ad una imputazione sostanzialmente modificata nel
dibattimento. Considerata, da un  lato,  la  necessita'  che  fossero
precisate    inequivocabilmente   le   condizioni   che   determinano
l'efficacia vincolante nel processo  civile  della  pronuncia  penale
(anche  al fine di evitare inutili sospensioni del processo civile in
attesa di una decisione penale ininfluente), e, dall'altro, l'estrema
difficolta'  di  riassumere  tali  conclusioni  in  una  formula  non
ambigua, la Relazione del 1978 affermava  come  fosse  opportuno  che
l'effetto vincolante della pronuncia di assoluzione emessa in seguito
a giudizio dovesse operare soltanto  nei  confronti  del  danneggiato
costituitosi  parte  civile  (ancorche'  la  costituzione  sia  stata
revocata): " ravvisando nella costituzione il segno inequivoco  della
avvenuta  instaurazione del contraddittorio fra le parti del rapporto
processuale civile ".
   Serratissime   le   critiche  rivolte  al  testo  del  1978  dalla
Commissione consultiva. Si osservava  (p.  446  del  Parere)  che  la
prescrizione   limitativa  dell'efficacia  di  giudicato  ai  giudizi
promossi  da  chi  si  sia  costituito  parte  civile   finisse   per
avvantaggiare  il  danneggiato,  in  quanto costui, non costituendosi
parte civile, non corre il rischio del possibile  risultato  negativo
del  processo  penale;  mentre  potra' agire in sede civile quali che
siano state le conclusioni penali:  infatti,  potra'  giovarsi  della
condanna,  che  avra' in ogni caso efficacia di giudicato e non sara'
ostacolato dal proscioglimento.  Donde  la  necessita'  di  prevedere
l'efficacia  del  giudicato  penale  di  assoluzione non soltanto nei
confronti del danneggiato che si sia costituito parte civile ma anche
nei  confronti del danneggiato che " sia stato posto in condizione di
costituirsi parte civile ": sarebbe stata in tal modo evidenziata  la
differenza  tra  gli  effetti  della  sentenza  di  condanna,  che si
verificano rispetto ad ogni interessato, e gli effetti della sentenza
di  assoluzione,  che  si  verificano  solo  rispetto  alle  parti  "
potenziali ".
   La  disciplina  contenuta  nel  Progetto  del 1978 con riferimento
all'efficacia nel giudizio di danno della sentenza di assoluzione, e'
parsa  - sotto il profilo dell'efficacia soggettiva del giudicato per
alcuni aspetti, non piu' percorribile. L'introduzione della direttiva
22  (comune alla sentenza di condanna), riguardante il vincolo per il
giudice civile, ha indotto  a  condividere,  sia  pure  in  parte,  i
rilievi della Commissione consultiva: cio' in quanto la nuova delega,
aggiungendo che il vincolo si forma " sempre  che  le  parti  abbiano
partecipato  o  siano state poste in grado di partecipare al giudizio
penale ", sembra necessariamente richiedere la predisposizione di  un
sistema  in  cui  il  costituirsi  parte civile non e' piu' (come nel
Progetto  del  1978)  condizione  per  la   produzione   dell'effetto
vincolante,  essendo  sufficiente,  perche' tale effetto si realizzi,
che il danneggiato da reato sia stato posto in grado  di  partecipare
al  processo penale. Si e' provveduto, percio', ad inserire nel comma
1 dell'art.  643  la  prescrizione  che  l'efficacia  vincolante  del
giudicato  di  assoluzione  si produce non soltanto nei confronti del
danneggiato che si sia costituito parte civile ma anche nei confronti
del  danneggiato  che  sia  stato  posto in condizione di costituirsi
parte civile (e  non  si  sia  costituito).  Se  e'  vero  che,  come
osservava  la  Relazione  al  Progetto  del 1978 (p. 507), e' il piu'
delle volte difficile stabilire il  momento  in  cui  il  danneggiato
possa  considerarsi " posto in grado di partecipare al processo ", e'
vero altresi' che subordinare l'efficacia  del  giudicato  penale  di
assoluzione    alla    costituzione    di    parte   civile   avrebbe
considerevolmente favorito il danneggiato rispetto all'imputato:  per
quest'ultimo,  infatti, la possibilita' di far valere una decisione a
lui favorevole restava subordinata alla mera volonta'  del  primo  di
divenire parte del processo penale.
   L'inciso  "  salvo  che  il  danneggiato da reato abbia esercitato
l'azione in sede civile a norma  dell'articolo  74  comma  1  "  (non
figurante  nel Progetto del 1978 e neppure desumibile dal sistema dei
rapporti fra l'azione civile e processo penale da  esso  predisposto)
ha  lo  scopo  di  bilanciare  il  regime delle preclusioni derivanti
dall'esercizio dell'azione  civile  in  sede  propria  dopo  l'inizio
dell'azione penale con il regime dell'efficacia del giudicato penale.
Al  contempo,  adempie  anche  la  funzione  di   disincentivare   il
danneggiato  dal  far  valere  la  sua  pretesa  nel processo penale,
seguendo una linea solcata in piu' parti del  nuovo  Progetto  e  che
trova  una delle espressioni piu' significative, in tema di incidente
probatorio,  nell'art.  401:  una  norma  volta   a   consentire   al
danneggiato,  il  quale possa temere le prove assunte in quella sede,
di evitare che la sentenza pronunciata sulla  base  di  esse  produca
effetti  vincolanti  nel giudizio di danno. Attraverso l'ultima parte
del comma 1 dell'art.  643,  il  danneggiato  da  reato  e',  quindi,
abilitato  a  sfuggire agli effetti del giudicato di assoluzione solo
facendo valere la pretesa di danno, in qualunque  stato  e  grado  il
processo  penale si trovi - purche', ovviamente, non sia stata ancora
pronunciata sentenza irrevocabile - davanti al giudice civile. Nessun
problema  di  legittimita'  costituzionale  del  tipo di quello a suo
tempo prospettato dalla Commissione consultiva potra',  al  riguardo,
essere avanzato per il fatto che mentre il danneggiato e' in grado di
far sempre valere il giudicato di condanna, l'imputato non e'  sempre
in  grado  di  far  valere il giudicato di assoluzione: la diversita'
delle discipline poste a confronto non  sembra  affatto  irrazionale,
essendo   destinata   a   soddisfare  -  nei  limiti  indicati  dalla
legge-delega - l'esigenza di attuare il principio di separazione  dei
giudizi cui deve informarsi un processo di tipo accusatorio.
   Ulteriori  modifiche  al Progetto del 1978 si sono rese necessarie
anche sotto il profilo oggettivo: cio' in conseguenza della direttiva
23 della legge-delega del 1978, la quale, aggiungendo alle ipotesi di
efficacia vincolante della sentenza di assoluzione gia' previste  nel
regime  della  legge-delega del 1974 la statuizione che il " fatto fu
compiuto nell'adempimento  di  un  dovere  o  nell'esercizio  di  una
facolta'  legittima ", ha imposto l'inserimento nel comma 1 dell'art.
643 di un identico inciso.
   Per  il  resto,  si  e'  seguita  la stessa metodologia adottata a
proposito dell'art. 614 del Progetto del 1978,  creando,  pero',  nel
nuovo testo, un comma 2 dedicato al giudizio abbreviato. Peraltro, in
attuazione della direttiva 53 ultima parte, la  sentenza  pronunciata
dopo tale forma di giudizio fara' stato solo se la parte civile abbia
prestato consenso alla abbreviazione del rito: con il  che  resta,  a
fortiori,  anche  escluso  che  la  relativa decisione possa comunque
produrre  effetti  nei  confronti  del  danneggiato  da   reato   non
costituito parte civile.
   L'articolo   644,   concernente   l'efficacia   del  giudicato  di
assoluzione  nel  giudizio  disciplinare,  corrisponde  al  comma   2
dell'art.  615  del  Progetto  del 1978: il testo e' stato scorporato
dalla disposizione " madre " (l'attuale art. 643)  sia  per  evidenti
motivi  di  coerenza  sistematica  sia  per  assegnare alla norma una
autonomia precettiva corrispondente alla  autonomia  concettuale  che
deve caratterizzarla.
   Quanto  al lessico adottato e ai conseguenti contenuti precettivi,
anzitutto   l'espressione   "   giudizio   amministrativo   per    la
responsabililta'  disciplinare  "  e' parsa inadeguata - considerando
che  esistono  anche  procedure  disciplinari   aventi   natura   non
propriamente  amministrativa  -  a  descrivere  il  fenomeno.  Ma  la
consapevolezza che la  soppressione  nel  comma  1  dell'aggettivo  "
amministrativo  "  avrebbe  dilatato  in modo esorbitante l'ambito di
operativita' della norma, finendo per  ricomprendervi  ogni  giudizio
per  responsabilita' disciplinare, pubblico o privato che sia - cosi'
violando  palesemente  la  direttiva  24  che,  col  riferirsi  al  "
procedimento   amministrativo  per  responsabilita'  disciplinare  ",
intende delineare (conformemente alla normativa, generale e speciale,
vigente  nella  materia)  un assetto comprensivo esclusivamente delle
procedure  disciplinari  di  natura  pubblicistica  -  ha  indotto  a
prescegliere la formula " giudizi disciplinari davanti alle pubbliche
autorita' " adottata dall'art. 3 comma  3  del  codice  vigente:  una
formula che, oltre ad essere piu' comprensiva di quella dell'art. 615
comma 2  del  Progetto  del  1978,  non  ha  dato  luogo  a  problemi
nell'attuale regime.
   Per  quel  che attiene, poi, agli effetti soggettivi del giudicato
di assoluzione nel giudizio disciplinare,  poiche'  la  direttiva  24
(che,  sostanzialmente,  riproduce la direttiva 22 del 1974) manca di
ogni riferimento alla  partecipazione  della  pubblica  autorita'  al
giudizio  penale,  si  e'  optato  per  la  soluzione che consente il
prodursi dell'effetto vincolante della  pronuncia  assolutoria  anche
nei  confronti  dell'amministrazione  che non abbia partecipato o non
sia stata posta in condizione  di  partecipare  al  processo  penale,
perche'  non  soltanto non danneggiata ma nemmeno offesa dal reato o,
comunque, non posta a conoscenza di tale processo. E' stato, inoltre,
segnalato,   che,   pur   non  essendo  nel  Progetto  contenuta  una
disposizione del tipo di quella dell'art. 3 comma 3  del  codice  del
1930, alla stregua della normativa speciale attualmente vigente (art.
117 del testo unico degli impiegati civili dello Stato,  in  base  al
quale,  qualora  per  il  fatto  addebitato  all'impiegato  sia stata
iniziata azione penale, il procedimento disciplinare non puo'  essere
promosso  fino  al termine di quello penale e, se gia' iniziato, deve
essere  sospeso)  il  procedimento   disciplinare   vedra'   comunque
arrestare il suo corso.
   La Commissione aveva, in un primo tempo, stabilito di estendere il
principio dell'efficacia  vincolante  del  giudicato  di  assoluzione
anche  riguardo  alle  sentenze  pronunciate  a  seguito  di giudizio
abbreviato, cosi' da incentivare il ricorso a tale  procedura  e  sul
presupposto  che  una  scelta  del  genere non comportasse violazione
della  direttiva  24,  dato  che  questa  fa  riferimento,   sic   et
simpliciter,  alla  "  sentenza  di assoluzione ". Ma la decisione di
introdurre un comma 2, estensivo della efficacia  di  giudicato  alle
sentenze  di  assoluzione  perche'  il  fatto  non sussiste o perche'
l'imputato non l'ha  commesso  pronunciate  a  seguito  del  giudizio
abbreviato,  e' stata successivamente rimeditata, sia perche' apparsa
in contrasto con la legge-delega, sia perche' risultata non  conforme
ai   principi   che   regolano,   nel  nuovo  processo,  l'efficacia
extrapenale del giudicato penale.
   Sotto  il  profilo  del  contrasto  con  la legge-delega, e' stato
rilevato che la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato
e'  pur  sempre  una  decisione  emessa nell'udienza preliminare, con
riguardo alla quale opera  la  prescrizione  della  direttiva  25  (a
fortiori    riferibile    al    procedimento    per   responsabilita'
disciplinare): la considerazione che il rito  abbreviato  rappresenta
una forma di " giudizio " e che la decisione pronunciata a seguito di
tale rito sia in grado di costituire cosa giudicata non  vale  a  far
ritenere inoperante rispetto ad essa la direttiva 25 e la conseguente
inefficacia  extrapenale  di  ogni  sentenza  che   non   sia   stata
pronunciata  a  seguito di dibattimento. Del resto, dall'ultima parte
della direttiva 53,  che,  derogando  alla  direttiva  25,  detta  la
disciplina  degli  effetti  non  penali della sentenza pronunciata in
conseguenza dell'abbreviazione del rito, emerge come tali  effetti  -
per giunta condizionati - sono di stretta interpretazione.
   Sotto  il profilo della incoerenza con il sistema dei rapporti fra
giudizi (in una materia in cui, almeno di norma, la relativa tematica
sta  ad indicare una - peraltro eccezionale - incidenza del giudicato
penale in un  procedimento  amministrativo,  anche  se  designato  da
caratteristiche  del  tutto peculiari) non e' sembrata irrilevante la
considerazione che la sentenza di assoluzione pronunciata  a  seguito
di  giudizio  abbreviato  proviene  da  un procedimento fondato su un
summatim cognoscere (la cognizione e' certamente molto piu' sommaria,
e  non  soltanto  quanto  all'acquisizione della prova, rispetto alla
cognizione dibattimentale), cosicche', se ad essa si  attribuisse  la
stessa   efficacia  riconosciuta  alla  sentenza  dibattimentale,  ne
deriverebbero  conseguenze  paralizzanti   l'esercizio   dei   poteri
dell'autorita'  disciplinare  anche  senza che quest'ultima sia stata
posta in grado, in ipotesi, di partecipare al giudizio penale.
   Con l'articolo 645 e' stata data attuazione alla prima parte della
direttiva 24 della  legge-  delega  che  ha  imposto  al  legislatore
delegato  di disciplinare gli " effetti del giudicato penale in altri
giudizi civili o amministrativi ". La prescrizione  ha  lo  scopo  di
colmare  quella  che  e'  stata  ritenuta una lacuna della delega del
1974, provocata dalla assenza di una norma " di chiusura " informata,
quanto  alla  sua  tipologia, al precetto contenuto nell'art.  28 del
codice vigente - in grado di disciplinare gli effetti  del  giudicato
penale  di  condanna  o  di  proscioglimento  nei  giudizi  civili  o
amministrativi  diversi  dal  giudizio  per  le  restituzioni  e   il
risarcimento del danno.
   Ad una prima lettura, parrebbe che la direttiva abbia conferito al
legislatore delegato una  sorta  di  delega  "  in  bianco  ":  fermo
restando   che  occorre  disciplinare  gli  ulteriori  effetti  della
sentenza penale, il legislatore delegato  potrebbe  considerarsi  del
tutto  libero nello stabilire anche " se " detti effetti debbano o no
prodursi. Nel corso del dibattito in Commissione tale tesi  e'  stata
avanzata  da  chi  ha  proposto la previsione di un assetto informato
alla assoluta esclusione dell' efficacia  vincolante  della  sentenza
penale  oltre  l'area  del  giudizio  civile per le restituzioni e il
risarcimento  del  danno.  Il  fatto,  pero',  che  l'efficacia   del
giudicato  penale negli " altri " giudizi non rappresenti un fenomeno
da regolamentare necessariamente (in assenza di ogni previsione della
legge-delega,   il   Progetto   del  1978  si  limitava,  infatti,  a
contemplare  gli  effetti  della  decisione  penale  nel  "  giudizio
amministrativo  per  responsabilita'  disciplinare  "), ha indotto da
ultimo a ritenere che la direttiva 24 abbia reso  necessaria  per  il
legislatore  delegato la formulazione di una norma in base alla quale
gli " altri " giudizi civili o amministrativi non restino  del  tutto
insensibili   alle  statuizioni  della  sentenza  penale  passata  in
giudicato. La preoccupazione maggiore e' stata, piuttosto, quella  di
ridimensionare  la  misura della efficacia vincolante della decisione
del giudice penale quale risulta dall'art. 28 del codice vigente:  un
precetto,  per  alcuni  versi,  eccedente  dallo  stesso  schema  dei
rapporti fra giudizi delineato nel codice del 1930.
   La  perplessita'  che  ha quasi sempre caratterizzato le posizioni
della dottrina nei confronti dell'art. 28  e  l'incidenza  sulla  sua
dimensione  precettiva  della decisione costituzionale n. 55 del 1971
(la quale, limitando l'efficacia soggettiva di tale disposizione,  ne
ha  praticamente  snaturato  l'originario valore di norma attuativa -
oltre che dell'unita' della funzione giurisdizionale - del  principio
dell'efficacia  erga  ommes  del  giudicato penale) hanno imposto una
linea  di  estremo  rigore  nello  stabilire  l'ambito  oggettivo   e
soggettivo  dell'efficacia  del giudicato penale nei giudizi civili e
amministrativi diversi dal giudizio di danno; una linea,  del  resto,
assolutamente  percorribile  alla  stregua  della  prima  parte della
direttiva  24  che  ha,  sostanzialmente,  conferito  al  legislatore
delegato la massima liberta' nella disciplina di detti effetti.
   Avendo  come  dato di riferimento l'art. 28 del codice vigente, ed
in conformita' con quanto disposto per il giudizio di danno dall'art.
454  comma  5  del nuovo Progetto, si e', in primo luogo, negata ogni
forza vincolante al  decreto  di  condanna.  Al  riguardo,  e'  stato
osservato  come,  gia'  in  relazione al codice vigente, far derivare
l'effetto vincolante ex art. 28 da tale provvedimento costituisce  un
meccanismo  esorbitante  il  regime  dei  rapporti  fra  giudizi: non
soltanto perche' il fondamento della pretesa penale puo'  essere  del
tutto  diverso  da  quello  posto  a  base  della  pretesa  civile  o
amministrativa ma soprattutto perche' il procedimento per decreto  e'
tale  da  non  consentire  -  se  non in via del tutto eventuale - il
contraddittorio fra le parti  interessate.   D'altro  canto,  non  e'
parsa  esatta  la  considerazione  che  sarebbe  comunque  onere  del
condannato  provvedere  a  dolersi  contro  il   decreto   attraverso
l'opposizione:  infatti,  se  cio' puo' essere vero in relazione agli
effetti  previsti  dall'art.  642  (che,  pure,  alla  stregua  della
direttiva  22  -  la cui prescrizione e' stata espressamente ribadita
dall'art. 454 comma 5 del Progetto circoscrive il vincolo alla sola "
sentenza penale irrevocabile "), non lo e' in alcun modo in relazione
agli effetti indicati nella direttiva 24:  nell'un  caso,  attesa  la
sostanziale  identita'  delle  ragioni a fondamento delle pretese, e'
possibile  prevedere  gli  effetti  del  decreto  anche   sul   piano
extrapenale;  nell'altro  caso,  la  non  coincidenza delle ragioni a
fondamento  delle  pretese  comporterebbe,  invece,  da   parte   del
condannato,  la  previsione di ogni possibile effetto extrapenale del
provvedimento: una  previsione  la  cui  mancanza  ben  difficilmente
potrebbe  essere  addebitata  al  soggetto  "  svantaggiato  "  dalla
decisione penale. Senza contare che il decreto  non  contiene  alcuna
motivazione  in ordine ai fatti materiali accertati quali presupposto
per la decisione di condanna.
   Non  si  e'  ritenuto  opportuno  riprodurre  l'inciso di apertura
dell'art.  28,  risultando  chiaro  che  l'efficacia  vincolante  del
giudicato  penale  disciplinato  dall'art.  645 opera al di fuori sia
degli effetti del giudicato di condanna e di assoluzione nel giudizio
civile  o  amministrativo  per  le restituzioni e il risarcimento del
danno sia degli effetti del giudicato di assoluzione nel giudizio per
responsabilita'  disciplinare.  L'omissione dell'inciso - disposta al
fine di assegnare al  precetto  in  esame  la  piu'  piena  autonomia
rispetto  ai  tre  articoli  che  lo  precedono  -  consente anche di
prevenire  ogni  qualificazione   dell'art.   645   in   termini   di
complementarita'  rispetto  agli  artt. 642 e 643: una qualificazione
che  avrebbe   rischiato   di   perpetuare   la   discutibile   linea
interpretativa  seguita  dalla  giurisprudenza, costante nel ritenere
che il rapporto tra l'art. 28, da un lato, e gli artt. 25, 26  e  27,
dall'altro, debba intendersi non come di reciproca esclusione ma come
di reciproca  integrazione:  nel  senso  che  poiche'  questi  ultimi
precetti  non  sarebbero  in  grado di coprire tutta l'area del danno
risarcibile, la disciplina dettata  dall'art.  28  verrebbe  in  loro
soccorso,   trovando   applicazione   tanto   nei  giudizi  di  danno
conseguenti a sentenza di proscioglimento non preclusiva,  tanto  nei
giudizi  di danno conseguenti a condanna per gli aspetti non compresi
nell'art. 27, quanto nei giudizi diversi da quello di danno.
   Traducendosi  il vincolo derivante dall'art. 28 del codice vigente
in una  penetrante  limitazione  dei  poteri  del  giudice  civile  o
amministrativo,  nella  formulazione  dell'art.  645  si  e' ritenuto
necessario chiarire che l'efficacia vincolante del  giudicato  penale
ricorre  solo quando l'accertamento riguarda gli " stessi fatti " che
vengono in considerazione nel giudizio civile: cio' anche in vista di
coordinare  gli  effetti  del  giudicato  penale  sia con il disposto
dell'art. 2 del Progetto che esclude  ogni  efficacia  vincolante  in
altri  giudizi  degli  accertamenti  incidentali compiuti dal giudice
penale  sia  con  la  soppressione  del  regime  della  pregiudiziale
facoltativa quale disciplinata dall'art. 20 del codice vigente.
   Poiche',   stando  alla  corrente  interpretazione  dell'art.  28,
l'espressione " diritto " equivale a posizione giuridica  soggettiva,
e'  parso  opportuno puntualizzare (pure al fine di rendere esplicito
che anche la nuova norma si riferisce al solo giudizio amministrativo
di  legittimita'  e  non  si  estende  al  giudizio amministrativo di
merito) che, per l'operativita' del  giudicato  penale  nel  giudizio
civile   o  amministrativo  diverso  da  quello  di  danno,  si  deve
controvertere intorno a un diritto o ad un interesse legittimo.
   Allo  scopo  di  collegare  con  maggiore  incisivita' l'efficacia
oggettiva del giudicato penale al thema decidendi della pronuncia del
giudice   penale,   e'   stata  prospettata  l'opportunita'  di  fare
riferimento all'imputazione e di limitare  l'effetto  vincolante  del
detto   giudicato   ai   fatti   che   furono  oggetto  di  essa:  la
considerazione, pero', che, cosi' operando, si sarebbe  escluso  ogni
richiamo  sia  all'accertamento  dell'esistenza o dell'inesistenza di
circostanze attenuanti, sia ai criteri di commisurazione della  pena,
sia,  soprattutto,  all'accertamento  di  fatti  che costituiscono il
presupposto per l'applicabilita'  di  cause  di  giustificazione,  ha
indotto  a  seguire la stessa formulazione - " accertamento dei fatti
materiali che  furono  oggetto  del  giudizio  penale  "  -  adottata
dall'art.  28  del  codice  vigente.  Peraltro,  attenendo  l'effetto
vincolante  non  al  dispositivo   ma   alla   motivazione,   si   e'
conseguentemente  prescritto  che  i fatti materiali accertati devono
essere rilevanti ai  fini  della  formazione  del  dispositivo  della
sentenza penale.
   Sul  piano  soggettivo,  si  e'  rilevato  come,  dopo la sentenza
costituzionale n. 55 del 1971, il contenuto precettivo  dell'art.  28
si  sia  considerevolmente ridotto, operando l'accertamento dei fatti
materiali compiuto dal giudice penale soltanto  nei  confronti  delle
parti in causa e di coloro che, attraverso gli opportuni strumenti di
conoscenza o di conoscibilita' del processo penale, siano stati posti
in  condizione  di partecipare a tale processo. Peraltro, la liberta'
riservata al legislatore delegato dalla prima parte  della  direttiva
24 (che non contiene alcuna prescrizione circa l'ambito soggettivo di
efficacia del giudicato) e' parsa  significativa  dell'intento  della
legge-delega  di  circoscrivere gli effetti del giudicato penale alle
sole parti in causa: si tratta, invero, di effetti esorbitanti  dagli
schemi   dei  rapporti  tra  giudizi  quali  costruiti  dal  Progetto
preliminare; operanti, per di piu', in un  regime  che  non  implica,
come  un tempo, l'incondizionata efficacia extra moenia del giudicato
penale, essendo il  nuovo  processo  costruito  non  sulla  base  dei
principi  inquisitori  propri  del codice vigente ma come processo di
parti. L'incidenza degli effetti del  giudicato  penale  nei  giudizi
civili  o  amministrativi diversi da quello per le restituzioni ed il
risarcimento del danno  nei  confronti  delle  sole  parti  in  causa
(imputato,  parte civile, responsabile civile che si sia costituito o
sia  intervenuto  nel  processo  penale)  sembra  anche  superare  le
obiezioni   formulate   dalla  Commissione  consultiva  in  relazione
all'art. 615 del Progetto del 1978 (l'attuale art.  643),  dato  che,
con  riguardo  alla  parte  civile,  non  puo'  parlarsi di posizione
privilegiata, riguardando l'art. 645  non  soltanto  le  sentenze  di
condanna ma anche le sentenze di assoluzione.
   Pur  riferendosi  la  direttiva  24 al " giudicato penale ", si e'
ritenuto necessario circoscrivere gli effetti previsti dall'art.  645
a   quelli   derivanti   dalle  sentenze  pronunciate  a  seguito  di
dibattimento, escludendo  che  tali  effetti  possano  conseguire  da
decisioni  pronunciate  a  seguito  di  giudizio abbreviato. Cio' sia
perche' la sentenza emessa  dopo  l'abbreviazione  del  rito  e'  pur
sempre  una decisione pronunciata in esito ad una udienza preliminare
(con riguardo alla quale opera il  precetto  della  direttiva  25)  e
perche'  la  disciplina  degli  effetti  extrapenali  delle  sentenze
pronunciate a seguito di  giudizio  abbreviato  e'  regolata  in  via
esclusiva  dall'ultima  parte  della  direttiva  53, sia in quanto la
cognizione " imperfetta " propria del giudizio  abbreviato  e'  parsa
incompatibile  con  quella  minuziosa acquisizione dei dati probatori
che sola puo' determinare la forza vincolante nel giudizio  civile  o
amministrativo   dell'accertamento   dei   fatti  materiali  posto  a
fondamento della decisione penale; una forza vincolante, quindi,  che
puo' derivare esclusivamente dal dibattimento.
   Si  e' ritenuto, ovviamente, di lasciar fermo il principio sancito
dall'art. 28 del codice vigente - in  base  al  quale  l'accertamento
vincolante  dei fatti materiali e' subordinato alla condizione che la
legge  civile  non  ponga  limitazioni  alla  prova  della  posizione
soggettiva  controversa:  un principio ancor piu' valido per il nuovo
processo, fondato, come esso e', sulla regola della  separazione  fra
le giurisdizioni.
                              TITOLO II
             ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI
   L'articolo  646  stabilisce  la  competenza  generale del pubblico
ministero quale promotore dell'esecuzione secondo le scelte descritte
nella  parte introduttiva della Relazione al presente libro. Il primo
comma  individua  il  pubblico  ministero  competente  attraverso  il
riferimento all'organo giurisdizionale che ha emesso il provvedimento
della cui esecuzione si tratta.
   A  tale  regola  generale  si  fa  eccezione in due ipotesi. Della
prima, concernente i provvedimenti del tribunale di sorveglianza  che
incidono  sullo stato di detenzione, si dira' in occasione dell'esame
dell'art. 650, che espressamente la prevede; la seconda ha ad oggetto
i  provvedimenti  della  corte  di cassazione. Si sono infatti andati
sempre piu' estendendo i casi in  cui  alla  corte  e'  demandata  la
competenza  a decidere nel merito, in deroga al principio del rinvio:
tale competenza pone inevitabilmente problemi di  esecuzione.  L'art.
620  gia'  prevede  che  determinati  provvedimenti  liberatori,  per
l'urgenza  che  e'  connessa  alla  loro  incisivita'  sullo   status
dell'imputato, siano eseguiti dal pubblico ministero presso la stessa
corte: e' sembrato in questa sede opportuno esplicitare che eventuali
altri  provvedimenti di minore importanza, conseguenti alla decisione
sul merito, vadano invece eseguiti dal pubblico ministero  presso  il
giudice  che  ha emesso la sentenza impugnata, e cio' per evitare che
alle strutture della cassazione vengano  accollati,  al  di  la'  del
necessario,  compiti  che sono estranei alla sua naturale funzione di
giudice   di   diritto   e   che   creerebbero   rilevanti   problemi
organizzativi.
   Il  comma  2  dell'art.  646  conferisce  al pubblico ministero il
potere di iniziativa per l'emanazione dei provvedimenti da parte  del
giudice  dell'esecuzione,  senza  che  cio' pregiudichi ovviamente il
corrispondente diritto dell'interessato e  del  difensore.  E'  stato
anche  prescritto  l'intervento  del  pubblico  ministero  in tutti i
procedimenti di esecuzione, intervento la cui obbligatorieta', pur in
assenza  di  una  specifica sanzione processuale, si desume anche dal
comma 4 dell'art. 657. Sotto tale profilo deve  osservarsi  che,  una
volta  adottato  il principio della piena giurisdizionalizzazione del
procedimento esecutivo, appare del  tutto  illogico  pensare  ad  uno
svolgimento  del  procedimento  senza  l'instaurazione  di  un vero e
proprio contraddittorio, il che implica  la  presenza  contestuale  e
necessaria  del  difensore  (il  condannato  non  puo'  certo  essere
costretto   a   presentarsi   fisicamente    dinanzi    al    giudice
dell'esecuzione)  e  del  rappresentante  dell'ufficio  del  pubblico
ministero, in modo tale che il giudice dell'esecuzione possa adottare
le  sue  decisioni  dopo  aver  ascoltato  nella  naturale dialettica
dell'orale dibattito le ragioni delle parti.
   Le  funzioni  del  pubblico  ministero  non  si  esauriscono nella
promozione dell'esecuzione, nella proposizione delle sue richieste  e
nella  partecipazione all'udienza davanti all'organo giurisdizionale,
perche' la sua  attivita'  deve  anche  comprendere  la  compilazione
dell'eventuale  provvedimento  di  cumulo,  la  riduzione dei condoni
applicati da vari giudici all'insaputa l'uno dell'altro, la revoca  o
l'eliminazione  di  benefici  che  possono  derivare dall'esame della
posizione processuale di ciascun condannato, nonche'  la  tenuta  dei
fascicoli  dell'esecuzione.  Tali  molteplici funzioni sono descritte
solo in parte nelle disposizioni che  seguono.  Le  altre  formeranno
oggetto  di disposizioni di attuazione e regolamentari, conformemente
alla disciplina attuale.
   Il   comma   3   riprende   la  previsione  vigente  che  consente
l'espletamento di rogatorie anche in tema di esecuzione,  limitandone
per  altro  l'ambito  al  compimento  di  singoli atti, non essendovi
ragione  di  derogare   alla   competenza   naturale   per   l'intero
procedimento.  Il  comma 4 richiama i casi nei quali l'esecuzione non
puo'  aver  luogo  per  difetto  della  prescritta  autorizzazione  a
procedere.
   L'articolo   647   disciplina   la  emanazione  dell'"  ordine  di
esecuzione " della pena detentiva. Si e' preferita tale piu' generica
denominazione,  in  luogo  di  quella  tradizionale  di  "  ordine di
carcerazione ", in quanto idonea a ricomprendere anche le ipotesi  in
cui  la  esecuzione  non  comporti restrizione in carcere (ad esempio
detenzione domiciliare).
   All'interessato   deve  essere  consegnata  copia  dell'ordine  di
esecuzione che, come  prescritto  nel  comma  4,  deve  contenere  le
generalita'  della  persona  nei  cui confronti il provvedimento deve
essere   eseguito   e   quanto   valga   a   identificarla,   nonche'
l'imputazione,  il  dispositivo  del  provvedimento e le disposizioni
necessarie  alla  sua  esecuzione.  Tali  requisiti   devono   essere
considerati   essenziali   per   la  validita'  dell'atto  e  per  la
instaurazione di un valido rapporto processuale  esecutivo.  Siffatte
indicazioni   consentiranno   altresi'   di   superare   i   problemi
interpretativi  attualmente   esistenti   circa   il   carattere   di
equipollenza   dell'ordine  di  carcerazione  rispetto  alla  mancata
notifica dell'estratto della sentenza al contumace, quale atto  dalla
cui  consegna decorre il termine per l'impugnazione del provvedimento
e quindi per l'instaurazione del procedimento di appello  sulla  base
di un'impugnazione " apparentemente " tardiva.
   I  commi  2  e  3  riproducono  le analoghe disposizioni dei commi
secondo e terzo del vigente art. 581; peraltro, la  emanazione  della
ingiunzione  a  costituirsi  volontariamente, in luogo dell'ordine di
carcerazione,  e'  adesso  obbligatoria   quando   ne   ricorrano   i
presupposti.