(Disciplinare-art. 6)
                               Art. 6. 
 
         Elementi che comprovano il legame con il territorio 
 
    1. Il territorio di produzione della ««Pitina»» sotto il  profilo
geografico si identifica in  tre  valli  denominate  Valcellina,  Val
Colvera  e  Val  Tramontina,  inserite  nel   comprensorio   montuoso
soprastante l'alta pianura friulana  occidentale,  racchiuso  tra  il
corso dei fiumi Tagliamento e Piave. Parte del territorio ricade  nel
comprensorio del Parco naturale Dolomiti friulane. 
    2. Si tratta di  un  territorio  storicamente  contrassegnato  da
poverta', emigrazione e da un'economia di sopravvivenza, nella  quale
la carne era un bene  prezioso  e  dove  erano  rarissime  le  tracce
dell'allevamento del maiale, lusso che in  queste  valli  non  ci  si
poteva permettere; la provvista di proteine  animali  derivava  dalle
carni di pecore e capre macellate per  raggiunti  limiti  di  eta'  o
perche' ferite o cadute in un dirupo ovvero, saltuariamente, da carni
di selvaggina ungulata frutto di caccia esercitata  quasi  sempre  di
frodo. 
    3.  La  necessita'  di  conservare  il  piu'  a  lungo  possibile
soprattutto per i mesi invernali la poca carne disponibile  ha  fatto
evolvere tecniche di conservazione, del resto comuni a  tutto  l'arco
alpino e all'area del nord Europa, tra le quali l'affumicatura  e  la
stabilizzazione con l'aggiunta del grasso di suino. 
    4. Nel caso della «Pitina», le carni che non  venivano  consumate
subito  e,  piu'  in  generale,  le  parti  meno  pregiate,  venivano
sgrossate,  ripulite  dalle  componenti  adipose   e   dai   tendini,
sminuzzate su  un  tagliere  chiamato  «pestadoria»  con  un  pesante
coltello chiamato «manarin» e quindi  ricomposte  in  polpettine  con
l'aggiunta di sale, spezie (talvolta  messe  a  macerare  nel  vino),
finocchio selvatico. Le polpettine («pitine»)  venivano  poi  passate
nella farina di mais e quindi messe ad asciugare al fumo  del  camino
(«fogher» o «fogolar»). 
    5. Il nome «Pitina»  si  e'  originariamente  diffuso  nella  Val
Tramontina. I primi  produttori  dei  quali  e'  rimasta  traccia  (i
proponenti hanno raccolto originali  testimonianze  della  tradizione
orale,  intervistando  anziani  emigrati  negli  Stati   Uniti,   che
permettono di risalire all'inizio dell'800) sono stati  gli  abitanti
delle frazioni di Inglagna e Frasaneit, nel  Comune  di  Tramonti  di
Sopra. In questo comune fin dal 1969 la pro  loco  ha  recuperato  la
tradizione locale organizzando la Festa della Pitina che da allora si
ripete ogni anno in luglio. Ed  e'  stato  proprio  un  macellaio  di
Tramonti di Sopra, Mattia Trivelli, a presentare  in  data  4  aprile
1989 la domanda di registrazione  del  marchio  «Pitina»  all'Ufficio
Italiano Brevetti. 
    6. Una serie di testimonianze orali, raccolte da studiosi  locali
a partire dal 1978 («La cultura popolare di Andreis e la sua valle» -
tesi di laurea di Renata Vettorelli  -  Universita'  degli  studi  di
Urbino  -  anno  accademico  1981-82)  permettono  di  affermare  con
certezza che la preparazione  ed  il  consumo  della  «Pitina»  erano
largamente diffusi all'inizio dell'800  in  Val  Tramontina  e  nelle
vallate limitrofe. 
    7. La scarsita' di documentazione scritta riguardante la «Pitina»
viene  spiegata  dai  ricercatori  (come  l'arch.  Moreno  Baccichet,
docente universitario di Treviso) con il fatto  che  trattasi  di  un
prodotto originariamente non utilizzato come merce  di  scambio:  «La
carne in argomento non veniva commerciata e quindi non era oggetto di
nessuna scrittura contabile  quale  la  registrazione  di  incassi  o
baratti di  merce.  Inoltre  la  pitina  era  considerata  una  carne
"povera" riservata al popolo e quindi non veniva offerta ne tantomeno
consumata dai nobili e dai  benestanti»...  a  maggior  ragione,  non
usciva dalla stretta cerchia familiare la «Pitina»  preparata  talora
con la selvaggina cacciata abusivamente... 
    8. In ogni caso, vista  la  carenza  di  documentazione  scritta,
appare importante la citazione della «Pitina» nel  volume  «La  valle
del Colvera» (Mazzoli, Maniago, 1973): «...La pitina veniva preparata
con  carne  di  ovini  e  caprini...»  ed  appare  significativa   la
dettagliata descrizione presente nel volume «Civilta'  contadina  del
Friuli - architettura spontanea e lavoro a Navarons» edito nel  1979:
«Pitina - E' una polpetta schiacciata (otto centimetri di diametro  e
tre di spessore) di carne di pecora o di montone, di capra o di becco
o di camoscio. La carne e' disossata, ripulita dal grasso, macinata a
macchina o tritata a mano, salata e pepata e con l'aggiunta di  aglio
e di una percentuale di  lardo.  Il  composto  e'  ben  amalgamato  e
passato nella farina di polenta. Le porzioni  vengono  affumicate  su
braci di legno di ginepro. Le «pitini» si possono conservare in luogo
asciutto anche per oltre un anno». («pitini» costituisce un maldestro
tentativo di rappresentare al plurale la denominazione...) 
    9. La tradizione della «Pitina».  in  val  Tramontina  e'  citata
nella «Guida turistica» della V Comunita'  montana  edita  nel  1989.
«...  un  particolare  cenno  merita  la  "pitina"  ...   di   Mattia
Trivelli... a base di carne  di  montone  affumicata  con  rare  erbe
aromatiche e dosata  sapientemente  con  spezie  secondo  una  antica
ricetta di famiglia gelosamente custodita». 
    10. Tra il 1997 ed il 2000 la «Pitina» viene inserita da Arcigola
Slow Food nel primo elenco dei prodotti da  salvare,  contestualmente
alla redazione di un video (Pieffe immagini, Maniago, 1999)  ed  alla
fondazione di un apposito «presidio», per salvaguardarne tradizione e
ricetta. 
    11. Quasi contemporaneamente il prodotto viene inserito nel primo
elenco del registro dei prodotti tradizionali redatto  dalla  Regione
Friuli Venezia Giulia ai sensi del decreto ministeriale n. 350/1999. 
    12.  La  stessa  opzionabilita'  della   materia   prima   carnea
(alternativamente di origine ovina o caprina  ovvero  di  selvaggina)
inquadra la  specificita'  di  un  connotato  assolutamente  «local»,
impraticabile nei normali contesti industrializzati,  quantomeno  per
la  fragilita'  dell'elaborato  e  della  assoluta   prevalenza   del
savoir-faire rispetto al know-how per la lavorazione di  un  prodotto
che stagiona ma  non  si  essicca,  grazie  anche  alla  irripetibile
condizione eco-ambientale della zona. 
    13. Le caratteristiche inquadrate dall'Osservatorio meteorologico
regionale (OSMER, 2011) definiscono infatti per l'area  in  questione
il profilo meteo-climatico autonomo di una enclave prealpina  segnata
da medie  annue  di  precipitazioni  autenticamente  da  record,  con
frequente   rimescolamento   delle   masse   d'aria   aggiunte   alla
specificita' del contesto orografico che ospita il «piu' basso nevaio
permanente  delle  Alpi»  (mt   1200   sldm),   proprio   al   centro
geo-economico dell'areale delimitato. 
    14. La «Pitina» e' il frutto di questa singolare ed  irripetibile
condizione,  dando  vita  ad  un  prodotto  di  carne  stagionata  ma
contemporaneamente  non   essiccata,   grazie   alle   modalita'   di
composizione,  di  impasto  e  di  lavorazione  della  materia  prima
impiegata ma anche grazie all'assenza di umidita'  stagnante  seppure
in  una  delle  zone  piu'  piovose  del   nord   Italia:   l'effetto
dell'enclave pesa anche sul tipo di carne impiegata, che ignora - per
ragioni storiche e  socio-economiche  -  bovini  e  suini,  viceversa
prevalenti nella macro-regione e  nelle  stesse  aree  immediatamente
contermini,  aggiungendole  in  modo  assolutamente  originale  l'uso
dell'affumicatura in assenza di budello e/o  di  cotenna  e/o  di  un
autentico involgente protettivo (diverso da un velo di farina di mais
...); non  a  caso,  quindi,  il  medesimo  «effetto  enclave»  trova
conferma  nella  inesistenza  di  esperienze  produttive  similari  o
comparabili in vastissime porzioni di territorio italiano ed europeo.