Premessa. 
  La  presente  determinazione  e'  volta  a  chiarire  alcuni  dubbi
interpretativi attinenti alla disciplina  dettata  dall'art.  34  del
d.lgs.  163/2006  (nel  seguito  «Codice»),   in   particolare   alla
possibilita'  di  ammettere  alle  gare  per   l'aggiudicazione   dei
contratti pubblici soggetti giuridici diversi  da  quelli  ricompresi
nell'elenco di cui all'art. 34  del  d.lgs.  n.  163/2006,  quali  ad
esempio le fondazioni, gli istituti di formazione o  di  ricerca,  le
Universita'. 
  La questione riveste carattere generale e verte sulla  legittimita'
di  una  interpretazione  del  citato art.   34   che   consenta   la
partecipazione  alle  procedure  competitive  anche  di  ulteriori  e
diverse tipologie soggettive,  indipendentemente  dalla  loro  natura
giuridica. 
  Tale problematica e' stata gia' affrontata dall'Autorita'  in  atti
specifici, quali delibere e pareri  di  precontenzioso  (si  veda  la
deliberazione n. 119 del 2007, il parere n.  127  del  2008);  appare
pertanto  opportuno  fornire  indicazioni  applicative  di  carattere
generale, anche alla luce della recente giurisprudenza comunitaria in
materia (sentenza 23 dicembre 2009 C-305/08). 
1. Interpretazione dell'art. 34 del Codice. 
  Il citato art. 34 del Codice ammette alle gare d'appalto di lavori,
servizi e forniture gli imprenditori individuali, anche artigiani, le
societa' commerciali, le societa' cooperative, i consorzi, nonche'  i
soggetti che abbiano  stipulato  il  contratto  GEIE,  gli  operatori
economici stabiliti in altri Stati membri,  costituiti  conformemente
alla legislazione  vigente  nei  rispettivi  Paesi.  La  disposizione
del Codice si limita, quindi, ad individuare un  elenco  di  soggetti
affidatari dei contratti pubblici, recependo pressoche' letteralmente
la previsione contenuta nell'art. 10, comma 1, della previgente legge
11 febbraio 1994, n. 109 relativa ai soli appalti di lavori. 
  L'art. 3, comma 6, del Codice definisce il soggetto affidatario  di
contratti pubblici quale «operatore economico»: termine, questo,  che
include «l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un
raggruppamento o consorzio di essi» (comma 22 del medesimo articolo),
affiancando dunque alla figura  dell'imprenditore  anche  quelle  del
fornitore e del prestatore di servizi. Comune denominatore  di  tutte
le figure contemplate dall'art. 34 e', senza dubbio,  la  nozione  di
impresa  intesa  come   esercizio   professionale   di   un'attivita'
economica. 
  La nozione di «operatore economico»  in  ambito  europeo  e'  molto
ampia e  tende  ad  abbracciare  tutta  la  gamma  dei  soggetti  che
potenzialmente possono prender parte ad una pubblica gara: l'art.  1,
comma 8 della direttiva 2004/18/CE del 31  marzo  2004,  relativa  al
coordinamento  delle  procedure  di  aggiudicazione   degli   appalti
pubblici di lavori, di forniture e di servizi, dopo aver definito gli
appalti pubblici  come  contratti  a  titolo  oneroso  stipulati  per
iscritto  tra  uno  o  piu'  operatori  economici  ed  una   o   piu'
amministrazioni aggiudicatrici, designa, con i termini «imprenditore»
«fornitore»  e  «prestatore  di  servizi»,  una  persona   fisica   o
giuridica, o un ente pubblico, o un raggruppamento  di  tali  persone
e/o enti che «offra sul mercato», rispettivamente,  la  realizzazione
di lavori e/o opere,  prodotti  e  servizi;  la  stessa  disposizione
specifica,  poi,  che  il  termine  «operatore  economico»  comprende
l'imprenditore, il fornitore  ed  il  prestatore  di  servizi  ed  e'
utilizzato allo scopo dichiarato di semplificare il testo normativo. 
  In  ambito  italiano,  la  definizione  comunitaria  di  «operatore
economico» trova riscontro nell'art. 3 del  Codice  che  prevede,  al
comma  22,  che  il  termine  di  «operatore   economico»   comprende
l'imprenditore, il  fornitore  ed  il  prestatore  di  servizi  o  un
raggruppamento o un consorzio tra gli stessi, mentre,  al  comma  19,
specifica che i termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore  di
servizi» designano una persona fisica o giuridica  o  un  ente  senza
personalita' giuridica,  compreso  il  gruppo  europeo  di  interesse
economico (GEIE), che offra gli mercato la realizzazione di lavori  o
opere, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi. 
  Quindi, da un primo esame  comparativo,  le  disposizioni  dei  due
ordinamenti giuridici sembrerebbero perfettamente allineate. 
  Tuttavia,  il   legislatore   nazionale   introduce   nel   Codice,
riproponendo il contenuto dell'art.  10,  comma  1,  della  legge  n.
109/94, l'art. 34, rubricato «soggetti a cui possono essere  affidati
i contratti pubblici»; in esso e'  previsto  un  elenco  di  soggetti
ammessi  a  partecipare  alle  gare  per  l'affidamento  di  commesse
pubbliche. Un primo problema, che l'articolo pone, e'  relativo  alla
natura, tassativa o  meno,  dell'elenco  contenuto;  un  secondo,  ma
strettamente connesso al primo, e' legato al  significato  attribuito
al termine imprenditore espressamente utilizzato. 
  Se l'imprenditore cui fa  riferimento  l'art.  34  e'  solo  quello
disciplinato  dall'art.  2082  del  codice   civile   (chi   esercita
professionalmente un'attivita' economica organizzata  al  fine  della
produzione e dello scambio di beni e servizi), si comprende che si e'
di fronte ad un concetto piu' ristretto rispetto a quello abbracciato
dalla normativa comunitaria  secondo  la  quale  e'  imprenditore  la
persona fisica o giuridica o l'ente pubblico o il  raggruppamento  di
tali persone e/o enti che  offra  sul  mercato  la  realizzazione  di
lavori e/o opere. 
  Del resto, a riguardo, e' opportuno rammentare  che,  nel  contesto
della procedura di infrazione aperta nei  confronti  dell'Italia  per
alcune delle disposizioni contenute nel Codice (poi chiusa in seguito
all'adozione del d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152  cosiddetto  «terzo
correttivo»), la Commissione europea ha evidenziato che le  direttive
in materia di appalti  pubblici  non  consentono  di  restringere  la
possibilita'  di  partecipare  alle  gare  ad  alcune  categorie   di
operatori,  escludendone  altre.  Tale  rilievo  e',  poi,   sfociato
nell'intervento additivo della lettera f-bis al  capoverso  dell'art.
34 del  Codice,  che  permette  la  partecipazione  alle  gare  degli
«operatori economici, ai sensi dell'art. 3, comma  22,  stabiliti  in
altri  Stati  membri,  costituiti  conformemente  alla   legislazione
vigente nei rispettivi Paesi». 
  La giurisprudenza e'  stata  chiamata  piu'  volte  a  pronunciarsi
sull'evidenziata divergenza tra le citate disposizioni nazionali che,
testualmente  interpretate,  circoscrivono  la  partecipazione   alle
procedure di affidamento dei contratti pubblici  alle  sole  societa'
commerciali  (escludendo  societa'   semplici,   associazioni,   enti
pubblici,  ecc..)  e  l'impostazione  sostanziale  ed  oggettiva  del
diritto comunitario, estranea a queste distinzioni. Sulla  questione,
sono emerse posizioni non univoche. I dubbi erano diretti  non  tanto
verso gli enti pubblici economici che hanno natura ed a  volte  anche
struttura imprenditoriale, quanto sugli enti pubblici non economici a
cui e' difficile attribuire il carattere dell'imprenditorialita' e la
cui partecipazione alle gare  e'  suscettibile  di  alterare  la  par
condicio, creando  una  distorsione  dei  meccanismi  concorrenziali,
atteso il sistema di contribuzione e vantaggi di cui l'ente  pubblico
gode. 
  A fianco di un orientamento restrittivo (cfr. Tar Campania, Napoli,
Sez. I, 12 giugno 2002, n. 3411), ne e' emerso un altro che, partendo
dalla considerazione per cui un'opzione pregiudizialmente ostile alla
partecipazione alle gare di soggetti pubblici  mal  si  concilierebbe
con il principio che riconosce agli  enti  pubblici  piena  autonomia
negoziale, - la circostanza di essere  beneficiari  di  contribuzioni
pubbliche non e' di per  se'  ostativa  alla  partecipazione  a  gare
pubbliche, sempre che  si  tratti  di  contribuzioni  conseguite  nel
rispetto della disciplina comunitaria di riferimento (ne e' prova  il
fatto  che  le  imprese  private  beneficiarie  di  aiuti  finanziari
pubblici  possono  prender  parte  a  gare   pubbliche)   -   esclude
un'incompatibilita' in astratto  e  ritiene  che  la  questione  vada
affrontata in concreto, verificando caso per caso (cfr. Cons.  Stato,
Sez. V, 29 luglio 2003, n. 4327; Cons. Stato  sez.  V1  16/6/2009  n.
3897)  la  compatibilita'  delle  finalita'   istituzionali   proprie
dell'ente che intende prender parte alla  selezione  con  l'attivita'
oggetto della prestazione dedotta nell'appalto da affidare. 
  L'Autorita' ha avuto occasione di pronunciarsi  sull'argomento  con
la deliberazione n. 119 del 18 aprile 2007;  in  essa,  esaminando  i
soggetti che ai sensi dell'art. 34 del Codice possono partecipare  ad
una gara pubblica, notava che il comune denominatore degli stessi era
rappresentato dall'esercizio professionale di un'attivita' economica.
Cio'  aveva  indotto  l'Autorita'  a  concludere  nel  senso  che  le
Universita', non possedendo  tale  requisito,  non  potessero  essere
ammesse alle procedure per l'affidamento  di  contratti  pubblici,  a
meno che le stesse non costituissero apposite  societa',  sulla  base
dell'autonomia loro riconosciuta dalla legge 9 maggio 1989,  n.  168.
Anche per gli Istituti di  ricerca  l'Autorita'  riteneva  necessario
procedere ad una verifica caso per caso  degli  statuti  dei  singoli
enti al fine di valutare gli scopi istituzionali che gli stessi erano
chiamati a perseguire. 
  Piu' recentemente,  l'Autorita',  alla  luce  della  giurisprudenza
nazionale e comunitaria, e' tornata sulla questione, affrontando,  in
linea generale, con il parere n. 127 del 23 aprile 2008, il  problema
della possibilita' di partecipazione alle gare d'appalto di  soggetti
giuridici diversi da quelli indicati  nell'elenco  dell'art.  34  del
Codice, quali, nel caso di specie, fondazioni, istituti di formazione
o di ricerca. In detto parere, si e' ricordato che,  per  il  diritto
comunitario, la nozione  di  impresa  comprende  qualsiasi  ente  che
esercita un'attivita' economica consistente nell'offerta  di  beni  e
servizi  su  un  determinato  mercato,  a  prescindere  dallo  status
giuridico di detta entita' e dalle  sue  modalita'  di  finanziamento
(cfr. da ultimo, in tal senso, Corte di  giustizia  CE,  sentenza  26
marzo 2009, causa C-113/07P, Selex Sistemi Integrati/  Commissione  e
Eurocontrol). Si tratta, quindi, di una nozione dai confini ampi, che
prescindono  da  una  particolare  formula  organizzativa   e   dalla
necessita' di perseguire  finalita'  di  lucro  (cfr.  sul  punto  le
conclusioni dell'Avvocato generale Jacobs presentate il  1°  dicembre
2005 nella causa C-5/05, decisa con sentenza della Corte di giustizia
CE 23 novembre 2006, Joustra  nonche'  la  sentenza  della  Corte  di
giustizia CE 29 novembre 2007, causa C-119/06, Commissione/Italia). 
  Per quanto concerne gli enti pubblici non economici, quali gli enti
di ricerca CNR, FORMEZ, CENSIS e IFOA, l'Autorita'  ha  esaminato  il
rischio di alterazione della par conditio tra  i  partecipanti  e  il
possibile effetto distorsivo della concorrenza, atteso il particolare
regime di agevolazioni finanziarie di cui godono i predetti enti e la
conseguente posizione di vantaggio rispetto  ad  altri  soggetti  che
forniscono  i  medesimi  servizi  nell'esercizio  dell'attivita'   di
impresa, dovendo sopportare integralmente i relativi costi. 
  In proposito, va sottolineato che la Corte di giustizia CE ha  gia'
avuto modo di precisare che gli  enti  pubblici  che  beneficiano  di
sovvenzioni erogate dallo Stato, che consentono  loro  di  presentare
offerte  a  prezzi  notevolmente  inferiori  a  quelli  degli   altri
offerenti non sovvenzionati,  sono  espressamente  autorizzati  dalla
direttiva a partecipare a procedure per l'aggiudicazione  di  appalti
pubblici (sentenza 7 dicembre 2000, causa C-94/99, ARGE). 
  Alla luce delle considerazioni  esposte,  l'Autorita',  nel  citato
parere n. 127/2008, ha concluso, che gli enti pubblici non  economici
possono partecipare a quelle gare che abbiano ad oggetto  prestazioni
corrispondenti  ai  loro  fini  istituzionali,  con  la   conseguente
necessita' di operare una verifica in concreto dello statuto al  fine
di valutare la conformita'  delle  prestazioni  oggetto  dell'appalto
agli scopi istituzionali dell'ente,  optando  per  un'interpretazione
che non riconosce carattere tassativo all'art. 34 del Codice. 
  In tale contesto e' intervenuta la Corte di  Giustizia  che  il  23
dicembre 2009 si e' pronunciata sulla causa  C-305/08  relativa  alla
questione rimessale in via pregiudiziale dal Consiglio di Stato,  con
il parere n. 167/2008. 
  Nell'ordinanza di  rimessione,  il  Consiglio  di  Stato,  oltre  a
riportare   le   menzionate   posizioni   della   giurisprudenza    e
dell'Autorita', evidenziava il rischio per la concorrenza nel mercato
dei  contratti  pubblici   derivante   dalla   partecipazione   delle
Universita' che godono  di  una  posizione  «di  privilegio  che  gli
garantirebbe  una  sicurezza   economica   attraverso   finanziamenti
pubblici costanti e prevedibili di cui gli altri operatori  economici
non possono beneficiare». 
  La Corte, pur riconoscendo che, in talune circostanze  particolari,
l'amministrazione aggiudicatrice  ha  l'obbligo,  o  quanto  meno  la
facolta', di prendere in  considerazione  l'esistenza  di  aiuti  non
compatibili con il Trattato, al fine eventualmente di  escludere  gli
offerenti che ne beneficiano, ha affermato che «le disposizioni della
direttiva 2004/18, ed in particolare quelle di cui  al  suo  art.  1,
numeri 2, lettera a), e 8, primo e secondo comma, che si  riferiscono
alla nozione di "operatore economico", devono essere interpretate nel
senso che consentono a soggetti  che  non  perseguono  un  preminente
scopo di lucro,  non  dispongono  della  struttura  organizzativa  di
un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato,  quali
le universita' e gli istituti di  ricerca  nonche'  i  raggruppamenti
costituiti da universita' e amministrazioni pubbliche, di partecipare
ad un appalto pubblico di servizi». 
  Infatti, ribadendo quanto affermato in alcuni precedenti, la  Corte
ricorda che  e'  ammesso  a  presentare  un'offerta  o  a  candidarsi
qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati in un
bando di gara, si reputi idoneo a  garantire  l'esecuzione  di  detto
appalto, in  modo  diretto  oppure  facendo  ricorso  al  subappalto,
indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto  privato
o di diritto  pubblico  e  di  essere  attivo  sul  mercato  in  modo
sistematico oppure soltanto occasionale,  o,  ancora,  dal  fatto  di
essere sovvenzionato  tramite  fondi  pubblici  o  meno.  L'effettiva
capacita' di detto ente di soddisfare i requisiti posti dal bando  di
gara deve essere valutata durante una fase ulteriore della procedura,
in applicazione  dei  criteri  previsti  agli  articoli  44-52  della
direttiva 2004/18 (cfr. sentenze 18 dicembre  2007,  causa  C-357/06,
Frigerio Luigi & Co, 12 luglio 2001,  causa  C-399/98,  Ordine  degli
Architetti, 7 dicembre 2000, causa C-94/99). 
  La  Corte,  poi,  richiamando  l'art.  4,  n.  l,  della  direttiva
2004/18/CE, precisa che gli Stati membri possono decidere liberamente
se autorizzare o meno determinati soggetti, quali  le  universita'  e
gli istituti di ricerca, non aventi  finalita'  di  lucro,  ma  volti
principalmente alla didattica e alla ricerca, ad operare sul  mercato
in funzione  della  compatibilita'  di  tali  attivita'  con  i  fini
istituzionali e statutari che sono chiamati a perseguire.  Una  volta
concessa, pero', l'autorizzazione, poi, non  si  puo'  escludere  gli
enti   in   commento   dalla   partecipazione   alle   procedure   di
aggiudicazione  degli   appalti   pubblici.   Pertanto,   alla   luce
dell'attuale disciplina legislativa, il giudice comunitario  conclude
che «la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa
osta all'interpretazione di unanormativa nazionale come quella di cui
trattasi nella causa principale che vieti a  soggetti  che,  come  le
universita' e gli istituti di ricerca, non perseguono  un  preminente
scopo di lucro di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico, benche' siffatti  soggetti  siano  autorizzati  dal
diritto  nazionale  ad  offrire  sul  mercato   i   servizi   oggetto
dell'appalto considerato.». 
  Alla stregua dell'orientamento espresso dalla  Corte  di  Giustizia
con la sentenza in  esame,  non  sembra  potersi  affermare,  in  via
generale, l'esistenza di un divieto  per  gli  operatori  pubblici  a
partecipare alle procedure ad  evidenza  pubblica.  In  sostanza,  la
definizione  comunitaria  di  impresa  non  discende  da  presupposti
soggettivi, quali la pubblicita' dell'ente o l'assenza di  lucro,  ma
da elementi puramente oggettivi quali l'offerta di beni e servizi  da
scambiare con altri soggetti, nell'ambito, quindi, di un'attivita' di
impresa    che    puo'    non    essere    l'attivita'     principale
dell'organizzazione. 
  Sebbene, infatti, la risposta al secondo quesito  attribuisca  agli
Stati membri la  facolta'  di  proibire  a  determinati  soggetti  di
offrire  alcuni  servizi   sul   mercato,   non   sono   rinvenibili,
attualmente, nell'ordinamento del  sistema  universitario,  norme  di
tale portata. Al contrario, la possibilita'  per  le  Universita'  di
operare sul mercato sarebbe espressamente prevista dall'art. 7, comma
1, lett. c), della legge 168/1989, che include, tra le entrate  degli
atenei, anche i corrispettivi di  contratti  e  convenzioni,  nonche'
dall'art. 66, del d.P.R.  382/1980,  rubricato  «Riordinamento  della
docenza  universitaria,  relativa  fascia   di   formazione   nonche'
sperimentazione  organizzativa  e  didattica»  che  prevede  che   le
Universita' possano  eseguire  attivita'  di  ricerca  e  consulenza,
stabilite mediante  contratti  e  convenzioni  con  enti  pubblici  e
privati, con  l'unico  limite  della  compatibilita'  delle  suddette
attivita' con lo svolgimento della funzione scientifica  e  didattica
che per gli Atenei rimane prioritaria. 
  Resta ferma la necessita' di effettuare, caso per  caso,  un  esame
approfondito dello statuto di tali  persone  giuridiche  al  fine  di
valutare gli scopi istituzionali per cui sono  state  costituite.  In
sostanza,  la  stazione  appaltante  deve  verificare  se  gli   enti
partecipanti alla gara possano statutariamente svolgere attivita'  di
impresa offrendo la fornitura di beni o la prestazione di servizi sul
mercato, pur senza rivestire la forma societaria  (cfr.  Cons.  Stato
sez. VI 16/6/2009 n. 3897). 
  In altri termini,  anche  se  non  ricompresi  nell'elenco  di  cui
all'art. 34 del Codice, qualora i  soggetti  giuridici  in  questione
annoverino, tra  le  attivita'  statutariamente  ammesse,  quella  di
svolgere compiti, aventi rilevanza economica  possono,  limitatamente
al settore di pertinenza, - e se in possesso dei requisiti  richiesti
dal singolo bando di gara  -  partecipare  a  procedure  di  evidenza
pubblica per l'affidamento di contratti  aventi  ad  oggetto  servizi
compatibili con le rispettive attivita' istituzionali. 
  E' opportuno evidenziare, pero', che la  Corte  pone  a  fondamento
della  sentenza  anche  la  considerazione  che  l'esclusione   delle
Universita'  potrebbe  portare  a  considerare  «non  contratti»  gli
accordi che comunque verrebbero  conclusi  tra  tali  soggetti  e  le
stazioni  appaltanti,   eludendo   l'applicazione   delle   direttive
17/2004/CE e 18/2004/CE. 
  Appare chiaro,  allora,  quanto  la  pronuncia  della  Corte  abbia
spostato  il  baricentro  della  questione,  fugando   ogni   dubbio,
sull'impossibilita' per le stazioni appaltanti di escludere a priori,
dalla partecipazione alle gare, gli enti pubblici non economici, e le
Universita' in particolare,  solo  perche'  difettano  del  requisito
dello scopo di lucro o di un'organizzazione stabile d'impresa, ma nel
contempo escludendo che  i  contratti  conclusi  tra  amministrazioni
aggiudicatrici e organismi che non agiscono in base ad un  preminente
scopo di lucro possano non essere considerati «appalti  pubblici»  e,
pertanto,  venir  aggiudicati  senza  il  rispetto  della   normativa
comunitaria e nazionale dettata in materia. 
2. Compatibilita' con il diritto comunitario  degli  accordi  con  le
amministrazioni aggiudicatrici. 
  La Corte di Giustizia ha ribadito, in piu' sentenze  (cfr.  ad  es.
sentenza Coditel Brabant;  13  novembre  2008,  causa  C-324/07),  il
principio secondo cui un'amministrazione pubblica puo'  adempiere  ai
compiti ad essa attribuiti attraverso moduli  organizzativi  che  non
prevedono il ricorso al mercato esterno per procurarsi le prestazioni
di cui necessita, avendo piena discrezionalita' nel decidere  di  far
fronte  alle  proprie  esigenze   attraverso   lo   strumento   della
collaborazione con le altre autorita' pubbliche. A ben vedere, quella
esposta  e'  la  stessa  ratio  che  e'  alla   base   dell'esenzione
dall'espletamento della gara nell'ipotesi di utilizzo  dell'in  house
providing anche in questo caso l'amministrazione opta per una  scelta
contraria  al  processo  di  outsourcing,  stabilendo   di   affidare
l'attivita'  a  cui  e'  interessata  ad  un  altro  ente  che   solo
formalmente e' distinto  dalla  propria  organizzazione,  ma  su  cui
sostanzialmente essa esercita  un  controllo  analogo  a  quello  che
espleterebbe nei confronti di un proprio servizio e che realizza  con
essa la parte piu' importante della sua attivita'. 
  Il  giudice  comunitario  e'  tornato  sul  punto  in  una  recente
pronuncia (sentenza del 9 giugno 2009, causa  C-480/06)  sancendo  la
legittimita' di un accordo stipulato tra quattro Landkreise  tedeschi
e la citta' di Amburgo, subordinandola, pero', al verificarsi di  una
serie di presupposti. 
  In tale contesto viene ribadito che se,  da  un  lato,  il  diritto
comunitario non  impone  alle  autorita'  pubbliche  di  ricorrere  a
particolari forme  giuridiche  per  assicurare  inl  comune  le  loro
funzioni  di  servizio   pubblico,   dall'altro,   questo   tipo   di
cooperazione non puo' «rimettere in questione l'obiettivo  principale
delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale  a  dire
la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza  non
falsata in tutti gli Stati membri.». 
  Nel  caso  specifico,  la  Corte  ha  espresso   un   giudizio   di
compatibilita' dell'accordo con  le  norme  del  diritto  comunitario
perche' sussistevano le seguenti condizioni: 
    l'attuazione  della   cooperazione   e'   retta   unicamente   da
considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di  obiettivi
d'interesse pubblico; 
    viene salvaguardato il principio  della  parita'  di  trattamento
degli interessati, in modo tale che nessuna impresa privata e'  posta
in situazione privilegiata rispetto agli altri concorrenti; 
    la collaborazione tra amministrazioni non e' una  costruzione  di
puro artificio diretta ad eludere le  norme  in  materia  di  appalti
pubblici; 
    gli unici movimenti finanziari  ammessi  tra  gli  enti  pubblici
cooperanti  sono  quelli  corrispondenti  al  rimborso  delle   spese
effettivamente sostenute; 
    tutte le strutture pubbliche coinvolte svolgono un ruolo  attivo,
anche se non necessariamente nella  stessa  misura;  quindi  sussiste
un'effettiva condivisione di compiti e di responsabilita' ben diversa
dalla situazione che si avrebbe in presenza di un contratto a  titolo
oneroso in cui solo una parte svolge la prestazione pattuita,  mentre
l'altra assume l'impegno della remunerazione; 
    l'accordo controverso istituisce una cooperazione  tra  gli  enti
locali finalizzata a  garantire  l'adempimento  di  una  funzione  di
servizio pubblico comune agli stessi  che,  nel  caso  specifico,  e'
costituita dallo smaltimento dei rifiuti. 
  Parallelamente, si ricorda, pero', che la Corte ha  dichiarato  non
conforme al diritto comunitario escludere a priori  dall'applicazione
delle norme sugli appalti i rapporti  stabiliti  tra  amministrazioni
pubbliche,  indipendentemente  dalla   loro   natura.   Ancora   piu'
esplicitamente, nella citata sentenza del 23 dicembre 2009, la  Corte
ha chiarito che  la  normativa  comunitaria  in  materia  di  appalti
pubblici e' applicabile agli accordi a titolo  oneroso  conclusi  tra
un'amministrazione   aggiudicatrice   ed   un'altra   amministrazione
aggiudicatrice, intendendo con tale espressione un ente che  soddisfa
una funzione di interesse generale, avente carattere non  industriale
o commerciale  e  che,  quindi,  non  esercita  a  titolo  principale
un'attivita' lucrativa sul mercato. 
  Del resto, un'interpretazione della normativa  comunitaria  incline
alla massima apertura delle procedure selettive per l'affidamento  di
commesse pubbliche  a  soggetti  tradizionalmente  esclusi,  come  le
Universita', e' perfettamente in linea con l'intento di circoscrivere
il ricorso all'affidamento diretto: si tratta di un «modus  operandi»
che prima  della  pronuncia  menzionata  poteva  trovare  una  ualche
giustificazione' nella considerazione secondo la  quale,  essendo  al
mondo della ricerca precluso all'origine  l'accesso  al  mercato  dei
contratti pubblici, lo strumento  dell'accordo  convenzione-contratto
permetteva alla stazione appaltante di assicurarsi la  collaborazione
sinergica con un polo di eccellenza, come il  settore  universitario,
non altrimenti conseguibile.  Essendo,  pero',  profondamente  mutata
l'interpretazione dell'art. 34 del Codice, la pratica  descritta  non
ha piu' ragion d'essere. 
  La  giurisprudenza  comunitaria,  pertanto,  ritiene  legittimo  il
ricorso a forme di cooperazione pubblico-pubblico attraverso cui piu'
amministrazioni    assumono    impegni     reciproci,     realizzando
congiuntamente le  finalita'  istituzionali  affidate  loro,  purche'
vengano  rispettati  i  presupposti  sopra  specificati.   Anche   il
Parlamento Europeo,  richiamando  gli  insegnamenti  della  Corte  di
Giustizia, nella risoluzione del  18  maggio  2010,  ha  ribadito  la
legittimita' di forme di collaborazione  pubblico-pubblico  che  «non
rientrino nel campo  d'applicazione  delle  direttive  sugli  appalti
pubblici,  a  condizione  che  siano  soddisfatti  tutti  i  seguenti
criteri: 
    lo scopo del  partenariato  e'  l'esecuzione  di  un  compito  di
servizio pubblico spettante a tutte le autorita' locali in questione, 
    il compito e' svolto esclusivamente dalle autorita' pubbliche  in
questione,  cioe'  senza  la  partecipazione  di  privati  o  imprese
private, 
    l'attivita' in  questione  e'  espletata  essenzialmente  per  le
autorita' pubbliche coinvolte. 
  Sul   versante   dell'ordinamento   nazionale,   la    legittimita'
dell'impiego  dello  strumento  convenzionale  e'  assicurata   dalla
previsione contenuta nel primo  comma  dell'art.  15  della  legge  7
agosto 1990, n.  241,  secondo  cui:  «le  amministrazioni  pubbliche
possono sempre  concludere  tra  loro  accordi  per  disciplinare  lo
svolgimento in collaborazione di attivita' di interesse comune» (cfr.
TAR  Puglia,  Lecce,  Sez.  2  febbraio  2010,  n.  417  e   n.   418
sull'interpretazione dell'art. 90, comma 1, lett. c del Codice). 
  Tuttavia, per evitare che la disposizione possa prestare il  fianco
ad interpretazioni che si risolvano in una elusione  della  normativa
sugli appalti pubblici, si ritiene necessario precisare i limiti  che
il ricorso alla normativa in commento incontra: 
    1. l'accordo deve  regolare  la  realizzazione  di  un  interesse
pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le  parti  hanno
l'obbligo di perseguire come compito principale,  da  valutarsi  alla
luce delle finalita' istituzionali degli enti coinvolti; 
    2. alla base dell'accordo deve esserci  una  reale  divisione  di
compiti e responsabilita'; 
    3. i  movimenti  finanziari  tra  i  soggetti  che  sottoscrivono
l'accordo  devono  configurarsi  solo  come   ristoro   delle   spese
sostenute,  essendo  escluso  il  pagamento  di  un  vero  e  proprio
corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno; 
    4.  il  ricorso  all'accordo  non   puo'   interferire   con   il
perseguimento dell'obiettivo principale delle  norme  comunitarie  in
tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi  e
l'apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto;
la collaborazione tra amministrazioni non puo'  trasformarsi  in  una
costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme  menzionate
e gli atti che approvano l'accordo,  nella  motivazione,  devono  dar
conto di quanto su esposto. 
  In  riferimento  al  punto  1,  si  sottolinea  il  fatto  che   la
collaborazione deve avere  come  finalita'  la  realizzazione  di  un
interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti e  che  gli
stessi hanno l'obbligo di perseguire come compito principale. 
  Strettamente correlato al  ragionamento  appena  svolto  e'  quello
relativo  al   significato   da   attribuire   all'espressione   «per
disciplinare  lo  svolgimento  in  collaborazione  di  attivita'   di
interesse comune» di cui al primo  comma  dell'art.  15  della  legge
241/1990, la cui formulazione, per quanto generica, sotto il  profilo
oggettivo pare circoscrivere, per le  pubbliche  amministrazioni,  la
possibilita'  di  stipulare  accordi  alle  ipotesi  in  cui  occorra
disciplinare un'attivita' che  risponde  non  solo  all'interesse  di
entrambe le parti, ma che e' anche comune. In proposito si  specifica
che il citato art. 15 prefigura un modello  convenzionale  attraverso
il quale  le  pubbliche  amministrazioni  coordinano  l'esercizio  di
funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in
modo  complementare  e  sinergico,  ossia  in  forma  di   «reciproca
collaborazione»  e   nell'obiettivo   comune   di   fornire   servizi
«indistintamente a favore della collettivita' e gratuitamente»  (cfr.
Cassi civ., 13 luglio 2006, n. 15893). Si  comprende  allora  perche'
l'art. 15 in commento non risulti in contrasto  con  la  normativa  a
tutela della  concorrenza:  nel  caso  in  esame  le  amministrazioni
decidono di provvedere direttamente con propri mezzi allo svolgimento
dell'attivita'  ripartendosi  i  compiti,  il  che   vale   a   dire,
trattandosi di una collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono
un proprio contributo. 
  Discorso diverso, invece, nel caso in cui un  ente  si  procuri  il
bene di cui necessita per il conseguimento degli obiettivi  assegnati
a fronte del pagamento del rispettivo prezzo: in  questa  situazione,
sia che ci si rivolga ad un privato, sia che  ci  si  rivolga  ad  un
soggetto pubblico,  e'  difficile  sostenere  l'applicabilita'  dello
schema della collaborazione, atteso  che  si  e'  di  fronte  ad  uno
scambio tra prestazioni corrispettive che risponde  alla  logica  del
contratto' e che percio' richiede, in assenza  di  altre  circostanze
esimenti, 1' espletamento di una gara pubblica. 
  Le argomentazioni riportate trovano riscontro  in  alcune  sentenze
del giudice amministrativo (cfr. TA.R Puglia, Lecce, sez. n. 1791 del
21 luglio 2010) secondo cui «difetta l'interesse comune  nell'accordo
interamministrativo quando un'amministrazione ha inteso acquisire  da
un'altra amministrazione un servizio di proprio  esclusivo  interesse
verso corrispettivo.... ....  La  presenza  di  un  corrispettivo  e'
dunque   da   considerarsi   quale   elemento    sintomatico    della
qualificazione dell'accordo alla  stregua  di  appalto  pubblico,  da
assoggettare alla relativa disciplina  secondo  le  prescrizioni  del
codice degli appalti.». 
Sulla base di quanto sopra considerato 
 
                            IL CONSIGLIO 
 
  Ritiene che: 
    1.  l'elenco  riportato  nell'art.  34  del  decreto  legislativo
163/2006 non e' da considerarsi esaustivo  dei  soggetti  di  cui  e'
ammessa la partecipazione alle gare  indette  per  l'affidamento  dei
contratti pubblici; 
    2. gli accordi tra amministrazioni non possono  essere  stipulati
in contrasto con la normativa comunitaria, in particolare non  devono
interferire  con  il  perseguimento   dell'obiettivo   della   libera
circolazione dei servizi e dell'apertura del  mercato  degli  appalti
pubblici alla concorrenza, nel rispetto dei principi illustrati nella
presente determinazione. 
 
                                               Il presidente: Brienza 
Il relatore: Calandra