L'articolo 648 disciplina la vexata quaestio della fungibilita' della custodia cautelare e della privazione della liberta' personale subita senza titolo. Non si pongono ovviamente particolari problemi per il computo della custodia cautelare subita in relazione allo stesso reato per il quale e' stata inflitta la condanna: nel comma 1 si e' peraltro precisato che anche la custodia subita per altro reato deve essere immediatamente (" anche se e' ancora in corso ") detratta dalla pena da scontare. Si afferma cosi' il principio che la detenzione non convalidata da un titolo definitivo (la cui giustificazione e' pertanto ancora sub iudice) va comunque imputata alla pena definitiva. Lo stesso principio vale per le misure di sicurezza detentive applicate provvisoriamente, stante la sostanziale fungibilita', sotto il profilo dell'afflittivita', fra le stesse e le pene. Non e' invece in nessun caso possibile detrarre dalle misure di sicurezza la detenzione, e cio' sia per la indeterminatezza della durata delle prime (anche il termine minimo, a seguito degli interventi della Corte costituzionale, ha oggi una rilevanza ridotta), sia soprattutto perche' l'applicazione della misura e' ormai sempre subordinata all'accertamento di una pericolosita' sociale in atto che deve essere neutralizzata indipendentemente da ogni considerazione sanzionatoria. Il comma 2 stabilisce che quando il condannato abbia subito una privazione della liberta' personale (non interessa qui se trattasi di custodia cautelare o di carcerazione definitiva) il cui titolo sia successivamente venuto meno per amnistia, revisione o abolizione del reato, il relativo periodo deve essere recuperato e attribuito come avvenuta espiazione alla sentenza di condanna per la quale e' in corso l'esecuzione. Come si vede, si e' adottato un criterio di fungibilita' il piu' ampio possibile, volto a ricomprendere tutti i periodi di privazione della liberta' personale comunque sofferti senza effettiva giustificazione. Siffatto criterio appare senz'altro giustificato dalla prevalenza del principio del favor libertatis cui deve essere improntata tutta la legislazione penale. Il recupero opera automaticamente non solo fra pene della stessa specie, ma anche fra pene di specie diversa, e cioe' fra reclusione ed arresto e, nei limiti sopra indicati, fra pene e misure di sicurezza detentive. Delicati problemi si sono posti per quanto concerne la pena pecuniaria e le sanzioni sostitutive. In linea di principio, posto che la legge prevede per le une e per le altre dei criteri di ragguaglio, non vi e' motivo di escludere, anche in ordine ad esse, la detraibilita' della custodia cautelare o della detenzione senza titolo. Ove ad esempio, la persona sottoposta a custodia cautelare sia stata poi condannata soltanto ad una sanzione sostitutiva o ad una pena detentiva di durata inferiore alla custodia sofferta congiunta a una pena pecuniaria, non sembra coerente impedirle di imputare la carcerazione inutilmente sofferta alla pena ancora da eseguire. Peraltro, puo' accadere che il condannato, avendo altre pendenze giudiziarie, non abbia interesse alla detrazione: se questa fosse automatica, in caso di sopravvenienza di una condanna a pena detentiva si risolverebbe in un evidente svantaggio, in quanto la carcerazione finirebbe con l'essere detratta, anziche' da altra carcerazione, da una sanzione di minore afflittivita'. Si e' pertanto ritenuto che, in ipotesi siffatte (che non dovrebbero peraltro essere frequenti), sia lasciata all'interessato la facolta' di scegliere se usufruire o meno della detrazione. In tal senso dispone il comma 3 la cui ratio, tendente a valorizzare il diritto del condannato di autodeterminarsi in ordine alla valutazione dei propri interessi, e' affine, come si vedra', a quella che sorregge la disciplina dell'art. 660. Dal punto di vista temporale il comma 3 ha fatto proprio il limite indicato nel vigente art. 271 ultimo comma. In sostanza la detenzione sofferta a vuoto deve seguire e non precedere la commissione del reato, perche' in caso contrario si verificherebbe l'assurda situazione di un periodo di carcerazione preventiva che costituisce una sorta di futura immunita' da carcerazione per l'individuo. In altre parole il recupero della detenzione ingiustamente sofferta deve funzionare come correttivo alle disfunzioni della macchina giudiziaria e compensazione dell'ingiusta carcerazione, ma non certo come incentivo alla commissione successiva di azioni criminose. L'articolo 649 stabilisce, per il promovimento della esecuzione delle misure di sicurezza - diverse dalla confisca - ordinate in giudizio, la competenza del pubblico ministero presso il magistrato di sorveglianza cui e' demandata l'applicazione delle misure stesse. Il comma 1 dell'articolo 650, in deroga al principio generale per cui l'esecuzione di un provvedimento e' curata dal pubblico ministero presso il giudice che lo ha emesso (v. art. 656), stabilisce che i provvedimenti del tribunale di sorveglianza che comportino la carcerazione o la scarcerazione del condannato siano eseguiti dal pubblico ministero presso il giudice della sentenza di condanna. E' apparso infatti preferibile concentrare tutti i provvedimenti che incidono sullo stato di detenzione presso un unico organo, tendenzialmente stabile, qual e' quello indicato: e cio' anche per assicurare che da un unico fascicolo, facilmente individuabile, sia in ogni momento desumibile la posizione giuridica del condannato. Al riguardo va ricordato che, per i suoi particolari criteri di determinazione, la competenza della magistratura di sorveglianza e' soggetta a frequenti mutamenti territoriali e puo' dar luogo al sovrapporsi di diversi provvedimenti sullo stesso oggetto. Per non pregiudicare peraltro le esigenze di celerita' che sottostanno ad alcuni provvedimenti e che potrebbero restare compromesse nelle ipotesi in cui la magistratura di sorveglianza competente si trovi in sede diversa e lontana dal giudice della condanna, si e' prevista la possibilita' di una esecuzione provvisoria nei casi di urgenza da parte del pubblico ministero presso la stessa magistratura di sorveglianza. Non e' stato stabilito un termine di validita' del provvedimento provvisorio e spettera' all'organo burocratico incaricato dell'esecuzione (cancelleria dell'ufficio di sorveglianza o segreteria dell'ufficio del pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione) provvedere nel piu' breve margine di tempo. Per i provvedimenti che non comportano carcerazione o scarcerazione vale il principio generale di cui all'art. 646; con apposita disposizione regolamentare occorrera' prevedere l'inserimento anche di tali provvedimenti, a fini conoscitivi, nel fascicolo dell'esecuzione. Resta ferma poi, ai sensi del comma 2, la competenza del pubblico ministero presso il magistrato o il tribunale di sorveglianza per l'emanazione dei provvedimenti in materia di misure di sicurezza. L'articolo 651 disciplina l'esecuzione delle pene pecuniarie che, come e' noto, e' stata oggetto di interventi legislativi e della Corte costituzionale (l. 24 novembre 1981, n. 689 e sentenze n. 131/79 e n. 108/87). Si e' ritenuto di prevedere espressamente la rateizzazione del debito anche in sede di esecuzione attribuendone la competenza al magistrato di sorveglianza, cui spetta inoltre il compito di procedere alla conversione della pena pecuniaria in caso di insolvibilita' del condannato, compito quest'ultimo che secondo l'ordinamento vigente spetta invece al pubblico ministero o al pretore competente per l'esecuzione. Al riguardo si osserva che l'attuale disciplina prevede che dopo il provvedimento di conversione lo stesso pubblico ministero o il pretore richieda al magistrato di sorveglianza altro provvedimento con il quale debbono essere stabilite le modalita' di esecuzione della pena convertita, scegliendo fra liberta' controllata e lavoro sostitutivo. E' parso quindi opportuno unificare i due provvedimenti ed attribuire la relativa competenza al magistrato di sorveglianza, semplificando da un lato l'attivita' burocratica ed esaltando dall'altro la giurisdizionalizzazione dell'intero procedimento. Si e' affrontato anche il problema dell'eventuale insolvenza del debitore, da distinguere dall'insolvibilita', e della possibilita' che lo stesso, pur disponendo di beni, non sia giuridicamente in grado di pagare, ad esempio in conseguenza di dichiarazione di fallimento (problematica questa di cui si e' interessata la Corte costituzionale nella sentenza n. 108/87). Si e' ritenuto di poter risolvere il quesito attribuendo al magistrato di sorveglianza il potere di differire l'esecuzione fino a quando lo stato di insolvenza, che per definizione e' temporanea, non venga a cessare e il debitore, a seconda dei casi, possa pagare (nel qual caso si procedera' alla esazione della somma dovuta) o sia divenuto insolvibile (nel qual caso si procedera' alla conversione). Ad evitare che la esecuzione resti sospesa a tempo indefinito, si e' prevista una verifica periodica (ogni sei mesi) dello stato di insolvenza. Il ricorso avverso l'ordinanza di conversione ha effetto sospensivo (soluzione questa vincolata dalla citata sentenza n. 108/87). Gli articoli 652 e 653 regolano l'esecuzione rispettivamente delle sanzioni sostituive e delle pene accessorie. Trattasi sostanzialmente di norme di rinvio: per l'esecuzione delle sanzioni sostitutive la competenza e' attribuita dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 al magistrato di sorveglianza e il relativo procedimento e' minuziosamente regolato da quella legge che non si e' inteso modificare, trattandosi di disposizioni che incidono anche sul diritto penale sostanziale. Quanto alle pene accessorie, queste devono essere eseguite trasmettendo il dispositivo della sentenza agli organi competenti. Naturalmente tali disposizioni dovranno essere completate da apposite disposizioni di attuazione e regolamentari che indichino agli uffici di cancelleria il contenuto preciso degli atti da compilare. L'articolo 654 regola l'esecuzione delle pene concorrenti e l'individuazione dell'ufficio del pubblico ministero competente. Fondamentale a tale scopo e' l'obbligo del pubblico ministero di compilare il provvedimento di cumulo in ogni caso e non soltanto " quando occorra " cosi' come previsto dal codice vigente. E' parso infatti necessario superare incertezze interpretative circa l'ufficio competente per l'esecuzione quando una persona sia stata condannata con piu' sentenze da giudici diversi e non sia stato effettuato il cumulo: rendendo obbligatorio il provvedimento di cumulo, tali incertezze sono automaticamente superate. La prescritta notifica del provvedimento costituisce poi una garanzia per il condannato, che viene in tal modo posto in grado di controllare l'operazione e di far valere eventualmente le sue ragioni investendo il giudice dell'esecuzione (comma 3). Il pubblico ministero competente e' quello che siede presso il giudice che ha emanato la sentenza divenuta irrevocabile per ultima: se tale sentenza e' stata emanata dal pretore e vi sono altre sentenze emanate da tribunali o corti di assise, la competenza spetta al pubblico ministero presso l'organo collegiale, la cui sentenza e' divenuta irrevocabile per ultima. Sarebbe infatti illogico e inopportuno attribuire la competenza per l'esecuzione di sentenze di condanna anche gravi ad un ufficio quale quello di pretura che per avventura abbia emesso l'ultima sentenza di condanna, eventualmente per sola pena pecuniaria. L'articolo 655 regola infine l'esecuzione delle sanzioni pecuniarie non penali. Con l'occasione si e' precisato che l'esecuzione delle sanzioni amministrative, quali ad esempio le contravvenzioni stradali connesse a reati colposi contro l'incolumita' personale, che ai sensi dell'art. 24 della l. 689/81 vengono accertate dal giudice penale, e' rimessa alle competenti autorita' amministrative, risolvendo cosi' nel modo che e' apparso piu' razionale ed efficente le incertezze che si sono determinate nella prassi applicativa. TITOLO III ATTRIBUZIONI DEGLI ORGANI GIURISDIZIONALI CAPO I GIUDICE DELL'ESECUZIONE L'articolo 656 detta i criteri di individuazione del giudice competente in ordine alla esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, senza discostarsi sostanzialmente dalla disciplina vigente (artt. 628 e 629 c.p.p.). In caso di appello, peraltro, si e' previsto che, quando la sentenza impugnata e' stata riformata, la competenza spetti sempre al giudice di secondo grado, salvo che la riforma abbia investito soltanto i capi relativi alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili. Rispetto alla corrispondente previsione dell'art. 626 del Progetto del 1978, nel comma 1, il riferimento e' stato fatto, piu' genericamente, al " provvedimento " anziche' alla " sentenza ", sul presupposto che anche per alcune ordinanze si pongono problemi di esecuzione e, conseguentemente, di individuazione della competenza. In deroga alla regola generale che, nel caso di piu' provvedimenti, attribuisce rilevanza a quello divenuto irrevocabile per ultimo, la competenza del pretore cede nei confronti degli altri giudici ordinari e quella del giudice speciale cede nei confronti del giudice ordinario. Per quanto concerne l'esecuzione dei provvedimenti delle corti di assise di primo e secondo grado, si e' ritenuto di confermare, per il periodo di chiusura della sessione, la disciplina del codice vigente: non sono apparsi infatti convincenti i rilievi critici a suo tempo formulati dalla Commissione consultiva in relazione all'art. 626 del precedente Progetto, posto che da un lato, essendo l'organo giudicante istituito per legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo ed ancorati a situazioni di fatto oggettive, non si pongono problemi di violazione del principio costituzionale del giudice naturale e, dall'altro lato, che evidenti ragioni di funzionalita' e di economia sconsigliano di conferire, come proposto della suddetta Commissione, carattere di stabilita' alle corti al solo scopo di far loro giudicare in tema di esecuzione. La competenza per l'esecuzione delle sentenze penali straniere e' gia' regolata nella parte del codice relativa al loro riconoscimento. L'articolo 657 disciplina la procedura che il giudice dell'esecuzione deve osservare nello svolgimento di tutta la sua attivita' (eccezioni, peraltro, sono previste negli artt. 658 e 663). In considerazione della peculiarita' della materia, alla luce anche della vigente normativa in tema di procedimento di sorveglianza (cui la disciplina in esame e' estesa, con le opportune modifiche, grazie al richiamo contenuto nel successivo art. 669), e' sembrato inadeguato un semplice rinvio alla procedura camerale prevista, per la fase della cognizione, dall'art. 126. Rispetto a quest'ultima, il procedimento di esecuzione, fermi restando la garanzia del contraddittorio e i meccanismi di costituzione dello stesso, si caratterizza inanzitutto perche' inizia a richiesta di parte, e non puo' pertanto essere promosso di ufficio. La partecipazione del pubblico ministero e del difensore non e' poi soltanto consentita, ma necessaria: la natura e l'importanza delle questioni trattate (a quelle tradizionali si aggiunge adesso l'applicazione della continuazione) impongono infatti un contraddittorio effettivo e non meramente eventuale. Per quanto concerne l'interessato, e' sancito il suo diritto a comparire personalmente (dal che si desume implicitamente che, ove risulti l'esistenza di un legittimo impedimento, l'udienza dovra' essere rinviata). Peraltro, ove l'interessato sia detenuto in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice, e' previsto che venga sentito, a richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo; e' fatta espressamente salva la facolta' del giudice dell'esecuzione, ove ritenga necessaria la presenza fisica dell'interessato, di disporne la traduzione. Nell'adozione della suddetta disciplina sono state decisive le esigenze organizzative e di sicurezza che sarebbero rimaste gravemente compromesse ove si fosse optato per un indiscriminato diritto dei detenuti alla traduzione. Al riguardo e' da tener presente che spesso il giudice dell'esecuzione ha sede in luogo distante da quello dove e' ristretto il condannato; e che l'incidente puo' essere sollevato, anche senza la intermediazione del difensore, in qualunque momento e per le piu' svariate ragioni. Sussisteva dunque un concreto pericolo di iniziative strumentali, anche le piu' pretestuose, da parte di pericolosi criminali, finalizzate unicamente ad ottenere il trasferimento (per tentare la fuga, mantenere contatti con altri membri dell'organizzazione criminale, riaffermare la propria presenza nell'ambiente di origine, eventualmente per compiere vendette o eliminare avversari). Posto che tali iniziative non potrebbero essere paralizzate con lo strumento della inammissibilita' che, per i limiti della sua configurazione, e' facilmente superabile, si e' ritenuto di mantenere sul punto la disciplina tradizionale, la cui legittimita' e' gia' stata affermata a suo tempo della Corte costituzionale (v. la sentenza n. 5/70) e che assicura all'interessato la possibilita' di far sentire comunque le sue ragioni al giudice. Resta affidata a questi la valutazione della opportunita' di una presenza fisica nei casi, tutto sommato rari attesa la prevalente natura delle questioni trattate, in cui la stessa appaia utile ai fini della decisione. Il comma 2 dell'articolo in esame disciplina la procedura di declaratoria dell'inammissibilita'. L'assenza di preclusioni di sorta alla proposizione delle richieste, specie per quanto concerne il procedimento di sorveglianza, rende indispensabile, per ragioni di economia processuale, la previsione di un filtro. Ad evitare peraltro giudizi sommari che pregiudichino i diritti del condannato, i presupposti della inammissibilita' sono rigorosamente delimitati, in analogia a quanto previsto dall'art. 71-sexies della l. 354/75, al difetto delle condizioni di legge per la proposizione della richiesta e alla identita' con altra richiesta gia' rigettata. A quest'ultimo riguardo va sottolineato che anche il decorso del tempo, ove assuma rilevanza (ad esempio, ai fini della valutazione del comportamento del condannato per la concessione di misure alternative), consente la riproposizione della richiesta, essendo questa inammissibile solo ove sia, oltre che identica alla precedente, basata sui medesimi elementi. Contro la dichiarazione di inammissibilita' e' esperibile il ricorso per cassazione, che appare nella specie offrire piena garanzia, essendo i presupposti della decisione agevolmente controllabili in punto di diritto. In ordine alla eventuale assunzione di prove, e' sembrato sufficiente ribadire il principio che le stesse, se necessarie, sono assunte nel rispetto del contraddittorio. In conformita' del disposto del terzo comma del vigente art. 631, al ricorso avverso l'ordinanza conclusiva del procedimento non e' stato attribuito effetto sospensivo. Il Progetto del 1978 aveva prescelto la soluzione contraria, giustificandola con la " necessita' di non far venir meno un punto di riferimento sicuro quale il titolo esecutivo fino a quando le contestazioni che lo coinvolgono non abbiano ricevuto definitiva risoluzione ". Peraltro, posto che non si puo' pensare di sospendere fino all'esaurimento dei ricorsi giurisdizionali l'efficacia del titolo (che potrebbe in tal caso essere agevolmente paralizzata da iniziative pretestuose e reiterate), l'effetto sospensivo del ricorso comporterebbe il protrarsi dell'esecutivita' del provvedimento del pubblico ministero, con grave pregiudizio della garanzia di giurisdizionalita' e della posizione del condannato. Fra l'altro, il ricorso del pubblico ministero paralizzerebbe l'esecuzione dei provvedimenti favorevoli in materia di inesistenza del titolo, concessione di amnistia e indulto, rinvio dell'esecuzione, revoca delle misure di sicurezza, cumulo delle pene, computo della custodia cautelare e della detenzione senza titolo, riconoscimento della continuazione etc.; mentre, in presenza di un incidente di esecuzione, il titolo, proprio perche' e' contestato, non puo' costituire un " punto di riferimento sicuro ". A maggior tutela del condannato si e' comunque previsto che, come gia' nella disciplina vigente, il giudice che ha emesso l'ordinanza possa, ove la situazione lo consigli, sospendere l'esecuzione. L'ultimo comma dell'articolo predispone infine una adeguata tutela processuale dell'infermo di mente (problema rilevante soprattutto in materia di misure di sicurezza), assicurandogli in ogni caso l'assistenza di un curatore. L'articolo 658 attribuisce al giudice dell'esecuzione, per evidenti ragioni di coerenza sistematica e di garanzia, la competenza in tema di identificazione delle persone detenute che l'art. 583 del codice vigente attribuisce al pubblico ministero. Peraltro, poiche' le formalita' e i tempi del procedimento camerale non appaiono compatibili con l'esigenza di immediata liberazione del detenuto in caso di errore o comunque di incertezza sull'identita', si e' previsto che il giudice compia i necessari accertamenti e decida de plano, salva l'instaurazione della procedura ordinaria in caso di opposizione avverso il relativo provvedimento. L'articolo 659 riproduce il disposto dell'attuale art. 584. L'articolo 660, nel regolare le ipotesi di concorso di piu' sentenze esecutive pronunciate per il medesimo fatto contro la stessa persona, introduce invece importanti innovazioni. Innanzitutto, recependo l'interpretazione estensiva del vigente art. 579 c.p.p. seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la disciplina abbraccia tutti i conflitti di giudicato, e non soltanto quelli fra sentenze di condanna. La competenza a giudicare e' stata poi attribuita, confermando la scelta operata nel Progetto del 1978 (art. 629), al giudice dell'esecuzione: in tal modo viene semplificata la procedura, assicurata la piena partecipazione di tutte le parti e fornita la garanzia di una successiva istanza di giudizio attraverso la possibilita' del ricorso per cassazione. Il procedimento puo', ovviamente, essere promosso anche dal condannato o dal suo difensore, restando cosi' superati i problemi posti al riguardo dall'art. 579 c.p.p. Premesso il principio generale della disciplina, per il quale fra piu' condanne deve eseguirsi quella meno grave, particolarmente significativa e' la previsione del comma 2 che attribuisce al condannato, nella ipotesi che siano state applicate pene diverse, la facolta' di indicare quella per lui meno afflittiva. Le considerazioni che, dopo approfondito dibattito, hanno giocato a favore di questa soluzione possono cosi' essere sintetizzate. Un'applicazione rigorosamente formale dei principi generali porterebbe alla esecuzione della sentenza divenuta irrevocabile per prima, essendo stata quella o quelle successive erroneamente pronunciate in violazione del ne bis in idem. Gia' nel sistema vigente, peraltro, esigenze di equita' hanno determinato, in applicazione del principio del favor rei, la prevalenza della condanna meno grave. La tendenza, verosimilmente non ancora esaurita, alla diversificazione del trattamento sanzionatorio, e la estrema varieta' delle situazioni concrete rendono di fatto impossibile predeterminare criteri comparativi di graduazione delle gravita' delle pene che abbiano validita' generale: cio' soprattutto in relazione alle sanzioni sostitutive. Una pena detentiva di breve durata puo' in concreto essere per l'interessato meno afflittiva di una semidetenzione o anche di una liberta' controllata sensibilmente piu' lunghe; cosi' come la liberta' controllata puo' risultare di fatto preferibile ad una pesante pena pecuniaria. E' stato rilevato che l'attribuzione al condannato della scelta della pena da eseguire mal si concilia con il carattere rigorosamente pubblicistico della potesta' punitiva: ma l'ossequio formale a tale principio, peraltro gia' intaccato dall'istituto del " patteggiamento ", non sembra in questo caso giustificato. Infatti, posto che qualunque individuazione normativa della pena piu' favorevole per il condannato attraverso la creazione di presunzioni legali, per i motivi sopra enunciati, contiene inevitabilmente elementi di arbitrarieta', con la conseguenza che in taluni casi si verrebbero ad eseguire le condanne in concreto meno favorevoli benche' divenute irrevocabili per ultime (sacrificando in modo ingiustificato l'interesse del condannato, in ipotesi soddisfatto dalla condanna passata prima in giudicato), non si vede perche' lo scopo della normativa non debba essere perseguito nel modo piu' semplice e al tempo stesso piu' efficace, facendo cioe' riferimento alla indicazione dell'unico giudice qualificato dei propri interessi. Il meccanismo non comporta alcun aggravio processuale, giacche' la individuazione della condanna da eseguire va in ogni caso operata con il procedimento camerale, che prevede la instaurazione del contraddittorio: ove l'interessato non si avvalga spontaneamente, nel termine prefissato, della facolta' concessagli, troveranno applicazione i criteri generali enunciati al comma 3. In base ad essi, la pena pecuniaria prevale sulla detentiva; fra arresto e reclusione, o fra ammenda e multa, prevale la pena di minor entita' e, in caso di pari entita', rispettivamente l'arresto e l'ammenda; le sanzioni sostitutive limitative della liberta' personale prevalgono sulla pena detentiva, ma su di esse prevale la pena pecuniaria. E' stato poi previsto che, nel comparare pene identiche, si tiene conto delle eventuali pene accessorie e degli effetti penali e che le disposizioni suddette si applicano anche in relazione a fatti giudicati quali episodi di un reato continuato, procedendo, se necessario, alla determinazione della pena corrispondente (il che dovrebbe risolvere le attuali incertezze giurisprudenziali in materia). Nel concorso di piu' sentenze di proscioglimento, e' data preferenza alla piu' favorevole; peraltro, fra una sentenza pronunciata in giudizio e altra di non luogo a procedere prevale la prima. Infine, nel conflitto fra una sentenza di condanna ed una di proscioglimento, e' data esecuzione a quest'ultima, sempre che sia stata pronunciata nel dibattimento o nel giudizio abbreviato e non si tratti di sentenza " allo stato degli atti ", quali quelle previste negli artt. 66 e 345. L'articolo 661, al comma 1, regola gli adempimenti del giudice nella ipotesi che il provvedimento da eseguire manchi o non sia esecutivo. Il comma seguente affronta il dibattuto problema dei rapporti fra incidente di esecuzione ed impugnazione del provvedimento di cui si contesta la esecutivita'. Una prima soluzione prospettata era quella di attribuire prevalenza al mezzo di impugnazione, nel senso che questo avrebbe assorbito l'incidente proposto, donde la trasmissione degli atti al giudice del gravame quale organo competente a giudicare della relativa ammissibilita' e quindi della questione pregiudiziale. Tale soluzione, per quanto economica ed anche lineare sul piano dei principi, e' stata disattesa perche' ritenuta in contrasto con la diversita' di funzione dell'incidente e dell'impugnazione, indubbiamente sacrificata attraverso il predetto assorbimento, che si traduce in sostanza in una espropriazione del potere di decisione in danno del giudice della esecuzione. Invero, l'incidente di esecuzione e' strumento processuale volto a garantire la liberta' personale dell'interessato: questa funzione non puo', per ovvie considerazioni, essere pretermessa o comunque pregiudicata dai tempi lunghi necessari perche', in applicazione del principio dell'assorbimento, possa decidere il giudice dell'impugnazione. D'altra parte, l'accertamento sulla esistenza o validita' del titolo e' preliminare ai fini dell'esame sulla ammissibilita' del gravame. Questa considerazione e' stata decisiva al fine di scartare anche la soluzione recepita nel Progetto del 1978 che, in adesione alla corrente applicazione giurisdizionale, prevedeva la contemporanea proposizione dei due rimedi e l'autonomo corso dei due procedimenti senza reciproci condizionamenti. Al riguardo si e' ritenuto da un lato che non vi e' motivo di conferire a giudici diversi l'esame concorrente della stessa questione (con possibile contrasto di decisioni), e cio' anche per un principio di economia processuale; dall'altro lato che, essendo nella fattispecie l'ammissibilita' dell'impugnazione, come gia' rilevato, una mera conseguenza della non esecutivita' del titolo, e' coerente riservare l'accertamento dell'esecutivita' stessa al giudice suo proprio. Si e' pertanto stabilito che l'impugnazione o l'opposizione tardiva puo' essere proposta solo dopo che il giudice dell'esecuzione abbia accertato l'esistenza del necessario presupposto. Dal principio generale per il quale l'impugnazione non ha, nel procedimento di esecuzione, effetto sospensivo, discende poi che non e' necessario, per la proposizione dell'impugnazione, attendere la definitivita' del provvedimento: cio' e' sembrato opportuno per garantire all'interessato una definizione del procedimento per quanto possibile sollecita. Nel comma 3 dell'articolo in esame si e' data attuazione alla direttiva 80 della delega, nella parte in cui prescrive la valutazione nel merito, in sede di esecuzione, della procedura seguita per la dichiarazione di irreperibilita', nonche' la eventuale conseguente restituzione nel termine per impugnare. Al riguardo, si e' affrontato innanzitutto il problema della individuazione dei presupposti " di merito " che giustificano la restituzione. Posto che eventuali violazioni di legge nella procedura delle ricerche dell'imputato o nella notifica del provvedimento impediscono che il titolo divenga esecutivo (con conseguente applicazione della disciplina di cui al comma 1), l'ipotesi da prendere in considerazione e' quella in cui alla conoscenza legale del provvedimento non corrisponda la conoscenza effettiva. Ad evitare facili strumentalizzazioni e' inoltre necessario attribuire rilevanza alla mancata conoscenza solo se non sia dovuta a colpa o quantomeno, per determinate forme di notifica, non sia intenzionale, conformemente a quanto previsto dall'art. 175, alla cui disciplina - anche per quanto concerne la sospensione della prescrizione - l'art. 661 fa infatti rinvio. L'esistenza di una analoga procedura di restituzione demandata al giudice della cognizione puo' far apparire superflua la previsione in esame; la stessa peraltro, oltre ad essere obbligata per effetto della richiamata direttiva 80, ha, cosi' come strutturata, una propria ragion d'essere. Infatti, la restituzione in termini puo' essere chiesta al giudice dell'esecuzione solo quando sia stata eccepita (in via principale) la non esecutivita' del titolo, e sempre che non sia gia' stata chiesta al giudice della cognizione; a sua volta, la proposizione dell'istanza al primo giudice ne preclude la ripresentazione al secondo (sicche' le due competenze sono alternative). Ne consegue che non soltanto non e' intaccato il principio della unicita' della decisione, ma si realizza una notevole semplificazione processuale, in quanto si consente la riunione in un unico giudizio di due questioni di cui l'una (la mancanza di effettiva conoscenza della notifica) e' logicamente subordinata all'altra (la non esecutivita' del titolo). L'articolo 662 da' attuazione alla direttiva 97 della legge-delega in materia di applicazione, in sede esecutiva, dell'art. 81 c.p. sempre che, ovviamente, la stessa non sia stata esclusa in sede di cognizione. Si e' precisato che la pena da irrogare per effetto della continuazione deve essere non superiore a quella risultante dal cumulo materiale e si e' espressamente conferito al giudice il potere di concedere i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna nel certificato penale quando cio' sia conseguenza del riconoscimento della continuazione (il che significa che, ove il giudice della cognizione abbia ritenuto la sussistenza di condizioni ostative rispetto alle quali sia ininfluente l'articolo 81, le suddette condizioni non potranno essere disconosciute in sede esecutiva). Attesi i limiti della delega, non e' stato possibile affrontare i numerosi problemi che travagliano l'applicazione dell'istituto, trattandosi di problemi che investono la disciplina sostanziale dell'art. 81. L'articolo 663, nel regolare l'applicazione dell'amnistia e dell'indulto ai condannati, prevede che il giudice dell'esecuzione, in deroga a quanto previsto dall'art. 657, provveda de plano. Cio' per sopperire ad esigenze di carattere pratico, tenuto conto del rilevantissimo numero di provvedimenti che vanno adottati ogni qual volta entra in vigore un provvedimento di clemenza e dell'urgenza della relativa applicazione quando il condannato e' detenuto. Le garanzie di giurisdizionalita', dalle quali in nessun caso si puo' prescindere, sono assicurate, come gia' nell'analoga ipotesi regolata dall'art. 658, attraverso la facolta' concessa alle parti di instaurare il procedimento camerale ordinario proponendo opposizione avverso l'ordinanza del giudice. E' sembrato comunque necessario, sempre al fine di evitare l'ingiustificato protrarsi della detenzione, prevedere al comma 3 una facolta' di liberazione provvisoria analoga a quello di cui all'attuale art. 593: peraltro, considerato che la mutata posizione processuale del pubblico ministero non consente il conferimento allo stesso di poteri discrezionali in ordine alla liberta' personale, competente al riguardo e' adesso il magistrato di sorveglianza. La stessa disposizione (art. 663 comma 3) regola anche la sospensione provvisoria dell'esecuzione delle sanzioni sostitutive e delle misure alternative destinata a cessare per effetto dell'amnistia o dell'indulto. Al comma 2, la disposizione relativa alle misure di sicurezza e' stata adeguata al mutato regime di applicazione delle stesse. L'articolo 664, che disciplina le ipotesi di revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis, non pone particolari problemi interpretativi. L'articolo 665 prevede la revoca della sospensione condizionale della pena, nonche' della grazia, dell'amnistia e dell'indulto condizionati, senza sostanziali differenze rispetto alla normativa vigente, salvo per quanto concerne la revoca della liberazione condizionale, che e' adesso di competenza del tribunale di sorveglianza. L'articolo 666 chiarisce che, quando il giudice di cognizione abbia accertato la falsita' di un atto pubblico o di una scrittura privata ma ne abbia omesso la dichiarazione nel dispositivo, alla declaratoria e alla relativa esecuzione provvede, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, il giudice dell'esecuzione negli stessi termini in cui avrebbe dovuto provvedere il giudice di cognizione. Il secondo e il terzo comma dell'articolo in esame contengono disposizioni che valgono sia in quest'ultimo caso sia in quello in cui il dispositivo contiene la dichiarazione di falsita'; cio' che cambia e' la competenza: nel secondo, resta quella del giudice di cognizione, nel primo si prevede quella del giudice dell'esecuzione, seguendosi cosi' un consolidato orientamento giurisprudenziale. L'articolo 667, al comma 1, attribuisce al giudice dell'esecuzione la competenza, oltre che su alcune materie non richiamate negli articoli precedenti, su " ogni caso analogo ", espressione atta a ricomprendere le ipotesi che non abbiano trovato espressa regolamentazione ma rientrino nell'ambito delle materie trattate da questo capo. Il comma 2, infine, demanda al giudice civile le controversie sulla proprieta' delle cose confiscate, richiamando la disciplina dettata dall'art. 263 per le cose sequestrate. CAPO II MAGISTRATURA DI SORVEGLIANZA La recente l. 10 ottobre 1986, n. 663, di organica riforma dell'ordinamento penitenziario, ha innovato notevolmente la figura del magistrato di sorveglianza quanto ad attribuzioni e rapporto tra ufficio e tribunale di sorveglianza, anticipando molte delle disposizioni gia' contenute nel Progetto del 1978 e, sostanzialmente, nelle direttive della legge-delega. Le disposizioni del capo II non potevano non ispirarsi nella sostanza alla riforma del 1975 e alle sue successive modifiche, che hanno accentuato, primariamente, il carattere pienamente giurisdizionale e garantista del procedimento con cui il magistrato di sorveglianza svolge i suoi compiti, relativi alle misure di sicurezza e alle altre attribuzioni a lui demandate dai codici e dalle leggi speciali. L'articolo 668, come specificato nella rubrica, fa riferimento soltanto alla competenza territoriale, essendo la competenza per materia regolata dall'ordinamento penitenziario (artt. 69 s.l. 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche). La disciplina e' ripresa, per il comma 1, dal terzo comma dell'art. 71 della legge citata, e per il comma 2 dal quarto comma dello stesso articolo. Tali disposizioni appaiono pienamente giustificate dalla esigenza che per i condannati in stato di liberta' sia il magistrato del luogo di domicilio o residenza a conoscere e valutare il comportamento dell'interessato, allo stesso modo in cui e' l'organo giudiziario piu' ad immediato contatto con l'istituto penitenziario dove si trova l'interessato a dover valutare il suo comportamento carcerario ed i progressivi risultati del trattamento penitenziario. L'articolo 669, in aderenza alla direttiva 98 della legge-delega, regola un procedimento giurisdizionale unitario per tutte le materie di competenza del tribunale di sorveglianza, e per quelle che l'ordinamento penitenziario e la l. 689/81 attribuiscono al magistrato di sorveglianza relativamente alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito, ai ricoveri previsti dall'art. 148 c.p., alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato o di tendenza a delinquere. Tale procedimento unitario e generale non si applica ad alcuni procedimenti, quali quello previsto, in tema di sorveglianza particolare e di reclamo, dagli artt. 14- ter e 69 comma 6 della l. 354/75 o i procedimenti per decreto di cui all'art. 69 commi 5 e 7 della stessa legge (che restano disciplinati dall'ordinamento penitenziario). La procedura e' dettata con rinvio all'art. 657, con la fondamentale differenza della procedibilita' di ufficio per tutte le materie indicate, in aderenza a quanto previsto dalle leggi vigenti. Nel comma 1 dell'articolo in esame e' peraltro previsto che, nel caso di dubbio sulla identita' fisica della persona, si proceda a norma dell'art. 658. I commi 2 e 3 danno conto di alcune specifiche esigenze del procedimento di sorveglianza, riprendendo il contenuto, rispettivamente, del terzo e del secondo comma dell'art. 71- bis della l. 354/75. L'articolo 670 contiene la disciplina relativa alle misure di sicurezza diverse dalla confisca e alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato o di tendenza a delinquere. Per quanto concerne la competenza, non ci si e' discostati dal sistema della l. 663/86 che ha attribuito al magistrato di sorveglianza monocratico ogni potere relativo alla gestione delle misure, e cioe' alla loro applicazione, modificazione e revoca, sottraendo quest'ultima attribuzione alla sezione (ora tribunale) di sorveglianza. Come e' noto, la stessa l. 663/86, anticipando il contenuto della direttiva 96, ha abrogato ogni presunzione legale di pericolosita' e sancito il principio che le misure di sicurezza possono essere ordinate solo previo accertamento della effettiva pericolosita'. D'altro canto, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si desume che la pericolosita' deve sussistere, oltre che nel momento in cui la misura e' ordinata, anche in quello della concreta applicazione. Si e' pertanto previsto che il magistrato di sorveglianza accerti la pericolosita' non soltanto quando ordina le misure, ma anche quando e' investito, ai sensi dell'art. 649, dell'esecuzione di quelle ordinate in giudizio. In quest'ultimo caso e' peraltro implicito che il magistrato, per formulare il suo giudizio, potra' avvalersi delle risultanze degli accertamenti gia' effettuati, ove gli stessi siano vicini nel tempo e non siano sopravvenuti fatti rilevanti. La competenza del magistrato di sorveglianza e' ovviamente estesa a tutte le questioni (applicazione, modifica, revoca) inerenti le misure di sicurezza e la dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato, nonche' la revoca della dichiarazione di tendenza a delinquere (quest'ultima, come e' noto, puo' essere pronunciata soltanto con la sentenza di condanna). Nella seconda parte del comma 1 dell'articolo in esame e' ribadita la procedibilita' di ufficio in materia di misure di sicurezza, coerentemente a quanto disposto dalla riforma penitenziaria, dallo stesso Progetto del 1978 e, in generale per il procedimento di sorveglianza, dall'art. 669. Si e' giunti a questa conclusione dopo una lunga disamina del problema, ritenendosi che la procedibilita' di ufficio in questo caso non contrasti con i principi informatori del nuovo processo, attesa la particolare natura del procedimento di sicurezza, che ha finalita' di prevenzione e rieducazione e che non puo' essere configurato come processo di parti. Il comma 2, riproducendo la disposizione del terzo comma dell'art. 69 della l. 354/75, demanda al magistrato di sorveglianza il controllo e la direzione della esecuzione delle misure di sicurezza personali. Le impugnazioni nel procedimento di sorveglianza sono regolate in via generale, in virtu' del rinvio contenuto nell'art. 669, dal comma 6 dell'art. 657, che prevede il solo ricorso per cassazione avverso l'ordinanza decisoria. L'articolo 671 consente invece, in conformita' alla disciplina vigente, l'appello avverso i provvedimenti in materia di misure di sicurezza: considerata la delicatezza degli interessi coinvolti, non sembra possa prescindersi in questo caso da un secondo giudizio di merito. La relativa competenza e' attribuita al tribunale di sorveglianza, il quale giudica, oltre che sugli appelli avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza, anche su quelli avverso le sentenze quando l'impugnazione concerne soltanto le misure di sicurezza (trattandosi di appello e' chiaro che in quest'ultimo caso si fa riferimento esclusivamente ad impugnazioni avverso sentenze di primo grado, e cio' ad evitare un terzo giudizio di merito quando ad essere impugnato sia il capo relativo alle misure di sicurezza di una sentenza di secondo grado). Il comma 2 dell'art. 671, nell'affermare la applicabilita', in ordine all'appello in questione, delle disposizioni generali sulle impugnazioni, fa eccezione per quanto concerne l'effetto sospensivo, (che e' in questo caso escluso in linea di principio, salva la facolta' per il tribunale di disporre altrimenti). Tale disciplina, che e' conforme a quella che regola in generale gli effetti delle impugnazioni nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, e' in questo caso giustificata dalle specifiche esigenze di un procedimento che ha ad oggetto la pericolosita' sociale dell'interessato. L'articolo 672 regola il procedimento di grazia innovando radicalmente l'attuale procedura. La domanda e' presentata al magistrato di sorveglianza; questi esprime il proprio parere sulla base dei documenti esistenti (in questo senso il comma 3 specifica: " acquisiti i risultati dell'osservazione scientifica della personalita' ove espletata "), e quindi trasmette gli atti al ministro di grazia e giustizia. E' cosi' pienamente accolta la visione, gia' del Progetto del 1978, secondo cui sul piano processuale e sostanziale l'istituto della grazia assolve una funzione correttivo-equitativa dei rigori della legge, ma ha anche, e sempre piu', il ruolo di strumento di risocializzazione alla luce dei risultati del trattamento rieducativo. La stessa menzionata previsione del potere di proporre la grazia da parte del consiglio di disciplina, contenuta proprio in quell'ordinamento penitenziario che rivela il suo momento piu' qualificante nel trattamento rieducativo, sembra essere la piu' palese conferma del prevalere del citato orientamento. Si e' ritenuto inoltre che il magistrato di sorveglianza debba esprimere parere anche se il soggetto e' in liberta' (in armonia con il sistema gia' introdotto con la l. 21 giugno 1985, n. 297 e poi consolidato con la l. 10 ottobre 1986, n. 663, secondo cui la magistratura di sorveglianza e' competente anche nei confronti di soggetti liberi che aspirano a misure alternative), innovando, rispetto all'attuale regime (art. 69 comma 9 l. 354/75) e quindi discostandosi dalla soluzione indicata nel secondo comma, ultima parte, dell'art. 648 del Progetto del 1978. I commi 3 e 4 dell'art. 672 sono analoghi, in una redazione piu' semplificata, ai corrispondenti commi dell'art. 648 del Progetto del 1978. Se la grazia non e' sottoposta a condizioni, il pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione ne cura l'esecuzione (e adotta i provvedimenti conseguenti, quali ad esempio quelli di cui all'art. 210 comma 3 c.p.). Nel caso invece di grazia condizionata, per il relativo accertamento e per l'applicazione definitiva deve provvedere, come per l'amnistia e l'indulto, il giudice dell'esecuzione. L'articolo 673 demanda al tribunale di sorveglianza la competenza in tema di liberazione condizionale, coerentemente a quanto gia' disposto dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663. Non sembra inutile ribadire quanto affermato nella Relazione del Progetto 1978, che cioe' tale attribuzione di competenza, in sostituzione di quella della corte di appello, e' perfettamente in linea con la ratio del nuovo ordinamento penitenziario. Il tribunale di sorveglianza, invero, si caratterizza precipuamente per la competenza all'applicazione delle misure alternative che costituiscono il punto di emergenza del trattamento rieducativo, in quanto realizzanti quel reinserimento sociale al quale tale trattamento essenzialmente punta. Ora, e' chiaro che il metro di giudizio per l'applicabilita' o meno delle misure alternative e' dato proprio da quel ravvedimento del reo che sta a fondamento della liberazione condizionale, si' da potersi affermare che tale istituto contenesse il nucleo dal quale le predette misure alternative si sono sviluppate. Logico, quindi, che dovesse essere il tribunale di sorveglianza, come gia' previsto dall'art. 655 del Progetto del 1978, a decidere anche sulla " misura alternativa ", base della liberazione condizionale. Si sono peraltro riformulati con modifiche i commi 2, 3 e 4 dell'art. 655 del Progetto, dettandosi un solo termine (sei mesi) per le diverse categorie di condannati ai fini della ripresentazione della domanda di liberazione condizionale respinta, e limitando tale inammissibilita' al solo caso di rigetto della domanda per difetto del requisito del ravvedimento. Non si ritiene infatti equo stabilire termini diversi per le varie categorie di condannati, e soprattutto stabilire la irricevibilita' della domanda in caso di avvenuto rigetto per difetto di condizioni non imputabili al soggetto. La direttiva 101 della delega impone la previsione del contraddittorio nel processo di riabilitazione, un giudizio senza formalita' e in camera di consiglio, e l'acquisizione di ufficio della documentazione processuale. A cio' provvede l'articolo 674. Le stesse ragioni che hanno consigliato l'attribuzione della competenza per la liberazione condizionale al tribunale di sorveglianza hanno indotto ad analoga soluzione per la concessione della riabilitazione, oggi di competenza della corte di appello del distretto dell'ultima condanna (nulla avendo innovato, per questo aspetto, l'ordinamento penitenziario rispetto al codice del 1930). Coerentemente, anche la revoca della riabilitazione e' pronunciata dal medesimo tribunale (sempre, ovviamente, se non e' stata disposta con sentenza). Il comma 2 dell'art. 674 detta disposizioni procedimentali, mentre il comma 3, nel prescrivere il termine dilatorio biennale per la riproposizione della richiesta respinta, precisa che tale limitazione opera soltanto quando la ricezione e' stata motivata dal difetto del requisito della buona condotta. L'articolo 675, infine, conferisce al tribunale di sorveglianza la competenza a provvedere in tema di rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva, conformemente a quanto gia' previsto dalla recente modifica dell'ordinamento penitenziario: peraltro, tale competenza e' stata adesso estesa anche alla ipotesi dell'art. 147 comma 1 c.p. (domanda di grazia), sembrando cio' coerente sia con le nuove attribuzioni della magistratura di sorveglianza in tema di grazia, sia con il principio della giurisdizionalizzazione di tutti i provvedimenti che incidono sulla liberta' personale. Con l'occasione si sono demandati allo stesso tribunale i provvedimenti in ordine al rinvio dell'esecuzione delle sanzioni sostitutive, oggi attribuiti al giudice di sorveglianza dall'art. 69 della legge 689/81, procedendo in tal modo ad una unificazione delle competenze in materia, giustificata dalla identita' dei presupposti. Peraltro, la nuova disciplina, se assicura la giurisdizionalizzazione della procedura e, di conseguenza, una piu' efficace tutela del diritto di difesa, comporta un sensibile prolungamento dei tempi di decisione: e' pertanto sembrato opportuno prevedere la possibilita' di un intervento immediato per i casi in cui l'esistenza dei presupposti per il rinvio appaia evidente e il ritardo possa essere gravemente pregiudizievole per il condannato, soprattutto se detenuto. Si e' cosi' attribuito un potere di sospensione e di liberazione provvisorie al magistrato di sorveglianza (la mutata posizione processuale del pubblico ministero sconsiglia l'attribuzione allo stesso di qualsivoglia potere discrezionale in materia di liberta' personale). Non si e' ritenuto di riprodurre le disposizioni contenute negli artt. 650 e 654 del precedente Progetto (che a loro volta si richiamavano agli artt. 654 e 653 del codice vigente), relative alle misure di sicurezza della cauzione di buona condotta e del divieto di soggiorno: trattasi infatti di disposizioni superflue o che comumque possono trovare piu' idonea collocazione fra le norme regolamentari. TITOLO IV CASELLARIO GIUDIZIALE L'articolo 676 detta la disciplina generale degli uffici del casellario e della loro competenza senza sostanziali differenze rispetto al vigente art. 603, se si prescinde dal conferimento al procuratore della Repubblica del solo potere di vigilanza, essendo stato quello di direzione attribuito al dirigente della segreteria con la l. 23 marzo 1956, n. 182. L'articolo 677 contiene l'elenco tassativo dei provvedimenti soggetti ad iscrizione. Per quanto concerne i provvedimenti in materia penale, va segnalata l'esclusione dell'iscrizione delle sentenze di proscioglimento, ad eccezione di quelle per difetto di imputabilita' e di quelle che abbiano disposto misure di sicurezza o dichiarato estinto il reato a seguito di " patteggiamento " E' stata inoltre prevista, all'ultimo comma, la menzione dell'applicazione delle misure alternative alla detenzione, e cio' al fine di rafforzare, dando testimonianza del buon esito del trattamento penitenziario, la funzione delle misure suddette. Mentre non sono state apportate modifiche alla disciplina relativa ai provvedimenti civili, l'iscrizione delle sentenze pronunciate da autorita' giudiziarie straniere consegue adesso al loro riconoscimento (e non gia' alla semplice comunicazione ufficiale). Recependo le istanze in tal senso da piu' parti sollevate, la lettera d) del comma 1 dispone infine l'iscrizione dei provvedimenti definitivi di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Trattasi infatti di provvedimenti emessi a conclusione di un procedimento ormai pacificamente giurisdizionale, cui sono collegati, oltre a rilevanti effetti nell'ambito della stessa prevenzione, importanti conseguenze penali, sia sostanziali che processuali; di qui l'esigenza di assicurarne la conoscibilita'. Nell'articolo 678, alle tradizionali ipotesi di eliminazione delle iscrizioni, e' stata aggiunta quella della revoca della condanna a seguito di revisione o di abolizione del reato. L'articolo 679 disciplina il rilascio dei certificati penali al di fuori dell'ipotesi in cui vengano richiesti dall'interessato. Il relativo diritto non e' piu' riconosciuto ai privati (come nel secondo comma del vigente art 607), ma soltanto agli organi aventi giurisdizione penale per ragioni di giustizia, alle amministrazioni pubbliche e agli enti incaricati di pubblici servizi per ragioni connesse alle loro funzioni, e al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Lo stesso pubblico ministero e il difensore, nelle ipotesi in cui l'art. 236 espressamente consente l'acquisizione del certificato al fine della valutazione della personalita' del testimone o della persona offesa dal reato, potranno richiederlo solo previa autorizzazione del giudice procedente, e cio' al fine di evitare ingiustificate lesioni dei diritti degli interessati o indebiti condizionamenti delle fonti di prova. Il precedente progetto, all'art. 640, aveva negato alle amministrazioni pubbliche e agli enti incaricati di pubblici servizi la facolta' di ottenere certificati penali per gli scopi sopra indicati, motivando il diniego con la considerazione che le amministrazioni e gli enti suddetti ben potrebbero, nell'instaurare un rapporto di lavoro, esigere dall'interessato la produzione del certificato. Tal motivazione, peraltro, elude il problema di fondo rappresentato dalla incompletezza delle informazioni contenute nel certificato rilasciato all'interessato. In questo, com'e' noto, non si fa menzione di varie categorie di condanne che invece possono assumere rilievo decisivo nella valutazione della idoneita' ad esercitare pubbliche funzioni o svolgere pubblici servizi. Ove fosse soppressa la facolta' di richiesta diretta, condanne anche ripetute per fatti di non trascurabile gravita' non emergerebbero, con la conseguenza che persone i cui precedenti denotano pericolose inclinazioni delinquenziali avrebbero accesso a funzioni di grande delicatezza (si pensi alle forze dell'ordine, alla magistratura, alla diplomazia, agli uffici finanziari). L'articolo 680 specifica le condanne e i provvedimenti dei quali non e' fatta menzione nei certificati richiesti dall'interessato (che puo' ottenerli in ogni momento, non essendo tenuto ad indicare i motivi della richiesta). Al riguardo, va segnalata la non menzionabilita' delle sentenze conseguenti al c d. patteggiamento. Il Progetto del 1978 prevedeva anche la non menzione delle condanne durante la cui esecuzione fosse stata disposta una misura alternativa alla pena detentiva: una simile previsione, peraltro, appare priva di reale giustificazione, considerato che le suddette misure hanno un campo di applicazione che si estende alle condanne piu' gravi (anche all'ergastolo) e che i presupposti per la loro concessione non sono tali da far venir meno le esigenze di conoscenza dei precedenti penali nei limiti in cui ne e' prescritta la menzione. L'articolo 681, infine, demanda al tribunale del luogo ove ha sede l'ufficio del casellario la competenza a decidere, quale giudice dell'esecuzione (e pertanto con il relativo procedimento), su tutte le controversie relative alla materia. TITOLO V SPESE Gli articoli da 682 a 686 riproducono, senza sostanziali innovazioni, la disciplina, relativa all'anticipazione e al recupero delle spese processuali e della custodia cautelare, nonche' alla pubblicazione sui giornali della sentenza di condanna, contenuta negli artt. da 611 a 615 del codice vigente. Le relative controversie sono decise dal giudice dell'esecuzione con l'usuale procedura camerale. LIBRO XI RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA' STRANIERE La disciplina codicistica dei rapporti giurisdizionali con autorita' straniere ha faticato non poco, nel nostro Paese, ad affermarsi in termini di specificita' normativa. Solo con il codice del 1930, infatti, la materia ha acquisito la dignita' che risponde all'intitolazione di un libro apposito, il libro V, e presenta anche qualche interessante sviluppo tematico. Dopo di allora, pero', si direbbe che - nonostante il notevolissimo incremento dei rapporti internazionali quell'itinerario di specificazione normativa si sia interrotto. Anche la legge-delega tace del tutto - o continua a tacere - sul tema specifico dei rapporti giurisdizionali con autorita' straniere. Peraltro, l'art. 2, nel suo far obbligo al legislatore delegato di " attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale ", assume notevole rilevanza pure nella presente materia. Quanto ai principi costituzionali, oltre che delle diverse disposizioni contenute nell'art. 10 e nell'art. 26, si e' tenuto conto, anche nella presente materia, dell'art. 13 e dell'art. 24 comma 2 Cost.; ed anche dello spirito dell'art. 11 dello stesso testo, nel suo consentire, " in condizione di parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un orientamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni " e nel suo prevedere che l'Italia " promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo ". Quanto poi alle predette " norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia... ", vengono ovviamente in considerazione, in primo luogo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali; su un piano piu' specifico, la Convenzione europea di estradizione e la Convenzione europea di assistenza giudiziaria. Non si e' peraltro ritenuto di procedere a una " europeizzazione " della disciplina della materia, vale a dire a congegnare una normativa che si adeguasse alle convenzioni europee richiamate da ultimo fino a trasfonderle nel testo del codice. Un tale disegno, invero, e' parso privo della necessaria base testuale, e ancor piu' avversato da un duplice ordine di fattori: dal criterio di graduazione delle fonti della materia, che gia' oggi nell'art. 656 c.p.p. e nella norma omologa che si e' ritenuto di delineare conferisce alla disciplina del codice un ruolo semplicemente suppletivo rispetto a quello delle convenzioni internazionali con i singoli e vari paesi stranieri; avversato, poi, da considerazioni elementari di praticabilita' e di politica legislativa, non potendo certo pensarsi come generalizzabile a tutti i singoli e vari paesi stranieri il quadro di intese che sorreggono le relazioni tra l'Italia ed i paesi legati dalle predette convenzioni europee. E' parso allora che non restasse altra via se non quella di ispirarsi a tali convenzioni (e ad altre successive convenzioni, sottoscritte e ratificate) per trarne, magari su punti impegnativi e qualificanti, soprattutto delle linee di tendenza. La stesura delle norme del Progetto ha tratto profitto anche dall'esame delle specifiche legislazioni operanti in materia in alcuni paesi europei, e in particolare dalle leggi speciali dell'Austria (1979), della Svizzera (1981) e della Germania federale (1983). Sembra il caso di sottolineare - in tale prospettiva - che il nostro paese continua a dividere con la sola Grecia, nell'ambito delle Comunita' europee la peculiarita' di disporre di una disciplina-base, in tema di rapporti con autorita' straniere, ristretta entro le norme di un codice, e per di piu' di un codice il cui perimetro coincide con quello del testo in vigore, datato 1930. Non si e' ritenuto di introdurre, tra le " Disposizioni generali " una norma operante l'estensione una tantum delle norme contestualmente previste, nei singoli titoli, in ordine ai reati politici, alla disciplina dei reati comuni " quando vi siano fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, alla nazionalita', alle opinioni politiche della persona interessata possano influire o abbiano influito negativamente sullo svolgimento o sull'esito del processo ". Non e' a dire, peraltro, che un tale tipo di previsione sia scomparso dal complesso normativo in discorso: al contrario, esso vi si trova reiterato nella disciplina dei singoli istituti, vale a dire dei tre titoli corrispondenti, con modulazioni aderenti alla particolarita' di ciascuno di essi (artt. 689 comma 1, 713 comma 2, 714, 722 lett. d), 733). In tal modo, inoltre, scompare l'espressione " reato politico " - corrispondente a una nozione sintetica a senso multiplo, foriera di non poche ambiguita' - e l'accento normativo cade piuttosto, in prospettiva garantistica, sul concetto di " processo politico ". TITOLO I DISPOSIZIONI GENERALI L'articolo 687, riproponendo nella sostanza il testo dell'art. 656 c.p.p. vigente, riflette e rende esplicita la gerarchia delle fonti che disciplinano la materia. Le norme del codice, in quanto puramente interne, si applicano infatti soltanto negli spazi rispetto ai quali lo Stato non e' impegnato al rispetto di regole di diritto internazionale. L'espressione " convenzioni internazionali " si riferisce ai trattati - qualunque ne sia la denominazione - di cui l'Italia e' parte. Si tratta di un numero rilevante di accordi, sia bilaterali che multilaterali. Con l'inciso " in vigore per lo Stato " si e' inteso sottolineare che la loro concreta applicabilita' dipende dal perfezionamento del trattato sul piano del diritto internazionale, oltre che dal compimento di quanto e' necessario per renderlo esecutivo sul piano del diritto interno. Rimane naturalmente ferma la necessita' di verificare, per le convenzioni multilaterali, che anche l'altro stato interessato ne sia parte, per avere anch'esso completato tutti i necessari adempimenti. Resta altresi' ferma, sempre per le convenzioni multilaterali, la necessita' di tenere adeguatamente conto delle eventuali riserve apposte al singolo trattato, ad opera del nostro come dell'altro stato che viene in considerazione. Si e' poi preferito, ai termini " usi " e " convenzioni internazionali ", impiegati nel codice in vigore, la formula " norme di diritto internazionale generale ", che, oltre alla consuetudine, fa riferimento a ogni altra possibile fonte di norme generali (quali i cc.dd. principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, di cui all'art. 38 dello statuto della Corte Internazionale di Giustizia), ai quali il nostro ordinamento si conforma a livello internazionale, in forza dell'art. 10 comma 1 Cost. Quanto al comma 2 dell'art. 687, la formulazione impiegata mira a chiarire che la disciplina del codice puo' trovare applicazione anche in presenza di norme internazionali, in ordine ai profili da queste ultime non disciplinati. TITOLO II ESTRADIZIONE Le norme sull'estradizione sono distribuite, a differenza di quanto avviene nel vigente codice, in due capi. Il primo dedicato all'estradizione per l'estero (c.d. passiva); il secondo all'estradizione dall'estero (c.d. attiva). Il primo capo, poi, si suddivide in due sezioni, le quali raggruppano le norme dedicate, rispettivamente, al procedimento e alle misure cautelari (e in particolare a quelle che attengono alla liberta' personale dell'estradando). Questa ulteriore partizione della materia risponde alla necessita' di rimettere ordine in una sistematica che, per il suo scarso rigore, e' stata oggetto di critiche e risponde, inoltre, a istanze di natura garantistica, cosi' da indurre a privilegiare una disciplina piu' dettagliata soprattutto in tema di limitazioni alla liberta' personale. In assenza di specifiche direttive della legge-delega, anche per l'estradizione si e' fatto costante riferimento alle " norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale ", in modo da allineare la normativa interna alle direttrici di fondo sulle quali e' andato sviluppandosi il diritto internazionale. Cosi' si e' ritenuto di dover confermare, per il procedimento di estradizione c.d. passiva, il sistema misto, che al potere del ministro, nel senso di concedere o meno l'estradizione, abbina la garanzia giurisdizionale, sotto il profilo sia dell'accertamento delle condizioni legittimanti dell'estradizione sia della tutela della liberta' personale dell'estradando. In particolare, poi, il riferimento costante alle convenzioni internazionali nella elaborazione dei punti chiave della nuova normativa ha portato in primo luogo ad un maggior rigore nel riparto delle attribuzioni del ministro di grazia e giustizia e dell'autorita' giudiziaria, al fine di fugare dubbi e incertezze suscitati dalla precedente normativa. In secondo luogo, il citato riferimento ha indotto una ricostruzione degli aspetti relativi alle misure cautelari diretta a contenere il ruolo del ministro - cui vengono riservati poteri di iniziativa non vincolanti per l'autorita' giudiziaria - a ricondurre, per quanto possibile, allo schema generale relativo al procedimento penale il regime dettato per il procedimento d'estradizione, specie per quanto attiene ai diritti della difesa, alle notifiche e alle impugnazioni. Va, poi, segnalato che particolare attenzione si e' prestata alle normative contenute nelle specifiche convenzioni d'estradizione vigenti nei rapporti con i paesi europei ed extraeuropei per ricavarne una maggiore precisione nella regolamentazione di aspetti peculiari in precedenza non sufficientemente disciplinati e, talora, neppure previsti dalla vigente normativa. Cosi', disposizioni dettagliate sono state inserite in tema di estensione dell'estradizione gia' concessa, di rinnovo della domanda, di sospensione della consegna, di riestradizione. E', infine, da sottolineare che non si e' piu' prevista (cfr. artt. 9 comma 3, 10 comma 2 n. 3 e 13 comma 3 c.p.) la " offerta di estradizione ". Tale istituto, che non ha trovato peraltro particolare riconoscimento nelle legislazioni straniere e nell'applicazione concreta, sarebbe infatti destinato a vivere nell'attuale sistema solo a prezzo di incongruenze assai marcate, specie considerando che l'inizio del procedimento di estradizione e' l'occasione per limitazioni anche molto consistenti della liberta' individuale, che non e' facile giustificare, quando risalgono a un'iniziativa unilaterale del ministro di grazia e giustizia. CAPO I ESTRADIZIONE PER L'ESTERO Da un punto di vista sistematico, le norme contenute nel capo I del titolo II, eccezione fatta per quelle che riguardano i poteri di coercizione personale sull'estradando, possono suddividersi in quattro gruppi. Al primo appartengono certamente quelle riportate negli articoli 688 commi 1 e 2 e 692 commi 1, 2 e 3, con le quali viene data concreta applicazione al sistema prescelto, cioe' a quello a carattere misto, comprendente una fase amministrativa e una giurisdizionale. In particolare, nell'articolo 688 e' disciplinato il potere del ministro di grazia e giustizia di concedere l'estradizione. Al fine di determinare l'area di tale potere non si e', pero', ripresa la locuzione del vigente art. 661 c.p.p. " nei casi non vietati dall'art. 13 del codice penale "; alla medesima se ne e' sostituita un'altra (" nei casi consentiti "), che, con la sua portata generale, e' idonea a recepire ogni specie di norma che statuisca in materia: in particolare, oltre all'art. 13 c.p., le norme di origine internazionale e le norme costituzionali (art. 10 ultimo comma e art. 26 Cost.; l. cost. 21 giugno 1967, n. 1). Inoltre, ovviando a possibili incertezze interpretative originate in passato dal silenzio della legge, si e' espressamente riservato al ministro di grazia e giustizia l'esercizio di quelle facolta', che siano eventualmente previste dai singoli trattati internazionali stipulati dal nostro Paese. Correlativamente l'articolo 692 prescrive l'accertamento giurisdizionale delle condizioni legittimanti l'estradizione, attribuendo ad esso la stessa efficacia di condizione necessaria ma non sufficiente che gli e' propria anche nell'attuale sistema; senza la decisione favorevole della autorita' giudiziaria l'estradizione non puo' essere concessa e tuttavia il suo intervento non la rende obbligatoria. Cio' e' quanto precisa il comma 3 dell'art. 692 con riguardo sia alla decisione favorevole dell'autorita' giudiziaria - e anche a tale riguardo si e' sostituita la corte di appello alla sezione istruttoria - sia alla domanda dell'interessato di essere consegnato allo stato che abbia chiesto l'estradizione. In tale ultimo caso, peraltro, non e' necessario il giudizio giurisdizionale (comma 2). Tuttavia, per garantire contro eventuali arbitri, si e' previsto in successive disposizioni (artt. 694 comma 2 e 707 comma 1) che la domanda sia formulata nella fase antecedente o nel corso del giudizio rispettivamente alla presenza del procuratore generale presso la corte di appello o del presidente della corte stessa nonche' del difensore, in conformita' all'indicazione contenuta in una risoluzione della Association internationale de droit pe'nal. Nel secondo gruppo di norme vanno, invece annoverate quelle contenute negli articoli 689, 690, 691 e 696 comma 2, che hanno la comune finalita' di indicare i presupposti generali - intesi lato sensu - che legittimano l'accoglimento d'una domanda di estradizione. Cosi', in particolare, con l'articolo 689, si e' ritenuto, innovando completamente rispetto al sistema vigente, di dovere dare preminente rilievo (prima ancora che al principio di specialita' di cui al successivo art. 690) alla tutela dei diritti fondamentali della persona, stabilendo la formale esclusione di qualsiasi estradizione che possa porre in pericolo i suddetti diritti per uno dei motivi elencati nell'articolo stesso o comportare come effetto finale l'applicazione della pena di morte. Peraltro, nell'intento di assicurare una reale garanzia dei diritti fondamentali della persona, la relativa tutela resta affidata - nel nuovo sistema - al tramite della duplice valutazione dell'autorita' politica e di quella giudiziaria, chiamate entrambe a pronunciarsi, per la parte di rispettiva competenza, in merito all'effettivo rispetto dei suddetti diritti. Cosi', sulla base delle disposizioni contenute nell'art. 689 comma 2, viene rimessa all'apprezzamento del ministro di grazia e giustizia la valutazione delle garanzie prestate dal paese richiedente in ordine alla commutazione della pena di morte e correlativamente, nell'articolo 696 comma 2, viene rimesso al giudizio della corte di appello l'accertamento in iudicio di eventuali cause ostative dell'estradizione a motivo della paventata lesione dei diritti fondamentali della persona. Con l'articolo 690, si e', poi, proceduto a una nuova e piu' compiuta formulazione del principio di specialita', non a caso collocato, diversamente da quanto previsto nella vigente disciplina, in una autonoma disposizione. In particolare nel comma 1 dell'art. 690 si e' precisato che la clausola della " specialita' " deve essere apposta in modo " espresso " a ogni atto di concessione dell'estradizione, per ovviare all'inconveniente che, ritenendo - come e' avvenuto in passato - non necessaria la sua enunciazione espressa perche' da considerarsi in ogni caso tacitamente apposta, lo stato estero si reputi poi svincolato dal rispetto di quella clausola. Nello stesso articolo sono previste al comma 2 talune specifiche ipotesi di eccezione al principio di specialita', la cui osservanza, al pari delle altre condizioni eventualmente apposte alla concessione dell'estradizione, e' affidata dal comma 4 dello stesso articolo al ministro di grazia e giustizia. Sempre in tema di presupposti legittimanti l'estradizione, va poi ricordato l'articolo 691, che enumera i documenti richiesti a sostegno di una domanda d'estradizione. Il comma 1 di detto articolo, infatti, stabilendo la necessita' della allegazione alla domanda d'estradizione di un provvedimento restrittivo della liberta' personale o di una eventuale sentenza di condanna a pena detentiva, integra la disposizione contenuta nell'art. 688, limitando l'ambito della estradizione alle sole ipotesi in cui la persona da estradare debba all'estero espiare una pena detentiva o essere ivi giudicata in vincoli. In altri termini, non ogni imputato o condannato all'estero che abbia trovato rifugio in Italia e' suscettibile di essere richiesto in estradizione, ma soltanto colui che, in aggiunta a una delle qualita' sopraindicate e in conseguenza di essa, debba, altresi', essere necessariamente privato della liberta' personale, in virtu' di un provvedimento dell'autorita' straniera, pronunciato nelle more o a conclusione di un giudizio. Conseguentemente, non potendo l'estradizione - che, secondo la piu' qualificata dottrina, ha natura di procedimento incidentale (o complementare) - assumere un ambito di applicazione piu' ampio di quello innanzi descritto, anche il principio di specialita' non potra' acquistare un effetto preclusivo maggiore di quello derivante dai presupposti d'estradizione, quali delineati nel Progetto. Il terzo gruppo di norme comprende, invece, le disposizioni (articoli 692 comma 4, 693, 694, 695, 697, 701 e 702) piu' propriamente processuali, destinate a disciplinare sotto il profilo del rito le singole fasi del procedimento di estradizione. A tale proposito va innanzitutto rammentata la disposizione contenuta nel comma 4 dell'articolo 692, con la quale si sono stabiliti precisi criteri di competenza territoriale alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1975, che ritenne l'art. 666 c.p.p. non in contrasto con l'art. 25 comma 1 Cost., solo in quanto interpretato nel senso che preveda la competenza del giudice del luogo in cui l'interessato si trovi nel momento in cui al ministro di grazia e giustizia perviene la domanda di estradizione. L'articolo 693, introduce la possibilita' per lo stato richiedente di intervenire nel procedimento di estradizione, tanto davanti alla corte di appello che a quella di cassazione, peraltro a condizione di reciprocita', al fine di garantire un'effettiva parita' di trattamento nell'ipotesi inversa, in cui cioe' sia lo Stato italiano ad avanzare una domanda di estradizione. In ogni caso lo stato richiedente dovra' essere rappresentato da un avvocato abilitato al patrocinio davanti al giudice italiano. Con l'articolo 694 inizia la disciplina del procedimento di estradizione, che fa registrare alcune rilevanti innovazioni alla normativa vigente. Si e' innanzitutto attribuito al procuratore generale presso la corte di appello il compito non solo di promuovere il procedimento a seguito dell'invio al suo ufficio della domanda di estradizione da parte del ministro di grazia e giustizia, ma anche di provvedere di ufficio agli accertamenti necessari. Tale scelta e' stata determinata dal fatto che nella struttura del nuovo processo penale non sarebbe stato possibile affidare tali accertamenti, in analogia con il vigente art. 666 c.p.p., a un consigliere delegato della corte di appello, posto che questi non avrebbe potuto operare con strumenti d'indagine del tipo di quelli dell'attuale fase istruttoria e posto, d'altro canto, che ne' la normativa della fase dibattimentale ne' quella degli atti di indagine preliminare sarebbe risultata adeguata a disciplinare tali attivita'. Per il compimento degli accertamenti del procuratore generale si e' ritenuto di prevedere - al comma 4 del citato articolo - un termine di tre mesi, entro il quale deve essere presentata la requisitoria alla corte di appello e tutti gli atti devono essere depositati nella cancelleria della corte a disposizione delle parti. Il comma 5 dell'art. 694 soggiunge, poi, che della avvenuta effettuazione di tale deposito deve essere data notizia alle parti, perche' nel termine di dieci giorni possano prendere visione della requisitoria e degli atti ed esaminare le cose eventualmente sequestrate. Dopo questi adempimenti ha luogo l'udienza avanti alla corte di appello (articolo 695), la quale peraltro ha facolta' di disporre ulteriori accertamenti. In particolare il comma 1 di tale articolo stabilisce a pena di nullita', che il decreto di fissazione dell'udienza vada notificato, almeno dieci giorni prima, alle parti, ivi compresa la persona di cui e' stata richiesta l'estradizione, in ottemperanza a quanto stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 13 novembre 1985, che ebbe a dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'ultimo comma del vigente art. 666 c.p.p. " nella parte in cui non dispone che il decreto ivi previsto sia notificato all'estradando ". Gli ultimi due commi dell' art. 695 prevedono, poi, i provvedimenti che la corte di appello, nel decidere sulla estradizione, deve adottare in materia di liberta' personale. L'inserimento di queste disposizioni, che non trovano corrispondenti nel codice vigente, si e' reso necessario per il fatto che la detenzione dell'estradando non consegue piu' obbligatoriamente all'avvio del procedimento di estradizione, ma e' prevista solo nel caso in cui ricorrano ragioni d'ordine cautelare. Pertanto il comma 3 prescrive che con la decisione favorevole all'estradizione sia disposta la custodia in carcere dell'estradando che si trovi in liberta', subordinatamente, pero', a una specifica richiesta in tal senso del ministro di grazia e giustizia. In tal modo si e' rimessa a quest'ultimo la valutazione dei rischi connessi al ritardo nell'adozione del provvedimento restrittivo della liberta' personale. Per converso il comma 4 dell'art. 695 stabilisce che con la decisione contraria all'estradizione sia disposta la revoca delle misure cautelari applicate. Nell'articolo 697, si e' mantenuto il ricorso per cassazione anche per il merito e il potere della corte di disporre ulteriori accertamenti, in analogia a quanto previsto per la corte di appello dall'art. 695. Per contro, l'articolo 701 rappresenta una novita' assoluta. Esso ha per oggetto la fase del procedimento successiva alla garanzia giurisdizionale o, in caso di consenso all'estradizione, al deposito del relativo verbale ed e' inteso a disciplinare nel dettaglio, mediante la fissazione di alcuni termini perentori, gli adempimenti che in tale fase fanno carico al ministro di grazia e giustizia. In particolare, i commi 2 e 6 del suddetto articolo stabiliscono che la persona da estradare, se detenuta, venga posta immediatamente in liberta' tanto nell'ipotesi di mancata tempestiva adozione del provvedimento di estradizione entro il termine di quarantacinque giorni indicato nel comma 1 che in quella, cronologicamente successiva, di omessa presa in consegna dell'estradando da parte dello stato richiedente entro il termine massimo di trentacinque giorni previsto dal comma 5 dello stesso articolo. Si tratta, com'e' evidente, di statuizioni che traggono origine da analoghe disposizioni contenute nelle singole convenzioni d'estradizione e destinate a sanzionare eventuali inammissibili inerzie che avessero a verificarsi nell'azione delle autorita' tanto dello Stato richiesto che di quello richiedente. Nell'articolo 702, sono infine disciplinati i rapporti fra l'esecuzione della estradizione e la celebrazione di un processo davanti al giudice italiano o l'esecuzione di una pena nel territorio dello Stato. Confermata, nei termini attualmente vigenti, la sospensione dell'esecuzione dell'estradizione, si e' fatta salva ancora una volta la possibilita' di una consegna temporanea allo stato richiedente, disposta dal ministro di grazia e giustizia solo previo parere dell'autorita' giudiziaria competente. Al comma 2, poi, si e' ribadita la possibilita' che, a seguito di accordo del ministro con lo stato richiedente, la pena da espiare nel territorio dello Stato sia scontata all'estero nel rispetto delle disposizioni contenute nel capo II del titolo IV. Nell'ultimo gruppo vanno infine incluse le disposizioni contenute negli articoli 698, 699, 700 e 703, unificate dal comune intento di disciplinare eventi destinati a verificarsi successivamente alla conclusione del procedimento d'estradizione e precisamente o dopo la avvenuta consegna dell'estradando allo stato richiedente (come nel caso di presentazione di una domanda aggiuntiva o di riestradizione) o dopo la pronuncia di una sentenza contraria all'estradizione (rinnovo di una precedente domanda gia' respinta), conferendo cosi' per la prima volta fondamento normativo a una serie di istituti completamente ignorati nel vigente codice. Con l'articolo 698, si e' voluto assicurare il filtro della garanzia giurisdizionale anche nell'ipotesi di una domanda di estradizione nuova (cioe' " avente a oggetto un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l'estradizione e' gia' stata concessa "), avanzata dopo la consegna dell'estradato, stabilendosi in particolare al comma 2 che l'assenza di quest'ultimo dal territorio dello Stato non e' di impedimento allo svolgimento del giudizio dinanzi alla corte di appello. A tale regola si fa, tuttavia, eccezione (analogamente a quanto previsto per la domanda principale) nell'eventualita' che la persona della quale e' stata richiesta l'estensione della estradizione abbia consentito, con dichiarazione resa dinanzi ad un giudice dello stato richiedente, all'estensione invocata (art. 698 comma 3). Peraltro, con riferimento a quanto disposto dalla Convenzione europea di estradizione, si e' stabilito al comma 1 che, in aggiunta ai documenti previsti in linea generale dall'art. 691, alla domanda di estensione della estradizione vadano in ogni caso allegate le dichiarazioni rese in proposito dall'estradando nel rispetto delle formalita' sopraindicate. Con l'articolo 699, viene esteso all'istituto della riestradizione il regime delle garanzie previsto dall'art. 698, cosi' parificando attraverso una disciplina uniforme ipotesi ontologicamente diverse, ma implicanti ciascuna per proprio conto una chiara eccezione al principio di specialita', come espressamente indicato nell'art. 690 comma 2 lett. a ) e b). Nell'articolo 700, si e' ripresa la norma dell'art. 669 cpv. c.p.p. in una dizione che sembra piu' corretta, poiche' mette in primo piano la preclusione alla pronuncia di una sentenza favorevole relativamente a una domanda presentata per gli stessi fatti, gia' oggetto di una sentenza contraria all'estradizione. L'articolo 703 modifica la corrispondente norma dell'attuale art. 670 commi 3 e 4 c.p.p., subordinando in modo esplicito ad un nuovo esame della pericolosita' sociale, l'applicazione delle misure di sicurezza, gia' disposte a carico dell'estradato e rimaste sospese in attesa di un eventuale rientro dello stesso nel territorio dello Stato. Negli articoli da 704 a 709 sono poi disciplinati i poteri cautelari sull'estradando, ivi compresi quelli concernenti il sequestro, con un complesso di norme che innova per piu' aspetti le disposizioni vigenti. I criteri di fondo cui il Progetto si e' ispirato stanno, da un lato, nell'abbandono dell'idea che la custodia in carcere dell'estradando sia un elemento indispensabile del procedimento di estradizione e, dall'altro, che non v'e' ragione perche' all'estradando, in tema di misure di coercizione, non sia riservato lo stesso trattamento dell'imputato avanti ad un giudice italiano; salvo poi a prevedere, come ulteriore presupposto legittimante tali misure, il pericolo di fuga in considerazione della particolare situazione in cui tale soggetto viene a trovarsi. Si e' peraltro stabilito che le misure coercitive e il sequestro non possono mai essere adottate, qualora vi siano ragioni per ritenere l'insussistenza delle condizioni necessarie per una pronuncia favorevole all'estradizione. In tal senso dispone l'articolo 704, che richiama la normativa ordinaria in tema di misure coercitive, eccezione fatta per le disposizioni contenute negli art. 273 e 280 e per quelle del capo III del titolo I del libro IV. Si e' poi stabilito, conformemente all'ultimo comma dell'art. 13 Cost., un limite massimo per la durata delle misure di coercizione. La competenza a provvedere sull'applicazione delle misure anzidette resta affidata, oltre che alla corte di appello, anche alla corte di cassazione, cosi' innovando anche sotto tale profilo al sistema precedentemente vigente. Accanto alla disciplina generale si e' prevista, al contempo, la possibilita' di applicare provvisoriamente le misure cautelari dell'art. 704 anche con riferimento ad un momento precedente la presentazione della domanda di estradizione. In tal caso l'articolo 705 impone la necessita' della presenza di specifici requisiti analiticamente indicati nel comma 2. Sono inoltre previsti nel comma 6 un termine e le condizioni di efficacia delle misure cautelari, la cui adozione deve altresi' essere comunicata allo stato richiedente, perche' provveda tempestivamente alla trasmissione della documentazione indicata nell'art. 691. Infine, con riferimento a situazioni di particolare urgenza in cui non e' possibile ricorrere all'autorita' giudiziaria, con l'articolo 706, e' stato attribuito alla polizia giudiziaria il potere di procedere all'arresto della persona nei cui confronti e' stata gia' presentata da parte di uno stato estero domanda di arresto provvisorio nonche' al sequestro delle cose pertinenti il reato. Inoltre, in considerazione del fatto che tali provvedimenti sono adottati indipendentemente dall'esistenza di una richiesta del ministro e senza una compiuta documentazione, se ne e' prevista la convalida da parte dell'autorita' giudiziaria entro il termine costituzionale, subordinando poi l'efficacia nel tempo del provvedimento cosi' adottato a una esplicita richiesta del ministro. Tale norma e' la conseguenza della possibilita' di disporre misure di coercizione solo subordinatamente alla richiesta del ministro di grazia e giustizia. Questo sistema discende dall'attribuzione al ministro del potere di concedere l'estradizione: se questa stessa scelta e' rimessa a sue valutazioni politiche, sarebbe incomprensibile una previsione che consentisse all'autorita' giudiziaria di adottare misure di coercizione senza che sia lo stesso ministro, sempre nell'ambito di valutazioni in vario senso politiche, a richiederle. Tali ragioni, di valore assorbente, non consentono di derogare per alcun caso alla prescrizione che per disporre misure di coercizione personale sia necessaria la richiesta del ministro di grazia e giustizia, essendo una scelta squisitamente politica quella di prestare allo stato straniero una collaborazione cosi' intensa da arrivare sino alla limitazione della liberta' personale di un individuo. Le considerazioni che precedono hanno imposto di prevedere nell'articolo 708 comma 2 che la revoca delle misure debba essere sempre disposta conformemente alla richiesta del ministro di grazia e giustizia. Nell'intento di assicurare un reale e immediato esercizio del diritto di difesa da parte della persona sottoposta a misura coercitiva si e' disposto l'obbligo - nell'articolo 707 - della sua audizione da parte dell'autorita' giudiziaria entro un breve termine. Si e' voluto inoltre prevedere esplicitamente la possibilita' della revoca e della sostituzione delle misure cautelari adottate nel corso del processo estradizionale (articolo 708 comma 1) nonche' la possibilita' di una loro impugnazione (articolo 709). CAPO II ESTRADIZIONE DALL'ESTERO In tema di estradizione dall'estero (c.d. attiva), ci si e' proposti di evidenziare, ancor piu' che in quella passiva, i poteri che in materia sono riservati al ministro di grazia e giustizia in relazione ai compiti istituzionali dell'autorita' giudiziaria, nell'evidente scopo di risolvere in modo definitivo quei dubbi cui aveva dato luogo l'attuale disciplina. In particolare, l'articolo 710, pur riproducendo in linea di massima l'impianto normativo oggi vigente, prevede espressamente nel comma 3 il potere del ministro di rifiutare o ritardare la presentazione di una domanda d'estradizione, dando cosi' esplicito rilievo a considerazioni d'indole diversa da quelle proprie dell'autorita' giudiziaria, perche' implicanti valutazioni di natura politica, alla stregua delle quali va valutata l'opportunita' di una richiesta di collaborazione internazionale a uno stato estero: nel che si sostanzia ogni domanda d'estradizione. In aderenza a tali principi e come corollario degli stessi, si e' altresi' riservato al ministro di grazia e giustizia il potere non solo di accettare o meno le condizioni eventualmente apposte dallo stato estero per la concessione di una estradizione, ma anche di disporre la diffusione delle ricerche in campo internazionale e l'inoltro della richiesta di arresto provvisorio. L'articolo 711 da' attuazione al principio di specialita' in materia di estradizione attiva. Le considerazioni esposte sul punto in tema di estradizione passiva valgono - e ancor piu' - in materia di estradizione attiva, sottolineandosi l'esigenza di far ricorso alla estradizione suppletiva ogni qualvolta ricorrano le condizioni e i presupposti di estradabilita' in relazione a un reato anteriore e diverso. Peraltro, con riferimento all'art. 14 della Convenzione europea di estradizione, da cui detta norma e' tratta, si sono compiutamente indicate le singole ipotesi in cui e' consentito fare eccezione al principio anzidetto sulla base di comportamenti risalenti alla volonta' dello stesso estradato o dello stato estero. In relazione a tale ultima eventualita' si e' preferita la locuzione " espresso consenso dello stato estero " ad altre piu' specifiche, ben potendo sussistere nelle normative dei singoli stati - come appunto gli Stati Uniti d'America - particolari disposizioni destinate ad attribuire ad autorita' diverse da quella giudiziaria la cognizione di eventuali domande suppletive avanzate dopo la consegna. Infine, con l'articolo 712, si e' data espressa rilevanza alla custodia cautelare subita all'estero in conseguenza di una domanda di estradizione, avanzata dal nostro Paese, ai fini del computo della durata della custodia cautelare. Tuttavia con riferimento a tale previsione sono stati inseriti due temperamenti: il primo, operante per effetto dell'inciso " salvo quanto previsto nell'articolo 304 comma 1 lettera b) " contenuto nel comma 1, concerne la fase del giudizio; la norma citata stabilisce, infatti, che i termini della custodia cautelare restano sospesi qualora il giudizio rimanga sospeso per legittimo impedimento dell'imputato, tale ritenendosi la carcerazione subita all'estero a seguito di una domanda d'estradizione. Il secondo, riguardante, invece, la fase delle indagini preliminari, e' desumibile dal comma 2 dell'art. 712, che contiene l'espressa previsione di una possibilita' di proroga dei termini della custodia cautelare, anche in assenza delle condizioni indicate nella disciplina prevista dall'art. 305, qualora la custodia subita all'estero (per effetto di una domanda d'estradizione) si sia protratta per un tempo superiore alla meta' dei termini suddetti. TITOLO III ROGATORIE INTERNAZIONALI CAPO I ROGATORIE DALL'ESTERO In materia di rogatorie dall'estero - che la pratica chiama " passive " - l'esistenza di una maggiore articolazione della disciplina, oggi conglobata sostanzialmente nell'art. 658 c.p.p., ha portato a dar vita a una pluralita' di previsioni. In particolare, si e' ritenuto opportuno introdurre precise regole decisorie ed una piu' netta distinzione tra il vaglio del ministro di grazia e giustizia ed il vaglio giurisdizionale. Si e', infatti, attribuita al ministro la valutazione dell'eventuale compromissione della sovranita', della sicurezza o di altri interessi essenziali della Repubblica (che giustifica il " blocco " della rogatoria) e all'autorita' giudiziaria la valutazione degli eventuali divieti di legge o dell'eventuale contrarieta' ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano. Peraltro, e' sembrato opportuno temperare questa soluzione, consentendo al ministro - se non altro per ragioni di economia processuale - di non dar corso alla rogatoria nel caso in cui sia palese che gli atti richiesti sono espressamente vietati dalla legge o contrari ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano (articolo 713 comma 1 e comma 2). Si e' inoltre previsto che il ministro possa non dare corso alla rogatoria quando lo stato richiedente non dia idonee garanzie di reciprocita' (art. 713 comma 3). Non si e' ritenuto, invece, conformemente a quanto evidenziato nei rilievi preliminari, di introdurre un generale divieto di assistenza giudiziaria internazionale in materia di reati politici, posto che la ratio del divieto costituzionale riguardante l'estradizione per reati politici non puo' essere spinta cosi' avanti da toccare anche le rogatorie, nelle quali non e' direttamente in gioco la liberta' personale dell'imputato; l'ineseguibilita' di tali rogatorie, del resto, non trova fondamento in nessuna norma della Costituzione, mentre - per altro verso - la dimensione internazionale che sempre piu' vengono ad assumere i fenomeni di criminalita' (anche politica) consiglia di rendere piu' snella e piu' incisiva la cosiddetta assistenza giudiziaria " minore " tra stati diversi. Al riguardo, si e' ritenuto sufficiente e piu' adeguato alle esigenze menzionate sancire il divieto di dar corso alla rogatoria " quando vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalita', alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali possano influire negativamente sullo svolgimento o sull'esito del processo " (art. 713 comma 2; v. anche art. 714 comma 5). La valutazione di tali ragioni e' demandata al doppio vaglio del ministro di grazia e giustizia e dell'autorita' giudiziaria. Si e', peraltro, temperato il divieto prevedendo la possibilita' di un suo superamento, qualora cio' sia imposto dal principio del favor rei e, in particolare, dall'esigenza di rendere possibile l'acquisizione, nel processo che si svolge all'estero, di prove a discarico dell'accusato: per tale motivo si e' attribuito rilievo giuridico al consenso alla rogatoria che risulti essere stato liberamente espresso dall'accusato medesimo (art. 713 comma 2 e art. 714 comma 5). Per quanto attiene piu' specificamente al vaglio giurisdizionale, si e' individuato nella corte di appello l'organo giudiziario competente per ragioni di semplificazione e specializzazione (articolo 714). Si e' ritenuto poi di sviluppare l'embrione di procedimento decisorio di cui al vigente art. 658 comma 1 c.p.p., prevedendo la possibilita' di una piu' ampia discussione, se del caso in contraddittorio, attraverso la prevista facolta', per lo stato richiedente, e a condizione di reciprocita', di intervenire all'udienza in persona di un avvocato abilitato al patrocinio davanti alla autorita' giudiziaria italiana (art. 714 comma 3). Il comma 4 dell'art. 714 prevede altresi' che la corte non dia esecuzione alla rogatoria se il fatto per cui procede l'autorita' richiedente non e' previsto come reato anche dalla legge italiana. In tema di esecuzione delle rogatorie, si sono introdotte, nell'articolo 715, due varianti rispetto alla disciplina oggi contenuta nei commi 2, 3 e 4 dell'art. 658 c.p.p. In primo luogo, i magistrati delegabili per l'esecuzione delle rogatorie sono stati individuati nei componenti della corte di appello e nel giudice per le indagini preliminari del luogo in cui gli atti devono compiersi: tali organi, infatti, sembrano i piu' idonei a svolgere le attivita' richieste da una rogatoria passiva. In secondo luogo, si e' considerato che sovente l'autorita' giudiziaria chiede che l'assunzione di taluni atti si svolga nel rispetto di determinate formalita' procedurali considerate essenziali ai fini della validita' del procedimento nell'ordinamento estero. E si e' ritenuto, in considerazione della ratio stessa dell'assistenza giudiziaria internazionale, che di tali esigenze dello stato richiedente si tenga conto. La norma dell'art. 715 e' stata cosi' formulata in termini tali da non consentire interpretazioni restrittive sulla possibilita' di soddisfare le particolari esigenze processuali prospettate dallo stato richiedente (interpretazioni restrittive che potrebbero far leva sul principio locus regit actum). Si e' infatti stabilito che per il compimento degli atti richiesti si applicano le norme del codice, " salva l'osservanza delle forme espressamente richieste dall'autorita' giudiziaria straniera che non siano contrarie ai principi dell'ordinamento giuridico dello Stato ". Fra l'altro, con questa formulazione si e' voluta rendere possibile, qualora l'autorita' straniera lo richieda, la prestazione del giuramento anche se tale formalita' non e' piu' prevista per il procedimento penale. Quanto, poi, alla citazione di testimoni a richiesta dell'autorita' straniera (articolo 716), si e' ritenuto che il ruolo attribuito al procuratore della Repubblica di collaborazione con il processo straniero, attesa anche la natura dell'attivita' da compiere, non metta in gioco la collocazione del pubblico ministero come parte nel processo penale italiano. CAPO II ROGATORIE ALL'ESTERO Nel nuovo processo penale e' prevedibile che l'organo attivo di inoltro di una rogatoria all'estero - che la pratica chiama "attiva" - possa essere non soltanto il giudice (il giudice per le indagini preliminari e il giudice del dibattimento), ma anche il pubblico ministero nell'ambito delle attivita' di loro rispettiva competenza. Si e' pertanto ritenuto opportuno indicare espressamente (al fine di eliminare equivoci interpretativi peraltro improbabili alla luce del significato che all'espressione "autorita' giudiziaria" e' stato attribuito nelle altre parti del Progetto) come organi attivi i "giudici" e i "magistrati del pubblico ministero" (articolo 717 comma 1). Nei commi successivi, si e' invece mantenuta la tradizionale espressione "autorita' giudiziaria" posto che la specificazione inserita nel comma 1 e' parsa sufficientemente chiarificatrice, circa la riferibilita' della normativa anche al pubblico ministero. Secondo la disciplina contenuta nel vigente art. 657 c.p.p. - da integrarsi con l'art. 53 disp. att. - le rogatorie da operare all'estero sono raggruppate in una duplice categoria, anche se per tutte si prevede che debbano essere "trasmesse per via gerarchica al procuratore generale presso la corte d'appello": quelle dei "casi ordinari" e quelle dei "casi urgenti". Nei casi previsti come ordinari e' stabilito che il procuratore generale "fa pervenire le rogatorie al ministro di grazia e giustizia col suo parere circa l'utilita' e l'opportunita' di darvi corso", e si aggiunge che, quando il ministro ritenga di non darvi corso, "ne informa senza ritardo il procuratore generale che da' immediato avviso all'autorita' richiedente". Per i casi urgenti, invece, il codice vigente autorizza l'autorita' giudiziaria a trasmettere le rogatorie "direttamente agli agenti diplomatici o consolari all'estero", salvo l'obbligo di avvertire sempre "per via gerarchica", il ministro. Valutata l'esperienza processuale formatasi in tale disciplina e considerata la maggiore celerita' che dovrebbe caratterizzare il nuovo processo, la normativa e' stata delineata partendo dalla considerazione che ben difficilmente una rogatoria all'estero potra' essere ritenuta non urgente sia per i termini massimi previsti per la chiusura delle indagini preliminari (art. 402) sia per i tempi tecnici necessari per l'espletamento delle rogatorie internazionali, sempre piuttosto lunghi. Si e' cosi' abolito il filtro - oggi rappresentato dal parere del procuratore generale - ritenuto in contrasto con la sistematica della legge-delega e si e' preferito instaurare un piu' diretto rapporto tra autorita' giudiziaria e ministro di grazia e giustizia; a quest'ultimo, poi, si e' attribuito un limitato potere di "blocco" da esercitare mediante l'emissione di un decreto qualora l'inoltro della rogatoria venga ritenuto atto idoneo a compromettere "la sicurezza o altri interessi essenziali della Repubblica" (art. 717 comma 2). Il decreto e' trasmesso all'autorita' richiedente, il che comporta la sua inserzione negli atti processuali e, di conseguenza, una chiara assunzione da parte del ministro della responsabilita' politica connessa alla scelta operata (art. 717 comma 3). Nei casi ordinari il ministro di grazia e giustizia, se non informa l'autorita' richiedente di aver messo il decreto di "blocco", comunica alla medesima "la data di ricezione della richiesta e l'avvenuto inoltro della rogatoria" (art. 717 comma 3); allorquando la rogatoria non e' stata inoltrata dal ministro entro trenta giorni dalla ricezione, e non sia stato emesso il decreto di "blocco", l'autorita' giudiziaria puo' provvedere all'inoltro diretto all'agente diplomatico italiano, informandone il ministro stesso (art. 717 comma 4). In tal modo, dunque, decorso nell'inerzia il termine di legge, opera la medesima disciplina dei casi urgenti espressamente prevista dal comma 5 dell'art. 717. Il meccanismo previsto dal comma 5 dell'art. 717 rende possibile il potere di "blocco" del ministro anche nei casi urgenti, senza che cio' comporti alcun ritardo nella procedura, posto che tale meccanismo consente al ministro - notiziato tempestivamente - di "bloccare" la rogatoria, sempre nei casi e nei modi previsti dal comma 2, presso l'agente diplomatico o consolare all'estero. Con l'articolo 718, si e' ritenuto opportuno inserire nel nuovo codice una norma che eliminasse le incertezze - che in passato si sono a volte verificate - in ordine all'incidenza delle eventuali condizioni poste dallo stato estero all'utilizzabilita' degli atti richiesti. La norma stabilisce che tali condizioni vincolano l'autorita' giudiziaria, a tale scopo configurando la sanzione dell'inutilizzabilita'. TITOLO IV EFFETTI DELLE SENTENZE PENALI STRANIERE ESECUZIONE ALL'ESTERO DI SENTENZE PENALI ITALIANE La cooperazione giudiziaria interstatuale in campo penale ha subi'to nei tempi piu' recenti una profonda evoluzione, determinata soprattutto dalle innovazioni introdotte con moderne convenzioni internazionali. Accanto all'affinamento degli istituti dell'estradizione e delle rogatorie sono, infatti, emersi nuovi strumenti di cooperazione, tra i quali, quello costituito dalla esecuzione delle sentenze penali straniere ovvero dall'assunzione di funzioni che si collegano all'esecuzione di una decisione straniera. Il crescente rilievo attribuito a tale nuova articolazione della cooperazione internazionale nella materia penale ha diverse cause. La prima, e la principale, e' costituita certamente dalla accentuata mobilita' della popolazione (soprattutto nell'ambito della Comunita' economica europea, dal momento che la libera circolazione dei lavoratori e dei prestatori e utenti di servizi rappresenta uno dei pilastri dell'ordinamento giuridico nato dal Trattato di Roma) che provoca un aumento dei reati commessi da persone residenti all'estero e che, dopo la consumazione del reato, ritornano nello stato d'origine. D'altro canto l'obiettivo del reinserimento sociale del condannato, che assume un ruolo crescente tra le diverse possibili funzioni della pena - nell'ordinamento italiano anche alla luce del principio contenuto nell'art. 27 Cost. - appare razionalmente perseguibile solo quando la pena detentiva viene espiata nel paese in cui il condannato ha saldi legami sociali e familiari. I possibili sviluppi di questa nuova forma di collaborazione internazionale appaiono considerevoli. Oltre ad essere prevista in due accordi gia' in vigore (Convenzione europea sulla sorveglianza delle persone condannate o liberate condizionalmente, ratificata dall'Italia il 21 maggio 1975; art. 18 del Trattato di mutua assistenza in materia penale tra l'Italia e gli Stati Uniti d'America, ratificato il 13 novembre 1985), essa sembra suscettibile di larga utilizzazione sulla base di convenzioni - firmate ma non ancora ratificate - che disciplinano vari aspetti della cooperazione nel momento dell'esecuzione e, fra gli altri, la esecuzione delle pene principali, ivi comprese pene restrittive della liberta' personale. Tra queste convenzioni vanno, in particolare, ricordate quelle che consentono il trasferimento del condannato nel paese d'origine perche' vi sconti la pena detentiva (ad esempio, la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, aperta alla firma a Strasburgo il 21 marzo 1983 e firmata dall'Italia il 20 marzo 1984 e l'Accordo per l'applicazione di detta convenzione tra i paesi membri delle Comunita' europee, firmato dall'Italia il 25 maggio 1987). Si e' ritenuto, quindi, che il codice non possa non regolare gli aspetti "interni" relativi a questa nuova forma di cooperazione internazionale. Si e' considerato, a tal proposito, che una delle ragioni del ritardo nelle ratifiche delle convenzioni firmate dall'Italia va ricercata nella mancanza attuale del quadro procedurale secondo cui attuare le previsioni pattizie. Si e' pure considerato che all'esecuzione delle sentenze penali straniere sono ormai attribuite, in numerose legislazioni straniere, dignita' e rilevanza pari a quelle dell'estradizione e delle rogatorie, tanto che essa ha trovato - accanto a queste piu' conosciute specie di cooperazione - compiuta disciplina nelle leggi di alcuni paesi europei (Austria, Svizzera, Repubblica Federale di Germania) che regolano in termini generali i rapporti con le autorita' giudiziarie straniere. Ma, soprattutto, si e' tenuto conto del fatto che i piu' delicati problemi di adattamento della nuova normativa ai principi del sistema penale italiano - cioe' quelli relativi alla corretta individuazione dei meccanismi attraverso i quali conferire alla sentenza straniera valore per l'ordinamento italiano si' da poterne far derivare l'esecuzione - potevano essere in buona misura risolti adottando, con gli opportuni aggiustamenti, l'istituto del "riconoscimento delle sentenze penali straniere", gia' previsto nel codice vigente e nel codice penale. Pur senza trascurare le differenze esistenti tra le finalita' del " riconoscimento " agli effetti dell'art. 12 c.p. e quelle dell'esecuzione delle sentenze penali straniere, e la conseguenziale necessita' di disposizioni per certi aspetti diverse, si e' constatata e valutata positivamente la possibilita' di ricondurre comunque allo schema del " riconoscimento ", gia' disciplinato dalla legge italiana, il nuovo istituto dell'esecuzione delle sentenze straniere, cosi' da dar vita a un unico, organico complesso di norme, nel cui ambito le due materie possono essere per molteplici versi disciplinate unitariamente. Si e' ritenuto, peraltro, che in mancanza di una esplicita previsione della legge-delega, non fosse legittimo introdurre nel codice disposizioni procedurali volte a disciplinare l'istituto dell'esecuzione delle sentenze penali straniere in assenza di accordi internazionali. In questa ipotesi, infatti, si sarebbe configurata non soltanto una nuova disciplina processuale, ma anche la regolamentazione sostanziale che la prima presuppone e che, allo stato, non esiste al di fuori dei casi in cui l'esecuzione delle sentenze penali sia prevista da convenzioni internazionali. Il capo I, quindi, contiene sia la disciplina del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 c.p. che quella del riconoscimento per l'esecuzione delle sentenze penali straniere, sulla base di accordi internazionali, nonche' degli altri punti a quest'ultima connessi. Il capo II contiene le disposizioni relative all'esecuzione all'estero delle sentenze italiane. CAPO I EFFETTI DELLE SENTENZE PENALI STRANIERE L'articolo 719 disciplina il promovimento del riconoscimento per gli effetti oggi previsti dall'art. 12 c.p. - ad eccezione del riconoscimento per gli effetti civili (art. 12 comma 1 n. 4 c.p.), domandato da privati, che e' regolato nell'art. 721. Si e' ritenuto che le disposizioni relative all'iscrizione nel casellario giudiziale delle sentenze straniere dovessero essere riservate a quella parte del codice che regola in generale l'iscrizione medesima (art. 677 comma 2); peraltro, e' sembrato opportuno specificare in questo articolo i casi in cui la sentenza straniera puo' divenire oggetto di riconoscimento, individuandoli in quelli di sentenze pronunciate nei confronti non solo di cittadini italiani ovvero di persone residenti nello Stato, ma anche di persone non residenti che si trovino sottoposte a procedimento penale nello Stato. Quest'ultima novita' rispetto alla normativa vigente si spiega in considerazione della intrinseca relazione presente tra l'esistenza di un procedimento in corso e alcuni degli effetti attribuibili al riconoscimento ai sensi dell'art. 12 c.p. Nello stesso articolo, inoltre, si e' inteso attenuare la nota di discrezionalita' nell' an che oggi caratterizza (art. 672) l'iniziativa del pubblico ministero per il riconoscimento della sentenza straniera; e cio' semplicemente esplicitando che in presenza dei presupposti previsti dalla normativa sostanziale (articolo 12 c.p.) il pubblico ministero debba richiedere il riconoscimento. Si e' poi previsto (comma 3) che la richiesta deve contenere " la specificazione degli effetti per i quali il riconoscimento e' domandato ", cosi' impostando il riconoscimento secondo un criterio di maggior determinatezza rispetto al sistema attuale, in aderenza alle esigenze del contraddittorio e della difesa. Lo stesso criterio, d'altronde, e' riflesso nell'articolo 723, laddove - nel disciplinare, unitariamente per tutti i tipi di riconoscimento, le forme del procedimento davanti alla corte di appello e la deliberazione che lo conclude - si e' stabilito che alla sentenza di riconoscimento debba di necessita' inerire l'enunciazione espressa degli effetti che ne conseguono. Si e' voluto, in tal modo, evitare quanto puo' accadere alla stregua della disciplina vigente che cioe', ove manchi, nella sentenza che attua il riconoscimento, la declaratoria dell'effetto, o degli effetti, astrattamente derivabili dal riconoscimento alla stregua dell'art. 12 c.p., quella sentenza possa tuttavia essere suscettibile di dispiegare una sua intrinseca virtualita' a produrre tutti gli altri effetti indicati nello stesso articolo, attraverso l'integrazione di una semplice ordinanza (v. art. 674 ultimo comma c.p.p.). Con la nuova disciplina, invece, cio' non e' piu' previsto e non e' piu' possibile: cosicche', nell'ipotesi in cui manchi la declaratoria relativa a uno specifico effetto, e a quello si voglia pervenire, dovra' necessariamente instaurarsi un nuovo iter di riconoscimento, con la conseguenza - e col vantaggio - che nel medesimo potranno essere dispiegate le garanzie di legge. I possibili inconvenienti di una tale scelta di politica legislativa (si pensi a diversita' o contraddittorieta' delle decisioni) sono parsi meno gravi degli svantaggi certamente derivanti, agli effetti del contraddittorio, dalla normativa vigente. L'articolo 720 disciplina il promovimento del riconoscimento ai fini dell'esecuzione di sentenze penali straniere, nei casi previsti, come si e' gia' detto, da accordi internazionali. Nel testo dell'articolo si fa riferimento, peraltro - accanto alle finalita' di esecuzione della sentenza straniera - anche all'attribuzione di altri effetti: si e' cosi' inteso ricomprendere pure quei possibili casi di cooperazione internazionale che, sebbene sempre afferenti al momento dell'esecuzione, non possono propriamente definirsi come assunzione dell'esecuzione stessa da parte dello Stato, essendo costituiti da funzioni a questa connesse ma secondarie (ad esempio, assunzione del solo compito di cooperazione nella vigilanza sul condannato che ha ottenuto la liberazione condizionale). Il potere di iniziativa e' stato, in questo caso, espressamente attribuito al ministro di grazia e giustizia. Il riconoscimento, infatti, costituisce - nell'ipotesi in esame - lo strumento processuale interno per la soddisfazione degli obblighi o l'attuazione delle facolta' che derivano dal rapporto interstatuale, sicche' e' parso necessario conferire al ministro ruolo analogo a quello rivestito dallo stesso nello svolgimento delle altre forme di cooperazione giudiziaria internazionale (estradizione; rogatorie). Le disposizioni dell'accordo internazionale da applicare determineranno, nel caso concreto, l'ampiezza del potere decisionale del ministro circa la esecuzione nello Stato della sentenza straniera; ogniqualvolta egli ritenga che, in ottemperanza di un obbligo o in forza di una facolta' - che gli derivino dall'accordo medesimo - si debba provvedere a tale esecuzione, dovra' necessariamente richiedere il riconoscimento. Avutasi la richiesta del ministro, spetta anche in questo caso al procuratore generale promuovere il procedimento davanti alla corte di appello. Per una opportuna esigenza di economia processuale, il comma 2 dell'articolo prevede inoltre che il procuratore generale, nel promuovere il riconoscimento ai fini dell'esecuzione di una pena, possa richiedere, ove ne ricorrano i presupposti, che esso venga deliberato anche agli effetti previsti dall'art. 12 n. 1, 2 e 3 c.p. si ammette in tal modo la possibilita' di un riconoscimento al fine di ricollegare alle sentenze straniere una molteplicita' di effetti nello Stato (effetti che, peraltro, secondo quanto si e' gia' osservato, debbono essere specificamente indicati nella richiesta del procuratore generale ed enunciati nella sentenza della corte di appello). Gli articoli 721 e 730, che disciplinano, rispettivamente, il riconoscimento delle sentenze penali straniere per gli effetti civili e il riconoscimento delle disposizioni civili di sentenze penali straniere, non contengono innovazioni di rilievo rispetto all'attuale regolamentazione. L'articolo 722 detta, con disciplina unitaria, le condizioni in assenza delle quali non puo' darsi riconoscimento. La individuazione di tali presupposti e' stata operata enucleando tutti e soltanto quelli compatibili sia con il riconoscimento ex art. 12 c.p. che con quello per esecuzione della sentenza straniera. In particolare, nell'ambito delle ipotesi di riconoscimento per esecuzione di condanne a pena detentiva, i presupposti indicati si adattano sia ai casi in cui la esecuzione in paese diverso da quello di condanna e' in favore del condannato (cio' avviene quando questi, gia' in espiazione di pena nel paese di condanna, e' trasferito nel paese di origine), sia ai casi in cui, non potendosi ottenere l'estradizione del condannato, se ne richiede la sottoposizione a pena nel paese in cui egli si trovi. Si e' considerato, d'altro canto, che le condizioni relative a specifici tipi di esecuzione all'estero sono previste negli accordi internazionali stessi. I presupposti indicati alle lett. a ), b ) e c) riprendono quanto gia' previsto dal codice vigente (art. 674 comma 1), con alcune modifiche: particolare attenzione si e' prestata alla condizione che il procedimento straniero si sia svolto nel rispetto di alcuni principi basilari del nostro sistema procedurale, cosi' da garantire soprattutto uno standard minimo in materia di diritti della difesa. A tal fine le garanzie attualmente previste dall'art. 674 comma 1 c.p.p. per il riconoscimento di cui all'art. 12 c.p. sono state estese a ricomprendere altri elementi, quali l'indipendenza e l'imparzialita' del giudice straniero e la possibilita' per il condannato di essere ascoltato in una lingua a lui comprensibile (supponendo, se necessaria, l'assistenza di un interprete). Le cautele volte a evitare il riconoscimento di sentenze scaturite da un procedimento ingiusto sono completate dalla lett. d), con la quale in adesione ad analoghi richiami nelle altre parti del libro XI - si esclude il riconoscimento di giudicato straniero che sia stato influenzato da una qualsiasi forma di discriminazione o persecuzione del condannato. Pari rilevanza assume, poi, la introduzione (lett. e) del requisito della doppia incriminabilita': tradizionalmente attinente all'estradizione, questo presupposto presenta un valore ancora piu' pregnante nei casi di riconoscimento per esecuzione di giudicati stranieri: contrasterebbe, infatti, con l'art. 25 Cost. eseguire nello Stato una pena per fatti non previsti come reato della legge italiana. Le condizioni previste alle lett. f ) e g), infine, riflettono, rispettivamente, la preoccupazione di evitare che il riconoscimento della sentenza straniera divenga strumento di violazione del principio del ne bis in idem, e la priorita' attribuita all'esercizio in via diretta della funzione giurisdizionale rispetto all'attuazione della cooperazione internazionale. L'articolo 724 prevede che la corte di appello, nella decisione di riconoscimento della sentenza straniera ai fini di esecuzione, determina anche la pena da eseguire nello Stato, procedendo a un " adattamento " della pena inflitta con la sentenza straniera. Tale adattamento si svolge sulla base di due principi fondamentali. Il primo e' costituito dal tendenziale rispetto della pena determinata nella decisione straniera: il giudice del riconoscimento non procede a una rideterminazione della sanzione, ma stabilisce la pena da eseguire rispettando - come regola generale - la decisione straniera tanto con riguardo alla species della pena inflitta quanto con riferimento alla sua entita'. Il secondo principio e' costituito dalla regola che in ogni caso la pena da eseguire non possa essere piu' grave, per specie e misura, di quella comminata (o di una di quelle comminate) per lo stesso fatto dalle leggi italiane. Sulla base di questi principi si sviluppano le previsioni dell'art. 724: il giudice del riconoscimento dovra' sostituire alla pena inflitta nella sentenza straniera una delle pene stabilite per lo stesso fatto dalla legge italiana, scegliendo quella che piu' corrisponde per natura alla prima; la misura della sanzione e' stabilita sulla base della sentenza straniera (avvalendosi eventualmente dei criteri di ragguaglio tra pene diverse previste nel sistema penale italiano), ma senza superare il massimo della pena edittale comminata per lo stesso fatto dalla legge italiana. Nel caso in cui la sentenza straniera non abbia stabilito la misura della pena, questa deve essere determinata sulla base dei principi contenuti negli artt. 133, 133- bis e 133- ter c.p. In ogni caso la pena cosi' determinata non puo' essere piu' grave di quella stabilita nella decisione straniera da eseguire. Gli articoli 725 e 726 provvedono in tema di misure cautelari, relativamente al riconoscimento per esecuzione di una sentenza straniera. Ovviamente le misure cautelari personali previste nel primo articolo sono applicabili nei soli casi in cui il condannato si trovi gia' nel territorio italiano; inoltre, deve trattarsi di esecuzione di pena restrittiva della liberta'. Le disposizioni dell'articolo sono state modellate, per quanto possibile, su quelle previste in tema di misure cautelari per l'estradizione. La possibilita' di ordinare il sequestro e', invece, prevista nell'art. 726 per la ipotesi in cui la esecuzione della sentenza straniera sia costituita da confisca. Gli articoli 727 e 729 regolano le modalita' dell'esecuzione della pena e della confisca conseguente al riconoscimento: il principio fondamentale e' che l'esecuzione avviene sempre secondo le leggi italiane. Infine, l'articolo 728 e' volto a evitare che il riconoscimento della condanna straniera e la conseguente esecuzione della pena inflitta siano causa di una successiva violazione del principio del ne bis in idem; si esclude, quindi, che la persona condannata con la sentenza riconosciuta (salvo che si tratti di riconoscimento ai fini dell'esecuzione di una confisca) possa essere estradata all'estero (nello stato di condanna o in un terzo stato) ovvero sottoposta a procedimento penale per lo stesso fatto. CAPO II ESECUZIONE ALL'ESTERO DI SENTENZE PENALI ITALIANE Il capo II contiene le disposizioni relative alla esecuzione all'estero di sentenze italiane, cosi' disciplinando il " reciproco " dell'esecuzione nello Stato delle sentenze straniere. Ovviamente tale reciprocita' non comporta un pieno parallelismo delle due normative: il sistema processuale per conferire valore all'estero alle sentenze italiane e la attribuzione di effetti peculiari della legge del paese straniero non possono che essere regolati dalla legge straniera stessa o dagli accordi internazionali. Il capo II, quindi, si limita a disciplinare i presupposti e le procedure relative alla domanda che lo Stato italiano puo' rivolgere a uno stato straniero, affinche' qui siano eseguite le sentenze (artt. da 731 a 734), nonche' gli effetti dell'accoglimento di tale domanda sul procedimento italiano (art. 735). Il comma 1 dell'articolo 731 prevede che il potere di domandare l'esecuzione all'estero o di acconsentirvi (quest'ultima ipotesi si verifica quando le convenzioni attribuiscano l'iniziativa a uno stato diverso da quello di condanna) spetta al ministro di grazia e giustizia, che puo' esercitarlo solo nei casi previsti dagli accordi internazionali o dall'art. 702 comma 2 (il quale consente che, quando la persona da estradare debba espiare una pena nello Stato, il ministro convenga con lo stato richiedente l'estradizione che la pena da scontare in Italia venga eseguita all'estero). Tuttavia, l'esecuzione all'estero di condanna a pena restrittiva della liberta' personale non e' ammessa senza previa deliberazione favorevole della corte di appello (articolo 732). Va notato a tal riguardo che l'intervento dell'autorita' giudiziaria ha qui un rilievo ben minore di quello che esso assume nel procedimento di riconoscimento disciplinato nel capo I. Non si tratta, infatti, di attribuire, tramite l'exequatur, particolare valore giuridico a una sentenza straniera, ne' di adattarne le disposizioni con integrazioni in parte modificatrici del contenuto; bensi' soltanto di accertare la sussistenza dei presupposti che legittimano l'esecuzione all'estero, senza che cio' comporti effetto alcuno sul contenuto della sentenza da eseguire. Peraltro, a maggior garanzia dello stesso condannato, e tenuto conto della natura di tali presupposti e condizioni, si e' ritenuto che l'accertamento degli stessi non puo' che essere affidato alle autorita' giudiziarie. Il giudizio innanzi alla corte di appello e' promosso dal procuratore generale. Le forme del procedimento sono regolate in modo identico a quanto previsto dall'art. 723. I presupposti e i limiti dell'esecuzione all'estero sono stabiliti negli artt. 731, 732 e 733 con esclusivo riferimento all'esecuzione di pene restrittive della liberta'. Si e' ritenuto che, nei casi in cui la esecuzione all'estero e' indirizzata a favorire l'obiettivo del miglior reinserimento sociale del condannato, essa non possa che avvenire con il consenso del condannato; quell'obiettivo risulterebbe, infatti, pienamente compromesso se mancasse l'attiva partecipazione del condannato. Peraltro, per garantire ancora di piu' il perseguimento di questo fine, alla libera determinazione del condannato si deve accompagnare la valutazione obiettiva - operata dalle autorita' competenti - delle prospettive realmente offerte in tal senso dall'esecuzione all'estero nel singolo caso concreto. Naturalmente, i requisiti del consenso e della possibilita' di miglior reinserimento sociale non sono richiesti quando il condannato si trovi nello stato estero e la sua estradizione e' stata negata o e' comunque impossibile. In questa situazione la esecuzione nello stato estero svolge la funzione di strumento succedaneo dell'estradizione e, al pari di quest'ultima, ha come scopo la concretizzazione della sanzione inflitta con la condanna, altrimenti destinata a restare in tutto o in parte ineseguita. L'articolo 733 vieta la domanda di esecuzione all'estero quando si ha motivo di temere che il condannato possa essere sottoposto a persecuzioni o subire pregiudizi per ragioni di discriminazione ovvero che le modalita' di esecuzione della pena potrebbero dar luogo a trattamenti crudeli, disumani o degradanti. L'esigenza di evitare questi pericoli e di tutelare i diritti fondamentali del condannato deve prevalere anche rispetto all'esigenza di concretizzazione del ius puniendi o a quella di eseguire la pena nel paese di origine del condannato. La valutazione di tali pericoli e' demandata allo stesso ministro di grazia e giustizia, perche', contrariamente a quanto si suppone nell'art. 722 comma 1 lett. d), qui si tratta non gia' di valutare un procedimento straniero gia' avvenuto, quanto di pronosticare - sulla base di un complesso esame della situazione socio-ordinamentale e politica dello stato estero - le caratteristiche dell'esecuzione all'estero se la domanda viene presentata e accolta. L'articolo 734 prevede la possibilita' di richiedere allo stato estero misure cautelari in attesa della decisione sulla domanda di esecuzione. L'articolo 735, infine, regola il rapporto tra l'esecuzione all'estero e la prosecuzione dell'esecuzione in Italia, stabilendo che quest'ultima resti sospesa dal momento in cui la prima e' iniziata e definitamente impedita dal momento in cui la prima sia stata condotta al termine. PREMESSA 1. Il testo del nuovo codice di procedura penale presentato oggi al Consiglio dei Ministri rispetta rigorosamente i tempi, pur brevissimi, previsti dal comma 4 dell'art. 8 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 marzo 1987 ed entrata in vigore il 31 marzo di detto anno). Entro il 30 settembre 1988 il Presidente della Repubblica dovra' infatti firmare il decreto che ne accompagna l'emanazione. Osservare questi termini non e' stato compito agevole, data la mole del compito della redazione del codice, devoluta alla Commissione nominata a questo fine dal Ministro di grazia e giustizia, e di quello della sua duplice revisione (nel momento del progetto preliminare e in quello del progetto definitivo), devoluta alla Commissione parlamentare di cui all'art. 8 della citata legge di delegazione 16 febbraio 1987. Ma cio' e' stato tuttavia possibile grazie allo scrupolo e all'impegno dedicati a detto compito da entrambe le Commissioni, presiedute, la prima (la Commissione ministeriale), dal professore Gian Domenico Pisapia e la seconda (la Commissione parlamentare, composta di venti deputati e di venti senatori) dal senatore professore Ignazio Marcello Gallo. Il Ministro proponente ritiene pertanto che si debba dare atto, anzitutto, alle suddette Commissioni del loro apporto di intenso lavoro, che ha permesso di rispettare i tempi previsti dalla legge, senza dover proporre proroghe, e di presentare un risultato di altissimo pregio. Dei contenuti di esso e' appunto chiamata a dare conto la presente relazione, non senza un brevissimo cenno sui precedenti della opera di riforma che oggi si conclude. 2. La legge che disciplina il processo penale, quale espressione essenziale dell'assetto che ogni sistema politico da' ai rapporti tra autorita' e liberta', assume contenuti strettamente collegati alle caratteristiche del sistema stesso. Questo collegamento spiega perche' il codice approvato nel 1930 dal regime fascista inizio' a subire interventi di modifica su punti di notevole rilievo gia' pochi mesi dopo la caduta di tale regime, quando ancora il Governo italiano, in attesa della liberazione dell'intero territorio nazionale, aveva sede a Brindisi (r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 45) e poi a Roma (d.lg.lt. 10 agosto 1944, n. 194 e d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 288). Successivamente, sin dall'anno 1945, venne costituita una Commissione per la riforma organica del codice procedura penale. Esigenze di un intervento celere - reso ancora piu' indifferibile da alcune disposizioni della Costituzione repubblicana (come l'inviolabilita' del diritto di difesa) - fecero propendere verso la meta' degli anni cinquanta per un'opera novellistica, attuatasi con la legge 18 giugno 1955 n. 517, la quale, per la sua ampiezza, altero' sensibilmente ed in molti settori i contenuti del codice, ma ne lascio' immutata l'impostazione di fondo, ispirata ad una ideologia autoritaria. Sulla normativa processuale penale, invero, piu' che su ogni altra normativa codicistica, sono caduti nei decenni successivi gli interventi invalidanti della Corte costituzionale. Non sono percio' mai venute meno le aspirazioni e le tensioni verso una disciplina nuova del processo penale. Una "bozza" di codice spiccatamente innovativa fu redatta da Francesco Carnelutti quale presidente di una apposita Commissione ministeriale. La discussione che si sviluppo' su tale testo (del 1963) fece ritenere necessaria la preventiva elaborazione, da parte del Parlamento, di una legge che individuasse i principi ispiratori del nuovo codice, onde nell'aprile 1965 fu presentato dal Governo un disegno di legge-delega per la redazione di un nuovo codice di procedura penale. I lavori parlamentari su tale delega si svilupparono lungo tre legislature (durante la quarta legislatura solamente di fronte alla Camera dei Deputati) e sfociarono nella legge 3 aprile 1974, n. 108. Per l'attuazione di tale legge fu costituita una Commissione ministeriale presieduta dal prof. Gian Domenico Pisapia che, affiancata da una Commissione consultiva a composizione prevalentemente parlamentare, elaboro' il Progetto preliminare del nuovo codice, pubblicato all'inizio del 1978 e corredato da un'ampia ed esauriente relazione illustrativa. Sul Progetto preliminare la Commissione consultiva espresse un analitico ed approfondito parere conclusivo. Il Progetto preliminare fu inviato anche alle Universita', agli Uffici giudiziari ed ai Consigli dell'ordine forense, che espressero numerose osservazioni. La particolare situazione dell'ordine pubblico nel 1978-79 (cc.dd. anni dell'emergenza) e la necessita' di un riesame delle direttive della legge-delega del 1974 furono fattori concorrenti nel determinare un differimento nell'emanazione del nuovo codice; differimento espressosi con la presentazione del disegno di legge del Ministro Morlino che, nell'ottobre del 1979, nel proporre un nuovo termine per l'esercizio della delega, chiese al Parlamento una valutazione su tutto il lavoro svolto, indicando anche gli aspetti del modello di nuovo processo dei quali si riteneva necessaria una revisione. Si apriva cosi' il dibattito per l'elaborazione di una seconda legge-delega, dibattito che poteva svilupparsi in modo piu' concreto, in quanto aveva come punto di riferimento essenziale il Progetto preliminare del 1978. Nel frattempo si ampliava sensibilmente l'area di opinione che riteneva indispensabile l'emanazione di un nuovo codice, aggiungendosi alle ragioni politiche dianzi menzionate quelle di ordine tecnico derivanti dal fatto che il codice del 1930, per l'intervento di una serie sempre piu' frequente di modifiche, aveva ormai perso la funzione sistematica ed unificante che e' propria di ogni codificazione. Il lavoro parlamentare sulla nuova legge-delega si e' svolto nel corso di due legislature, l'ottava (solamente di fronte alla Camera dei Deputati) e la nona; ad esso si e' affiancato l'impegno continuativo del Governo che, soprattutto attraverso la ricostituzione della Commissione di studiosi presieduta dal prof. Pisapia, ha fornito un meditato contributo alle scelte del Parlamento. Si e' cosi' pervenuti alla legge 16 febbraio 1987 n. 81, che ha conferito al Governo la delega per la emanazione del codice qui illustrato. Nel rigoroso rispetto della procedura disciplinata dall'art. 8 di tale legge, il Governo, avvalendosi dei lavori della stessa Commissione che aveva seguito la elaborazione della delega, ha, nel gennaio 1988, approvato ed inviato alla Commissione parlamentare prevista dalla citata disposizione normativa il testo del Progetto preliminare del nuovo codice, accompagnato da una analitica relazione. Anche su questo nuovo Progetto preliminare e' stato chiesto ed acquisito il contributo critico delle Universita', degli Uffici giudiziari e dei Consigli forensi. Sulla base del parere espresso dalla Commissione parlamentare nel maggio 1988 e tenuto conto anche delle altre osservazioni tempestivamente pervenute al Ministero, e' stato redatto il Progetto definitivo del nuovo codice, approvato dal Governo ed inviato nel luglio 1988 alla Commissione parlamentare. Sul Progetto definitivo, la Commissione parlamentare, nell'agosto 1988, ha espresso parere "pienamente favorevole", formulando peraltro diverse osservazioni che sono state attentamente valutate e recepite nei casi e nei modi che saranno di seguito illustrati. Un ulteriore lavoro di coordinamento e di revisione tecnica ha consentito di pervenire al testo del codice oggi presentato al Consiglio dei Ministri (il quale aveva gia' approvato i testi del Progetto preliminare e di quello definitivo). 4. Il periodo di tempo assai lungo occorso per giungere al traguardo di una nuova codificazione sul processo penale ha consentito il formarsi di un ampio consenso sociale non solo sulla necessita' della riforma ma anche sulle caratteristiche fondamentali del nuovo sistema processuale. Tanto che negli anni piu' recenti i lavori di elaborazione del nuovo codice, condotti in esecuzione delle due successive deleghe, hanno spesso costituito per il Parlamento un modello per gli interventi novellistici operati sul codice vigente, sino alla recentissima legge 5 agosto 1988, n. 330 sui provvedimenti restrittivi della liberta' personale. Gia' nella "bozza" redatta nel 1963 da Francesco Carnelutti erano prefigurate in larga misura le linee lungo le quali si sarebbe dovuto muovere il nuovo processo penale, abbandonando gli schemi inquisitori che caratterizzano il codice vigente. Era netta in quella "bozza" la separazione tra la fase preliminare, denominata "inchiesta preliminare", rimessa esclusivamente al pubblico ministero, e il giudizio; ed erano rigidamente contenuti i poteri del pubblico ministero, con il chiarimento, nella "introduzione", che l'inchiesta differiva nettamente dall'istruzione sommaria, perche' questa "tende a offrire immediatamente i suoi risultati al giudice del reato affinche' se ne serva al dibattimento, mentre l'inchiesta preliminare li offre soltanto al pubblico ministero". Era chiara nella "bozza" Carnelutti la volonta' di cambiare in modo radicale il modello processuale. Un'analoga volonta' di cambiamento, per costruire diversamente il rapporto tra autorita' e persona, e' stata poi espressa nel preambolo dell'art. 2 della legge-delega del 1974 con l'affermazione che il nuovo codice "deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio"; affermazione successivamente ribadita nei medesimi termini dall'art. 2 della legge-delega del 1987. Il preambolo dell'art. 2 indica una tendenza che si sviluppa "secondo i principi ed i criteri" indicati di seguito nello stesso articolo e che deve armonizzarsi piu' in generale con altri principi anche di rango costituzionale, quali quelli sulla obbligatorieta' dell'azione penale e sulla posizione ordinamentale del pubblico ministero. E' in questo quadro che il nuovo processo risulta improntato dai "caratteri del sistema accusatorio"; caratteri che emergono attraverso la netta differenziazione di ruolo tra pubblico ministero e giudice, l'eliminazione del segreto negli atti del giudice e nella formazione della prova, l'accentuazione dei poteri delle parti e la parita' tra queste, la valorizzazione del dibattimento e dell'oralita'. Questi principi espressi dalla legge-delega hanno trovato ulteriore svolgimento nel codice, che ha sviluppato un processo di parti, curando di collocare le indagini preliminari del pubblico ministero in uno stadio preprocessuale, di garantire nel modo piu' ampio la parita' e di riconoscere, in tutti i casi in cui e' risultato possibile, alla concorde volonta' dell'imputato e del pubblico ministero il potere di semplificare lo svolgimento del processo. La scelta accusatoria contenuta nella legge-delega, e fatta propria dal Governo nella redazione del codice, e' giustificata non solo da un'idea tradizionale di maggiore aderenza agli schemi democratici e di piu' ampia considerazione per la persona, ma anche dalla consapevolezza che quella scelta piu' di qualunque altra consente di coniugare garanzie ed efficienza, entrambe sacrificate nel sistema vigente, definito di "garantismo inquisitorio" dopo le riforme intervenute dal 1955 in poi. In questo sistema infatti l'attivita' istruttoria e' stata via via appesantita attraverso avvisi, depositi e controlli, i quali sono riusciti a ridurne l'efficienza ma non anche ad eliminare gli aspetti piu' tipicamente negativi dell'impianto inquisitorio, come la mancanza nel giudice istruttore della posizione di terzieta', l'ampia segretezza e la formazione istruttoria della prova, con la riduzione del dibattimento a luogo di verifica e di valutazione delle prove precedentemente acquisite. Le ragioni della scelta risultano inoltre rafforzate dalla convinzione che le probabilita' di una decisione giusta sono maggiori quando la prova si forma nella dialettica processuale anziche' nella solitaria ricerca dell'organo istruttore, sia esso un pubblico ministero o un giudice, le cui acquisizioni diventano fonte di pregiudizio ineliminabile per il giudice del dibattimento. Nel nuovo codice e' scomparsa l'istruzione: il giudizio e' preceduto dalle indagini preliminari del pubblico ministero, che hanno carattere investigativo e sono funzionali alle "determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale". Gli atti delle indagini preliminari normalmente non costituiscono prova, data la posizione di parte del pubblico ministero; ne' a questo sono riconosciuti poteri in tema di liberta' personale, fatta eccezione per quello di disporre il "fermo", che ha carattere provvisorio e presuppone l'esistenza di un'urgente necessita' di provvedere. Le misure cautelari possono essere disposte solo dal giudice per le indagini preliminari, che, senza alcun compito di indagine, interviene episodicamente per il compimento di singoli atti su richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. E' questo giudice che nel corso delle indagini preliminari, quando occorre, raccoglie una prova non rinviabile al dibattimento, provvedendo all'assunzione nel contraddittorio delle parti e con le forme stabilite per il dibattimento. Nel codice risulta ben posto in evidenza lo stadio preprocessuale delle indagini preliminari. Rispetto a queste infatti si e' usato il termine "procedimento", mentre si e' riservato quello di "processo" per la fase che inizia con la definitiva formulazione dell'imputazione, alla quale si lega la qualita' di imputato. Imputazione e imputato che, come e' espressamente stabilito (art. 60), nascono solo al termine delle indagini preliminari, con la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio, di giudizio immediato o di decreto penale di condanna, con l'emissione del decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al pretore, oltre che con la richiesta concorde delle parti di applicazione della pena e con gli atti del giudizio direttissimo. La persona nei cui confronti si svolgono le indagini preliminari non e' quindi un imputato; non puo' e non deve risentire, in conseguenza delle indagini, gli effetti negativi di tale qualificazione mentre gli spettano tutte le garanzie a questa collegate. E' con la formulazione dell'imputazione che per l'art. 405 viene esercitata l'azione penale, e il corollario di questa impostazione e' che le indagini preliminari, quale che ne sia stato lo sviluppo ed anche se sono state adottate misure cautelari personali, possono concludersi con un provvedimento di archiviazione in tutti i casi in cui il pubblico ministero ritiene di non dover chiedere il rinvio a giudizio. 5. Emerge cosi' la centralita' del dibattimento, luogo in cui l'accusa e' chiamata a superare la presunzione di non colpevolezza e si forma la prova nel contradditorio tra le parti ed attraverso l'esame incrociato. E' alla presunzione di non colpevolezza che puo' logicamente collegarsi il venir meno della formula dubitativa, con la regola che "il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando... e' insufficiente o e' contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato e' stato commesso da persona imputabile". Si tratta di una regola che trova il suo fondamento nella legge-delega (art. 2 n. 11) e che nel codice e' stata espressamente estesa al dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilita' (art. 530 comma 3) per dare una risposta legislativa ad una questione ampiamente dibattuta nel sistema vigente e risolta in modo non soddisfacente dalla giurisprudenza. Rispetto allo schema tipo sono previsti numerosi riti semplificati, alcuni gia' collaudati, altri parzialmente o totalmente nuovi, come l'applicazione della pena su richiesta delle parti e il giudizio abbreviato. Entrambi questi riti, che presuppongono un accordo tra imputato e pubblico ministero, tendono a semplificare il giudizio di primo grado ed a contenere le impugnazioni, sono stati introdotti nella convinzione che nel nuovo sistema avranno ampia diffusione e consentiranno la rapida definizione della maggior parte dei processi. E' soprattutto nella fase anteriore al giudizio di primo grado e in questo giudizio che il nuovo codice si differenzia radicalmente da quello vigente; ma, nei limiti tracciati dalla delega, non mancano novita' nelle disposizioni sulle impugnazioni e sull'esecuzione, anche se si tratta di novita' che non assurgono al rango di elementi caratterizzanti del nuovo sistema processuale. 6. Delle scelte di principio e del contenuto delle singole disposizioni e' stato dato diffusamente conto nella Relazione al Progetto preliminare redatta dalla Commissione ministeriale (ed allegata alla presente Relazione). Il Progetto definitivo, inviato nel luglio 1988 alla Commissione parlamentare, invece, non ha potuto essere accompagnato da una relazione illustrativa, a causa dei tempi ridottissimi imposti dalla legge-delega. Si e' ritenuto percio' opportuno, in questa sede, indicare le ragioni sia delle variazioni intervenute tra il Progetto preliminare e quello definitivo, dopo il primo Parere della Commissione parlamentare, sia delle modificazioni apportate nel testo definitivo del codice, dopo il secondo Parere della Commissione. Per rendere piu' facilmente intellegibili i cennati momenti nei quali le modificazioni successive al Progetto preliminare sono intervenute, si e' ritenuto opportuno illustrare queste ultime in due distinti paragrafi, entrambi collocati, peraltro, all'interno del commento al titolo od al capo del Testo definitivo del codice. La Relazione da' inoltre conto della gran parte delle obiezioni formulate dalla Commissione parlamentare in sede di primo parere o di parere definitivo oltreche' dei motivi per i quali non tutte le proposte sono state recepite. Si e' omesso, invece, di considerare in modo analitico quelle modifiche concernenti questioni meramente formali o di coordinamento tra le diverse disposizioni dei Progetti e poi del codice. La Relazione segue la sistematica del codice, che e' diviso in undici libri, raggruppati in due parti: la prima parte riguarda i soggetti, gli atti, le prove e le misure cautelari (libri I - IV); la seconda parte (libri V - XI) disciplina lo svolgimento del processo. I numeri degli articoli che nella Relazione sono indicati con caratteri corsivi si riferiscono alla numerazione del codice, mentre il numero degli articoli dei Progetti (preliminare e definitivo) e' scritto con caratteri tondi. Nella indicazione dei commi si e' fatto riferimento alla sola numerazione del codice, salvi i casi in cui si e' ritenuto necessario, per ragioni di chiarezza espositiva, indicare il numero che il comma aveva nell'articolo dei Progetti. PARTE PRIMA LIBRO I SOGGETTI 1.1. Nel passaggio dal Progetto preliminare al Progetto definitivo, e quindi al codice, il libro I del Progetto preliminare, dedicato ai "soggetti", ha subi'to un'accurata revisione, talvolta alla stregua dei rilievi della Commissione parlamentare e degli altri pareri trasmessi dai consigli giudiziari, dalle universita' e dai consigli dell'ordine cui il Progetto era stato inviato, sia per autonoma iniziativa del legislatore delegato, nell'intento di pervenire ad un piu' rigoroso coordinamento fra i vari precetti. Le modificazioni non hanno pero' alterato l'impianto originario e non hanno, percio', provocato "scompensi" nella tessitura complessiva del modello processuale adottato. Gli emendamenti apportati sono stati, infatti, di ordine formale o sistematico ovvero volti a chiarificare quanto gia' implicitamente contenuto nel testo del Progetto preliminare; in altri casi si e' intervenuti per colmare lacune evidenziatesi solo a seguito di una rigorosa rilettura dell'intero testo del Progetto preliminare, una rilettura possibile solo all'esito dei lavori della prima fase. Poche, in fondo, le modificazioni di sostanza, resesi indispensabili soprattutto nei casi in cui la tematica dei soggetti risultava, pur nella dimensione "statica" configurata dal libro I, indissolubilmente condizionata dalle regole della "dinamica" del nuovo processo cosi' da assumere un carattere di necessaria complementarita' rispetto a queste ultime. TITOLO I GIUDICE CAPO I GIURISDIZIONE 1.2. Particolarmente complesso si e' rivelato il riassetto del titolo I sia per le implicazioni di ordine sistematico sia, piu' specificamente, per le connessioni con la "dinamica" del processo e con il nuovo ruolo assegnato al giudice soprattutto nella fase, "preprocessuale", delle indagini preliminari. Per quanto in particolare attiene al capo I, dedicato alla giurisdizione, il codice, e ancor prima il Progetto definitivo, hanno accolto, con riguardo all'esercizio dell'azione penale, il suggerimento della Commissione parlamentare optando per la soppressione dall'art. 1 del Progetto preliminare, dell'inciso di chiusura ("salvo quanto stabilito da speciali disposizioni"), che avrebbe potuto assumere un significato ambiguo: poiche' le sole giurisdizioni alle quali si riferiva la "salvezza" garantita dal detto inciso sono contemplate dalla Costituzione (Corte costituzionale e tribunali militari). In sede di primo Parere, la Commissione parlamentare aveva formulato obiezioni sul comma 1 dell'art. 2 osservando come l'enunciazione di principio "il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione" potesse ampliare la competenza del giudice penale fino a consentirgli di risolvere - sia pure soltanto in via incidentale - "anche problemi di conflitti di competenza e di giurisdizione". La preoccupazione e' apparsa superabile considerando che per i conflitti di competenza e di giurisdizione e' prevista una specifica disciplina - artt. 28 (29) e seguenti - rientrante nella clausola di salvezza inserita alla fine del comma 1. La Commissione parlamentare non ha ribadito l'obiezione in sede di Parere definitivo, sicche', nel codice, la formulazione del comma 1 dell'art. 2 e' rimasta quella del Progetto preliminare. Al regime della pregiudizialita' predisposto dall'art. 3 sono stati rivolti vari addebiti da parte degli organi chiamati ad esprimere il parere sul Progetto preliminare. E' stata, anzitutto, censurata l'omessa previsione, per le questioni sullo stato di famiglia e di cittadinanza, del sistema della sospensione obbligatoria secondo il modulo delineato dall'art. 19 del codice vigente (tra gli altri, la Corte di cassazione); si e' poi stigmatizzato, oltre che la troppo ristretta area di rilevanza delle questioni devolutive, soprattutto il presupposto per l'esercizio del potere di sospensione (la Commissione parlamentare ha proposto la formula: "se la questione appare fondata"; la Corte di cassazione ha richiamato la "non manifesta infondatezza" della questione stessa), nonche' l'assenza di ogni coordinamento con l'istituto della revisione; si e' fatto, inoltre, appello alla necessita' di riferirsi, quanto all'efficacia del giudicato extra-penale, non soltanto alla sentenza del giudice civile ma anche alla sentenza del giudice amministrativo. Peraltro, la meditata riflessione che ha caratterizzato i lavori sul tema, e dalla quale e' emersa come esigenza da privilegiare la sollecita definizione del processo penale e correlativamente la necessita' di impedire che la pregiudizialita' (vera o supposta) possa costituire un irreparabile ostacolo alla realizzazione di tale esigenza, ha indotto a disattendere, nel codice, i rilievi formulati. Rimarra' percio' affidato al prudente apprezzamento del giudice decidere non soltanto sulla serieta' della controversia ma anche sul se una questione seria debba essere o no devoluta alla giurisdizione non penale. Circa l'ambito delle questioni pregiudiziali in presenza delle quali e' consentita la sospensione del processo, puo' osservarsi che la soluzione adottata discende dalla ritenuta opportunita' di aderire a quelle tesi della dottrina che si oppongono alla estensione analogica di un regime del tutto eccezionale: si pensi alla consolidata tendenza giurisprudenziale, resistita in dottrina, all'inclusione nell'ambito delle pregiudiziali di stato della questione concernente lo status di fallito ai fini della ipotizzabilita' dei reati di bancarotta (per la inclusione di questa ipotesi nell'ambito dell'art. 479 del testo definitivo del codice v. il paragrafo successivo). Relativamente al presupposto della sospensione, il riferimento alla serieta' della questione appare ampiamente "collaudato" nel regime del codice del 1930, tanto da dar luogo ad una costante giurisprudenza nel senso che "non seria" e' la questione manifestamente infondata, temeraria o artificiosa. E' parso, quindi assente ogni valido motivo per modificare, sul punto, la formula adottata nell'art. 3 comma 1 del Progetto. E' stato rilevato poi che in materia di cittadinanza sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sia qualora venga impugnato un provvedimento amministrativo di natura discrezionale incidente sulla cittadinanza (come la naturalizzazione per decreto del Capo dello Stato: art.4 l. 13 giugno 1912, n.555) sia in caso di inibizione del Governo al riacquisto automatico della cittadinanza italiana da parte del cittadino gia' naturalizzato straniero (art. 9 comma 2 l. n. 555 del 1912) sia, infine, nell'ipotesi di diniego di concessione da parte del Ministro dell'interno di un nuovo termine per la presentazione della domanda di riacquisto della cittadinanza italiana di altoatesini optanti per la lingua tedesca (art. 3 D.L.vo 2 febbraio 1948, n. 23). Si e' ritenuto al riguardo che, tradizionalmente le espressioni "giudice civile" e "legge civile", adottate in tema di controversie sullo stato delle persone, hanno riferimento rispettivamente a giudice non penale e a legge non penale (cfr., del resto, gli artt. 30 comma 2 R.D. 26 giugno 1924, n.1054; art.7 comma 3, l. 6 dicembre 1971, n. 1034) e che, pertanto qualsiasi emendamento, sul punto, dell'art. 3 del Progetto preliminare appariva superfluo. L'unica modificazione apportata a tale norma ha riguardato il comma 3, nel quale la parola "processo" e' stata sostituita nel Progetto definitivo e poi nel codice con la parola "procedimento", spiegandosi gli effetti del giudicato anche durante le indagini preliminari (sul punto, v. anche la Premessa alla presente Relazione p.9). 1.3. Con riguardo al tema della giurisdizione, e, piu' in particolare al tema della "pregiudizialita'", la Commissione parlamentare, nel Parere definitivo, non ha rivolto esplicite censure agli artt. 2 e 3, ma nel ritenere ingiustificata la soppressione dell'art. 473 (ora 479) ha ribadito l'esigenza che quest'ultimo precetto venisse coordinato col disposto dell'art. 3. Le indicazioni sono state condivise. Nel testo definitivo del codice e' stato percio' reintrodotto - opportunamente riformulato - l'art. 479 (473) nella considerazione che, essendo rigorosamente circoscritta (senza alcuna possibilita' di ricorso all'analogia) la rilevanza delle questioni di stato, mancherebbe ogni spazio per l'operativita' dell'effetto sospensivo non solo nei casi previsti dall'art. 20 del codice vigente ma nemmeno in altre ipotesi attualmente rientranti, secondo la giurisprudenza, nella disciplina del'art. 19 (si pensi al procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ove si proceda per reati di bancarotta). E' stato, altresi', riformulato nel comma 3 l'ultimo periodo del comma 2 dell'art. 3, sostituendo le espressioni: "Durante la sospensione del processo il giudice, quando vi e' pericolo nel ritardo, provvede all'assunzione delle prove" con quella: "La sospensione del processo non impedisce il compimento degli atti urgenti". La modifica, di ordine puramente formale, si muove nel solco del "collaudato" precetto dell'art. 19 comma 2 del codice vigente, per chiarire come durante la sospensione il giudice puo' compiere tutti gli atti urgenti a meno che questi non coinvolgano la questione per la quale era stata disposta la sospensione: nel caso in cui ponesse in essere atti di quest'ultimo tipo, infatti, il giudice penale finirebbe con l'invadere una competenza che egli stesso ha ritenuto di riservare al giudice civile. CAPO II COMPETENZA 1.4. Il capo II, riguardante la competenza, non ha subi'to modificazioni di rilievo in sede di revisione del Progetto preliminare. Integra e' rimasta la sistematica, immutate sia la qualificazione della connessione come autonomo criterio attributivo della competenza, sia la riduzione dei casi di connessione rispetto a quelli previsti dal codice vigente. Le innovazioni apportate al capo II si sono rivelate, invece, consistenti sul piano quantitativo e sono state determinate ora dall'iniziativa del legislatore delegato ora da suggerimenti della Commissione parlamentare o di altre autorita'. Il capo della competenza si apre nel testo definitivo del codice (e gia' si apriva nel Progetto definitivo), con una sezione, "Disposizione generale", nella quale e' stato collocato l'art. 4, l'unica disposizione del capo II che, nel Progetto preliminare, non era inserita in una sezione. Cio' ha, peraltro, comportato la necessita' di formulare una rubrica piu' appropriata al contenuto generale del testo di tale articolo, rubrica che e' stata mutuata dall'art. 32 del codice vigente. Quanto alla sezione I, dedicata alla competenza per materia, l'art. 5, riguardante la cognizione della corte di assise, ha formato oggetto, oltre che di aggiustamenti di carattere formale (quali la trasformazione del comma 2 in lettera d) del comma 1 e l'eliminazione di taluni incisi che non riproducevano fedelmente i titoli delle leggi richiamate) di due modificazioni di sostanza. In primo luogo, si e' soppressa, su suggerimento della corte di cassazione, ogni competenza della corte di assise per il delitto di tentato omicidio, attribuendo alla competenza del tribunale anche le ipotesi in cui ricorrano in ordine a tale reato le aggravanti previste dagli artt. 576 e 577 c.p. o ad effetto speciale; si e' ritenuto che sussistessero, al riguardo, le medesime ragioni che avevano indotto ad escludere dalla competenza della corte di assise il delitto contemplato dal comma 1 dell'art. 630 e i delitti previsti dalla legge 22 dicembre 1975 n. 685. Si e' poi modificata la formulazione della lettera c), sia al fine di rendere piu' chiaro il richiamo all'art. 586 c.p. quale norma di chiusura delle ipotesi di delitti dolosi dai quali sia derivata la morte di una o piu' persone sia al fine di far si' che non vengano affidate alla cognizione della corte di assise, considerata la modesta entita' della loro pena edittale, le ipotesi di reato previste dagli artt. 588 e 593 (rissa e omissione di soccorso). In relazione all'art. 7, non e' stato condiviso il suggerimento della Commissione parlamentare, la quale - pure esprimendo parere favorevole quanto alla conformita' alla delega - aveva espresso riserve circa l'adeguatezza del rito pretorile a far fronte agli accertamenti in una materia tanto delicata come quella degli omicidi colposi e delle truffe aggravate. Il detto aumento della competenza del pretore risponde, infatti, ad una precisa (ed ampiamente dibattuta) scelta del legislatore delegato volta a deflazionare, nell'ambito di settori in cui di regola il pretore ha una cognizione specifica (v. Relazione al Progetto preliminare, p. 8), l'accesso al giudice collegiale. Anche sulla sezione dedicata alla competenza per territorio si e' intervenuti con modificazioni che non ne hanno turbato l'originario assetto. Su suggerimento della Commissione parlamentare, nell'art. 10 (riguardante la competenza per reati commessi all'estero), si e' eliminato dal comma 1 - relativamente all'ipotesi di pluralita' di imputati - l'inciso "salva l'applicazione delle norme sulla competenza per territorio determinata dalla connessione" ritenuto superfluo. Si e' poi trasferita l'ultima parte del comma 1 in un nuovo comma 2 al fine di evidenziare l'ambito generale della regola suppletiva della competenza del giudice del luogo ove ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo ad iscrivere la notizia di reato. Nell'art. 11, si e' inserito un ulteriore comma che regolamenta in modo peraltro sostanzialmente coincidente con quello previsto dall'articolo 48- ter del codice vigente - le ipotesi di procedimenti connessi a quelli in cui il magistrato assume la qualita' di imputato o di persona offesa o danneggiata dal reato: sancendo la prevalenza del criterio fissato dall'art. 11 per tutti i concorrenti nel reato riguardante il magistrato. Nell'art. 12, e' rimasta integra la previsione, contenuta nella sua lettera b), della "unita' di tempo e di luogo", pur nella consapevolezza che tale formulazione potra' dar vita all'insorgere dei problemi interpretativi segnalati dalla Commissione parlamentare; problemi, peraltro, superabili sia considerando che l'espressione non si differenzia nella sostanza dalla espressione "contestualmente" gia' adottata nell'attuale art. 48- ter comma 1, sia, soprattutto, che la eliminazione della previsione determinerebbe l'effetto di far giudicare in distinti procedimenti reati commessi da una stessa persona nel medesimo contesto spazio-temporale nei casi in cui tali reati appartengano alla cognizione di giudici diversi. Quanto all'art. 13, si e' accolto il parere della Commissione parlamentare, ed e' stata, quindi, soppressa - sostanzialmente per le ragioni gia' illustrate con riguardo all'art. 2 - la parte finale del comma 1 ("secondo le norme delle leggi speciali"). Non si e' invece condiviso l'ulteriore suggerimento della stessa Commissione volto a sostituire la parola "giurisdizione" alla parola "competenza": la prima espressione non e' parsa, infatti, coerente con la collocazione dell'articolo, anziche' nel capo I, dedicato alla giurisdizione (ove pero' non si tratta in alcun modo della connessione) nel capo II, dedicato alla competenza. D'altronde, la parola competenza viene congruamente usata, anche nella corrispondente disposizione del codice vigente (art. 49), in senso lato, cosi' da ricomprendere anche la giurisdizione. Sia nel Progetto definitivo che nel codice, e' stata, infine, apportata una modifica al comma 2, apparendo l'attrazione nella competenza dell'autorita' giudiziaria dei reati militari connessi con un reato comune eccessivamente ed irragionevolmente limitativa della giurisdizione militare: infatti, mentre in base all'articolo 264 c.p.m.p. la connessione opera solo tra "delitti", in base al combinato disposto dagli artt. 12 e 13 del Progetto preliminare, essa operava genericamente, tra reati; con la conseguenza che una contravvenzione appartenente alla competenza del giudice ordinario avrebbe avuto la capacita' di attrarre nella competenza di quest'ultimo un delitto militare a quella connesso. Al riguardo, si e' percio' ritenuto piu' opportuno prevedere l'operativita' della connessione a favore dell'autorita' giudiziaria ordinaria solo quando il reato appartenente alla sua cognizione sia piu' grave di quello militare. Nell'art. 16, accogliendosi il suggerimento della Commissione parlamentare, si e' soppressa dal comma 1 la parola "cognizione", ritenuta possibile fonte di dubbi interpretativi. E' stato poi introdotto il comma 2 che determina la competenza nel caso di concorso o cooperazione nel reato, quando da esso e' derivata la morte di una o piu' persone per l'ipotesi in cui le condotte sono state realizzate in luoghi diversi (ipotesi non disciplinata dall'art. 8 comma 2 e per la quale non puo' farsi ricorso alle regole suppletive fissate dall'art. 9). E' apparso ragionevole che nel caso ora indicato la competenza venisse attribuita al giudice del luogo in cui si e' verificato l'evento. 1.5. Rispetto al Progetto definitivo, il testo del codice non ha subi'to - con riferimento al Capo II - che alcune modifiche formali (artt. 9 e 11). Nessuna modifica ha, in specie, subi'to l'art. 7 sul cui contenuto la Commissione parlamentare ha ribadito - anche nel Parere definitivo - le sue riserve per quel che attiene all'attribuzione al pretore della competenza in ordine ai reati di omicidio colposo e di truffa aggravata ex art. 640 comma 2 c.p. Con riguardo al primo reato, si e' rilevato che, probabilmente in sede di coordinamento dovra' intervenirsi per cancellare la distonia derivante dalla inapplicabilita', a norma dell'art. 60 comma 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, delle sanzioni sostitutive, (ex officio o ad istanza di parte, previste dall'art. 53 e seguenti di detta legge) al reato di lesioni colpose in relazione a fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro che abbiano determinato le conseguenze previste nel comma 1 n. 2 e nel comma 2 dell'art. 583 c.p.: sanzioni che, invece, resterebbero applicabili all'omicidio colposo commesso con violazione delle stesse norme. Si e' pero' ritenuto di mantenere ferma l'attribuzione al Pretore della cognizione in ordine al reato di omicidio colposo nell'ottica duplice di deflazionare, dove possibile, l'accesso al giudice collegiale, e di fruire, al contempo, delle semplificazioni proprie del procedimento pretorile. E cio', pur concordandosi sul rilievo della Commissione parlamentare che l'evento morte puo' dar luogo all'insorgere di attivita' di accertamento ben piu' complesse di quelle richieste dalle semplici lesioni (e cio' non soltanto in relazione all'oggetto della colpa ma anche con riferimento allo stesso rapporto di causalita').