(parte 9)
   L'articolo  648  disciplina  la vexata quaestio della fungibilita'
della custodia cautelare e della privazione della liberta'  personale
subita  senza  titolo. Non si pongono ovviamente particolari problemi
per il computo della custodia  cautelare  subita  in  relazione  allo
stesso  reato per il quale e' stata inflitta la condanna: nel comma 1
si e' peraltro precisato che anche la custodia subita per altro reato
deve essere immediatamente (" anche se e' ancora in corso ") detratta
dalla pena  da  scontare.  Si  afferma  cosi'  il  principio  che  la
detenzione   non   convalidata   da  un  titolo  definitivo  (la  cui
giustificazione e' pertanto ancora sub iudice) va  comunque  imputata
alla  pena  definitiva.  Lo  stesso  principio  vale per le misure di
sicurezza detentive applicate provvisoriamente, stante la sostanziale
fungibilita', sotto il profilo dell'afflittivita', fra le stesse e le
pene. Non e' invece in nessun caso possibile detrarre dalle misure di
sicurezza  la  detenzione,  e  cio' sia per la indeterminatezza della
durata  delle  prime  (anche  il  termine  minimo,  a  seguito  degli
interventi   della   Corte  costituzionale,  ha  oggi  una  rilevanza
ridotta), sia soprattutto  perche'  l'applicazione  della  misura  e'
ormai   sempre  subordinata  all'accertamento  di  una  pericolosita'
sociale in atto che deve essere  neutralizzata  indipendentemente  da
ogni considerazione sanzionatoria.
   Il  comma  2  stabilisce che quando il condannato abbia subito una
privazione della liberta' personale (non interessa qui se trattasi di
custodia  cautelare  o  di carcerazione definitiva) il cui titolo sia
successivamente venuto meno per amnistia, revisione o abolizione  del
reato,  il  relativo periodo deve essere recuperato e attribuito come
avvenuta espiazione alla sentenza di condanna  per  la  quale  e'  in
corso l'esecuzione.
   Come  si  vede, si e' adottato un criterio di fungibilita' il piu'
ampio possibile, volto a ricomprendere tutti i periodi di  privazione
della   liberta'   personale   comunque   sofferti   senza  effettiva
giustificazione. Siffatto  criterio  appare  senz'altro  giustificato
dalla  prevalenza  del principio del favor libertatis cui deve essere
improntata tutta la legislazione penale.
    Il  recupero opera automaticamente non solo fra pene della stessa
specie, ma anche fra pene di specie diversa, e cioe'  fra  reclusione
ed  arresto  e,  nei  limiti  sopra  indicati,  fra  pene e misure di
sicurezza detentive.
   Delicati  problemi  si  sono  posti  per  quanto  concerne la pena
pecuniaria e le sanzioni sostitutive. In linea  di  principio,  posto
che  la  legge  prevede  per  le  une  e  per le altre dei criteri di
ragguaglio, non vi e' motivo di escludere, anche in ordine  ad  esse,
la  detraibilita'  della  custodia cautelare o della detenzione senza
titolo. Ove ad esempio, la persona sottoposta  a  custodia  cautelare
sia  stata  poi  condannata soltanto ad una sanzione sostitutiva o ad
una  pena  detentiva  di  durata  inferiore  alla  custodia  sofferta
congiunta  a  una  pena  pecuniaria, non sembra coerente impedirle di
imputare la carcerazione inutilmente sofferta  alla  pena  ancora  da
eseguire.
   Peraltro,  puo'  accadere che il condannato, avendo altre pendenze
giudiziarie, non abbia interesse alla  detrazione:  se  questa  fosse
automatica,  in  caso  di  sopravvenienza  di  una  condanna  a  pena
detentiva si risolverebbe in un evidente  svantaggio,  in  quanto  la
carcerazione  finirebbe  con  l'essere  detratta,  anziche'  da altra
carcerazione, da una sanzione di minore afflittivita'. Si e' pertanto
ritenuto che, in ipotesi siffatte (che non dovrebbero peraltro essere
frequenti), sia lasciata all'interessato la facolta' di scegliere  se
usufruire o meno della detrazione. In tal senso dispone il comma 3 la
cui ratio, tendente  a  valorizzare  il  diritto  del  condannato  di
autodeterminarsi  in ordine alla valutazione dei propri interessi, e'
affine, come si vedra', a quella che sorregge la disciplina dell'art.
660.
   Dal punto di vista temporale il comma 3 ha fatto proprio il limite
indicato nel vigente art. 271 ultimo comma. In sostanza la detenzione
sofferta  a  vuoto  deve  seguire  e non precedere la commissione del
reato,  perche'  in  caso  contrario  si   verificherebbe   l'assurda
situazione  di  un periodo di carcerazione preventiva che costituisce
una sorta di futura immunita' da  carcerazione  per  l'individuo.  In
altre parole il recupero della detenzione ingiustamente sofferta deve
funzionare  come   correttivo   alle   disfunzioni   della   macchina
giudiziaria  e compensazione dell'ingiusta carcerazione, ma non certo
come incentivo alla commissione successiva di azioni criminose.
   L'articolo  649  stabilisce,  per il promovimento della esecuzione
delle misure di sicurezza - diverse  dalla  confisca  -  ordinate  in
giudizio,  la  competenza del pubblico ministero presso il magistrato
di sorveglianza cui e' demandata l'applicazione delle misure  stesse.
   Il  comma 1 dell'articolo 650, in deroga al principio generale per
cui l'esecuzione di un provvedimento e' curata dal pubblico ministero
presso  il  giudice  che lo ha emesso (v. art. 656), stabilisce che i
provvedimenti  del  tribunale  di  sorveglianza  che  comportino   la
carcerazione  o  la  scarcerazione  del condannato siano eseguiti dal
pubblico ministero presso il giudice della sentenza di  condanna.  E'
apparso  infatti  preferibile  concentrare  tutti i provvedimenti che
incidono  sullo  stato  di  detenzione  presso   un   unico   organo,
tendenzialmente  stabile,  qual  e' quello indicato: e cio' anche per
assicurare che da un unico fascicolo, facilmente  individuabile,  sia
in  ogni momento desumibile la posizione giuridica del condannato. Al
riguardo  va  ricordato  che,  per  i  suoi  particolari  criteri  di
determinazione,  la  competenza della magistratura di sorveglianza e'
soggetta a frequenti mutamenti  territoriali  e  puo'  dar  luogo  al
sovrapporsi  di  diversi  provvedimenti sullo stesso oggetto. Per non
pregiudicare peraltro le esigenze di  celerita'  che  sottostanno  ad
alcuni  provvedimenti  e  che  potrebbero  restare  compromesse nelle
ipotesi in cui la magistratura di sorveglianza competente si trovi in
sede  diversa e lontana dal giudice della condanna, si e' prevista la
possibilita' di una esecuzione provvisoria nei  casi  di  urgenza  da
parte  del  pubblico  ministero  presso  la  stessa  magistratura  di
sorveglianza. Non e' stato stabilito  un  termine  di  validita'  del
provvedimento   provvisorio   e   spettera'   all'organo  burocratico
incaricato dell'esecuzione (cancelleria dell'ufficio di  sorveglianza
o  segreteria  dell'ufficio  del pubblico ministero presso il giudice
dell'esecuzione) provvedere nel piu' breve margine di tempo.
   Per   i   provvedimenti   che   non   comportano   carcerazione  o
scarcerazione vale il principio generale di  cui  all'art.  646;  con
apposita     disposizione    regolamentare    occorrera'    prevedere
l'inserimento anche di tali provvedimenti, a  fini  conoscitivi,  nel
fascicolo dell'esecuzione.
   Resta  ferma poi, ai sensi del comma 2, la competenza del pubblico
ministero presso il magistrato o il  tribunale  di  sorveglianza  per
l'emanazione dei provvedimenti in materia di misure di sicurezza.
   L'articolo  651 disciplina l'esecuzione delle pene pecuniarie che,
come e' noto, e' stata oggetto  di  interventi  legislativi  e  della
Corte  costituzionale  (l.  24  novembre  1981,  n. 689 e sentenze n.
131/79 e n. 108/87). Si e' ritenuto  di  prevedere  espressamente  la
rateizzazione del debito anche in sede di esecuzione attribuendone la
competenza al magistrato  di  sorveglianza,  cui  spetta  inoltre  il
compito  di  procedere alla conversione della pena pecuniaria in caso
di insolvibilita' del condannato, compito  quest'ultimo  che  secondo
l'ordinamento  vigente  spetta  invece  al  pubblico  ministero  o al
pretore competente per  l'esecuzione.  Al  riguardo  si  osserva  che
l'attuale disciplina prevede che dopo il provvedimento di conversione
lo stesso pubblico ministero o il pretore richieda al  magistrato  di
sorveglianza   altro   provvedimento  con  il  quale  debbono  essere
stabilite  le  modalita'  di  esecuzione   della   pena   convertita,
scegliendo  fra  liberta'  controllata e lavoro sostitutivo. E' parso
quindi opportuno unificare  i  due  provvedimenti  ed  attribuire  la
relativa  competenza  al magistrato di sorveglianza, semplificando da
un  lato  l'attivita'  burocratica   ed   esaltando   dall'altro   la
giurisdizionalizzazione dell'intero procedimento.
   Si  e'  affrontato anche il problema dell'eventuale insolvenza del
debitore, da distinguere dall'insolvibilita',  e  della  possibilita'
che  lo  stesso,  pur  disponendo  di beni, non sia giuridicamente in
grado di pagare,  ad  esempio  in  conseguenza  di  dichiarazione  di
fallimento  (problematica  questa  di  cui si e' interessata la Corte
costituzionale nella sentenza n. 108/87). Si  e'  ritenuto  di  poter
risolvere  il  quesito  attribuendo  al magistrato di sorveglianza il
potere  di  differire  l'esecuzione  fino  a  quando  lo   stato   di
insolvenza,  che per definizione e' temporanea, non venga a cessare e
il debitore, a seconda dei casi,  possa  pagare  (nel  qual  caso  si
procedera'   alla   esazione  della  somma  dovuta)  o  sia  divenuto
insolvibile (nel  qual  caso  si  procedera'  alla  conversione).  Ad
evitare  che  la  esecuzione  resti sospesa a tempo indefinito, si e'
prevista una verifica  periodica  (ogni  sei  mesi)  dello  stato  di
insolvenza.
   Il   ricorso   avverso   l'ordinanza  di  conversione  ha  effetto
sospensivo (soluzione  questa  vincolata  dalla  citata  sentenza  n.
108/87).
   Gli articoli 652 e 653 regolano l'esecuzione rispettivamente delle
sanzioni sostituive e delle pene accessorie. Trattasi sostanzialmente
di  norme  di  rinvio: per l'esecuzione delle sanzioni sostitutive la
competenza e' attribuita  dalla  l.  24  novembre  1981,  n.  689  al
magistrato   di   sorveglianza   e   il   relativo   procedimento  e'
minuziosamente  regolato  da  quella  legge  che  non  si  e'  inteso
modificare,  trattandosi  di  disposizioni  che  incidono  anche  sul
diritto penale  sostanziale.  Quanto  alle  pene  accessorie,  queste
devono  essere  eseguite  trasmettendo  il dispositivo della sentenza
agli  organi  competenti.  Naturalmente  tali  disposizioni  dovranno
essere   completate   da   apposite   disposizioni  di  attuazione  e
regolamentari che indichino agli uffici di cancelleria  il  contenuto
preciso degli atti da compilare.
   L'articolo  654  regola  l'esecuzione  delle  pene  concorrenti  e
l'individuazione  dell'ufficio  del  pubblico  ministero  competente.
Fondamentale  a  tale  scopo  e'  l'obbligo del pubblico ministero di
compilare il provvedimento di cumulo in ogni caso e  non  soltanto  "
quando  occorra  "  cosi'  come previsto dal codice vigente. E' parso
infatti necessario superare incertezze interpretative circa l'ufficio
competente  per  l'esecuzione quando una persona sia stata condannata
con piu' sentenze da giudici diversi e non sia  stato  effettuato  il
cumulo:  rendendo  obbligatorio  il  provvedimento  di  cumulo,  tali
incertezze sono automaticamente superate. La prescritta notifica  del
provvedimento  costituisce  poi  una  garanzia per il condannato, che
viene in tal modo posto in grado di controllare l'operazione e di far
valere   eventualmente   le   sue   ragioni   investendo  il  giudice
dell'esecuzione (comma 3). Il pubblico ministero competente e' quello
che  siede  presso  il  giudice  che  ha emanato la sentenza divenuta
irrevocabile per ultima:  se  tale  sentenza  e'  stata  emanata  dal
pretore  e  vi  sono  altre  sentenze emanate da tribunali o corti di
assise, la competenza spetta al pubblico  ministero  presso  l'organo
collegiale,  la  cui  sentenza  e'  divenuta irrevocabile per ultima.
Sarebbe infatti illogico e inopportuno attribuire la  competenza  per
l'esecuzione  di sentenze di condanna anche gravi ad un ufficio quale
quello di pretura che per avventura abbia emesso l'ultima sentenza di
condanna, eventualmente per sola pena pecuniaria.
   L'articolo   655   regola   infine   l'esecuzione  delle  sanzioni
pecuniarie  non  penali.  Con  l'occasione  si   e'   precisato   che
l'esecuzione  delle  sanzioni  amministrative,  quali  ad  esempio le
contravvenzioni   stradali   connesse   a   reati   colposi    contro
l'incolumita'  personale,  che  ai sensi dell'art. 24 della l. 689/81
vengono accertate dal giudice  penale,  e'  rimessa  alle  competenti
autorita'  amministrative,  risolvendo  cosi' nel modo che e' apparso
piu' razionale ed efficente le incertezze  che  si  sono  determinate
nella prassi applicativa.
                              TITOLO III
              ATTRIBUZIONI DEGLI ORGANI GIURISDIZIONALI
                                CAPO I
                       GIUDICE DELL'ESECUZIONE
   L'articolo  656  detta  i  criteri  di  individuazione del giudice
competente   in   ordine   alla    esecuzione    dei    provvedimenti
giurisdizionali,  senza  discostarsi sostanzialmente dalla disciplina
vigente (artt. 628 e 629 c.p.p.).
   In  caso  di  appello,  peraltro,  si  e'  previsto che, quando la
sentenza impugnata e' stata riformata, la competenza spetti sempre al
giudice  di  secondo  grado,  salvo  che  la  riforma abbia investito
soltanto i capi relativi alle misure di sicurezza o alle disposizioni
civili.
   Rispetto alla corrispondente previsione dell'art. 626 del Progetto
del  1978,  nel  comma  1,  il  riferimento  e'  stato  fatto,   piu'
genericamente,  al  " provvedimento " anziche' alla " sentenza ", sul
presupposto che anche per alcune ordinanze  si  pongono  problemi  di
esecuzione  e,  conseguentemente, di individuazione della competenza.
In deroga alla regola generale che, nel caso di  piu'  provvedimenti,
attribuisce  rilevanza  a quello divenuto irrevocabile per ultimo, la
competenza  del  pretore  cede  nei  confronti  degli  altri  giudici
ordinari e quella del giudice speciale cede nei confronti del giudice
ordinario.
    Per quanto concerne l'esecuzione dei provvedimenti delle corti di
assise di primo e secondo grado, si e' ritenuto di confermare, per il
periodo di chiusura della sessione, la disciplina del codice vigente:
non sono apparsi infatti convincenti i rilievi critici  a  suo  tempo
formulati  dalla Commissione consultiva in relazione all'art. 626 del
precedente  Progetto,  posto  che  da  un  lato,   essendo   l'organo
giudicante istituito per legge sulla base di criteri generali fissati
in anticipo ed ancorati a  situazioni  di  fatto  oggettive,  non  si
pongono  problemi  di  violazione  del  principio  costituzionale del
giudice  naturale  e,  dall'altro  lato,  che  evidenti  ragioni   di
funzionalita'  e di economia sconsigliano di conferire, come proposto
della suddetta Commissione, carattere di  stabilita'  alle  corti  al
solo scopo di far loro giudicare in tema di esecuzione.
   La  competenza per l'esecuzione delle sentenze penali straniere e'
gia' regolata nella parte del codice relativa al loro riconoscimento.
   L'articolo   657   disciplina   la   procedura   che   il  giudice
dell'esecuzione deve osservare nello  svolgimento  di  tutta  la  sua
attivita' (eccezioni, peraltro, sono previste negli artt. 658 e 663).
In considerazione della peculiarita' della materia, alla  luce  anche
della  vigente normativa in tema di procedimento di sorveglianza (cui
la disciplina in esame e' estesa, con le opportune modifiche,  grazie
al   richiamo   contenuto  nel  successivo  art.  669),  e'  sembrato
inadeguato un semplice rinvio alla procedura camerale  prevista,  per
la fase della cognizione, dall'art. 126.  Rispetto a quest'ultima, il
procedimento  di  esecuzione,  fermi   restando   la   garanzia   del
contraddittorio  e  i  meccanismi  di  costituzione  dello stesso, si
caratterizza inanzitutto perche' inizia a richiesta di parte,  e  non
puo'  pertanto  essere  promosso  di  ufficio.  La partecipazione del
pubblico ministero e del difensore non e' poi soltanto consentita, ma
necessaria:  la  natura  e  l'importanza  delle questioni trattate (a
quelle  tradizionali  si   aggiunge   adesso   l'applicazione   della
continuazione)  impongono  infatti un contraddittorio effettivo e non
meramente eventuale.
   Per  quanto  concerne  l'interessato,  e' sancito il suo diritto a
comparire personalmente (dal che si desume  implicitamente  che,  ove
risulti  l'esistenza  di  un  legittimo impedimento, l'udienza dovra'
essere rinviata). Peraltro, ove l'interessato sia detenuto  in  luogo
diverso  da  quello  in cui ha sede il giudice, e' previsto che venga
sentito, a richiesta, dal magistrato di sorveglianza  del  luogo;  e'
fatta  espressamente  salva  la facolta' del giudice dell'esecuzione,
ove  ritenga  necessaria  la  presenza  fisica  dell'interessato,  di
disporne  la traduzione. Nell'adozione della suddetta disciplina sono
state decisive le esigenze organizzative e di sicurezza che sarebbero
rimaste   gravemente   compromesse   ove   si  fosse  optato  per  un
indiscriminato diritto dei detenuti alla traduzione. Al  riguardo  e'
da  tener  presente  che spesso il giudice dell'esecuzione ha sede in
luogo distante da quello dove  e'  ristretto  il  condannato;  e  che
l'incidente puo' essere sollevato, anche senza la intermediazione del
difensore, in qualunque momento  e  per  le  piu'  svariate  ragioni.
Sussisteva  dunque  un  concreto  pericolo di iniziative strumentali,
anche  le  piu'  pretestuose,  da  parte  di  pericolosi   criminali,
finalizzate  unicamente  ad ottenere il trasferimento (per tentare la
fuga,  mantenere  contatti  con  altri   membri   dell'organizzazione
criminale,  riaffermare la propria presenza nell'ambiente di origine,
eventualmente per compiere vendette o eliminare avversari). Posto che
tali  iniziative  non  potrebbero essere paralizzate con lo strumento
della inammissibilita' che, per i limiti della sua configurazione, e'
facilmente  superabile,  si  e'  ritenuto  di  mantenere sul punto la
disciplina tradizionale, la cui legittimita' e' gia' stata  affermata
a suo tempo della Corte costituzionale (v. la sentenza n. 5/70) e che
assicura all'interessato la possibilita' di far sentire  comunque  le
sue  ragioni al giudice. Resta affidata a questi la valutazione della
opportunita' di una presenza fisica  nei  casi,  tutto  sommato  rari
attesa  la  prevalente  natura  delle  questioni  trattate, in cui la
stessa appaia utile ai fini della decisione.
   Il  comma  2  dell'articolo  in  esame  disciplina la procedura di
declaratoria dell'inammissibilita'. L'assenza di preclusioni di sorta
alla  proposizione  delle  richieste,  specie  per quanto concerne il
procedimento di sorveglianza, rende indispensabile,  per  ragioni  di
economia processuale, la previsione di un filtro. Ad evitare peraltro
giudizi  sommari  che  pregiudichino  i  diritti  del  condannato,  i
presupposti  della inammissibilita' sono rigorosamente delimitati, in
analogia a quanto previsto dall'art. 71-sexies della  l.  354/75,  al
difetto delle condizioni di legge per la proposizione della richiesta
e alla identita' con altra richiesta gia' rigettata.  A  quest'ultimo
riguardo  va  sottolineato che anche il decorso del tempo, ove assuma
rilevanza (ad esempio, ai fini della  valutazione  del  comportamento
del condannato per la concessione di misure alternative), consente la
riproposizione della richiesta, essendo questa inammissibile solo ove
sia,   oltre  che  identica  alla  precedente,  basata  sui  medesimi
elementi. Contro la dichiarazione di inammissibilita'  e'  esperibile
il  ricorso  per  cassazione,  che  appare nella specie offrire piena
garanzia,  essendo  i   presupposti   della   decisione   agevolmente
controllabili in punto di diritto.
   In   ordine  alla  eventuale  assunzione  di  prove,  e'  sembrato
sufficiente ribadire il principio che le stesse, se necessarie,  sono
assunte nel rispetto del contraddittorio.
   In  conformita' del disposto del terzo comma del vigente art. 631,
al ricorso avverso l'ordinanza conclusiva  del  procedimento  non  e'
stato  attribuito  effetto  sospensivo.  Il  Progetto  del 1978 aveva
prescelto la soluzione contraria, giustificandola con la " necessita'
di  non far venir meno un punto di riferimento sicuro quale il titolo
esecutivo fino a quando  le  contestazioni  che  lo  coinvolgono  non
abbiano ricevuto definitiva risoluzione ". Peraltro, posto che non si
puo'  pensare  di  sospendere  fino   all'esaurimento   dei   ricorsi
giurisdizionali  l'efficacia  del  titolo  (che  potrebbe in tal caso
essere  agevolmente   paralizzata   da   iniziative   pretestuose   e
reiterate),   l'effetto   sospensivo  del  ricorso  comporterebbe  il
protrarsi dell'esecutivita' del provvedimento del pubblico ministero,
con  grave  pregiudizio  della garanzia di giurisdizionalita' e della
posizione del  condannato.  Fra  l'altro,  il  ricorso  del  pubblico
ministero paralizzerebbe l'esecuzione dei provvedimenti favorevoli in
materia di inesistenza del titolo, concessione di amnistia e indulto,
rinvio  dell'esecuzione,  revoca  delle  misure  di sicurezza, cumulo
delle pene, computo della custodia cautelare e della detenzione senza
titolo,  riconoscimento della continuazione etc.; mentre, in presenza
di  un  incidente  di  esecuzione,  il  titolo,  proprio  perche'  e'
contestato, non puo' costituire un " punto di riferimento sicuro ". A
maggior tutela del condannato si e' comunque previsto che, come  gia'
nella disciplina vigente, il giudice che ha emesso l'ordinanza possa,
ove la situazione lo consigli, sospendere l'esecuzione.
   L'ultimo comma dell'articolo predispone infine una adeguata tutela
processuale dell'infermo di mente (problema rilevante soprattutto  in
materia   di  misure  di  sicurezza),  assicurandogli  in  ogni  caso
l'assistenza di un curatore.
   L'articolo   658   attribuisce  al  giudice  dell'esecuzione,  per
evidenti ragioni di coerenza sistematica e di garanzia, la competenza
in  tema di identificazione delle persone detenute che l'art. 583 del
codice vigente attribuisce al pubblico ministero.  Peraltro,  poiche'
le  formalita'  e  i  tempi  del  procedimento  camerale non appaiono
compatibili con l'esigenza di immediata liberazione del  detenuto  in
caso  di  errore  o  comunque  di  incertezza  sull'identita',  si e'
previsto che il giudice compia i necessari accertamenti e  decida  de
plano,  salva  l'instaurazione  della  procedura ordinaria in caso di
opposizione avverso il relativo provvedimento.
   L'articolo 659 riproduce il disposto dell'attuale art. 584.
   L'articolo  660,  nel  regolare  le  ipotesi  di  concorso di piu'
sentenze esecutive pronunciate per il medesimo fatto contro la stessa
persona, introduce invece importanti innovazioni.
   Innanzitutto,  recependo  l'interpretazione  estensiva del vigente
art. 579 c.p.p. seguita dalla dottrina  e  dalla  giurisprudenza,  la
disciplina  abbraccia  tutti i conflitti di giudicato, e non soltanto
quelli fra sentenze di condanna.
   La  competenza a giudicare e' stata poi attribuita, confermando la
scelta  operata  nel  Progetto  del  1978  (art.  629),  al   giudice
dell'esecuzione:   in  tal  modo  viene  semplificata  la  procedura,
assicurata la piena partecipazione di tutte le  parti  e  fornita  la
garanzia   di  una  successiva  istanza  di  giudizio  attraverso  la
possibilita'  del  ricorso  per  cassazione.  Il  procedimento  puo',
ovviamente, essere promosso anche dal condannato o dal suo difensore,
restando cosi' superati i problemi posti al  riguardo  dall'art.  579
c.p.p.
   Premesso  il principio generale della disciplina, per il quale fra
piu' condanne  deve  eseguirsi  quella  meno  grave,  particolarmente
significativa  e'  la  previsione  del  comma  2  che  attribuisce al
condannato, nella ipotesi che siano state applicate pene diverse,  la
facolta'   di   indicare   quella   per   lui   meno  afflittiva.  Le
considerazioni che, dopo  approfondito  dibattito,  hanno  giocato  a
favore   di  questa  soluzione  possono  cosi'  essere  sintetizzate.
Un'applicazione   rigorosamente   formale   dei   principi   generali
porterebbe  alla  esecuzione della sentenza divenuta irrevocabile per
prima,  essendo  stata  quella  o  quelle   successive   erroneamente
pronunciate  in  violazione  del  ne  bis  in  idem. Gia' nel sistema
vigente,  peraltro,  esigenze  di  equita'  hanno   determinato,   in
applicazione  del  principio  del  favor  rei,  la  prevalenza  della
condanna meno grave. La tendenza, verosimilmente non ancora esaurita,
alla  diversificazione  del  trattamento  sanzionatorio, e la estrema
varieta' delle  situazioni  concrete  rendono  di  fatto  impossibile
predeterminare  criteri  comparativi  di  graduazione  delle gravita'
delle pene  che  abbiano  validita'  generale:  cio'  soprattutto  in
relazione  alle  sanzioni  sostitutive.  Una  pena detentiva di breve
durata puo' in concreto essere per l'interessato meno  afflittiva  di
una  semidetenzione o anche di una liberta' controllata sensibilmente
piu' lunghe; cosi' come la liberta'  controllata  puo'  risultare  di
fatto  preferibile  ad una pesante pena pecuniaria. E' stato rilevato
che l'attribuzione al condannato della scelta della pena da  eseguire
mal  si  concilia  con il carattere rigorosamente pubblicistico della
potesta' punitiva: ma l'ossequio formale a tale  principio,  peraltro
gia'  intaccato  dall'istituto  del " patteggiamento ", non sembra in
questo caso giustificato. Infatti, posto che qualunque individuazione
normativa  della pena piu' favorevole per il condannato attraverso la
creazione di  presunzioni  legali,  per  i  motivi  sopra  enunciati,
contiene   inevitabilmente   elementi   di   arbitrarieta',   con  la
conseguenza che in taluni casi si verrebbero ad eseguire le  condanne
in  concreto meno favorevoli benche' divenute irrevocabili per ultime
(sacrificando in modo ingiustificato l'interesse del  condannato,  in
ipotesi  soddisfatto  dalla condanna passata prima in giudicato), non
si vede perche' lo scopo della normativa non debba essere  perseguito
nel modo piu' semplice e al tempo stesso piu' efficace, facendo cioe'
riferimento  alla  indicazione  dell'unico  giudice  qualificato  dei
propri   interessi.   Il   meccanismo  non  comporta  alcun  aggravio
processuale, giacche' la individuazione della condanna da eseguire va
in  ogni  caso  operata  con il procedimento camerale, che prevede la
instaurazione del contraddittorio: ove l'interessato non  si  avvalga
spontaneamente,  nel  termine prefissato, della facolta' concessagli,
troveranno applicazione i criteri generali enunciati al comma  3.  In
base ad essi, la pena pecuniaria prevale sulla detentiva; fra arresto
e reclusione, o fra ammenda e multa, prevale la pena di minor entita'
e, in caso di pari entita', rispettivamente l'arresto e l'ammenda; le
sanzioni sostitutive limitative della liberta'  personale  prevalgono
sulla pena detentiva, ma su di esse prevale la pena pecuniaria.
   E'  stato poi previsto che, nel comparare pene identiche, si tiene
conto delle eventuali pene accessorie e degli effetti penali e che le
disposizioni  suddette  si  applicano  anche  in  relazione  a  fatti
giudicati quali  episodi  di  un  reato  continuato,  procedendo,  se
necessario,  alla  determinazione  della  pena corrispondente (il che
dovrebbe  risolvere  le  attuali  incertezze   giurisprudenziali   in
materia).
   Nel   concorso  di  piu'  sentenze  di  proscioglimento,  e'  data
preferenza  alla  piu'  favorevole;  peraltro,   fra   una   sentenza
pronunciata  in  giudizio e altra di non luogo a procedere prevale la
prima.
   Infine,  nel  conflitto  fra  una  sentenza  di condanna ed una di
proscioglimento, e' data esecuzione a quest'ultima,  sempre  che  sia
stata pronunciata nel dibattimento o nel giudizio abbreviato e non si
tratti di sentenza " allo stato degli atti ", quali  quelle  previste
negli artt. 66 e 345.
   L'articolo  661,  al  comma  1, regola gli adempimenti del giudice
nella ipotesi che il provvedimento  da  eseguire  manchi  o  non  sia
esecutivo.
   Il  comma seguente affronta il dibattuto problema dei rapporti fra
incidente di esecuzione ed impugnazione del provvedimento di  cui  si
contesta  la esecutivita'. Una prima soluzione prospettata era quella
di attribuire prevalenza al mezzo  di  impugnazione,  nel  senso  che
questo  avrebbe assorbito l'incidente proposto, donde la trasmissione
degli atti al giudice del gravame quale organo competente a giudicare
della relativa ammissibilita' e quindi della questione pregiudiziale.
Tale soluzione, per quanto economica ed anche lineare sul  piano  dei
principi,  e'  stata  disattesa  perche' ritenuta in contrasto con la
diversita'   di   funzione   dell'incidente   e    dell'impugnazione,
indubbiamente sacrificata attraverso il predetto assorbimento, che si
traduce in sostanza in una espropriazione del potere di decisione  in
danno del giudice della esecuzione. Invero, l'incidente di esecuzione
e' strumento processuale volto  a  garantire  la  liberta'  personale
dell'interessato: questa funzione non puo', per ovvie considerazioni,
essere pretermessa o comunque pregiudicata dai tempi lunghi necessari
perche',  in  applicazione  del  principio  dell'assorbimento,  possa
decidere il giudice dell'impugnazione.
   D'altra  parte,  l'accertamento  sulla  esistenza  o validita' del
titolo e' preliminare ai fini  dell'esame  sulla  ammissibilita'  del
gravame.  Questa considerazione e' stata decisiva al fine di scartare
anche la soluzione recepita nel Progetto del 1978  che,  in  adesione
alla    corrente    applicazione    giurisdizionale,   prevedeva   la
contemporanea proposizione dei due rimedi e l'autonomo corso dei  due
procedimenti  senza  reciproci  condizionamenti.  Al  riguardo  si e'
ritenuto da un lato che non vi  e'  motivo  di  conferire  a  giudici
diversi  l'esame  concorrente  della  stessa questione (con possibile
contrasto di decisioni), e cio' anche per un  principio  di  economia
processuale;   dall'altro   lato   che,   essendo  nella  fattispecie
l'ammissibilita' dell'impugnazione,  come  gia'  rilevato,  una  mera
conseguenza  della non esecutivita' del titolo, e' coerente riservare
l'accertamento dell'esecutivita' stessa al giudice suo proprio. Si e'
pertanto  stabilito  che  l'impugnazione o l'opposizione tardiva puo'
essere proposta  solo  dopo  che  il  giudice  dell'esecuzione  abbia
accertato  l'esistenza  del  necessario  presupposto.  Dal  principio
generale per il quale l'impugnazione  non  ha,  nel  procedimento  di
esecuzione,  effetto  sospensivo, discende poi che non e' necessario,
per la proposizione dell'impugnazione, attendere la definitivita' del
provvedimento:    cio'    e'   sembrato   opportuno   per   garantire
all'interessato una definizione del procedimento per quanto possibile
sollecita.
   Nel  comma  3  dell'articolo  in  esame si e' data attuazione alla
direttiva  80  della  delega,  nella  parte  in  cui   prescrive   la
valutazione  nel  merito,  in  sede  di  esecuzione,  della procedura
seguita per la dichiarazione di irreperibilita', nonche' la eventuale
conseguente  restituzione  nel termine per impugnare. Al riguardo, si
e' affrontato  innanzitutto  il  problema  della  individuazione  dei
presupposti " di merito " che giustificano la restituzione. Posto che
eventuali  violazioni  di  legge  nella  procedura   delle   ricerche
dell'imputato  o  nella notifica del provvedimento impediscono che il
titolo  divenga  esecutivo  (con   conseguente   applicazione   della
disciplina   di   cui   al   comma   1),  l'ipotesi  da  prendere  in
considerazione  e'  quella  in  cui  alla   conoscenza   legale   del
provvedimento  non  corrisponda  la  conoscenza effettiva. Ad evitare
facili strumentalizzazioni e' inoltre necessario attribuire rilevanza
alla  mancata conoscenza solo se non sia dovuta a colpa o quantomeno,
per  determinate   forme   di   notifica,   non   sia   intenzionale,
conformemente  a quanto previsto dall'art. 175, alla cui disciplina -
anche per quanto concerne la sospensione della prescrizione -  l'art.
661 fa infatti rinvio.
   L'esistenza  di una analoga procedura di restituzione demandata al
giudice della cognizione puo' far apparire superflua la previsione in
esame;  la  stessa  peraltro,  oltre  ad essere obbligata per effetto
della richiamata  direttiva  80,  ha,  cosi'  come  strutturata,  una
propria  ragion  d'essere.  Infatti,  la restituzione in termini puo'
essere chiesta al  giudice  dell'esecuzione  solo  quando  sia  stata
eccepita (in via principale) la non esecutivita' del titolo, e sempre
che non sia gia' stata chiesta al giudice  della  cognizione;  a  sua
volta,  la  proposizione dell'istanza al primo giudice ne preclude la
ripresentazione  al  secondo  (sicche'   le   due   competenze   sono
alternative).  Ne  consegue  che  non  soltanto  non  e' intaccato il
principio della unicita' della decisione, ma si realizza una notevole
semplificazione  processuale, in quanto si consente la riunione in un
unico giudizio  di  due  questioni  di  cui  l'una  (la  mancanza  di
effettiva  conoscenza  della  notifica)  e'  logicamente  subordinata
all'altra (la non esecutivita' del titolo).
   L'articolo 662 da' attuazione alla direttiva 97 della legge-delega
in materia di applicazione, in  sede  esecutiva,  dell'art.  81  c.p.
sempre  che,  ovviamente,  la stessa non sia stata esclusa in sede di
cognizione. Si e' precisato che la pena da irrogare per effetto della
continuazione  deve  essere  non  superiore  a  quella risultante dal
cumulo materiale e si e' espressamente conferito al giudice il potere
di  concedere  i  benefici della sospensione condizionale e della non
menzione della  condanna  nel  certificato  penale  quando  cio'  sia
conseguenza  del riconoscimento della continuazione (il che significa
che, ove il giudice della cognizione abbia ritenuto la sussistenza di
condizioni  ostative  rispetto  alle quali sia ininfluente l'articolo
81, le suddette condizioni non potranno essere disconosciute in  sede
esecutiva).  Attesi  i  limiti  della  delega, non e' stato possibile
affrontare  i  numerosi  problemi  che   travagliano   l'applicazione
dell'istituto,  trattandosi  di  problemi che investono la disciplina
sostanziale dell'art. 81.
   L'articolo   663,  nel  regolare  l'applicazione  dell'amnistia  e
dell'indulto ai condannati, prevede che il  giudice  dell'esecuzione,
in  deroga  a  quanto previsto dall'art. 657, provveda de plano. Cio'
per sopperire ad esigenze di  carattere  pratico,  tenuto  conto  del
rilevantissimo  numero  di provvedimenti che vanno adottati ogni qual
volta entra in vigore un provvedimento  di  clemenza  e  dell'urgenza
della  relativa  applicazione  quando  il  condannato e' detenuto. Le
garanzie di giurisdizionalita', dalle quali in nessun  caso  si  puo'
prescindere, sono assicurate, come gia' nell'analoga ipotesi regolata
dall'art.  658,  attraverso  la  facolta'  concessa  alle  parti   di
instaurare  il procedimento camerale ordinario proponendo opposizione
avverso l'ordinanza del giudice.
   E'  sembrato  comunque  necessario,  sempre  al  fine  di  evitare
l'ingiustificato protrarsi della detenzione, prevedere al comma 3 una
facolta'   di   liberazione  provvisoria  analoga  a  quello  di  cui
all'attuale art. 593: peraltro, considerato che la  mutata  posizione
processuale  del pubblico ministero non consente il conferimento allo
stesso di poteri discrezionali in  ordine  alla  liberta'  personale,
competente  al  riguardo  e' adesso il magistrato di sorveglianza. La
stessa disposizione (art. 663 comma 3) regola  anche  la  sospensione
provvisoria dell'esecuzione delle sanzioni sostitutive e delle misure
alternative  destinata  a  cessare  per   effetto   dell'amnistia   o
dell'indulto.
   Al  comma  2, la disposizione relativa alle misure di sicurezza e'
stata adeguata al mutato regime di applicazione delle stesse.
   L'articolo 664, che disciplina le ipotesi di revoca della sentenza
per sopravvenuta abolitio criminis,  non  pone  particolari  problemi
interpretativi.
   L'articolo  665  prevede  la revoca della sospensione condizionale
della  pena,  nonche'  della  grazia,  dell'amnistia  e  dell'indulto
condizionati,  senza  sostanziali  differenze rispetto alla normativa
vigente, salvo  per  quanto  concerne  la  revoca  della  liberazione
condizionale,   che   e'   adesso  di  competenza  del  tribunale  di
sorveglianza.
   L'articolo  666  chiarisce  che,  quando  il giudice di cognizione
abbia accertato la falsita' di un atto pubblico o  di  una  scrittura
privata  ma  ne  abbia  omesso la dichiarazione nel dispositivo, alla
declaratoria e alla relativa esecuzione provvede, dopo  il  passaggio
in  giudicato della sentenza, il giudice dell'esecuzione negli stessi
termini in cui avrebbe dovuto provvedere il giudice di cognizione. Il
secondo   e   il   terzo  comma  dell'articolo  in  esame  contengono
disposizioni che valgono sia in quest'ultimo caso sia  in  quello  in
cui  il  dispositivo  contiene la dichiarazione di falsita'; cio' che
cambia e' la competenza: nel secondo, resta  quella  del  giudice  di
cognizione,  nel primo si prevede quella del giudice dell'esecuzione,
seguendosi cosi' un consolidato orientamento giurisprudenziale.
    L'articolo    667,   al   comma   1,   attribuisce   al   giudice
dell'esecuzione la  competenza,  oltre  che  su  alcune  materie  non
richiamate  negli  articoli  precedenti,  su  "  ogni caso analogo ",
espressione atta a ricomprendere le ipotesi che non  abbiano  trovato
espressa  regolamentazione  ma  rientrino  nell'ambito  delle materie
trattate da questo capo.
   Il  comma  2,  infine,  demanda  al giudice civile le controversie
sulla proprieta' delle cose  confiscate,  richiamando  la  disciplina
dettata dall'art. 263 per le cose sequestrate.
                               CAPO II
                     MAGISTRATURA DI SORVEGLIANZA
   La  recente  l.  10  ottobre  1986,  n.  663,  di organica riforma
dell'ordinamento penitenziario, ha innovato  notevolmente  la  figura
del  magistrato di sorveglianza quanto ad attribuzioni e rapporto tra
ufficio  e  tribunale  di  sorveglianza,  anticipando   molte   delle
disposizioni gia' contenute nel Progetto del 1978 e, sostanzialmente,
nelle direttive della legge-delega.
    Le  disposizioni  del  capo  II  non potevano non ispirarsi nella
sostanza alla riforma del 1975 e alle sue successive  modifiche,  che
hanno    accentuato,    primariamente,    il   carattere   pienamente
giurisdizionale e garantista del procedimento con cui  il  magistrato
di  sorveglianza  svolge  i  suoi  compiti,  relativi  alle misure di
sicurezza e alle altre attribuzioni a  lui  demandate  dai  codici  e
dalle leggi speciali.
   L'articolo  668,  come  specificato  nella rubrica, fa riferimento
soltanto alla competenza  territoriale,  essendo  la  competenza  per
materia  regolata  dall'ordinamento  penitenziario  (artt. 69 s.l. 26
luglio 1975,  n.  354  e  successive  modifiche).  La  disciplina  e'
ripresa,  per  il  comma  1, dal terzo comma dell'art. 71 della legge
citata, e per il comma 2 dal quarto comma dello stesso articolo. Tali
disposizioni  appaiono pienamente giustificate dalla esigenza che per
i condannati in stato di liberta' sia  il  magistrato  del  luogo  di
domicilio  o  residenza  a  conoscere  e  valutare  il  comportamento
dell'interessato, allo stesso modo in  cui  e'  l'organo  giudiziario
piu' ad immediato contatto con l'istituto penitenziario dove si trova
l'interessato a dover valutare il suo comportamento carcerario  ed  i
progressivi risultati del trattamento penitenziario.
   L'articolo  669, in aderenza alla direttiva 98 della legge-delega,
regola un procedimento giurisdizionale unitario per tutte le  materie
di  competenza  del  tribunale  di  sorveglianza,  e  per  quelle che
l'ordinamento  penitenziario  e  la  l.   689/81   attribuiscono   al
magistrato  di sorveglianza relativamente alla conversione delle pene
pecuniarie,  alla  remissione  del  debito,  ai   ricoveri   previsti
dall'art.  148 c.p., alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di
abitualita' o professionalita' nel reato o di tendenza a  delinquere.
Tale  procedimento  unitario  e  generale  non  si  applica ad alcuni
procedimenti,  quali  quello  previsto,  in  tema   di   sorveglianza
particolare  e  di reclamo, dagli artt. 14- ter e 69 comma 6 della l.
354/75 o i procedimenti per decreto di cui all'art. 69 commi  5  e  7
della   stessa   legge  (che  restano  disciplinati  dall'ordinamento
penitenziario).
   La   procedura   e'  dettata  con  rinvio  all'art.  657,  con  la
fondamentale differenza della procedibilita' di ufficio per tutte  le
materie  indicate, in aderenza a quanto previsto dalle leggi vigenti.
Nel comma 1 dell'articolo in esame e' peraltro previsto che, nel caso
di  dubbio  sulla  identita' fisica della persona, si proceda a norma
dell'art. 658.
   I  commi  2  e  3  danno  conto  di alcune specifiche esigenze del
procedimento   di    sorveglianza,    riprendendo    il    contenuto,
rispettivamente,  del  terzo  e  del  secondo comma dell'art. 71- bis
della l. 354/75.
   L'articolo  670  contiene  la  disciplina  relativa alle misure di
sicurezza diverse dalla confisca e alla dichiarazione di  abitualita'
o professionalita' nel reato o di tendenza a delinquere.
   Per  quanto  concerne  la  competenza, non ci si e' discostati dal
sistema  della  l.  663/86  che  ha  attribuito  al   magistrato   di
sorveglianza  monocratico  ogni  potere  relativo alla gestione delle
misure, e cioe'  alla  loro  applicazione,  modificazione  e  revoca,
sottraendo  quest'ultima attribuzione alla sezione (ora tribunale) di
sorveglianza.
   Come  e' noto, la stessa l. 663/86, anticipando il contenuto della
direttiva 96, ha abrogato ogni presunzione legale di pericolosita'  e
sancito  il  principio  che  le  misure  di  sicurezza possono essere
ordinate solo  previo  accertamento  della  effettiva  pericolosita'.
D'altro  canto,  dalla  giurisprudenza  della Corte costituzionale si
desume che la pericolosita' deve sussistere, oltre che nel momento in
cui   la   misura   e'  ordinata,  anche  in  quello  della  concreta
applicazione.  Si  e'  pertanto  previsto  che   il   magistrato   di
sorveglianza  accerti  la pericolosita' non soltanto quando ordina le
misure, ma  anche  quando  e'  investito,  ai  sensi  dell'art.  649,
dell'esecuzione  di quelle ordinate in giudizio. In quest'ultimo caso
e' peraltro  implicito  che  il  magistrato,  per  formulare  il  suo
giudizio,  potra'  avvalersi delle risultanze degli accertamenti gia'
effettuati, ove gli  stessi  siano  vicini  nel  tempo  e  non  siano
sopravvenuti fatti rilevanti.
   La  competenza del magistrato di sorveglianza e' ovviamente estesa
a tutte le questioni (applicazione,  modifica,  revoca)  inerenti  le
misure   di   sicurezza   e   la   dichiarazione   di  abitualita'  o
professionalita' nel reato, nonche' la revoca della dichiarazione  di
tendenza  a  delinquere  (quest'ultima,  come  e'  noto,  puo' essere
pronunciata soltanto con la sentenza di condanna).
   Nella seconda parte del comma 1 dell'articolo in esame e' ribadita
la procedibilita' di ufficio  in  materia  di  misure  di  sicurezza,
coerentemente  a  quanto  disposto dalla riforma penitenziaria, dallo
stesso Progetto del 1978  e,  in  generale  per  il  procedimento  di
sorveglianza,  dall'art.  669. Si e' giunti a questa conclusione dopo
una lunga disamina del problema, ritenendosi che la procedibilita' di
ufficio  in  questo caso non contrasti con i principi informatori del
nuovo processo, attesa la  particolare  natura  del  procedimento  di
sicurezza,  che  ha finalita' di prevenzione e rieducazione e che non
puo' essere configurato come processo di parti.
   Il comma 2, riproducendo la disposizione del terzo comma dell'art.
69 della l. 354/75, demanda al magistrato di sorveglianza il
controllo e la direzione della esecuzione delle misure di sicurezza
personali.
   Le  impugnazioni nel procedimento di sorveglianza sono regolate in
via generale, in virtu' del rinvio contenuto nell'art. 669, dal comma
6  dell'art.  657, che prevede il solo ricorso per cassazione avverso
l'ordinanza decisoria. L'articolo 671 consente invece, in conformita'
alla disciplina vigente, l'appello avverso i provvedimenti in materia
di misure di sicurezza: considerata la  delicatezza  degli  interessi
coinvolti, non sembra possa prescindersi in questo caso da un secondo
giudizio di merito. La relativa competenza e' attribuita al tribunale
di  sorveglianza, il quale giudica, oltre che sugli appelli avverso i
provvedimenti del magistrato di sorveglianza, anche su quelli avverso
le  sentenze  quando  l'impugnazione  concerne  soltanto le misure di
sicurezza (trattandosi di appello e' chiaro che in quest'ultimo  caso
si  fa riferimento esclusivamente ad impugnazioni avverso sentenze di
primo grado, e cio' ad evitare un terzo giudizio di merito quando  ad
essere impugnato sia il capo relativo alle misure di sicurezza di una
sentenza di secondo grado).
   Il  comma  2  dell'art.  671, nell'affermare la applicabilita', in
ordine all'appello in questione, delle  disposizioni  generali  sulle
impugnazioni,  fa eccezione per quanto concerne l'effetto sospensivo,
(che e' in questo caso  escluso  in  linea  di  principio,  salva  la
facolta'  per  il tribunale di disporre altrimenti). Tale disciplina,
che e' conforme a quella che regola in  generale  gli  effetti  delle
impugnazioni  nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, e' in
questo caso giustificata dalle specifiche esigenze di un procedimento
che ha ad oggetto la pericolosita' sociale dell'interessato.
   L'articolo   672   regola  il  procedimento  di  grazia  innovando
radicalmente  l'attuale  procedura.  La  domanda  e'  presentata   al
magistrato  di  sorveglianza;  questi esprime il proprio parere sulla
base dei documenti esistenti (in questo senso il comma 3 specifica: "
acquisiti    i    risultati   dell'osservazione   scientifica   della
personalita' ove  espletata  "),  e  quindi  trasmette  gli  atti  al
ministro  di  grazia  e  giustizia.  E'  cosi'  pienamente accolta la
visione,  gia'  del  Progetto  del  1978,  secondo  cui   sul   piano
processuale   e  sostanziale  l'istituto  della  grazia  assolve  una
funzione correttivo-equitativa dei rigori della legge, ma ha anche, e
sempre piu', il ruolo di strumento di risocializzazione alla luce dei
risultati  del  trattamento   rieducativo.   La   stessa   menzionata
previsione del potere di proporre la grazia da parte del consiglio di
disciplina, contenuta proprio in quell'ordinamento penitenziario  che
rivela  il suo momento piu' qualificante nel trattamento rieducativo,
sembra essere la  piu'  palese  conferma  del  prevalere  del  citato
orientamento.
   Si  e'  ritenuto  inoltre  che il magistrato di sorveglianza debba
esprimere parere anche se il soggetto e' in liberta' (in armonia  con
il  sistema  gia'  introdotto  con la l. 21 giugno 1985, n. 297 e poi
consolidato con la l.  10  ottobre  1986,  n.  663,  secondo  cui  la
magistratura  di  sorveglianza  e'  competente anche nei confronti di
soggetti  liberi  che  aspirano  a  misure  alternative),  innovando,
rispetto  all'attuale  regime  (art.  69  comma 9 l. 354/75) e quindi
discostandosi dalla soluzione  indicata  nel  secondo  comma,  ultima
parte, dell'art. 648 del Progetto del 1978.
   I  commi  3 e 4 dell'art. 672 sono analoghi, in una redazione piu'
semplificata, ai corrispondenti commi dell'art. 648 del Progetto  del
1978.  Se  la  grazia  non  e'  sottoposta  a condizioni, il pubblico
ministero presso il giudice dell'esecuzione ne cura  l'esecuzione  (e
adotta  i  provvedimenti  conseguenti, quali ad esempio quelli di cui
all'art. 210 comma 3 c.p.). Nel caso invece di  grazia  condizionata,
per  il  relativo  accertamento  e per l'applicazione definitiva deve
provvedere,   come   per   l'amnistia   e   l'indulto,   il   giudice
dell'esecuzione.
   L'articolo  673 demanda al tribunale di sorveglianza la competenza
in tema di liberazione  condizionale,  coerentemente  a  quanto  gia'
disposto dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663.
   Non  sembra  inutile ribadire quanto affermato nella Relazione del
Progetto  1978,  che  cioe'  tale  attribuzione  di  competenza,   in
sostituzione  di  quella  della corte di appello, e' perfettamente in
linea con la ratio del nuovo ordinamento penitenziario. Il  tribunale
di   sorveglianza,  invero,  si  caratterizza  precipuamente  per  la
competenza   all'applicazione   delle    misure    alternative    che
costituiscono  il  punto di emergenza del trattamento rieducativo, in
quanto  realizzanti  quel  reinserimento  sociale   al   quale   tale
trattamento  essenzialmente  punta.  Ora,  e'  chiaro che il metro di
giudizio per l'applicabilita' o meno delle misure alternative e' dato
proprio  da  quel  ravvedimento  del  reo  che sta a fondamento della
liberazione condizionale, si' da potersi affermare che tale  istituto
contenesse il nucleo dal quale le predette misure alternative si sono
sviluppate. Logico,  quindi,  che  dovesse  essere  il  tribunale  di
sorveglianza, come gia' previsto dall'art. 655 del Progetto del 1978,
a decidere anche sulla " misura alternativa ", base della liberazione
condizionale.
   Si  sono  peraltro  riformulati  con  modifiche  i  commi 2, 3 e 4
dell'art. 655 del Progetto, dettandosi un solo termine (sei mesi) per
le  diverse  categorie  di  condannati  ai fini della ripresentazione
della domanda di liberazione condizionale respinta, e limitando  tale
inammissibilita'  al  solo  caso di rigetto della domanda per difetto
del requisito del ravvedimento. Non si ritiene infatti equo stabilire
termini  diversi  per le varie categorie di condannati, e soprattutto
stabilire la  irricevibilita'  della  domanda  in  caso  di  avvenuto
rigetto per difetto di condizioni non imputabili al soggetto.
   La   direttiva   101   della   delega  impone  la  previsione  del
contraddittorio nel processo di  riabilitazione,  un  giudizio  senza
formalita'  e  in  camera  di  consiglio, e l'acquisizione di ufficio
della documentazione processuale. A cio' provvede l'articolo 674.
   Le  stesse  ragioni  che  hanno  consigliato  l'attribuzione della
competenza  per  la  liberazione   condizionale   al   tribunale   di
sorveglianza  hanno  indotto  ad analoga soluzione per la concessione
della riabilitazione, oggi di competenza della corte di  appello  del
distretto  dell'ultima  condanna  (nulla  avendo innovato, per questo
aspetto, l'ordinamento penitenziario rispetto al  codice  del  1930).
Coerentemente,  anche  la  revoca della riabilitazione e' pronunciata
dal medesimo tribunale (sempre, ovviamente, se non e' stata  disposta
con sentenza).
   Il comma 2 dell'art. 674 detta disposizioni procedimentali, mentre
il comma 3, nel prescrivere il  termine  dilatorio  biennale  per  la
riproposizione della richiesta respinta, precisa che tale limitazione
opera soltanto quando la ricezione e' stata motivata dal difetto  del
requisito della buona condotta.
   L'articolo 675, infine, conferisce al tribunale di sorveglianza la
competenza a provvedere in tema di rinvio obbligatorio o  facoltativo
dell'esecuzione  della  pena  detentiva,  conformemente a quanto gia'
previsto  dalla  recente  modifica  dell'ordinamento   penitenziario:
peraltro,  tale  competenza e' stata adesso estesa anche alla ipotesi
dell'art.  147 comma 1  c.p.  (domanda  di  grazia),  sembrando  cio'
coerente   sia  con  le  nuove  attribuzioni  della  magistratura  di
sorveglianza  in  tema  di  grazia,  sia  con  il   principio   della
giurisdizionalizzazione  di  tutti i provvedimenti che incidono sulla
liberta' personale.
   Con   l'occasione  si  sono  demandati  allo  stesso  tribunale  i
provvedimenti in ordine  al  rinvio  dell'esecuzione  delle  sanzioni
sostitutive,  oggi attribuiti al giudice di sorveglianza dall'art. 69
della legge 689/81, procedendo in tal modo ad una unificazione  delle
competenze  in materia, giustificata dalla identita' dei presupposti.
   Peraltro,     la     nuova     disciplina,    se    assicura    la
giurisdizionalizzazione della procedura e, di conseguenza,  una  piu'
efficace   tutela  del  diritto  di  difesa,  comporta  un  sensibile
prolungamento dei tempi di decisione: e' pertanto sembrato  opportuno
prevedere  la  possibilita'  di un intervento immediato per i casi in
cui l'esistenza dei presupposti per il rinvio appaia  evidente  e  il
ritardo  possa  essere  gravemente pregiudizievole per il condannato,
soprattutto  se  detenuto.  Si  e'  cosi'  attribuito  un  potere  di
sospensione   e   di   liberazione   provvisorie   al  magistrato  di
sorveglianza (la mutata posizione processuale del pubblico  ministero
sconsiglia   l'attribuzione   allo   stesso  di  qualsivoglia  potere
discrezionale in materia di liberta' personale).
   Non  si  e' ritenuto di riprodurre le disposizioni contenute negli
artt. 650 e  654  del  precedente  Progetto  (che  a  loro  volta  si
richiamavano  agli artt. 654 e 653 del codice vigente), relative alle
misure di sicurezza della cauzione di buona condotta e del divieto di
soggiorno:  trattasi infatti di disposizioni superflue o che comumque
possono trovare piu' idonea collocazione fra le norme  regolamentari.
                              TITOLO IV
                        CASELLARIO GIUDIZIALE
   L'articolo  676  detta  la  disciplina  generale  degli uffici del
casellario e  della  loro  competenza  senza  sostanziali  differenze
rispetto  al  vigente  art.  603, se si prescinde dal conferimento al
procuratore della Repubblica del solo potere  di  vigilanza,  essendo
stato  quello  di  direzione attribuito al dirigente della segreteria
con la l. 23 marzo 1956, n. 182.
   L'articolo  677  contiene  l'elenco  tassativo  dei  provvedimenti
soggetti ad  iscrizione.  Per  quanto  concerne  i  provvedimenti  in
materia  penale,  va  segnalata  l'esclusione  dell'iscrizione  delle
sentenze di proscioglimento, ad eccezione di quelle  per  difetto  di
imputabilita'  e di quelle che abbiano disposto misure di sicurezza o
dichiarato estinto il reato a seguito di " patteggiamento " E'  stata
inoltre  prevista,  all'ultimo  comma,  la menzione dell'applicazione
delle  misure  alternative  alla  detenzione,  e  cio'  al  fine   di
rafforzare,  dando  testimonianza  del  buon  esito  del  trattamento
penitenziario, la funzione delle misure suddette.
   Mentre non sono state apportate modifiche alla disciplina relativa
ai provvedimenti civili, l'iscrizione delle sentenze  pronunciate  da
autorita'    giudiziarie    straniere   consegue   adesso   al   loro
riconoscimento (e non gia' alla semplice comunicazione ufficiale).
   Recependo  le  istanze  in  tal  senso da piu' parti sollevate, la
lettera d) del comma 1 dispone infine l'iscrizione dei  provvedimenti
definitivi   di   applicazione  della  misura  di  prevenzione  della
sorveglianza speciale. Trattasi infatti  di  provvedimenti  emessi  a
conclusione  di  un procedimento ormai pacificamente giurisdizionale,
cui sono collegati,  oltre  a  rilevanti  effetti  nell'ambito  della
stessa  prevenzione,  importanti  conseguenze penali, sia sostanziali
che processuali; di qui l'esigenza di assicurarne la  conoscibilita'.
   Nell'articolo 678, alle tradizionali ipotesi di eliminazione delle
iscrizioni, e' stata aggiunta quella della revoca  della  condanna  a
seguito di revisione o di abolizione del reato.
   L'articolo 679 disciplina il rilascio dei certificati penali al di
fuori dell'ipotesi in  cui  vengano  richiesti  dall'interessato.  Il
relativo  diritto  non  e'  piu'  riconosciuto  ai  privati (come nel
secondo comma del vigente art 607), ma soltanto  agli  organi  aventi
giurisdizione  penale  per ragioni di giustizia, alle amministrazioni
pubbliche e agli enti incaricati  di  pubblici  servizi  per  ragioni
connesse  alle loro funzioni, e al pubblico ministero nel corso delle
indagini preliminari. Lo stesso pubblico ministero  e  il  difensore,
nelle ipotesi in cui l'art. 236 espressamente consente l'acquisizione
del certificato al fine  della  valutazione  della  personalita'  del
testimone o della persona offesa dal reato, potranno richiederlo solo
previa autorizzazione del giudice  procedente,  e  cio'  al  fine  di
evitare  ingiustificate  lesioni  dei  diritti  degli  interessati  o
indebiti condizionamenti delle fonti di prova.
   Il   precedente   progetto,   all'art.   640,  aveva  negato  alle
amministrazioni pubbliche e agli enti incaricati di pubblici  servizi
la  facolta'  di  ottenere  certificati  penali  per  gli scopi sopra
indicati,  motivando  il  diniego  con  la  considerazione   che   le
amministrazioni  e  gli enti suddetti ben potrebbero, nell'instaurare
un rapporto di lavoro, esigere  dall'interessato  la  produzione  del
certificato.  Tal  motivazione,  peraltro, elude il problema di fondo
rappresentato dalla incompletezza delle  informazioni  contenute  nel
certificato  rilasciato  all'interessato. In questo, com'e' noto, non
si fa menzione di varie categorie  di  condanne  che  invece  possono
assumere  rilievo  decisivo  nella  valutazione  della  idoneita'  ad
esercitare pubbliche funzioni o svolgere pubblici servizi. Ove  fosse
soppressa  la  facolta' di richiesta diretta, condanne anche ripetute
per fatti di non trascurabile  gravita'  non  emergerebbero,  con  la
conseguenza   che   persone  i  cui  precedenti  denotano  pericolose
inclinazioni delinquenziali avrebbero accesso a  funzioni  di  grande
delicatezza (si pensi alle forze dell'ordine, alla magistratura, alla
diplomazia, agli uffici finanziari).
   L'articolo  680  specifica le condanne e i provvedimenti dei quali
non e' fatta menzione nei certificati richiesti dall'interessato (che
puo'  ottenerli  in  ogni  momento,  non essendo tenuto ad indicare i
motivi  della  richiesta).  Al  riguardo,   va   segnalata   la   non
menzionabilita' delle sentenze conseguenti al c d. patteggiamento. Il
Progetto del 1978 prevedeva anche  la  non  menzione  delle  condanne
durante la cui esecuzione fosse stata disposta una misura alternativa
alla pena detentiva: una simile previsione, peraltro, appare priva di
reale  giustificazione,  considerato  che le suddette misure hanno un
campo di applicazione che si estende alle condanne piu' gravi  (anche
all'ergastolo)  e  che i presupposti per la loro concessione non sono
tali da far venir meno  le  esigenze  di  conoscenza  dei  precedenti
penali nei limiti in cui ne e' prescritta la menzione.
   L'articolo 681, infine, demanda al tribunale del luogo ove ha sede
l'ufficio del casellario la  competenza  a  decidere,  quale  giudice
dell'esecuzione  (e  pertanto con il relativo procedimento), su tutte
le controversie relative alla materia.
                               TITOLO V
                                SPESE
   Gli   articoli   da  682  a  686  riproducono,  senza  sostanziali
innovazioni, la disciplina, relativa all'anticipazione e al  recupero
delle  spese  processuali  e  della  custodia cautelare, nonche' alla
pubblicazione sui giornali  della  sentenza  di  condanna,  contenuta
negli artt. da 611 a 615 del codice vigente. Le relative controversie
sono  decise  dal  giudice  dell'esecuzione  con  l'usuale  procedura
camerale.
                               LIBRO XI
                       RAPPORTI GIURISDIZIONALI
                       CON AUTORITA' STRANIERE
   La   disciplina   codicistica  dei  rapporti  giurisdizionali  con
autorita' straniere ha  faticato  non  poco,  nel  nostro  Paese,  ad
affermarsi  in  termini di specificita' normativa. Solo con il codice
del 1930, infatti, la materia ha acquisito la dignita'  che  risponde
all'intitolazione  di un libro apposito, il libro V, e presenta anche
qualche interessante sviluppo tematico.
   Dopo   di   allora,   pero',   si  direbbe  che  -  nonostante  il
notevolissimo incremento dei rapporti internazionali quell'itinerario
di specificazione normativa si sia interrotto.
   Anche  la  legge-delega tace del tutto - o continua a tacere - sul
tema specifico dei rapporti giurisdizionali con autorita'  straniere.
Peraltro,  l'art. 2, nel suo far obbligo al legislatore delegato di "
attuare i principi della Costituzione e adeguarsi  alle  norme  delle
convenzioni  internazionali  ratificate  dall'Italia  e  relative  ai
diritti della  persona  e  al  processo  penale  ",  assume  notevole
rilevanza pure nella presente materia.
   Quanto   ai  principi  costituzionali,  oltre  che  delle  diverse
disposizioni contenute nell'art. 10 e  nell'art.  26,  si  e'  tenuto
conto,  anche  nella  presente  materia,  dell'art. 13 e dell'art. 24
comma 2 Cost.; ed anche  dello  spirito  dell'art.  11  dello  stesso
testo,  nel  suo consentire, " in condizione di parita' con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad  un  orientamento
che  assicuri  la  pace  e  la  giustizia  fra le Nazioni " e nel suo
prevedere che l'Italia  "  promuove  e  favorisce  le  organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo ".
   Quanto  poi alle predette " norme delle convenzioni internazionali
ratificate dall'Italia... ", vengono ovviamente in considerazione, in
primo  luogo,  la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali; su un piano piu'  specifico,
la  Convenzione  europea  di estradizione e la Convenzione europea di
assistenza giudiziaria.
   Non si e' peraltro ritenuto di procedere a una " europeizzazione "
della  disciplina  della  materia,  vale  a  dire  a  congegnare  una
normativa  che  si  adeguasse  alle convenzioni europee richiamate da
ultimo fino a trasfonderle nel testo del codice.
   Un  tale  disegno,  invero,  e'  parso privo della necessaria base
testuale, e ancor piu' avversato da un duplice ordine di fattori: dal
criterio  di  graduazione  delle  fonti  della materia, che gia' oggi
nell'art. 656 c.p.p. e nella norma omologa  che  si  e'  ritenuto  di
delineare   conferisce   alla   disciplina   del   codice   un  ruolo
semplicemente  suppletivo  rispetto  a   quello   delle   convenzioni
internazionali  con i singoli e vari paesi stranieri; avversato, poi,
da  considerazioni  elementari  di  praticabilita'  e   di   politica
legislativa,  non potendo certo pensarsi come generalizzabile a tutti
i singoli e vari paesi stranieri il quadro di intese  che  sorreggono
le   relazioni   tra  l'Italia  ed  i  paesi  legati  dalle  predette
convenzioni europee.
   E'  parso  allora  che  non  restasse  altra  via se non quella di
ispirarsi a tali convenzioni  (e  ad  altre  successive  convenzioni,
sottoscritte  e ratificate) per trarne, magari su punti impegnativi e
qualificanti, soprattutto delle linee di tendenza.
   La  stesura  delle  norme  del  Progetto  ha tratto profitto anche
dall'esame delle  specifiche  legislazioni  operanti  in  materia  in
alcuni   paesi   europei,  e  in  particolare  dalle  leggi  speciali
dell'Austria (1979), della Svizzera (1981) e della Germania  federale
(1983).
   Sembra  il  caso  di  sottolineare  - in tale prospettiva - che il
nostro paese continua a dividere  con  la  sola  Grecia,  nell'ambito
delle   Comunita'   europee   la  peculiarita'  di  disporre  di  una
disciplina-base,  in  tema  di  rapporti  con  autorita'   straniere,
ristretta  entro le norme di un codice, e per di piu' di un codice il
cui perimetro coincide con quello del testo in vigore, datato 1930.
   Non si e' ritenuto di introdurre, tra le " Disposizioni generali "
una   norma   operante   l'estensione   una   tantum   delle    norme
contestualmente  previste,  nei  singoli  titoli,  in ordine ai reati
politici, alla disciplina dei reati comuni " quando vi siano  fondate
ragioni  per  ritenere  che  considerazioni relative alla razza, alla
religione, alla nazionalita', alle opinioni politiche  della  persona
interessata  possano  influire o abbiano influito negativamente sullo
svolgimento o sull'esito del processo ".
   Non  e'  a  dire,  peraltro,  che  un  tale tipo di previsione sia
scomparso dal complesso normativo in discorso: al contrario, esso  vi
si trova reiterato nella disciplina dei singoli istituti, vale a dire
dei  tre  titoli  corrispondenti,  con  modulazioni   aderenti   alla
particolarita'  di  ciascuno di essi (artt. 689 comma 1, 713 comma 2,
714, 722 lett. d), 733). In tal modo, inoltre, scompare l'espressione
"  reato  politico " - corrispondente a una nozione sintetica a senso
multiplo, foriera di non poche ambiguita'  -  e  l'accento  normativo
cade  piuttosto,  in  prospettiva  garantistica,  sul  concetto  di "
processo politico ".
                               TITOLO I
                        DISPOSIZIONI GENERALI
   L'articolo 687, riproponendo nella sostanza il testo dell'art. 656
c.p.p. vigente, riflette e rende esplicita la gerarchia  delle  fonti
che disciplinano la materia. Le norme del codice, in quanto puramente
interne, si applicano infatti soltanto negli spazi rispetto ai  quali
lo   Stato  non  e'  impegnato  al  rispetto  di  regole  di  diritto
internazionale.
   L'espressione  "  convenzioni  internazionali  "  si  riferisce ai
trattati - qualunque ne sia la denominazione -  di  cui  l'Italia  e'
parte.  Si  tratta  di un numero rilevante di accordi, sia bilaterali
che multilaterali. Con l'inciso " in vigore per  lo  Stato  "  si  e'
inteso  sottolineare  che la loro concreta applicabilita' dipende dal
perfezionamento del trattato sul piano  del  diritto  internazionale,
oltre  che  dal  compimento  di  quanto  e'  necessario  per renderlo
esecutivo sul piano del diritto interno.
   Rimane  naturalmente  ferma  la  necessita'  di verificare, per le
convenzioni multilaterali, che anche l'altro stato interessato ne sia
parte,  per avere anch'esso completato tutti i necessari adempimenti.
Resta altresi' ferma, sempre per  le  convenzioni  multilaterali,  la
necessita'  di  tenere  adeguatamente  conto  delle eventuali riserve
apposte al singolo trattato, ad  opera  del  nostro  come  dell'altro
stato che viene in considerazione.
   Si  e'  poi  preferito,  ai  termini  "  usi  "  e  "  convenzioni
internazionali ", impiegati nel codice in vigore, la formula "  norme
di  diritto  internazionale generale ", che, oltre alla consuetudine,
fa riferimento a ogni altra possibile fonte di norme generali  (quali
i  cc.dd.  principi  generali  di  diritto riconosciuti dalle nazioni
civili, di cui all'art. 38 dello statuto della  Corte  Internazionale
di  Giustizia),  ai quali il nostro ordinamento si conforma a livello
internazionale, in forza dell'art. 10 comma 1 Cost.
   Quanto  al comma 2 dell'art. 687, la formulazione impiegata mira a
chiarire che la disciplina del codice puo' trovare applicazione anche
in  presenza  di norme internazionali, in ordine ai profili da queste
ultime non disciplinati.
                              TITOLO II
                             ESTRADIZIONE
   Le  norme  sull'estradizione  sono  distribuite,  a  differenza di
quanto avviene nel vigente codice, in due  capi.  Il  primo  dedicato
all'estradizione    per   l'estero   (c.d.   passiva);   il   secondo
all'estradizione dall'estero (c.d. attiva).
   Il  primo  capo,  poi,  si  suddivide  in  due  sezioni,  le quali
raggruppano le norme dedicate,  rispettivamente,  al  procedimento  e
alle  misure  cautelari (e in particolare a quelle che attengono alla
liberta' personale dell'estradando).
   Questa ulteriore partizione della materia risponde alla necessita'
di rimettere ordine in una sistematica che, per il suo scarso rigore,
e' stata oggetto di critiche e risponde, inoltre, a istanze di natura
garantistica, cosi' da indurre a  privilegiare  una  disciplina  piu'
dettagliata   soprattutto   in  tema  di  limitazioni  alla  liberta'
personale.
   In  assenza  di specifiche direttive della legge-delega, anche per
l'estradizione si e' fatto costante riferimento alle  "  norme  delle
convenzioni  internazionali  ratificate  dall'Italia  e  relative  ai
diritti della persona e al processo penale ", in modo da allineare la
normativa  interna  alle  direttrici  di  fondo sulle quali e' andato
sviluppandosi il diritto internazionale.
   Cosi'  si  e' ritenuto di dover confermare, per il procedimento di
estradizione c.d. passiva,  il  sistema  misto,  che  al  potere  del
ministro,  nel  senso  di  concedere o meno l'estradizione, abbina la
garanzia giurisdizionale,  sotto  il  profilo  sia  dell'accertamento
delle  condizioni  legittimanti  dell'estradizione  sia  della tutela
della liberta' personale dell'estradando.
   In  particolare,  poi,  il  riferimento  costante alle convenzioni
internazionali  nella  elaborazione  dei  punti  chiave  della  nuova
normativa  ha portato in primo luogo ad un maggior rigore nel riparto
delle  attribuzioni  del   ministro   di   grazia   e   giustizia   e
dell'autorita'  giudiziaria,  al  fine  di  fugare dubbi e incertezze
suscitati dalla precedente normativa.
   In   secondo   luogo,   il   citato  riferimento  ha  indotto  una
ricostruzione degli aspetti relativi alle misure cautelari diretta  a
contenere  il  ruolo  del  ministro - cui vengono riservati poteri di
iniziativa non vincolanti per l'autorita' giudiziaria - a ricondurre,
per  quanto  possibile, allo schema generale relativo al procedimento
penale il regime dettato per il procedimento  d'estradizione,  specie
per  quanto  attiene  ai  diritti della difesa, alle notifiche e alle
impugnazioni.
   Va,  poi, segnalato che particolare attenzione si e' prestata alle
normative  contenute  nelle  specifiche  convenzioni   d'estradizione
vigenti  nei  rapporti  con  i  paesi  europei  ed  extraeuropei  per
ricavarne una maggiore precisione nella regolamentazione  di  aspetti
peculiari  in precedenza non sufficientemente disciplinati e, talora,
neppure previsti dalla vigente normativa.
   Cosi',  disposizioni  dettagliate  sono  state inserite in tema di
estensione dell'estradizione gia' concessa, di rinnovo della domanda,
di sospensione della consegna, di riestradizione.
   E',  infine,  da  sottolineare  che  non si e' piu' prevista (cfr.
artt. 9 comma 3, 10 comma 2 n. 3 e 13 comma 3 c.p.) la "  offerta  di
estradizione ".
   Tale   istituto,   che   non   ha   trovato  peraltro  particolare
riconoscimento  nelle  legislazioni  straniere  e   nell'applicazione
concreta,  sarebbe  infatti  destinato  a vivere nell'attuale sistema
solo a prezzo di incongruenze assai marcate, specie considerando  che
l'inizio   del   procedimento  di  estradizione  e'  l'occasione  per
limitazioni anche molto consistenti della liberta'  individuale,  che
non   e'   facile  giustificare,  quando  risalgono  a  un'iniziativa
unilaterale del ministro di grazia e giustizia.
                                CAPO I
                      ESTRADIZIONE PER L'ESTERO
   Da  un  punto  di vista sistematico, le norme contenute nel capo I
del titolo II, eccezione fatta per quelle che riguardano i poteri  di
coercizione   personale   sull'estradando,  possono  suddividersi  in
quattro gruppi.
   Al  primo  appartengono certamente quelle riportate negli articoli
688 commi 1 e 2 e 692 commi 1,  2  e  3,  con  le  quali  viene  data
concreta   applicazione  al  sistema  prescelto,  cioe'  a  quello  a
carattere  misto,  comprendente  una  fase   amministrativa   e   una
giurisdizionale.
   In  particolare,  nell'articolo  688 e' disciplinato il potere del
ministro di grazia e giustizia di concedere l'estradizione.  Al  fine
di  determinare  l'area  di  tale potere non si e', pero', ripresa la
locuzione del  vigente  art.  661  c.p.p.  "  nei  casi  non  vietati
dall'art.  13  del codice penale "; alla medesima se ne e' sostituita
un'altra (" nei casi consentiti "), che, con la sua portata generale,
e'  idonea  a recepire ogni specie di norma che statuisca in materia:
in  particolare,  oltre  all'art.  13  c.p.,  le  norme  di   origine
internazionale e le norme costituzionali (art. 10 ultimo comma e art.
26 Cost.; l. cost. 21 giugno 1967, n. 1).
   Inoltre,  ovviando a possibili incertezze interpretative originate
in passato dal silenzio della legge, si e' espressamente riservato al
ministro  di  grazia  e giustizia l'esercizio di quelle facolta', che
siano eventualmente  previste  dai  singoli  trattati  internazionali
stipulati dal nostro Paese.
   Correlativamente    l'articolo    692   prescrive   l'accertamento
giurisdizionale   delle   condizioni   legittimanti   l'estradizione,
attribuendo  ad  esso la stessa efficacia di condizione necessaria ma
non sufficiente che gli e' propria anche nell'attuale sistema;  senza
la  decisione  favorevole  della autorita' giudiziaria l'estradizione
non puo' essere concessa e tuttavia il suo intervento  non  la  rende
obbligatoria.  Cio'  e'  quanto  precisa il comma 3 dell'art. 692 con
riguardo sia alla decisione favorevole dell'autorita' giudiziaria - e
anche  a  tale  riguardo  si  e'  sostituita la corte di appello alla
sezione istruttoria - sia alla  domanda  dell'interessato  di  essere
consegnato  allo  stato  che  abbia  chiesto  l'estradizione. In tale
ultimo caso, peraltro, non e' necessario il giudizio  giurisdizionale
(comma  2).  Tuttavia,  per garantire contro eventuali arbitri, si e'
previsto in successive disposizioni (artt. 694 comma 2 e 707 comma 1)
che  la  domanda sia formulata nella fase antecedente o nel corso del
giudizio  rispettivamente  alla  presenza  del  procuratore  generale
presso  la  corte  di  appello  o  del  presidente della corte stessa
nonche' del difensore, in conformita'  all'indicazione  contenuta  in
una risoluzione della Association internationale de droit pe'nal.
   Nel  secondo  gruppo  di  norme  vanno,  invece  annoverate quelle
contenute negli articoli 689, 690, 691 e 696 comma 2,  che  hanno  la
comune  finalita'  di  indicare  i presupposti generali - intesi lato
sensu - che legittimano l'accoglimento d'una domanda di estradizione.
   Cosi',  in  particolare,  con  l'articolo  689,  si  e'  ritenuto,
innovando completamente rispetto al sistema vigente, di  dovere  dare
preminente  rilievo  (prima ancora che al principio di specialita' di
cui al successivo art. 690)  alla  tutela  dei  diritti  fondamentali
della   persona,   stabilendo  la  formale  esclusione  di  qualsiasi
estradizione che possa porre in pericolo i suddetti diritti  per  uno
dei  motivi  elencati  nell'articolo stesso o comportare come effetto
finale l'applicazione della pena di morte.
   Peraltro,  nell'intento  di  assicurare  una  reale  garanzia  dei
diritti fondamentali della persona, la relativa tutela resta affidata
-   nel   nuovo  sistema  -  al  tramite  della  duplice  valutazione
dell'autorita' politica e di quella giudiziaria, chiamate entrambe  a
pronunciarsi,  per  la  parte  di  rispettiva  competenza,  in merito
all'effettivo rispetto dei suddetti diritti.
   Cosi', sulla base delle disposizioni contenute nell'art. 689 comma
2, viene rimessa all'apprezzamento del ministro di grazia e giustizia
la  valutazione  delle  garanzie  prestate  dal  paese richiedente in
ordine alla commutazione della  pena  di  morte  e  correlativamente,
nell'articolo  696  comma 2, viene rimesso al giudizio della corte di
appello  l'accertamento  in  iudicio  di  eventuali  cause   ostative
dell'estradizione  a  motivo  della  paventata  lesione  dei  diritti
fondamentali della persona.
   Con  l'articolo  690,  si  e',  poi,  proceduto a una nuova e piu'
compiuta formulazione  del  principio  di  specialita',  non  a  caso
collocato,  diversamente da quanto previsto nella vigente disciplina,
in una autonoma disposizione.
   In  particolare  nel  comma 1 dell'art. 690 si e' precisato che la
clausola della " specialita' " deve essere apposta in modo " espresso
"   a   ogni  atto  di  concessione  dell'estradizione,  per  ovviare
all'inconveniente che, ritenendo - come e' avvenuto in passato -  non
necessaria  la  sua  enunciazione espressa perche' da considerarsi in
ogni  caso  tacitamente  apposta,  lo  stato  estero  si  reputi  poi
svincolato dal rispetto di quella clausola.
   Nello  stesso  articolo sono previste al comma 2 talune specifiche
ipotesi di eccezione al principio di specialita', la cui  osservanza,
al pari delle altre condizioni eventualmente apposte alla concessione
dell'estradizione, e' affidata dal comma 4 dello stesso  articolo  al
ministro di grazia e giustizia.
   Sempre  in tema di presupposti legittimanti l'estradizione, va poi
ricordato  l'articolo  691,  che  enumera  i  documenti  richiesti  a
sostegno di una domanda d'estradizione.
   Il  comma  1  di detto articolo, infatti, stabilendo la necessita'
della allegazione alla domanda  d'estradizione  di  un  provvedimento
restrittivo  della  liberta' personale o di una eventuale sentenza di
condanna  a  pena  detentiva,  integra  la   disposizione   contenuta
nell'art.  688,  limitando  l'ambito  della  estradizione  alle  sole
ipotesi in cui la persona da estradare debba all'estero  espiare  una
pena  detentiva  o essere ivi giudicata in vincoli. In altri termini,
non ogni imputato o condannato all'estero che abbia  trovato  rifugio
in  Italia  e'  suscettibile  di essere richiesto in estradizione, ma
soltanto colui che, in aggiunta a una delle qualita' sopraindicate  e
in  conseguenza  di  essa,  debba,  altresi',  essere necessariamente
privato della liberta'  personale,  in  virtu'  di  un  provvedimento
dell'autorita'  straniera,  pronunciato nelle more o a conclusione di
un giudizio.
   Conseguentemente,  non  potendo  l'estradizione  - che, secondo la
piu' qualificata dottrina, ha natura di procedimento  incidentale  (o
complementare)  -  assumere  un  ambito di applicazione piu' ampio di
quello innanzi descritto,  anche  il  principio  di  specialita'  non
potra'  acquistare un effetto preclusivo maggiore di quello derivante
dai presupposti d'estradizione, quali delineati nel Progetto.
   Il  terzo  gruppo  di  norme  comprende,  invece,  le disposizioni
(articoli  692  comma  4,  693,  694,  695,  697,  701  e  702)  piu'
propriamente  processuali,  destinate a disciplinare sotto il profilo
del rito le singole fasi del procedimento di estradizione.
   A  tale  proposito  va  innanzitutto  rammentata  la  disposizione
contenuta nel comma  4  dell'articolo  692,  con  la  quale  si  sono
stabiliti  precisi criteri di competenza territoriale alla luce della
sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1975, che ritenne l'art.
666  c.p.p.  non  in  contrasto  con l'art. 25 comma 1 Cost., solo in
quanto interpretato nel senso che preveda la competenza  del  giudice
del  luogo  in  cui  l'interessato  si  trovi  nel  momento in cui al
ministro di grazia e giustizia perviene la domanda di estradizione.
   L'articolo 693, introduce la possibilita' per lo stato richiedente
di intervenire nel procedimento di estradizione, tanto  davanti  alla
corte di appello che a quella di cassazione, peraltro a condizione di
reciprocita',  al  fine  di   garantire   un'effettiva   parita'   di
trattamento  nell'ipotesi inversa, in cui cioe' sia lo Stato italiano
ad avanzare una domanda  di  estradizione.  In  ogni  caso  lo  stato
richiedente  dovra'  essere rappresentato da un avvocato abilitato al
patrocinio davanti al giudice italiano.
   Con  l'articolo  694  inizia  la  disciplina  del  procedimento di
estradizione, che fa registrare  alcune  rilevanti  innovazioni  alla
normativa  vigente.  Si  e'  innanzitutto  attribuito  al procuratore
generale presso la corte di appello il compito non solo di promuovere
il  procedimento a seguito dell'invio al suo ufficio della domanda di
estradizione da parte del ministro di grazia e giustizia, ma anche di
provvedere di ufficio agli accertamenti necessari.
   Tale scelta e' stata determinata dal fatto che nella struttura del
nuovo processo penale  non  sarebbe  stato  possibile  affidare  tali
accertamenti,  in  analogia  con  il  vigente  art.  666 c.p.p., a un
consigliere delegato della corte di appello,  posto  che  questi  non
avrebbe  potuto  operare  con strumenti d'indagine del tipo di quelli
dell'attuale fase istruttoria e posto,  d'altro  canto,  che  ne'  la
normativa della fase dibattimentale ne' quella degli atti di indagine
preliminare sarebbe risultata adeguata a disciplinare tali attivita'.
   Per  il  compimento degli accertamenti del procuratore generale si
e' ritenuto di prevedere - al  comma  4  del  citato  articolo  -  un
termine  di  tre  mesi,  entro  il  quale  deve  essere presentata la
requisitoria alla corte di appello e tutti  gli  atti  devono  essere
depositati  nella cancelleria della corte a disposizione delle parti.
   Il  comma  5  dell'art.  694  soggiunge,  poi,  che della avvenuta
effettuazione di tale deposito deve essere data notizia  alle  parti,
perche'  nel  termine  di dieci giorni possano prendere visione della
requisitoria  e  degli  atti  ed  esaminare  le  cose   eventualmente
sequestrate.
   Dopo  questi  adempimenti  ha luogo l'udienza avanti alla corte di
appello (articolo 695), la quale peraltro  ha  facolta'  di  disporre
ulteriori  accertamenti.  In  particolare il comma 1 di tale articolo
stabilisce  a  pena  di  nullita',  che  il  decreto  di   fissazione
dell'udienza  vada notificato, almeno dieci giorni prima, alle parti,
ivi compresa la persona di cui e' stata richiesta l'estradizione,  in
ottemperanza   a   quanto   stabilito   dalla  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 280 del 13 novembre 1985,  che  ebbe  a  dichiarare
l'illegittimita'  costituzionale  dell'ultimo  comma del vigente art.
666 c.p.p. " nella parte in  cui  non  dispone  che  il  decreto  ivi
previsto sia notificato all'estradando ".
   Gli   ultimi   due   commi   dell'  art.  695  prevedono,  poi,  i
provvedimenti  che  la  corte  di   appello,   nel   decidere   sulla
estradizione,   deve  adottare  in  materia  di  liberta'  personale.
L'inserimento di queste disposizioni, che non trovano  corrispondenti
nel  codice  vigente,  si  e'  reso  necessario  per  il fatto che la
detenzione  dell'estradando  non  consegue   piu'   obbligatoriamente
all'avvio  del  procedimento di estradizione, ma e' prevista solo nel
caso in cui ricorrano ragioni d'ordine cautelare. Pertanto il comma 3
prescrive  che  con  la  decisione  favorevole  all'estradizione  sia
disposta la custodia in  carcere  dell'estradando  che  si  trovi  in
liberta',  subordinatamente,  pero', a una specifica richiesta in tal
senso del ministro di grazia e giustizia. In tal modo si e' rimessa a
quest'ultimo   la   valutazione   dei   rischi  connessi  al  ritardo
nell'adozione del provvedimento restrittivo della liberta' personale.
   Per  converso  il  comma  4  dell'art.  695  stabilisce che con la
decisione contraria all'estradizione sia  disposta  la  revoca  delle
misure cautelari applicate.
   Nell'articolo 697, si e' mantenuto il ricorso per cassazione anche
per  il  merito  e  il  potere  della  corte  di  disporre  ulteriori
accertamenti,  in  analogia a quanto previsto per la corte di appello
dall'art. 695.
   Per  contro, l'articolo 701 rappresenta una novita' assoluta. Esso
ha per oggetto la fase  del  procedimento  successiva  alla  garanzia
giurisdizionale  o, in caso di consenso all'estradizione, al deposito
del relativo verbale ed  e'  inteso  a  disciplinare  nel  dettaglio,
mediante  la  fissazione di alcuni termini perentori, gli adempimenti
che in tale fase fanno carico al ministro di grazia e giustizia.
   In  particolare,  i commi 2 e 6 del suddetto articolo stabiliscono
che la persona da estradare, se detenuta, venga posta  immediatamente
in  liberta'  tanto  nell'ipotesi  di mancata tempestiva adozione del
provvedimento di estradizione  entro  il  termine  di  quarantacinque
giorni   indicato   nel  comma  1  che  in  quella,  cronologicamente
successiva, di omessa presa  in  consegna  dell'estradando  da  parte
dello  stato  richiedente  entro  il  termine massimo di trentacinque
giorni previsto dal comma 5 dello stesso articolo.
   Si tratta, com'e' evidente, di statuizioni che traggono origine da
analoghe   disposizioni   contenute   nelle    singole    convenzioni
d'estradizione  e  destinate  a  sanzionare  eventuali  inammissibili
inerzie che avessero a verificarsi nell'azione delle autorita'  tanto
dello Stato richiesto che di quello richiedente.
  Nell'articolo   702,   sono  infine  disciplinati  i  rapporti  fra
l'esecuzione della estradizione e  la  celebrazione  di  un  processo
davanti al giudice italiano o l'esecuzione di una pena nel territorio
dello Stato.
   Confermata,   nei  termini  attualmente  vigenti,  la  sospensione
dell'esecuzione dell'estradizione, si e' fatta salva ancora una volta
la  possibilita'  di  una consegna temporanea allo stato richiedente,
disposta dal ministro  di  grazia  e  giustizia  solo  previo  parere
dell'autorita' giudiziaria competente.
   Al  comma 2, poi, si e' ribadita la possibilita' che, a seguito di
accordo del ministro con lo stato richiedente, la pena da espiare nel
territorio  dello  Stato  sia  scontata all'estero nel rispetto delle
disposizioni contenute nel capo II del titolo IV.
   Nell'ultimo  gruppo vanno infine incluse le disposizioni contenute
negli articoli 698, 699, 700 e 703, unificate dal comune  intento  di
disciplinare  eventi  destinati  a  verificarsi  successivamente alla
conclusione del procedimento d'estradizione e precisamente o dopo  la
avvenuta  consegna  dell'estradando  allo stato richiedente (come nel
caso di presentazione di una domanda aggiuntiva o di  riestradizione)
o  dopo  la  pronuncia  di  una  sentenza  contraria all'estradizione
(rinnovo di una precedente domanda gia' respinta),  conferendo  cosi'
per  la  prima  volta  fondamento  normativo  a una serie di istituti
completamente ignorati nel vigente codice.
   Con  l'articolo  698,  si  e'  voluto  assicurare  il filtro della
garanzia  giurisdizionale  anche  nell'ipotesi  di  una  domanda   di
estradizione  nuova (cioe' " avente a oggetto un fatto anteriore alla
consegna diverso da quello per il quale l'estradizione e' gia'  stata
concessa  "),  avanzata dopo la consegna dell'estradato, stabilendosi
in  particolare  al  comma  2  che  l'assenza  di  quest'ultimo   dal
territorio  dello  Stato  non  e' di impedimento allo svolgimento del
giudizio dinanzi alla corte di appello.
   A  tale  regola  si fa, tuttavia, eccezione (analogamente a quanto
previsto per la domanda principale) nell'eventualita' che la  persona
della  quale e' stata richiesta l'estensione della estradizione abbia
consentito, con dichiarazione resa dinanzi ad un giudice dello  stato
richiedente, all'estensione invocata (art. 698 comma 3).
   Peraltro,  con  riferimento  a  quanto  disposto dalla Convenzione
europea di estradizione, si e' stabilito al comma 1 che, in  aggiunta
ai  documenti  previsti in linea generale dall'art. 691, alla domanda
di estensione della estradizione vadano  in  ogni  caso  allegate  le
dichiarazioni  rese  in  proposito dall'estradando nel rispetto delle
formalita' sopraindicate.
   Con l'articolo 699, viene esteso all'istituto della riestradizione
il regime delle garanzie previsto dall'art.  698,  cosi'  parificando
attraverso  una  disciplina uniforme ipotesi ontologicamente diverse,
ma implicanti ciascuna per proprio  conto  una  chiara  eccezione  al
principio  di  specialita', come espressamente indicato nell'art. 690
comma 2 lett. a ) e b).
   Nell'articolo  700,  si  e'  ripresa  la  norma dell'art. 669 cpv.
c.p.p. in una dizione che sembra  piu'  corretta,  poiche'  mette  in
primo  piano la preclusione alla pronuncia di una sentenza favorevole
relativamente a una domanda presentata per  gli  stessi  fatti,  gia'
oggetto di una sentenza contraria all'estradizione.
   L'articolo  703 modifica la corrispondente norma dell'attuale art.
670 commi 3 e 4 c.p.p., subordinando in modo esplicito  ad  un  nuovo
esame  della  pericolosita'  sociale,  l'applicazione delle misure di
sicurezza, gia' disposte a carico dell'estradato e rimaste sospese in
attesa  di  un  eventuale  rientro  dello stesso nel territorio dello
Stato.
   Negli  articoli  da  704  a  709  sono  poi  disciplinati i poteri
cautelari  sull'estradando,  ivi  compresi  quelli   concernenti   il
sequestro,  con  un complesso di norme che innova per piu' aspetti le
disposizioni vigenti.
   I  criteri  di  fondo cui il Progetto si e' ispirato stanno, da un
lato,  nell'abbandono  dell'idea   che   la   custodia   in   carcere
dell'estradando  sia  un  elemento indispensabile del procedimento di
estradizione  e,   dall'altro,   che   non   v'e'   ragione   perche'
all'estradando,  in  tema di misure di coercizione, non sia riservato
lo stesso trattamento dell'imputato avanti ad  un  giudice  italiano;
salvo  poi  a prevedere, come ulteriore presupposto legittimante tali
misure, il pericolo  di  fuga  in  considerazione  della  particolare
situazione in cui tale soggetto viene a trovarsi.
   Si  e'  peraltro stabilito che le misure coercitive e il sequestro
non possono  mai  essere  adottate,  qualora  vi  siano  ragioni  per
ritenere   l'insussistenza   delle   condizioni  necessarie  per  una
pronuncia favorevole all'estradizione.
   In  tal  senso  dispone  l'articolo 704, che richiama la normativa
ordinaria in tema  di  misure  coercitive,  eccezione  fatta  per  le
disposizioni contenute negli art. 273 e 280 e per quelle del capo III
del titolo I del libro IV.
   Si  e'  poi stabilito, conformemente all'ultimo comma dell'art. 13
Cost., un limite massimo per la durata delle misure di coercizione.
   La   competenza   a   provvedere  sull'applicazione  delle  misure
anzidette resta affidata, oltre che alla corte di appello, anche alla
corte  di  cassazione,  cosi'  innovando  anche sotto tale profilo al
sistema precedentemente vigente.
   Accanto  alla  disciplina generale si e' prevista, al contempo, la
possibilita'  di  applicare  provvisoriamente  le  misure   cautelari
dell'art.  704  anche  con  riferimento  ad  un momento precedente la
presentazione della domanda di estradizione.
   In  tal caso l'articolo 705 impone la necessita' della presenza di
specifici requisiti analiticamente indicati nel comma 2.
   Sono  inoltre  previsti  nel comma 6 un termine e le condizioni di
efficacia delle misure  cautelari,  la  cui  adozione  deve  altresi'
essere   comunicata   allo   stato   richiedente,   perche'  provveda
tempestivamente  alla  trasmissione  della  documentazione   indicata
nell'art. 691.
   Infine, con riferimento a situazioni di particolare urgenza in cui
non e' possibile ricorrere all'autorita' giudiziaria, con  l'articolo
706,  e'  stato  attribuito  alla  polizia  giudiziaria  il potere di
procedere all'arresto della persona nei cui confronti e'  stata  gia'
presentata   da   parte  di  uno  stato  estero  domanda  di  arresto
provvisorio nonche' al sequestro delle cose pertinenti il reato.
   Inoltre,  in  considerazione del fatto che tali provvedimenti sono
adottati  indipendentemente  dall'esistenza  di  una  richiesta   del
ministro  e  senza  una compiuta documentazione, se ne e' prevista la
convalida  da  parte  dell'autorita'  giudiziaria  entro  il  termine
costituzionale,   subordinando   poi   l'efficacia   nel   tempo  del
provvedimento cosi' adottato a una esplicita richiesta del  ministro.
Tale norma e' la conseguenza della possibilita' di disporre misure di
coercizione solo subordinatamente  alla  richiesta  del  ministro  di
grazia e giustizia.
   Questo  sistema  discende dall'attribuzione al ministro del potere
di concedere l'estradizione: se questa stessa scelta e' rimessa a sue
valutazioni  politiche,  sarebbe  incomprensibile  una previsione che
consentisse  all'autorita'  giudiziaria   di   adottare   misure   di
coercizione  senza  che sia lo stesso ministro, sempre nell'ambito di
valutazioni in vario senso politiche, a richiederle.
   Tali ragioni, di valore assorbente, non consentono di derogare per
alcun caso alla prescrizione che per disporre misure  di  coercizione
personale  sia  necessaria  la  richiesta  del  ministro  di grazia e
giustizia,  essendo  una  scelta  squisitamente  politica  quella  di
prestare  allo  stato  straniero  una collaborazione cosi' intensa da
arrivare  sino  alla  limitazione  della  liberta'  personale  di  un
individuo.
   Le   considerazioni  che  precedono  hanno  imposto  di  prevedere
nell'articolo 708 comma 2 che la revoca  delle  misure  debba  essere
sempre disposta conformemente alla richiesta del ministro di grazia e
giustizia.
   Nell'intento  di  assicurare  un  reale  e immediato esercizio del
diritto  di  difesa  da  parte  della  persona  sottoposta  a  misura
coercitiva  si  e' disposto l'obbligo - nell'articolo 707 - della sua
audizione da parte dell'autorita' giudiziaria entro un breve termine.
   Si  e'  voluto  inoltre  prevedere  esplicitamente la possibilita'
della revoca e della sostituzione delle misure cautelari adottate nel
corso  del  processo estradizionale (articolo 708 comma 1) nonche' la
possibilita' di una loro impugnazione (articolo 709).
                               CAPO II
                       ESTRADIZIONE DALL'ESTERO
     In  tema  di  estradizione  dall'estero  (c.d. attiva), ci si e'
proposti di evidenziare, ancor piu' che in quella passiva,  i  poteri
che  in  materia  sono riservati al ministro di grazia e giustizia in
relazione  ai  compiti  istituzionali   dell'autorita'   giudiziaria,
nell'evidente  scopo  di  risolvere in modo definitivo quei dubbi cui
aveva dato luogo l'attuale disciplina.
  In  particolare,  l'articolo  710,  pur  riproducendo  in  linea di
massima l'impianto normativo oggi vigente, prevede espressamente  nel
comma   3  il  potere  del  ministro  di  rifiutare  o  ritardare  la
presentazione di una domanda d'estradizione,  dando  cosi'  esplicito
rilievo   a   considerazioni   d'indole  diversa  da  quelle  proprie
dell'autorita' giudiziaria, perche' implicanti valutazioni di  natura
politica,  alla stregua delle quali va valutata l'opportunita' di una
richiesta di collaborazione internazionale a uno  stato  estero:  nel
che si sostanzia ogni domanda d'estradizione.
   In  aderenza a tali principi e come corollario degli stessi, si e'
altresi' riservato al ministro di grazia e giustizia  il  potere  non
solo  di  accettare  o meno le condizioni eventualmente apposte dallo
stato estero per la concessione di  una  estradizione,  ma  anche  di
disporre  la  diffusione  delle  ricerche  in  campo internazionale e
l'inoltro della richiesta di arresto provvisorio.
   L'articolo  711  da'  attuazione  al  principio  di specialita' in
materia di estradizione attiva. Le considerazioni esposte  sul  punto
in  tema  di estradizione passiva valgono - e ancor piu' - in materia
di estradizione attiva, sottolineandosi  l'esigenza  di  far  ricorso
alla estradizione suppletiva ogni qualvolta ricorrano le condizioni e
i presupposti di estradabilita' in relazione a un reato  anteriore  e
diverso.  Peraltro,  con  riferimento  all'art.  14 della Convenzione
europea di estradizione, da  cui  detta  norma  e'  tratta,  si  sono
compiutamente  indicate  le singole ipotesi in cui e' consentito fare
eccezione  al  principio  anzidetto  sulla  base   di   comportamenti
risalenti  alla volonta' dello stesso estradato o dello stato estero.
In relazione a tale ultima eventualita' si e' preferita la  locuzione
"  espresso  consenso  dello stato estero " ad altre piu' specifiche,
ben potendo sussistere nelle  normative  dei  singoli  stati  -  come
appunto   gli   Stati  Uniti  d'America  -  particolari  disposizioni
destinate ad attribuire ad autorita' diverse da quella giudiziaria la
cognizione di eventuali domande suppletive avanzate dopo la consegna.
   Infine,  con  l'articolo  712,  si e' data espressa rilevanza alla
custodia cautelare subita all'estero in conseguenza di una domanda di
estradizione,  avanzata  dal  nostro Paese, ai fini del computo della
durata della custodia cautelare.
   Tuttavia con riferimento a tale previsione sono stati inseriti due
temperamenti: il primo, operante  per  effetto  dell'inciso  "  salvo
quanto  previsto nell'articolo 304 comma 1 lettera b) " contenuto nel
comma 1, concerne la fase del giudizio; la norma  citata  stabilisce,
infatti,  che  i  termini  della  custodia  cautelare restano sospesi
qualora  il  giudizio  rimanga  sospeso  per  legittimo   impedimento
dell'imputato,  tale  ritenendosi la carcerazione subita all'estero a
seguito di  una  domanda  d'estradizione.  Il  secondo,  riguardante,
invece, la fase delle indagini preliminari, e' desumibile dal comma 2
dell'art. 712, che contiene l'espressa previsione di una possibilita'
di  proroga  dei  termini  della custodia cautelare, anche in assenza
delle condizioni indicate nella disciplina  prevista  dall'art.  305,
qualora  la  custodia  subita  all'estero (per effetto di una domanda
d'estradizione) si sia protratta per un tempo  superiore  alla  meta'
dei termini suddetti.
                              TITOLO III
                       ROGATORIE INTERNAZIONALI
                                CAPO I
                        ROGATORIE DALL'ESTERO
     In  materia  di  rogatorie dall'estero - che la pratica chiama "
passive  "  -  l'esistenza  di  una  maggiore   articolazione   della
disciplina,  oggi conglobata sostanzialmente nell'art. 658 c.p.p., ha
portato a dar vita a una pluralita' di previsioni. In particolare, si
e' ritenuto opportuno introdurre precise regole decisorie ed una piu'
netta distinzione tra il vaglio del ministro di grazia e giustizia ed
il vaglio giurisdizionale.
   Si   e',   infatti,   attribuita   al   ministro   la  valutazione
dell'eventuale compromissione della sovranita', della sicurezza o  di
altri  interessi  essenziali  della  Repubblica  (che giustifica il "
blocco " della rogatoria) e all'autorita' giudiziaria la  valutazione
degli  eventuali  divieti  di  legge o dell'eventuale contrarieta' ai
principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano.  Peraltro,
e'  sembrato  opportuno  temperare  questa  soluzione, consentendo al
ministro - se non altro per ragioni di economia processuale - di  non
dar  corso  alla  rogatoria  nel  caso in cui sia palese che gli atti
richiesti sono  espressamente  vietati  dalla  legge  o  contrari  ai
principi  fondamentali  dell'ordinamento giuridico italiano (articolo
713 comma 1 e comma 2).
   Si  e'  inoltre previsto che il ministro possa non dare corso alla
rogatoria quando lo stato richiedente  non  dia  idonee  garanzie  di
reciprocita' (art. 713 comma 3).
   Non si e' ritenuto, invece, conformemente a quanto evidenziato nei
rilievi preliminari, di introdurre un generale divieto di  assistenza
giudiziaria internazionale in materia di reati politici, posto che la
ratio del divieto costituzionale riguardante l'estradizione per reati
politici  non  puo'  essere  spinta  cosi' avanti da toccare anche le
rogatorie, nelle quali non  e'  direttamente  in  gioco  la  liberta'
personale  dell'imputato;  l'ineseguibilita'  di  tali rogatorie, del
resto, non trova fondamento  in  nessuna  norma  della  Costituzione,
mentre  -  per  altro verso - la dimensione internazionale che sempre
piu' vengono ad assumere i fenomeni di criminalita' (anche  politica)
consiglia  di  rendere  piu'  snella  e  piu'  incisiva la cosiddetta
assistenza giudiziaria " minore " tra stati diversi.
   Al  riguardo,  si  e'  ritenuto  sufficiente  e piu' adeguato alle
esigenze menzionate sancire il divieto di dar corso alla rogatoria  "
quando  vi  sono  fondate  ragioni  per  ritenere  che considerazioni
relative alla razza, alla religione,  al  sesso,  alla  nazionalita',
alla  lingua,  alle  opinioni politiche o alle condizioni personali o
sociali possano influire negativamente sullo svolgimento o sull'esito
del  processo  "  (art.  713  comma 2; v. anche art. 714 comma 5). La
valutazione di  tali  ragioni  e'  demandata  al  doppio  vaglio  del
ministro  di  grazia e giustizia e dell'autorita' giudiziaria. Si e',
peraltro, temperato il divieto prevedendo la possibilita' di  un  suo
superamento,  qualora cio' sia imposto dal principio del favor rei e,
in particolare, dall'esigenza di  rendere  possibile  l'acquisizione,
nel   processo  che  si  svolge  all'estero,  di  prove  a  discarico
dell'accusato: per tale motivo si e' attribuito rilievo giuridico  al
consenso alla rogatoria che risulti essere stato liberamente espresso
dall'accusato medesimo (art. 713 comma 2 e art.  714 comma 5).
   Per  quanto attiene piu' specificamente al vaglio giurisdizionale,
si  e'  individuato  nella  corte  di  appello  l'organo  giudiziario
competente   per   ragioni   di  semplificazione  e  specializzazione
(articolo 714). Si  e'  ritenuto  poi  di  sviluppare  l'embrione  di
procedimento  decisorio  di  cui  al vigente art. 658 comma 1 c.p.p.,
prevedendo la possibilita' di una piu' ampia discussione, se del caso
in  contraddittorio,  attraverso  la  prevista facolta', per lo stato
richiedente,  e  a  condizione  di   reciprocita',   di   intervenire
all'udienza in persona di un avvocato abilitato al patrocinio davanti
alla autorita' giudiziaria italiana (art. 714 comma 3).
   Il  comma  4  dell'art.  714 prevede altresi' che la corte non dia
esecuzione alla rogatoria se il fatto  per  cui  procede  l'autorita'
richiedente non e' previsto come reato anche dalla legge italiana.
   In  tema  di  esecuzione  delle  rogatorie,  si  sono  introdotte,
nell'articolo  715,  due  varianti  rispetto  alla  disciplina   oggi
contenuta nei commi 2, 3 e 4 dell'art. 658 c.p.p.
   In  primo  luogo,  i  magistrati delegabili per l'esecuzione delle
rogatorie sono  stati  individuati  nei  componenti  della  corte  di
appello  e  nel  giudice per le indagini preliminari del luogo in cui
gli atti devono compiersi: tali  organi,  infatti,  sembrano  i  piu'
idonei a svolgere le attivita' richieste da una rogatoria passiva.
   In  secondo  luogo,  si  e'  considerato  che  sovente l'autorita'
giudiziaria chiede che l'assunzione di  taluni  atti  si  svolga  nel
rispetto di determinate formalita' procedurali considerate essenziali
ai fini della validita' del procedimento nell'ordinamento  estero.  E
si  e' ritenuto, in considerazione della ratio stessa dell'assistenza
giudiziaria  internazionale,  che  di  tali  esigenze   dello   stato
richiedente si tenga conto.
   La norma dell'art. 715 e' stata cosi' formulata in termini tali da
non consentire  interpretazioni  restrittive  sulla  possibilita'  di
soddisfare  le  particolari  esigenze  processuali  prospettate dallo
stato richiedente (interpretazioni  restrittive  che  potrebbero  far
leva  sul  principio  locus regit actum). Si e' infatti stabilito che
per il compimento degli atti richiesti  si  applicano  le  norme  del
codice,  "  salva  l'osservanza  delle  forme espressamente richieste
dall'autorita' giudiziaria  straniera  che  non  siano  contrarie  ai
principi  dell'ordinamento  giuridico dello Stato ". Fra l'altro, con
questa  formulazione  si  e'  voluta   rendere   possibile,   qualora
l'autorita'  straniera  lo  richieda,  la  prestazione del giuramento
anche se tale formalita' non e' piu'  prevista  per  il  procedimento
penale.
  Quanto, poi, alla citazione di testimoni a richiesta dell'autorita'
straniera (articolo 716), si e' ritenuto che il ruolo  attribuito  al
procuratore  della  Repubblica  di  collaborazione  con  il  processo
straniero, attesa anche la natura  dell'attivita'  da  compiere,  non
metta  in gioco la collocazione del pubblico ministero come parte nel
processo penale italiano.
                               CAPO II
                         ROGATORIE ALL'ESTERO
   Nel  nuovo  processo  penale e' prevedibile che l'organo attivo di
inoltro di una rogatoria all'estero - che la pratica chiama  "attiva"
-  possa  essere  non soltanto il giudice (il giudice per le indagini
preliminari e il giudice del  dibattimento),  ma  anche  il  pubblico
ministero  nell'ambito delle attivita' di loro rispettiva competenza.
   Si  e' pertanto ritenuto opportuno indicare espressamente (al fine
di eliminare equivoci interpretativi peraltro improbabili  alla  luce
del  significato che all'espressione "autorita' giudiziaria" e' stato
attribuito nelle altre parti  del  Progetto)  come  organi  attivi  i
"giudici" e i "magistrati del pubblico ministero" (articolo 717 comma
1). Nei commi successivi, si  e'  invece  mantenuta  la  tradizionale
espressione  "autorita'  giudiziaria"  posto  che  la  specificazione
inserita nel comma 1 e' parsa sufficientemente chiarificatrice, circa
la riferibilita' della normativa anche al pubblico ministero.
   Secondo  la  disciplina contenuta nel vigente art. 657 c.p.p. - da
integrarsi con l'art.  53  disp.  att.  -  le  rogatorie  da  operare
all'estero  sono  raggruppate  in una duplice categoria, anche se per
tutte si prevede che debbano essere "trasmesse per via gerarchica  al
procuratore  generale  presso  la  corte d'appello": quelle dei "casi
ordinari" e  quelle  dei  "casi  urgenti".  Nei  casi  previsti  come
ordinari  e'  stabilito  che il procuratore generale "fa pervenire le
rogatorie al ministro di grazia e  giustizia  col  suo  parere  circa
l'utilita'  e  l'opportunita'  di  darvi  corso",  e si aggiunge che,
quando il ministro ritenga di non  darvi  corso,  "ne  informa  senza
ritardo   il   procuratore   generale   che   da'   immediato  avviso
all'autorita' richiedente". Per i casi  urgenti,  invece,  il  codice
vigente  autorizza l'autorita' giudiziaria a trasmettere le rogatorie
"direttamente agli agenti diplomatici o consolari all'estero",  salvo
l'obbligo di avvertire sempre "per via gerarchica", il ministro.
   Valutata  l'esperienza  processuale formatasi in tale disciplina e
considerata la maggiore  celerita'  che  dovrebbe  caratterizzare  il
nuovo  processo,  la  normativa  e'  stata  delineata  partendo dalla
considerazione che ben difficilmente una rogatoria all'estero  potra'
essere ritenuta non urgente sia per i termini massimi previsti per la
chiusura delle indagini  preliminari  (art.  402)  sia  per  i  tempi
tecnici  necessari per l'espletamento delle rogatorie internazionali,
sempre piuttosto lunghi.
   Si  e' cosi' abolito il filtro - oggi rappresentato dal parere del
procuratore generale - ritenuto in contrasto con la sistematica della
legge-delega  e  si  e' preferito instaurare un piu' diretto rapporto
tra autorita'  giudiziaria  e  ministro  di  grazia  e  giustizia;  a
quest'ultimo, poi, si e' attribuito un limitato potere di "blocco" da
esercitare mediante l'emissione di un decreto qualora l'inoltro della
rogatoria  venga ritenuto atto idoneo a compromettere "la sicurezza o
altri interessi essenziali della Repubblica" (art. 717 comma 2).
   Il decreto e' trasmesso all'autorita' richiedente, il che comporta
la sua inserzione negli  atti  processuali  e,  di  conseguenza,  una
chiara   assunzione  da  parte  del  ministro  della  responsabilita'
politica connessa alla scelta operata (art. 717 comma 3).
   Nei  casi  ordinari  il  ministro  di  grazia  e giustizia, se non
informa l'autorita' richiedente di aver messo il decreto di "blocco",
comunica  alla  medesima  "la  data  di  ricezione  della richiesta e
l'avvenuto inoltro della rogatoria" (art. 717 comma  3);  allorquando
la  rogatoria non e' stata inoltrata dal ministro entro trenta giorni
dalla ricezione, e non sia  stato  emesso  il  decreto  di  "blocco",
l'autorita'   giudiziaria   puo'   provvedere   all'inoltro   diretto
all'agente diplomatico  italiano,  informandone  il  ministro  stesso
(art.  717  comma  4).  In  tal modo, dunque, decorso nell'inerzia il
termine di legge, opera  la  medesima  disciplina  dei  casi  urgenti
espressamente prevista dal comma 5 dell'art. 717.
   Il  meccanismo  previsto dal comma 5 dell'art. 717 rende possibile
il potere di "blocco" del ministro anche nei casi urgenti, senza  che
cio'   comporti   alcun  ritardo  nella  procedura,  posto  che  tale
meccanismo consente al ministro  -  notiziato  tempestivamente  -  di
"bloccare"  la  rogatoria,  sempre  nei  casi e nei modi previsti dal
comma 2, presso l'agente diplomatico o consolare all'estero.
   Con  l'articolo  718,  si e' ritenuto opportuno inserire nel nuovo
codice una norma che eliminasse le incertezze -  che  in  passato  si
sono  a  volte  verificate  - in ordine all'incidenza delle eventuali
condizioni poste dallo stato estero  all'utilizzabilita'  degli  atti
richiesti.   La   norma  stabilisce  che  tali  condizioni  vincolano
l'autorita'  giudiziaria,  a  tale  scopo  configurando  la  sanzione
dell'inutilizzabilita'.
                              TITOLO IV
               EFFETTI DELLE SENTENZE PENALI STRANIERE
          ESECUZIONE ALL'ESTERO DI SENTENZE PENALI ITALIANE
   La  cooperazione  giudiziaria  interstatuale  in  campo  penale ha
subi'to nei tempi piu' recenti una profonda  evoluzione,  determinata
soprattutto  dalle  innovazioni  introdotte  con  moderne convenzioni
internazionali.    Accanto     all'affinamento     degli     istituti
dell'estradizione  e  delle  rogatorie  sono,  infatti,  emersi nuovi
strumenti di cooperazione,  tra  i  quali,  quello  costituito  dalla
esecuzione  delle sentenze penali straniere ovvero dall'assunzione di
funzioni che si collegano all'esecuzione di una decisione  straniera.
   Il  crescente  rilievo attribuito a tale nuova articolazione della
cooperazione internazionale nella materia penale ha diverse cause. La
prima,  e  la  principale,  e' costituita certamente dalla accentuata
mobilita' della popolazione (soprattutto nell'ambito della  Comunita'
economica  europea,  dal  momento  che  la  libera  circolazione  dei
lavoratori e dei prestatori e utenti di servizi rappresenta  uno  dei
pilastri  dell'ordinamento  giuridico  nato dal Trattato di Roma) che
provoca un aumento dei reati commessi da persone residenti all'estero
e  che,  dopo  la  consumazione  del  reato,  ritornano  nello  stato
d'origine. D'altro canto l'obiettivo del  reinserimento  sociale  del
condannato,  che  assume  un ruolo crescente tra le diverse possibili
funzioni della pena - nell'ordinamento italiano anche alla  luce  del
principio   contenuto  nell'art.  27  Cost.  -  appare  razionalmente
perseguibile solo quando la pena detentiva viene espiata nel paese in
cui il condannato ha saldi legami sociali e familiari.
   I  possibili  sviluppi  di  questa  nuova  forma di collaborazione
internazionale appaiono considerevoli.
   Oltre   ad   essere   prevista  in  due  accordi  gia'  in  vigore
(Convenzione europea sulla sorveglianza delle  persone  condannate  o
liberate  condizionalmente, ratificata dall'Italia il 21 maggio 1975;
art. 18 del Trattato  di  mutua  assistenza  in  materia  penale  tra
l'Italia  e  gli  Stati  Uniti  d'America,  ratificato il 13 novembre
1985), essa sembra suscettibile di larga utilizzazione sulla base  di
convenzioni  -  firmate  ma  non ancora ratificate - che disciplinano
vari aspetti della cooperazione nel momento  dell'esecuzione  e,  fra
gli  altri,  la  esecuzione  delle pene principali, ivi comprese pene
restrittive della liberta' personale. Tra queste  convenzioni  vanno,
in  particolare, ricordate quelle che consentono il trasferimento del
condannato nel paese d'origine perche' vi sconti  la  pena  detentiva
(ad   esempio,   la   Convenzione  sul  trasferimento  delle  persone
condannate, aperta alla firma a Strasburgo il 21 marzo 1983 e firmata
dall'Italia  il 20 marzo 1984 e l'Accordo per l'applicazione di detta
convenzione tra i  paesi  membri  delle  Comunita'  europee,  firmato
dall'Italia il 25 maggio 1987).
   Si  e'  ritenuto, quindi, che il codice non possa non regolare gli
aspetti "interni" relativi  a  questa  nuova  forma  di  cooperazione
internazionale.
   Si  e'  considerato,  a  tal  proposito, che una delle ragioni del
ritardo nelle ratifiche  delle  convenzioni  firmate  dall'Italia  va
ricercata  nella  mancanza attuale del quadro procedurale secondo cui
attuare  le  previsioni  pattizie.  Si  e'   pure   considerato   che
all'esecuzione delle sentenze penali straniere sono ormai attribuite,
in numerose legislazioni  straniere,  dignita'  e  rilevanza  pari  a
quelle dell'estradizione e delle rogatorie, tanto che essa ha trovato
- accanto a queste piu' conosciute specie di cooperazione -  compiuta
disciplina  nelle  leggi  di alcuni paesi europei (Austria, Svizzera,
Repubblica Federale di Germania) che regolano in termini  generali  i
rapporti con le autorita' giudiziarie straniere.
   Ma,  soprattutto, si e' tenuto conto del fatto che i piu' delicati
problemi di adattamento della nuova normativa ai principi del sistema
penale  italiano - cioe' quelli relativi alla corretta individuazione
dei meccanismi attraverso i quali conferire alla  sentenza  straniera
valore  per  l'ordinamento  italiano  si'  da  poterne  far  derivare
l'esecuzione - potevano essere in buona misura risolti adottando, con
gli  opportuni  aggiustamenti,  l'istituto  del "riconoscimento delle
sentenze penali straniere", gia' previsto nel codice  vigente  e  nel
codice  penale.  Pur  senza trascurare le differenze esistenti tra le
finalita' del " riconoscimento " agli effetti  dell'art.  12  c.p.  e
quelle   dell'esecuzione   delle  sentenze  penali  straniere,  e  la
conseguenziale necessita' di disposizioni per certi aspetti  diverse,
si   e'  constatata  e  valutata  positivamente  la  possibilita'  di
ricondurre  comunque  allo  schema  del  "  riconoscimento  ",   gia'
disciplinato  dalla legge italiana, il nuovo istituto dell'esecuzione
delle sentenze straniere, cosi' da dar  vita  a  un  unico,  organico
complesso  di norme, nel cui ambito le due materie possono essere per
molteplici versi disciplinate unitariamente.
   Si  e'  ritenuto,  peraltro,  che  in  mancanza  di  una esplicita
previsione della legge-delega, non  fosse  legittimo  introdurre  nel
codice  disposizioni  procedurali  volte  a  disciplinare  l'istituto
dell'esecuzione delle sentenze penali straniere in assenza di accordi
internazionali.  In  questa  ipotesi, infatti, si sarebbe configurata
non  soltanto  una  nuova  disciplina  processuale,   ma   anche   la
regolamentazione  sostanziale  che  la  prima  presuppone e che, allo
stato, non esiste al di fuori dei  casi  in  cui  l'esecuzione  delle
sentenze penali sia prevista da convenzioni internazionali.
   Il  capo  I, quindi, contiene sia la disciplina del riconoscimento
ai  sensi  dell'art.  12  c.p.  che  quella  del  riconoscimento  per
l'esecuzione  delle  sentenze penali straniere, sulla base di accordi
internazionali, nonche' degli altri punti a quest'ultima connessi. Il
capo  II  contiene le disposizioni relative all'esecuzione all'estero
delle sentenze italiane.
                                CAPO I
               EFFETTI DELLE SENTENZE PENALI STRANIERE
   L'articolo  719  disciplina il promovimento del riconoscimento per
gli effetti oggi previsti  dall'art.  12  c.p.  -  ad  eccezione  del
riconoscimento  per  gli  effetti civili (art. 12 comma 1 n. 4 c.p.),
domandato da privati, che e' regolato nell'art. 721.
    Si  e'  ritenuto  che le disposizioni relative all'iscrizione nel
casellario  giudiziale  delle  sentenze  straniere  dovessero  essere
riservate   a   quella  parte  del  codice  che  regola  in  generale
l'iscrizione medesima (art.  677  comma  2);  peraltro,  e'  sembrato
opportuno  specificare  in  questo articolo i casi in cui la sentenza
straniera puo' divenire oggetto di riconoscimento, individuandoli  in
quelli  di  sentenze  pronunciate nei confronti non solo di cittadini
italiani ovvero di persone residenti nello Stato, ma anche di persone
non  residenti  che si trovino sottoposte a procedimento penale nello
Stato. Quest'ultima novita' rispetto alla normativa vigente si spiega
in considerazione della intrinseca relazione presente tra l'esistenza
di un procedimento in corso e alcuni degli  effetti  attribuibili  al
riconoscimento ai sensi dell'art. 12 c.p.
   Nello  stesso articolo, inoltre, si e' inteso attenuare la nota di
discrezionalita'  nell'  an  che   oggi   caratterizza   (art.   672)
l'iniziativa  del  pubblico  ministero  per  il  riconoscimento della
sentenza straniera; e cio' semplicemente esplicitando che in presenza
dei  presupposti  previsti  dalla  normativa sostanziale (articolo 12
c.p.) il pubblico ministero debba richiedere il riconoscimento. Si e'
poi  previsto  (comma  3)  che  la  richiesta  deve  contenere  "  la
specificazione  degli  effetti  per  i  quali  il  riconoscimento  e'
domandato  ",  cosi' impostando il riconoscimento secondo un criterio
di maggior determinatezza rispetto al sistema  attuale,  in  aderenza
alle esigenze del contraddittorio e della difesa.
   Lo  stesso  criterio,  d'altronde,  e' riflesso nell'articolo 723,
laddove -  nel  disciplinare,  unitariamente  per  tutti  i  tipi  di
riconoscimento,  le  forme  del  procedimento  davanti  alla corte di
appello e la deliberazione che lo conclude - si e' stabilito che alla
sentenza di riconoscimento debba di necessita' inerire l'enunciazione
espressa degli effetti che ne conseguono. Si e' voluto, in tal  modo,
evitare  quanto  puo'  accadere alla stregua della disciplina vigente
che cioe', ove manchi, nella sentenza che attua il riconoscimento, la
declaratoria  dell'effetto, o degli effetti, astrattamente derivabili
dal riconoscimento alla stregua dell'art. 12  c.p.,  quella  sentenza
possa  tuttavia  essere suscettibile di dispiegare una sua intrinseca
virtualita' a produrre tutti gli altri effetti indicati nello  stesso
articolo,  attraverso  l'integrazione  di  una semplice ordinanza (v.
art. 674 ultimo comma c.p.p.). Con la nuova disciplina, invece,  cio'
non e' piu' previsto e non e' piu' possibile: cosicche', nell'ipotesi
in cui manchi la declaratoria relativa a uno specifico effetto,  e  a
quello  si  voglia  pervenire,  dovra' necessariamente instaurarsi un
nuovo iter di riconoscimento, con la conseguenza - e col vantaggio  -
che nel medesimo potranno essere dispiegate le garanzie di legge.
   I   possibili   inconvenienti  di  una  tale  scelta  di  politica
legislativa  (si  pensi  a  diversita'  o  contraddittorieta'   delle
decisioni)   sono   parsi   meno  gravi  degli  svantaggi  certamente
derivanti, agli effetti del contraddittorio, dalla normativa vigente.
   L'articolo  720  disciplina  il promovimento del riconoscimento ai
fini dell'esecuzione di sentenze penali straniere, nei casi previsti,
come   si  e'  gia'  detto,  da  accordi  internazionali.  Nel  testo
dell'articolo si fa riferimento, peraltro - accanto alle finalita' di
esecuzione della sentenza straniera - anche all'attribuzione di altri
effetti: si e' cosi' inteso ricomprendere pure quei possibili casi di
cooperazione  internazionale che, sebbene sempre afferenti al momento
dell'esecuzione, non possono propriamente definirsi  come  assunzione
dell'esecuzione  stessa  da  parte dello Stato, essendo costituiti da
funzioni a questa connesse ma secondarie (ad esempio, assunzione  del
solo  compito  di  cooperazione nella vigilanza sul condannato che ha
ottenuto la liberazione condizionale).
   Il  potere  di  iniziativa e' stato, in questo caso, espressamente
attribuito al ministro di  grazia  e  giustizia.  Il  riconoscimento,
infatti,   costituisce   -  nell'ipotesi  in  esame  -  lo  strumento
processuale  interno  per   la   soddisfazione   degli   obblighi   o
l'attuazione  delle facolta' che derivano dal rapporto interstatuale,
sicche' e' parso necessario conferire al  ministro  ruolo  analogo  a
quello  rivestito dallo stesso nello svolgimento delle altre forme di
cooperazione giudiziaria internazionale (estradizione; rogatorie). Le
disposizioni dell'accordo internazionale da applicare determineranno,
nel caso concreto, l'ampiezza del  potere  decisionale  del  ministro
circa   la   esecuzione   nello   Stato   della  sentenza  straniera;
ogniqualvolta egli ritenga che, in ottemperanza di un  obbligo  o  in
forza  di  una facolta' - che gli derivino dall'accordo medesimo - si
debba provvedere a tale esecuzione, dovra' necessariamente richiedere
il riconoscimento.
   Avutasi  la richiesta del ministro, spetta anche in questo caso al
procuratore generale promuovere il procedimento davanti alla corte di
appello.
   Per  una  opportuna  esigenza  di economia processuale, il comma 2
dell'articolo  prevede  inoltre  che  il  procuratore  generale,  nel
promuovere  il  riconoscimento  ai  fini dell'esecuzione di una pena,
possa richiedere, ove ne ricorrano  i  presupposti,  che  esso  venga
deliberato  anche agli effetti previsti dall'art. 12 n. 1, 2 e 3 c.p.
si ammette in tal modo la possibilita' di un riconoscimento al fine
di  ricollegare  alle sentenze straniere una molteplicita' di effetti
nello Stato  (effetti  che,  peraltro,  secondo  quanto  si  e'  gia'
osservato, debbono essere specificamente indicati nella richiesta del
procuratore generale ed  enunciati  nella  sentenza  della  corte  di
appello).
   Gli  articoli  721  e  730,  che disciplinano, rispettivamente, il
riconoscimento delle sentenze penali straniere per gli effetti civili
e  il  riconoscimento  delle  disposizioni  civili di sentenze penali
straniere, non contengono innovazioni di rilievo rispetto all'attuale
regolamentazione.
   L'articolo  722  detta,  con disciplina unitaria, le condizioni in
assenza delle quali non puo' darsi riconoscimento. La  individuazione
di  tali  presupposti  e'  stata  operata enucleando tutti e soltanto
quelli compatibili sia con il riconoscimento ex art. 12 c.p. che  con
quello  per  esecuzione  della  sentenza  straniera.  In particolare,
nell'ambito  delle  ipotesi  di  riconoscimento  per  esecuzione   di
condanne  a pena detentiva, i presupposti indicati si adattano sia ai
casi in cui la esecuzione in paese diverso da quello di  condanna  e'
in  favore  del  condannato  (cio'  avviene  quando  questi,  gia' in
espiazione di pena nel paese di condanna, e' trasferito nel paese  di
origine),  sia  ai casi in cui, non potendosi ottenere l'estradizione
del condannato, se ne richiede la sottoposizione a pena nel paese  in
cui  egli  si  trovi.  Si  e'  considerato,  d'altro  canto,  che  le
condizioni relative a specifici tipi di  esecuzione  all'estero  sono
previste negli accordi internazionali stessi.
   I  presupposti indicati alle lett. a ), b ) e c) riprendono quanto
gia' previsto dal codice vigente  (art.  674  comma  1),  con  alcune
modifiche:  particolare attenzione si e' prestata alla condizione che
il procedimento straniero  si  sia  svolto  nel  rispetto  di  alcuni
principi  basilari del nostro sistema procedurale, cosi' da garantire
soprattutto uno standard minimo in materia di diritti della difesa. A
tal  fine  le  garanzie  attualmente  previste  dall'art. 674 comma 1
c.p.p. per il riconoscimento di  cui  all'art.  12  c.p.  sono  state
estese   a  ricomprendere  altri  elementi,  quali  l'indipendenza  e
l'imparzialita' del  giudice  straniero  e  la  possibilita'  per  il
condannato  di  essere  ascoltato  in  una lingua a lui comprensibile
(supponendo,  se  necessaria,  l'assistenza  di  un  interprete).  Le
cautele volte a evitare il riconoscimento di sentenze scaturite da un
procedimento ingiusto sono completate dalla lett. d), con la quale in
adesione  ad  analoghi  richiami  nelle altre parti del libro XI - si
esclude il  riconoscimento  di  giudicato  straniero  che  sia  stato
influenzato  da una qualsiasi forma di discriminazione o persecuzione
del condannato.
   Pari   rilevanza  assume,  poi,  la  introduzione  (lett.  e)  del
requisito della doppia incriminabilita':  tradizionalmente  attinente
all'estradizione,  questo  presupposto presenta un valore ancora piu'
pregnante nei casi di  riconoscimento  per  esecuzione  di  giudicati
stranieri:  contrasterebbe,  infatti,  con  l'art.  25 Cost. eseguire
nello Stato una pena per fatti non previsti come  reato  della  legge
italiana.
    Le  condizioni  previste alle lett. f ) e g), infine, riflettono,
rispettivamente, la preoccupazione di evitare che  il  riconoscimento
della   sentenza   straniera  divenga  strumento  di  violazione  del
principio del ne bis in idem, e la priorita' attribuita all'esercizio
in via diretta della funzione giurisdizionale rispetto all'attuazione
della cooperazione internazionale.
   L'articolo 724 prevede che la corte di appello, nella decisione di
riconoscimento  della  sentenza  straniera  ai  fini  di  esecuzione,
determina  anche  la  pena da eseguire nello Stato, procedendo a un "
adattamento " della pena inflitta con la sentenza straniera.
   Tale   adattamento   si   svolge   sulla   base  di  due  principi
fondamentali.
   Il  primo  e'  costituito  dal  tendenziale  rispetto  della  pena
determinata nella decisione straniera: il giudice del  riconoscimento
non  procede  a una rideterminazione della sanzione, ma stabilisce la
pena da eseguire rispettando - come regola generale  -  la  decisione
straniera  tanto con riguardo alla species della pena inflitta quanto
con riferimento alla sua entita'.
   Il  secondo  principio e' costituito dalla regola che in ogni caso
la pena da eseguire non possa essere piu' grave, per specie e misura,
di  quella  comminata  (o  di  una di quelle comminate) per lo stesso
fatto dalle leggi italiane.
   Sulla   base  di  questi  principi  si  sviluppano  le  previsioni
dell'art. 724: il giudice del riconoscimento dovra'  sostituire  alla
pena  inflitta  nella sentenza straniera una delle pene stabilite per
lo stesso fatto dalla legge  italiana,  scegliendo  quella  che  piu'
corrisponde  per  natura  alla  prima;  la  misura  della sanzione e'
stabilita  sulla   base   della   sentenza   straniera   (avvalendosi
eventualmente dei criteri di ragguaglio tra pene diverse previste nel
sistema penale italiano), ma senza superare  il  massimo  della  pena
edittale comminata per lo stesso fatto dalla legge italiana.
   Nel  caso  in  cui  la  sentenza  straniera non abbia stabilito la
misura della pena, questa deve  essere  determinata  sulla  base  dei
principi contenuti negli artt. 133, 133- bis e 133- ter c.p.
   In  ogni caso la pena cosi' determinata non puo' essere piu' grave
di quella stabilita nella decisione straniera da eseguire.
   Gli  articoli  725  e  726 provvedono in tema di misure cautelari,
relativamente  al  riconoscimento  per  esecuzione  di  una  sentenza
straniera.  Ovviamente  le  misure  cautelari  personali previste nel
primo articolo sono applicabili nei soli casi in cui il condannato si
trovi  gia'  nel  territorio  italiano;  inoltre,  deve  trattarsi di
esecuzione  di  pena  restrittiva  della  liberta'.  Le  disposizioni
dell'articolo  sono  state modellate, per quanto possibile, su quelle
previste in tema di misure cautelari per l'estradizione.
   La  possibilita'  di  ordinare  il  sequestro e', invece, prevista
nell'art. 726 per la ipotesi in  cui  la  esecuzione  della  sentenza
straniera sia costituita da confisca.
   Gli articoli 727 e 729 regolano le modalita' dell'esecuzione della
pena e della confisca conseguente  al  riconoscimento:  il  principio
fondamentale  e'  che  l'esecuzione  avviene  sempre secondo le leggi
italiane.
   Infine,  l'articolo  728  e' volto a evitare che il riconoscimento
della condanna straniera  e  la  conseguente  esecuzione  della  pena
inflitta  siano  causa di una successiva violazione del principio del
ne bis in idem; si esclude, quindi, che la persona condannata con  la
sentenza  riconosciuta (salvo che si tratti di riconoscimento ai fini
dell'esecuzione di una confisca) possa  essere  estradata  all'estero
(nello  stato  di  condanna  o in un terzo stato) ovvero sottoposta a
procedimento penale per lo stesso fatto.
                               CAPO II
          ESECUZIONE ALL'ESTERO DI SENTENZE PENALI ITALIANE
   Il  capo  II  contiene  le  disposizioni  relative alla esecuzione
all'estero di sentenze italiane, cosi' disciplinando il " reciproco "
dell'esecuzione nello Stato delle sentenze straniere.
   Ovviamente  tale  reciprocita'  non comporta un pieno parallelismo
delle due normative: il  sistema  processuale  per  conferire  valore
all'estero  alle  sentenze  italiane  e  la  attribuzione  di effetti
peculiari della legge del paese  straniero  non  possono  che  essere
regolati dalla legge straniera stessa o dagli accordi internazionali.
   Il  capo  II,  quindi, si limita a disciplinare i presupposti e le
procedure relative alla domanda che lo Stato italiano puo'  rivolgere
a  uno  stato  straniero,  affinche'  qui  siano eseguite le sentenze
(artt. da 731 a 734), nonche' gli effetti dell'accoglimento  di  tale
domanda sul procedimento italiano (art. 735).
   Il  comma  1  dell'articolo 731 prevede che il potere di domandare
l'esecuzione all'estero o di acconsentirvi (quest'ultima  ipotesi  si
verifica quando le convenzioni attribuiscano l'iniziativa a uno stato
diverso da quello  di  condanna)  spetta  al  ministro  di  grazia  e
giustizia,  che puo' esercitarlo solo nei casi previsti dagli accordi
internazionali o dall'art. 702 comma 2 (il quale consente che, quando
la  persona  da  estradare  debba  espiare  una  pena nello Stato, il
ministro convenga con lo stato richiedente l'estradizione che la pena
da   scontare   in   Italia  venga  eseguita  all'estero).  Tuttavia,
l'esecuzione all'estero di condanna a pena restrittiva della liberta'
personale  non e' ammessa senza previa deliberazione favorevole della
corte di appello  (articolo  732).  Va  notato  a  tal  riguardo  che
l'intervento  dell'autorita' giudiziaria ha qui un rilievo ben minore
di  quello  che  esso  assume  nel  procedimento  di   riconoscimento
disciplinato  nel  capo  I.  Non  si  tratta, infatti, di attribuire,
tramite l'exequatur, particolare  valore  giuridico  a  una  sentenza
straniera, ne' di adattarne le disposizioni con integrazioni in parte
modificatrici  del  contenuto;  bensi'  soltanto  di   accertare   la
sussistenza  dei presupposti che legittimano l'esecuzione all'estero,
senza che cio' comporti effetto alcuno sul contenuto  della  sentenza
da  eseguire. Peraltro, a maggior garanzia dello stesso condannato, e
tenuto conto della natura di tali presupposti  e  condizioni,  si  e'
ritenuto che l'accertamento degli stessi non puo' che essere affidato
alle autorita' giudiziarie.
   Il  giudizio  innanzi  alla  corte  di  appello  e'  promosso  dal
procuratore generale. Le forme del procedimento sono regolate in modo
identico a quanto previsto dall'art. 723.
   I presupposti e i limiti dell'esecuzione all'estero sono stabiliti
negli artt. 731, 732 e 733 con esclusivo  riferimento  all'esecuzione
di  pene  restrittive della liberta'. Si e' ritenuto che, nei casi in
cui la esecuzione all'estero e' indirizzata  a  favorire  l'obiettivo
del  miglior reinserimento sociale del condannato, essa non possa che
avvenire   con   il   consenso   del   condannato;    quell'obiettivo
risulterebbe,  infatti,  pienamente  compromesso se mancasse l'attiva
partecipazione del condannato. Peraltro, per garantire ancora di piu'
il  perseguimento  di  questo  fine,  alla  libera determinazione del
condannato si deve accompagnare la valutazione  obiettiva  -  operata
dalle  autorita'  competenti - delle prospettive realmente offerte in
tal senso dall'esecuzione all'estero nel singolo caso concreto.
   Naturalmente,  i  requisiti  del  consenso e della possibilita' di
miglior reinserimento sociale non sono richiesti quando il condannato
si  trovi  nello stato estero e la sua estradizione e' stata negata o
e' comunque impossibile. In questa  situazione  la  esecuzione  nello
stato   estero   svolge   la   funzione   di   strumento   succedaneo
dell'estradizione e, al  pari  di  quest'ultima,  ha  come  scopo  la
concretizzazione  della sanzione inflitta con la condanna, altrimenti
destinata a restare in tutto o in parte ineseguita.
   L'articolo 733 vieta la domanda di esecuzione all'estero quando si
ha motivo di temere che  il  condannato  possa  essere  sottoposto  a
persecuzioni  o  subire  pregiudizi  per  ragioni  di discriminazione
ovvero che le modalita' di esecuzione della pena potrebbero dar luogo
a  trattamenti  crudeli, disumani o degradanti. L'esigenza di evitare
questi pericoli e di tutelare i diritti fondamentali  del  condannato
deve  prevalere  anche  rispetto all'esigenza di concretizzazione del
ius puniendi o a quella di eseguire la pena nel paese di origine  del
condannato.
   La  valutazione di tali pericoli e' demandata allo stesso ministro
di grazia e giustizia, perche', contrariamente a  quanto  si  suppone
nell'art. 722 comma 1 lett. d), qui si tratta non gia' di valutare un
procedimento straniero gia' avvenuto, quanto di pronosticare -  sulla
base  di  un  complesso  esame della situazione socio-ordinamentale e
politica dello stato  estero  -  le  caratteristiche  dell'esecuzione
all'estero se la domanda viene presentata e accolta.
   L'articolo  734  prevede  la possibilita' di richiedere allo stato
estero misure cautelari in attesa della decisione  sulla  domanda  di
esecuzione.
   L'articolo  735,  infine,  regola  il  rapporto  tra  l'esecuzione
all'estero e la prosecuzione dell'esecuzione  in  Italia,  stabilendo
che  quest'ultima  resti  sospesa  dal  momento  in  cui  la prima e'
iniziata e definitamente impedita dal momento in  cui  la  prima  sia
stata condotta al termine.
                               PREMESSA
   1.  Il  testo del nuovo codice di procedura penale presentato oggi
al  Consiglio  dei  Ministri  rispetta  rigorosamente  i  tempi,  pur
brevissimi,   previsti  dal  comma  4  dell'art.  8  della  legge  di
delegazione 16  febbraio  1987,  n.  81  (pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale del 16 marzo 1987 ed entrata in vigore il 31 marzo di detto
anno). Entro il 30 settembre  1988  il  Presidente  della  Repubblica
dovra' infatti firmare il decreto che ne accompagna l'emanazione.
   Osservare  questi  termini  non  e' stato compito agevole, data la
mole  del  compito  della  redazione  del   codice,   devoluta   alla
Commissione   nominata  a  questo  fine  dal  Ministro  di  grazia  e
giustizia, e di quello della sua duplice revisione (nel  momento  del
progetto  preliminare  e in quello del progetto definitivo), devoluta
alla Commissione parlamentare di cui all'art. 8 della citata legge di
delegazione  16  febbraio  1987.  Ma cio' e' stato tuttavia possibile
grazie allo scrupolo  e  all'impegno  dedicati  a  detto  compito  da
entrambe   le  Commissioni,  presiedute,  la  prima  (la  Commissione
ministeriale), dal professore Gian Domenico Pisapia e la seconda  (la
Commissione  parlamentare,  composta  di  venti  deputati  e di venti
senatori) dal senatore professore Ignazio Marcello Gallo.
   Il  Ministro  proponente  ritiene pertanto che si debba dare atto,
anzitutto, alle suddette Commissioni  del  loro  apporto  di  intenso
lavoro,  che  ha permesso di rispettare i tempi previsti dalla legge,
senza dover proporre  proroghe,  e  di  presentare  un  risultato  di
altissimo pregio.
   Dei contenuti di esso e' appunto chiamata a dare conto la presente
relazione, non senza un brevissimo cenno sui precedenti  della  opera
di riforma che oggi si conclude.
   2.  La  legge che disciplina il processo penale, quale espressione
essenziale dell'assetto che ogni sistema politico da' ai rapporti tra
autorita'  e  liberta',  assume contenuti strettamente collegati alle
caratteristiche  del  sistema  stesso.  Questo  collegamento   spiega
perche'  il  codice  approvato nel 1930 dal regime fascista inizio' a
subire interventi di modifica su punti di notevole rilievo gia' pochi
mesi  dopo  la  caduta  di  tale  regime,  quando  ancora  il Governo
italiano,  in  attesa  della   liberazione   dell'intero   territorio
nazionale,  aveva  sede  a Brindisi (r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 45) e
poi a Roma (d.lg.lt. 10 agosto 1944, n. 194 e d.lg.lt.  14  settembre
1944,  n. 288). Successivamente, sin dall'anno 1945, venne costituita
una Commissione per la riforma organica del codice procedura  penale.
   Esigenze  di un intervento celere - reso ancora piu' indifferibile
da  alcune  disposizioni  della   Costituzione   repubblicana   (come
l'inviolabilita'  del diritto di difesa) - fecero propendere verso la
meta' degli anni cinquanta per un'opera novellistica,  attuatasi  con
la  legge  18  giugno  1955  n.  517,  la quale, per la sua ampiezza,
altero' sensibilmente ed in molti settori i contenuti del codice,  ma
ne   lascio'  immutata  l'impostazione  di  fondo,  ispirata  ad  una
ideologia autoritaria. Sulla normativa  processuale  penale,  invero,
piu' che su ogni altra normativa codicistica, sono caduti nei decenni
successivi gli interventi invalidanti della Corte costituzionale.
   Non  sono  percio'  mai  venute  meno le aspirazioni e le tensioni
verso una disciplina nuova del processo penale.
   Una  "bozza"  di  codice  spiccatamente  innovativa  fu redatta da
Francesco Carnelutti quale presidente  di  una  apposita  Commissione
ministeriale.
   La  discussione  che  si  sviluppo'  su tale testo (del 1963) fece
ritenere  necessaria  la  preventiva  elaborazione,  da   parte   del
Parlamento,  di  una legge che individuasse i principi ispiratori del
nuovo codice, onde nell'aprile 1965  fu  presentato  dal  Governo  un
disegno  di  legge-delega  per  la  redazione  di  un nuovo codice di
procedura  penale.  I  lavori  parlamentari   su   tale   delega   si
svilupparono  lungo  tre  legislature  (durante la quarta legislatura
solamente di fronte alla Camera  dei  Deputati)  e  sfociarono  nella
legge 3 aprile 1974, n. 108.
   Per  l'attuazione  di  tale  legge  fu  costituita una Commissione
ministeriale  presieduta  dal  prof.  Gian  Domenico   Pisapia   che,
affiancata    da    una   Commissione   consultiva   a   composizione
prevalentemente parlamentare, elaboro' il  Progetto  preliminare  del
nuovo  codice, pubblicato all'inizio del 1978 e corredato da un'ampia
ed esauriente relazione illustrativa.  Sul  Progetto  preliminare  la
Commissione  consultiva  espresse un analitico ed approfondito parere
conclusivo.  Il  Progetto   preliminare   fu   inviato   anche   alle
Universita',  agli  Uffici  giudiziari  ed  ai  Consigli  dell'ordine
forense, che espressero numerose osservazioni.
   La particolare situazione dell'ordine pubblico nel 1978-79 (cc.dd.
anni dell'emergenza) e la necessita' di un  riesame  delle  direttive
della   legge-delega   del   1974   furono  fattori  concorrenti  nel
determinare  un  differimento  nell'emanazione  del   nuovo   codice;
differimento espressosi con la presentazione del disegno di legge del
Ministro Morlino che, nell'ottobre del 1979, nel  proporre  un  nuovo
termine  per  l'esercizio  della  delega,  chiese  al  Parlamento una
valutazione su tutto il lavoro svolto, indicando  anche  gli  aspetti
del  modello  di  nuovo processo dei quali si riteneva necessaria una
revisione.
   Si  apriva  cosi'  il  dibattito per l'elaborazione di una seconda
legge-delega, dibattito che poteva svilupparsi in modo piu' concreto,
in  quanto  aveva  come  punto  di riferimento essenziale il Progetto
preliminare del 1978. Nel frattempo si ampliava sensibilmente  l'area
di  opinione  che  riteneva  indispensabile  l'emanazione di un nuovo
codice, aggiungendosi alle ragioni politiche dianzi menzionate quelle
di  ordine  tecnico  derivanti  dal fatto che il codice del 1930, per
l'intervento di una serie sempre piu' frequente di  modifiche,  aveva
ormai  perso  la funzione sistematica ed unificante che e' propria di
ogni codificazione.
   Il  lavoro  parlamentare sulla nuova legge-delega si e' svolto nel
corso di due legislature, l'ottava (solamente di fronte  alla  Camera
dei  Deputati)  e  la  nona;  ad  esso  si  e'  affiancato  l'impegno
continuativo   del   Governo   che,   soprattutto    attraverso    la
ricostituzione  della  Commissione  di  studiosi presieduta dal prof.
Pisapia,  ha  fornito  un  meditato  contributo   alle   scelte   del
Parlamento.
   Si  e'  cosi'  pervenuti alla legge 16 febbraio 1987 n. 81, che ha
conferito al Governo la delega  per  la  emanazione  del  codice  qui
illustrato.   Nel  rigoroso  rispetto  della  procedura  disciplinata
dall'art. 8 di tale legge, il Governo, avvalendosi dei  lavori  della
stessa  Commissione  che  aveva seguito la elaborazione della delega,
ha,  nel  gennaio  1988,  approvato  ed  inviato   alla   Commissione
parlamentare  prevista  dalla  citata disposizione normativa il testo
del Progetto  preliminare  del  nuovo  codice,  accompagnato  da  una
analitica  relazione.  Anche  su questo nuovo Progetto preliminare e'
stato chiesto ed acquisito il contributo critico  delle  Universita',
degli Uffici giudiziari e dei Consigli forensi.
   Sulla  base del parere espresso dalla Commissione parlamentare nel
maggio  1988  e  tenuto  conto   anche   delle   altre   osservazioni
tempestivamente  pervenute al Ministero, e' stato redatto il Progetto
definitivo del nuovo codice, approvato dal  Governo  ed  inviato  nel
luglio 1988 alla Commissione parlamentare.
   Sul  Progetto definitivo, la Commissione parlamentare, nell'agosto
1988, ha espresso parere "pienamente favorevole", formulando peraltro
diverse  osservazioni che sono state attentamente valutate e recepite
nei casi e nei modi che saranno di seguito illustrati.  Un  ulteriore
lavoro  di  coordinamento  e  di  revisione  tecnica ha consentito di
pervenire al testo  del  codice  oggi  presentato  al  Consiglio  dei
Ministri  (il  quale  aveva  gia'  approvato  i  testi  del  Progetto
preliminare e di quello definitivo).
   4.  Il  periodo  di  tempo  assai  lungo  occorso  per giungere al
traguardo  di  una  nuova  codificazione  sul  processo   penale   ha
consentito  il  formarsi  di un ampio consenso sociale non solo sulla
necessita' della riforma ma anche sulle caratteristiche  fondamentali
del  nuovo  sistema  processuale. Tanto che negli anni piu' recenti i
lavori di elaborazione del nuovo codice, condotti in esecuzione delle
due  successive deleghe, hanno spesso costituito per il Parlamento un
modello per gli interventi novellistici operati sul  codice  vigente,
sino  alla recentissima legge 5 agosto 1988, n. 330 sui provvedimenti
restrittivi della liberta' personale.
   Gia'  nella "bozza" redatta nel 1963 da Francesco Carnelutti erano
prefigurate in larga misura le linee lungo le quali si sarebbe dovuto
muovere il nuovo processo penale, abbandonando gli schemi inquisitori
che caratterizzano il codice vigente. Era netta in quella "bozza"  la
separazione   tra   la   fase   preliminare,   denominata  "inchiesta
preliminare", rimessa esclusivamente  al  pubblico  ministero,  e  il
giudizio;  ed  erano  rigidamente  contenuti  i  poteri  del pubblico
ministero, con il chiarimento, nella "introduzione", che  l'inchiesta
differiva  nettamente dall'istruzione sommaria, perche' questa "tende
a offrire immediatamente  i  suoi  risultati  al  giudice  del  reato
affinche' se ne serva al dibattimento, mentre l'inchiesta preliminare
li offre soltanto al pubblico ministero".
   Era  chiara  nella  "bozza"  Carnelutti la volonta' di cambiare in
modo  radicale  il  modello  processuale.  Un'analoga   volonta'   di
cambiamento,  per  costruire diversamente il rapporto tra autorita' e
persona, e' stata  poi  espressa  nel  preambolo  dell'art.  2  della
legge-delega  del  1974  con l'affermazione che il nuovo codice "deve
attuare nel processo penale i  caratteri  del  sistema  accusatorio";
affermazione  successivamente ribadita nei medesimi termini dall'art.
2 della legge-delega del 1987.
   Il  preambolo  dell'art.  2  indica  una  tendenza che si sviluppa
"secondo i principi ed i criteri" indicati di  seguito  nello  stesso
articolo  e che deve armonizzarsi piu' in generale con altri principi
anche di rango costituzionale,  quali  quelli  sulla  obbligatorieta'
dell'azione  penale  e  sulla  posizione  ordinamentale  del pubblico
ministero.  E'  in  questo  quadro  che  il  nuovo  processo  risulta
improntato  dai  "caratteri  del  sistema accusatorio"; caratteri che
emergono attraverso la netta differenziazione di ruolo  tra  pubblico
ministero  e  giudice,  l'eliminazione  del  segreto  negli  atti del
giudice e nella formazione della prova,  l'accentuazione  dei  poteri
delle   parti   e  la  parita'  tra  queste,  la  valorizzazione  del
dibattimento  e  dell'oralita'.  Questi   principi   espressi   dalla
legge-delega  hanno  trovato ulteriore svolgimento nel codice, che ha
sviluppato un processo di parti, curando  di  collocare  le  indagini
preliminari  del  pubblico ministero in uno stadio preprocessuale, di
garantire nel modo piu' ampio la parita' e di riconoscere, in tutti i
casi   in   cui   e'  risultato  possibile,  alla  concorde  volonta'
dell'imputato e del pubblico ministero il potere di  semplificare  lo
svolgimento del processo.
   La  scelta  accusatoria  contenuta  nella  legge-delega,  e  fatta
propria dal Governo nella redazione del codice, e'  giustificata  non
solo  da  un'idea  tradizionale  di  maggiore  aderenza  agli  schemi
democratici e di piu' ampia considerazione per la persona,  ma  anche
dalla  consapevolezza  che  quella  scelta  piu'  di  qualunque altra
consente di coniugare garanzie ed  efficienza,  entrambe  sacrificate
nel  sistema  vigente,  definito di "garantismo inquisitorio" dopo le
riforme intervenute dal  1955  in  poi.  In  questo  sistema  infatti
l'attivita'  istruttoria  e'  stata  via  via  appesantita attraverso
avvisi, depositi  e  controlli,  i  quali  sono  riusciti  a  ridurne
l'efficienza  ma  non anche ad eliminare gli aspetti piu' tipicamente
negativi dell'impianto inquisitorio, come  la  mancanza  nel  giudice
istruttore  della  posizione  di  terzieta',  l'ampia segretezza e la
formazione istruttoria della prova, con la riduzione del dibattimento
a  luogo  di  verifica  e  di valutazione delle prove precedentemente
acquisite.
   Le   ragioni  della  scelta  risultano  inoltre  rafforzate  dalla
convinzione che le probabilita' di una decisione giusta sono maggiori
quando  la prova si forma nella dialettica processuale anziche' nella
solitaria  ricerca  dell'organo  istruttore,  sia  esso  un  pubblico
ministero  o  un  giudice,  le  cui  acquisizioni  diventano fonte di
pregiudizio ineliminabile per il giudice del dibattimento.
   Nel  nuovo  codice  e'  scomparsa  l'istruzione:  il  giudizio  e'
preceduto dalle indagini  preliminari  del  pubblico  ministero,  che
hanno  carattere investigativo e sono funzionali alle "determinazioni
inerenti all'esercizio dell'azione penale". Gli atti  delle  indagini
preliminari normalmente non costituiscono prova, data la posizione di
parte del pubblico ministero; ne' a questo sono  riconosciuti  poteri
in tema di liberta' personale, fatta eccezione per quello di disporre
il "fermo", che ha carattere provvisorio e presuppone l'esistenza  di
un'urgente necessita' di provvedere.
   Le  misure  cautelari possono essere disposte solo dal giudice per
le indagini  preliminari,  che,  senza  alcun  compito  di  indagine,
interviene  episodicamente  per  il  compimento  di  singoli  atti su
richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. E'  questo  giudice
che  nel  corso delle indagini preliminari, quando occorre, raccoglie
una prova non rinviabile al dibattimento, provvedendo  all'assunzione
nel  contraddittorio  delle  parti  e  con  le forme stabilite per il
dibattimento.
   Nel  codice risulta ben posto in evidenza lo stadio preprocessuale
delle indagini preliminari. Rispetto a queste infatti si e' usato  il
termine  "procedimento",  mentre si e' riservato quello di "processo"
per   la   fase   che   inizia   con   la   definitiva   formulazione
dell'imputazione,  alla  quale  si  lega  la  qualita'  di  imputato.
Imputazione e imputato che, come  e'  espressamente  stabilito  (art.
60),  nascono  solo  al  termine  delle  indagini preliminari, con la
richiesta del pubblico ministero di rinvio a  giudizio,  di  giudizio
immediato  o  di  decreto  penale  di  condanna,  con l'emissione del
decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al  pretore,
oltre che con la richiesta concorde delle parti di applicazione della
pena e con gli atti del giudizio direttissimo.  La  persona  nei  cui
confronti  si  svolgono  le  indagini  preliminari  non  e' quindi un
imputato; non  puo'  e  non  deve  risentire,  in  conseguenza  delle
indagini,  gli  effetti  negativi  di  tale qualificazione mentre gli
spettano tutte le garanzie a questa collegate. E' con la formulazione
dell'imputazione che per l'art. 405 viene esercitata l'azione penale,
e  il  corollario  di  questa  impostazione  e'   che   le   indagini
preliminari,  quale  che  ne  sia  stato lo sviluppo ed anche se sono
state adottate misure cautelari personali, possono concludersi con un
provvedimento  di  archiviazione  in  tutti i casi in cui il pubblico
ministero ritiene di non dover chiedere il rinvio a giudizio.
   5.  Emerge  cosi'  la  centralita'  del dibattimento, luogo in cui
l'accusa e' chiamata a superare la presunzione di non colpevolezza  e
si  forma  la  prova  nel  contradditorio  tra le parti ed attraverso
l'esame incrociato. E' alla presunzione di non colpevolezza che  puo'
logicamente collegarsi il venir meno della formula dubitativa, con la
regola che  "il  giudice  pronuncia  sentenza  di  assoluzione  anche
quando... e' insufficiente o e' contraddittoria la prova che il fatto
sussiste, che l'imputato lo ha commesso,  che  il  fatto  costituisce
reato  o  che  il  reato e' stato commesso da persona imputabile". Si
tratta di una regola che trova il suo fondamento  nella  legge-delega
(art.  2  n.  11)  e  che nel codice e' stata espressamente estesa al
dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione o di una  causa
personale di non punibilita' (art. 530 comma 3) per dare una risposta
legislativa ad una questione ampiamente dibattuta nel sistema vigente
e risolta in modo non soddisfacente dalla giurisprudenza.
   Rispetto   allo   schema   tipo   sono   previsti   numerosi  riti
semplificati, alcuni gia' collaudati, altri parzialmente o totalmente
nuovi,  come  l'applicazione della pena su richiesta delle parti e il
giudizio abbreviato.  Entrambi  questi  riti,  che  presuppongono  un
accordo  tra imputato e pubblico ministero, tendono a semplificare il
giudizio di primo grado ed a contenere le  impugnazioni,  sono  stati
introdotti  nella  convinzione  che  nel  nuovo sistema avranno ampia
diffusione e consentiranno la rapida definizione della maggior  parte
dei processi.
   E'  soprattutto  nella fase anteriore al giudizio di primo grado e
in questo giudizio che il nuovo codice si differenzia radicalmente da
quello  vigente;  ma,  nei limiti tracciati dalla delega, non mancano
novita' nelle  disposizioni  sulle  impugnazioni  e  sull'esecuzione,
anche  se si tratta di novita' che non assurgono al rango di elementi
caratterizzanti del nuovo sistema processuale.
   6.  Delle  scelte  di  principio  e  del  contenuto  delle singole
disposizioni e' stato dato  diffusamente  conto  nella  Relazione  al
Progetto  preliminare  redatta  dalla  Commissione  ministeriale  (ed
allegata alla presente Relazione).
   Il  Progetto  definitivo, inviato nel luglio 1988 alla Commissione
parlamentare, invece,  non  ha  potuto  essere  accompagnato  da  una
relazione  illustrativa, a causa dei tempi ridottissimi imposti dalla
legge-delega.
   Si  e'  ritenuto  percio'  opportuno,  in questa sede, indicare le
ragioni sia delle variazioni intervenute tra il Progetto  preliminare
e   quello   definitivo,  dopo  il  primo  Parere  della  Commissione
parlamentare, sia delle modificazioni apportate nel testo  definitivo
del codice, dopo il secondo Parere della Commissione.
   Per  rendere  piu'  facilmente intellegibili i cennati momenti nei
quali  le  modificazioni  successive  al  Progetto  preliminare  sono
intervenute, si e' ritenuto opportuno illustrare queste ultime in due
distinti paragrafi, entrambi  collocati,  peraltro,  all'interno  del
commento al titolo od al capo del Testo definitivo del codice.
   La  Relazione  da'  inoltre conto della gran parte delle obiezioni
formulate dalla Commissione parlamentare in sede di primo parere o di
parere  definitivo  oltreche'  dei  motivi  per  i quali non tutte le
proposte sono state recepite.
   Si  e'  omesso,  invece,  di  considerare in modo analitico quelle
modifiche concernenti questioni meramente formali o di  coordinamento
tra le diverse disposizioni dei Progetti e poi del codice.
   La  Relazione  segue  la  sistematica del codice, che e' diviso in
undici libri, raggruppati in due parti: la  prima  parte  riguarda  i
soggetti, gli atti, le prove e le misure cautelari (libri I - IV); la
seconda parte (libri V - XI) disciplina lo svolgimento del  processo.
   I  numeri  degli  articoli  che  nella Relazione sono indicati con
caratteri corsivi si riferiscono alla numerazione del codice,  mentre
il  numero  degli articoli dei Progetti (preliminare e definitivo) e'
scritto con caratteri tondi.
   Nella  indicazione  dei  commi  si  e' fatto riferimento alla sola
numerazione  del  codice,  salvi  i  casi  in  cui  si  e'   ritenuto
necessario,  per  ragioni di chiarezza espositiva, indicare il numero
che il comma aveva nell'articolo dei Progetti.
                             PARTE  PRIMA
                               LIBRO I
                               SOGGETTI
  1.1. Nel passaggio dal Progetto preliminare al Progetto definitivo,
e quindi al codice, il libro I del Progetto preliminare, dedicato  ai
"soggetti",  ha  subi'to un'accurata revisione, talvolta alla stregua
dei rilievi della  Commissione  parlamentare  e  degli  altri  pareri
trasmessi  dai  consigli giudiziari, dalle universita' e dai consigli
dell'ordine cui il Progetto  era  stato  inviato,  sia  per  autonoma
iniziativa  del legislatore delegato, nell'intento di pervenire ad un
piu' rigoroso coordinamento fra i vari precetti. Le modificazioni non
hanno  pero'  alterato  l'impianto  originario  e non hanno, percio',
provocato  "scompensi"  nella  tessitura  complessiva   del   modello
processuale  adottato. Gli emendamenti apportati sono stati, infatti,
di ordine formale o sistematico ovvero volti  a  chiarificare  quanto
gia'  implicitamente contenuto nel testo del Progetto preliminare; in
altri casi si e' intervenuti per colmare lacune evidenziatesi solo  a
seguito  di  una  rigorosa  rilettura  dell'intero testo del Progetto
preliminare, una rilettura possibile solo all'esito dei lavori  della
prima  fase.  Poche,  in  fondo, le modificazioni di sostanza, resesi
indispensabili soprattutto nei casi in cui la tematica  dei  soggetti
risultava,  pur  nella  dimensione "statica" configurata dal libro I,
indissolubilmente condizionata  dalle  regole  della  "dinamica"  del
nuovo   processo   cosi'  da  assumere  un  carattere  di  necessaria
complementarita' rispetto a queste ultime.
                               TITOLO I
                               GIUDICE
                                CAPO I
                            GIURISDIZIONE
   1.2.  Particolarmente  complesso  si  e' rivelato il riassetto del
titolo I sia per le implicazioni  di  ordine  sistematico  sia,  piu'
specificamente,  per  le connessioni con la "dinamica" del processo e
con il nuovo ruolo  assegnato  al  giudice  soprattutto  nella  fase,
"preprocessuale", delle indagini preliminari.
   Per  quanto  in  particolare  attiene  al  capo  I,  dedicato alla
giurisdizione, il codice, e ancor prima il Progetto definitivo, hanno
accolto,   con   riguardo   all'esercizio   dell'azione   penale,  il
suggerimento  della   Commissione   parlamentare   optando   per   la
soppressione  dall'art.  1  del  Progetto preliminare, dell'inciso di
chiusura ("salvo quanto stabilito  da  speciali  disposizioni"),  che
avrebbe  potuto  assumere  un  significato  ambiguo:  poiche' le sole
giurisdizioni alle quali si  riferiva  la  "salvezza"  garantita  dal
detto    inciso    sono   contemplate   dalla   Costituzione   (Corte
costituzionale e tribunali militari).
   In  sede  di  primo  Parere,  la  Commissione  parlamentare  aveva
formulato  obiezioni  sul  comma  1  dell'art.  2   osservando   come
l'enunciazione di principio "il giudice penale risolve ogni questione
da cui dipende la  decisione"  potesse  ampliare  la  competenza  del
giudice  penale  fino a consentirgli di risolvere - sia pure soltanto
in via incidentale - "anche problemi di conflitti di competenza e  di
giurisdizione".  La preoccupazione e' apparsa superabile considerando
che per i conflitti di competenza e di giurisdizione e' prevista  una
specifica  disciplina  -  artt. 28 (29) e seguenti - rientrante nella
clausola di salvezza inserita alla fine del comma 1.  La  Commissione
parlamentare   non   ha   ribadito  l'obiezione  in  sede  di  Parere
definitivo,  sicche',  nel  codice,  la  formulazione  del  comma   1
dell'art. 2 e' rimasta quella del Progetto preliminare.
  Al regime della pregiudizialita' predisposto dall'art. 3 sono stati
rivolti vari addebiti da parte degli organi chiamati ad esprimere  il
parere sul Progetto preliminare.
   E'   stata,  anzitutto,  censurata  l'omessa  previsione,  per  le
questioni sullo stato di famiglia  e  di  cittadinanza,  del  sistema
della  sospensione obbligatoria secondo il modulo delineato dall'art.
19 del codice vigente (tra gli altri, la Corte di cassazione); si  e'
poi  stigmatizzato,  oltre  che la troppo ristretta area di rilevanza
delle  questioni   devolutive,   soprattutto   il   presupposto   per
l'esercizio del potere di sospensione (la Commissione parlamentare ha
proposto la formula: "se la questione appare fondata";  la  Corte  di
cassazione  ha  richiamato  la  "non  manifesta  infondatezza"  della
questione  stessa),  nonche'  l'assenza  di  ogni  coordinamento  con
l'istituto  della  revisione;  si  e'  fatto,  inoltre,  appello alla
necessita'  di  riferirsi,   quanto   all'efficacia   del   giudicato
extra-penale,  non soltanto alla sentenza del giudice civile ma anche
alla sentenza del giudice amministrativo.
   Peraltro,  la  meditata riflessione che ha caratterizzato i lavori
sul tema, e dalla quale e' emersa come esigenza  da  privilegiare  la
sollecita  definizione  del  processo  penale  e  correlativamente la
necessita' di impedire che  la  pregiudizialita'  (vera  o  supposta)
possa  costituire un irreparabile ostacolo alla realizzazione di tale
esigenza, ha indotto a disattendere, nel codice, i rilievi formulati.
Rimarra'  percio'  affidato  al  prudente  apprezzamento  del giudice
decidere non soltanto sulla serieta' della controversia ma anche  sul
se  una questione seria debba essere o no devoluta alla giurisdizione
non penale.
   Circa  l'ambito  delle  questioni  pregiudiziali in presenza delle
quali e' consentita la sospensione del processo, puo' osservarsi  che
la soluzione adottata discende dalla ritenuta opportunita' di aderire
a quelle  tesi  della  dottrina  che  si  oppongono  alla  estensione
analogica   di  un  regime  del  tutto  eccezionale:  si  pensi  alla
consolidata  tendenza  giurisprudenziale,  resistita   in   dottrina,
all'inclusione   nell'ambito   delle  pregiudiziali  di  stato  della
questione  concernente  lo  status   di   fallito   ai   fini   della
ipotizzabilita'  dei reati di bancarotta (per la inclusione di questa
ipotesi nell'ambito dell'art. 479 del testo definitivo del codice  v.
il paragrafo successivo).
   Relativamente  al  presupposto  della  sospensione, il riferimento
alla serieta' della  questione  appare  ampiamente  "collaudato"  nel
regime  del  codice  del  1930,  tanto  da  dar luogo ad una costante
giurisprudenza  nel  senso  che   "non   seria"   e'   la   questione
manifestamente  infondata,  temeraria o artificiosa. E' parso, quindi
assente ogni valido motivo per  modificare,  sul  punto,  la  formula
adottata nell'art. 3 comma 1 del Progetto.
   E'  stato  rilevato poi che in materia di cittadinanza sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo sia qualora venga  impugnato
un  provvedimento  amministrativo  di  natura discrezionale incidente
sulla cittadinanza (come la naturalizzazione  per  decreto  del  Capo
dello  Stato:  art.4  l.  13  giugno  1912,  n.555)  sia  in  caso di
inibizione del Governo al riacquisto  automatico  della  cittadinanza
italiana  da parte del cittadino gia' naturalizzato straniero (art. 9
comma 2 l. n. 555 del 1912) sia, infine, nell'ipotesi di  diniego  di
concessione  da  parte  del Ministro dell'interno di un nuovo termine
per la presentazione della domanda di riacquisto  della  cittadinanza
italiana  di altoatesini optanti per la lingua tedesca (art. 3 D.L.vo
2 febbraio 1948, n. 23).
   Si  e'  ritenuto  al riguardo che, tradizionalmente le espressioni
"giudice civile" e "legge civile", adottate in tema  di  controversie
sullo  stato  delle  persone,  hanno  riferimento  rispettivamente  a
giudice non penale e a legge non penale (cfr., del resto,  gli  artt.
30  comma 2 R.D. 26 giugno 1924, n.1054; art.7 comma 3, l. 6 dicembre
1971, n. 1034) e che,  pertanto  qualsiasi  emendamento,  sul  punto,
dell'art. 3 del Progetto preliminare appariva superfluo.
   L'unica  modificazione  apportata  a  tale  norma ha riguardato il
comma 3, nel quale la  parola  "processo"  e'  stata  sostituita  nel
Progetto  definitivo  e  poi nel codice con la parola "procedimento",
spiegandosi gli effetti  del  giudicato  anche  durante  le  indagini
preliminari  (sul punto, v. anche la Premessa alla presente Relazione
p.9).
   1.3.  Con  riguardo  al  tema  della  giurisdizione,  e,  piu'  in
particolare  al  tema  della   "pregiudizialita'",   la   Commissione
parlamentare, nel Parere definitivo, non ha rivolto esplicite censure
agli artt. 2 e 3, ma  nel  ritenere  ingiustificata  la  soppressione
dell'art.  473  (ora  479)  ha  ribadito  l'esigenza che quest'ultimo
precetto venisse coordinato col disposto dell'art. 3.
  Le  indicazioni  sono  state  condivise.  Nel  testo definitivo del
codice e' stato percio' reintrodotto - opportunamente  riformulato  -
l'art.  479  (473)  nella  considerazione  che, essendo rigorosamente
circoscritta (senza alcuna possibilita' di ricorso  all'analogia)  la
rilevanza  delle  questioni  di  stato,  mancherebbe  ogni spazio per
l'operativita' dell'effetto sospensivo non  solo  nei  casi  previsti
dall'art.   20  del  codice  vigente  ma  nemmeno  in  altre  ipotesi
attualmente rientranti, secondo la giurisprudenza,  nella  disciplina
del'art.  19  (si  pensi al procedimento di opposizione alla sentenza
dichiarativa di fallimento ove si proceda per reati di bancarotta).
   E'  stato,  altresi', riformulato nel comma 3 l'ultimo periodo del
comma  2  dell'art.  3,  sostituendo  le  espressioni:  "Durante   la
sospensione  del  processo  il  giudice,  quando  vi  e' pericolo nel
ritardo,  provvede  all'assunzione  delle  prove"  con  quella:   "La
sospensione  del  processo  non  impedisce  il  compimento degli atti
urgenti".
   La  modifica,  di ordine puramente formale, si muove nel solco del
"collaudato" precetto dell'art. 19 comma 2 del  codice  vigente,  per
chiarire  come  durante la sospensione il giudice puo' compiere tutti
gli atti urgenti a meno che questi non coinvolgano la  questione  per
la  quale  era stata disposta la sospensione: nel caso in cui ponesse
in essere atti di  quest'ultimo  tipo,  infatti,  il  giudice  penale
finirebbe  con  l'invadere una competenza che egli stesso ha ritenuto
di riservare al giudice civile.
                               CAPO II
                              COMPETENZA
  1.4.  Il  capo  II,  riguardante  la  competenza,  non  ha  subi'to
modificazioni  di  rilievo  in  sede  di   revisione   del   Progetto
preliminare.  Integra  e'  rimasta  la  sistematica,  immutate sia la
qualificazione della connessione come autonomo  criterio  attributivo
della competenza, sia la riduzione dei casi di connessione rispetto a
quelli previsti dal codice vigente.
   Le  innovazioni  apportate  al  capo  II si sono rivelate, invece,
consistenti sul piano  quantitativo  e  sono  state  determinate  ora
dall'iniziativa  del  legislatore  delegato ora da suggerimenti della
Commissione  parlamentare  o  di  altre  autorita'.  Il  capo   della
competenza  si apre nel testo definitivo del codice (e gia' si apriva
nel Progetto definitivo), con una sezione,  "Disposizione  generale",
nella  quale  e'  stato  collocato l'art. 4, l'unica disposizione del
capo II che, nel  Progetto  preliminare,  non  era  inserita  in  una
sezione. Cio' ha, peraltro, comportato la necessita' di formulare una
rubrica piu' appropriata al contenuto  generale  del  testo  di  tale
articolo,  rubrica  che  e'  stata  mutuata  dall'art.  32 del codice
vigente.
   Quanto  alla  sezione  I,  dedicata  alla  competenza per materia,
l'art. 5, riguardante la cognizione della corte di assise, ha formato
oggetto,  oltre  che  di aggiustamenti di carattere formale (quali la
trasformazione del comma 2 in lettera d) del comma 1 e l'eliminazione
di  taluni  incisi  che  non  riproducevano fedelmente i titoli delle
leggi richiamate) di due modificazioni di sostanza. In  primo  luogo,
si  e'  soppressa,  su  suggerimento  della corte di cassazione, ogni
competenza della corte di assise per il delitto di tentato  omicidio,
attribuendo  alla  competenza  del  tribunale anche le ipotesi in cui
ricorrano in ordine a tale reato le aggravanti previste  dagli  artt.
576   e   577  c.p.  o  ad  effetto  speciale;  si  e'  ritenuto  che
sussistessero, al riguardo, le medesime ragioni che  avevano  indotto
ad  escludere  dalla  competenza  della  corte  di  assise il delitto
contemplato dal comma 1 dell'art. 630  e  i  delitti  previsti  dalla
legge  22  dicembre 1975 n. 685. Si e' poi modificata la formulazione
della lettera c), sia al fine di  rendere  piu'  chiaro  il  richiamo
all'art.  586  c.p.  quale norma di chiusura delle ipotesi di delitti
dolosi dai quali sia derivata la morte di una o piu' persone  sia  al
fine  di far si' che non vengano affidate alla cognizione della corte
di assise, considerata la modesta entita' della loro  pena  edittale,
le ipotesi di reato previste dagli artt. 588 e 593 (rissa e omissione
di soccorso).
   In  relazione  all'art.  7, non e' stato condiviso il suggerimento
della Commissione parlamentare, la quale  -  pure  esprimendo  parere
favorevole  quanto  alla  conformita'  alla  delega  - aveva espresso
riserve circa l'adeguatezza del rito  pretorile  a  far  fronte  agli
accertamenti  in una materia tanto delicata come quella degli omicidi
colposi e delle truffe aggravate. Il detto aumento  della  competenza
del   pretore  risponde,  infatti,  ad  una  precisa  (ed  ampiamente
dibattuta) scelta del  legislatore  delegato  volta  a  deflazionare,
nell'ambito  di settori in cui di regola il pretore ha una cognizione
specifica (v. Relazione al Progetto preliminare, p. 8), l'accesso  al
giudice collegiale.
   Anche  sulla sezione dedicata alla competenza per territorio si e'
intervenuti con modificazioni che non ne hanno  turbato  l'originario
assetto.
   Su  suggerimento  della  Commissione  parlamentare,  nell'art.  10
(riguardante la competenza per  reati  commessi  all'estero),  si  e'
eliminato  dal  comma  1 - relativamente all'ipotesi di pluralita' di
imputati  -  l'inciso  "salva  l'applicazione   delle   norme   sulla
competenza  per  territorio  determinata  dalla connessione" ritenuto
superfluo. Si e' poi trasferita l'ultima parte  del  comma  1  in  un
nuovo  comma  2 al fine di evidenziare l'ambito generale della regola
suppletiva della  competenza  del  giudice  del  luogo  ove  ha  sede
l'ufficio  del  pubblico  ministero  che  ha  provveduto per primo ad
iscrivere la notizia di reato.
   Nell'art. 11, si e' inserito un ulteriore comma che regolamenta in
modo  peraltro  sostanzialmente  coincidente  con   quello   previsto
dall'articolo 48- ter del codice vigente - le ipotesi di procedimenti
connessi a quelli in cui il magistrato assume la qualita' di imputato
o  di  persona offesa o danneggiata dal reato: sancendo la prevalenza
del criterio fissato dall'art. 11 per tutti i concorrenti  nel  reato
riguardante  il  magistrato.  Nell'art.  12,  e'  rimasta  integra la
previsione, contenuta nella sua lettera b), della "unita' di tempo  e
di  luogo", pur nella consapevolezza che tale formulazione potra' dar
vita  all'insorgere  dei  problemi  interpretativi  segnalati   dalla
Commissione   parlamentare;   problemi,   peraltro,   superabili  sia
considerando che l'espressione  non  si  differenzia  nella  sostanza
dalla  espressione  "contestualmente" gia' adottata nell'attuale art.
48-  ter  comma  1,  sia,  soprattutto,  che  la  eliminazione  della
previsione  determinerebbe  l'effetto  di  far  giudicare in distinti
procedimenti reati  commessi  da  una  stessa  persona  nel  medesimo
contesto  spazio-temporale  nei  casi  in cui tali reati appartengano
alla cognizione di giudici diversi.
   Quanto  all'art.  13,  si  e'  accolto il parere della Commissione
parlamentare, ed e' stata, quindi, soppressa - sostanzialmente per le
ragioni gia' illustrate con riguardo all'art. 2 - la parte finale del
comma 1 ("secondo le norme delle leggi speciali").
   Non  si  e' invece condiviso l'ulteriore suggerimento della stessa
Commissione volto a sostituire la parola "giurisdizione" alla  parola
"competenza":  la  prima  espressione non e' parsa, infatti, coerente
con la collocazione dell'articolo, anziche' nel capo I, dedicato alla
giurisdizione   (ove   pero'  non  si  tratta  in  alcun  modo  della
connessione) nel capo II, dedicato alla  competenza.  D'altronde,  la
parola    competenza    viene   congruamente   usata,   anche   nella
corrispondente disposizione del codice vigente (art.  49),  in  senso
lato, cosi' da ricomprendere anche la giurisdizione.
   Sia  nel  Progetto  definitivo  che  nel codice, e' stata, infine,
apportata una modifica  al  comma  2,  apparendo  l'attrazione  nella
competenza dell'autorita' giudiziaria dei reati militari connessi con
un reato comune eccessivamente ed irragionevolmente limitativa  della
giurisdizione  militare:  infatti,  mentre  in  base all'articolo 264
c.p.m.p.  la  connessione  opera  solo  tra  "delitti",  in  base  al
combinato disposto dagli artt. 12 e 13 del Progetto preliminare, essa
operava  genericamente,  tra  reati;  con  la  conseguenza  che   una
contravvenzione  appartenente  alla  competenza del giudice ordinario
avrebbe  avuto  la  capacita'  di  attrarre   nella   competenza   di
quest'ultimo  un  delitto militare a quella connesso. Al riguardo, si
e' percio' ritenuto piu'  opportuno  prevedere  l'operativita'  della
connessione a favore dell'autorita' giudiziaria ordinaria solo quando
il reato appartenente alla sua cognizione sia piu'  grave  di  quello
militare.
   Nell'art.  16,  accogliendosi  il  suggerimento  della Commissione
parlamentare, si e' soppressa dal comma  1  la  parola  "cognizione",
ritenuta possibile fonte di dubbi interpretativi.
   E' stato poi introdotto il comma 2 che determina la competenza nel
caso di concorso o cooperazione nel reato, quando da esso e' derivata
la  morte di una o piu' persone per l'ipotesi in cui le condotte sono
state  realizzate  in  luoghi  diversi  (ipotesi   non   disciplinata
dall'art. 8 comma 2 e per la quale non puo' farsi ricorso alle regole
suppletive fissate dall'art. 9). E' apparso ragionevole che nel  caso
ora indicato la competenza venisse attribuita al giudice del luogo in
cui si e' verificato l'evento.
   1.5.  Rispetto  al Progetto definitivo, il testo del codice non ha
subi'to - con riferimento al Capo II - che alcune  modifiche  formali
(artt.  9 e 11). Nessuna modifica ha, in specie, subi'to l'art. 7 sul
cui contenuto la Commissione parlamentare ha  ribadito  -  anche  nel
Parere   definitivo   -   le   sue   riserve  per  quel  che  attiene
all'attribuzione al pretore della competenza in ordine  ai  reati  di
omicidio colposo e di truffa aggravata ex art. 640 comma 2 c.p.
   Con  riguardo al primo reato, si e' rilevato che, probabilmente in
sede di coordinamento dovra' intervenirsi per cancellare la  distonia
derivante  dalla inapplicabilita', a norma dell'art. 60 comma 1 della
legge 24 novembre 1981,  n.  689,  delle  sanzioni  sostitutive,  (ex
officio  o  ad  istanza di parte, previste dall'art. 53 e seguenti di
detta legge) al  reato  di  lesioni  colpose  in  relazione  a  fatti
commessi   con  violazione  delle  norme  per  la  prevenzione  degli
infortuni sul lavoro o relative all'igiene  del  lavoro  che  abbiano
determinato  le  conseguenze  previste nel comma 1 n. 2 e nel comma 2
dell'art. 583 c.p.: sanzioni che,  invece,  resterebbero  applicabili
all'omicidio  colposo  commesso con violazione delle stesse norme. Si
e' pero' ritenuto di mantenere ferma l'attribuzione al Pretore  della
cognizione in ordine al reato di omicidio colposo nell'ottica duplice
di deflazionare, dove possibile, l'accesso al giudice  collegiale,  e
di   fruire,   al   contempo,   delle   semplificazioni  proprie  del
procedimento pretorile.
   E   cio',   pur   concordandosi   sul  rilievo  della  Commissione
parlamentare che l'evento  morte  puo'  dar  luogo  all'insorgere  di
attivita'  di  accertamento  ben  piu'  complesse di quelle richieste
dalle semplici lesioni (e cio' non soltanto in relazione  all'oggetto
della  colpa  ma  anche  con  riferimento  allo  stesso  rapporto  di
causalita').