N. 401 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 maggio 2006
Ordinanza emessa il 20 maggio 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Comune di Avellino ed altri contro Preziosi Elsa in proprio e n.q. di procuratore di Preziosi Gerarda ed altri Espropriazione per pubblica utlita' - Occupazioni appropriative intervenute anteriormente al 30 settembre 1996 - Criteri di determinazione dell'indennizzo in misura ridotta rispetto al valore venale degli immobili - Applicabilita' ai procedimenti in corso - Violazione dei principi del giusto processo - Lesione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. - Decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, comma 7-bis, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662. - Costituzione, artt. 111, commi primo e secondo, 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 6; protocollo alla Convenzione dei diritti dell'uomo, art. 1.(GU n.42 del 18-10-2006 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso proposto da: Comune di Avellino, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Pier Vettori n. 19, presso l'avv. Raffaele Lavarra, rappresentato e difeso dall'avv. Marcello Buono, giusta procura a margine del ricorso, ricorrente; Contro Preziosi Elsa, I.A.C.P. Provincia di Avellino, intimati; e sul secondo ricorso n. 11050/03 proposto da: Preziosi Elsa in proprio, Preziosi Gerarda o Gerardina in persona della procuratrice Preziosi Elsa, Preziosi Dionigi in persona della procuratrice Preziosi Elsa, elettivamente domiciliati in Roma, via Eudo Giulioli n. 17, presso il sig. Giuseppe Mazzitelli, rappresentanti e difesi dall'avv. Antonio Barra, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale, controricorrente e ricorrente incidentale; Contro Comune di Avellino, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Pier Vettori n. 19, presso l'avv. Raffaele Lavarra, rappresentato e difeso dall'avv. Marcello Buono, giusta procura a margine del controricorso, controricorrente al ricorso incidentale; Contro I.A.C.P. Provincia di Avellino, intimato; e sul terzo ricorso n. 10817/03 proposto da: I.A.C.P. Provincia di Avellino, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, via A. Armellini n. 55 presso famiglia Baldassarre-D'Amore, rappresentato e difeso dall'avv. Pellegrino Musto, giusta mandato a margine del ricorso, controricorrente e ricorrente incidentale; Contro Preziosi Elsa, Preziosi Dionigi, Comune di Avellino, intimati e sul quarto ricorso n. 11052/03 proposto da: Preziosi Elsa in proprio, Preziosi Gerarda o Gerardina in persona della procuratrice Preziosi Elsa, Preziosi Dionigi in persona della procuratrice Preziosi Elsa, elettivamente domiciliati in Roma, via Eudo Giulioli n. 17, presso il sig. Giuseppe Mazzitelli, rappresentati e difesi dell'avv. Antonio Barra, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale, controricorrente e ricorrente incidentale; Contro I.A.C.P. Provincia di Avellino, Comune di Avellino, intimati avverso la sentenza n. 2757/02 della Corte d'appello di Napoli, depositata il 17 settembre 2002; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 marzo 2006 dal Consigliere dott. Salvatore Salvago; Udito per il ricorrente Comune di Avellino, l'avv. Buono che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso n. 11050/03; Udito per il ricorrente I.A.C.P., l'avv. Musto che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento di quello dello I.A.C.P.; Udito per il controricorrente e ricorrente incidentale Preziosi Elsa, l'avv. Barra che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi n. 11050/02 e 11052/02 ed il rigetto degli altri due ricorsi; Udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Pasquale Paolo Maria Ciccolo che ha concluso per l'accoglimento del ricorso del Comune di Avellino; per il rigetto del ricorso dello I.A.C.P.; per l'inammissibilita' o il rigetto dei ricorsi incidentali Preziosi; in via subordinata, per la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. F a t t o e m o t i v i 1. - Ritenuto che il Tribunale di Avellino, con sentenza del 16 dicembre 1991, condannava il Comune di Avellino e l'I.A.C.P. dell'omonia provincia al pagamento in favore di Elsa, Gerarda e Dionigi Preziosi, della somma di L. 394.109.540 per l'avvenuta occupazione espropriativa di alcuni terreni di loro proprieta', ubicati nella locale via Annarumma onde realizzare alcuni alloggi popolari, nonche' opere di edilizia sociale; e determinava l'indennita' per l'occupazione temporanea degli stessi immobili nella misura di L. 68.040.000. Che in parziale accoglimento dell'impugnazione dei due enti pubblici, la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 27 marzo 1995, dichiarava il difetto di legittimazione dell'I.A.C.P. con riferimento all'occupazione temporanea ed il difetto di legittimazione del comune in relazione al risarcimento del danno per l'occupazione acquisitiva, determinato in complessive L. 308.193.980. Che la Corte di cassazione, con sentenza 14 gennaio 1998, n. 457, accoglieva in parte i ricorsi del comune e dell'I.A.C.P. e dando atto della sopravvenienza del comma 7-bis dell'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992 e della sua applicabilita' ai giudizi in corso, rinviava ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per il calcolo con il criterio riduttivo sia del risarcimento del danno per l'occupazione espropriativa, che dell'indennizzo per l'occupazione d'urgenza; di cui il giudice di rinvio con sentenza del 17 settembre 2002, ha applicato il criterio riduttivo sopravvenuto e dichiarato che la prima indennita' risultava di L. 150.034.677, e con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria pari a L. 491.761.224, interamente corrisposta agli attori in conseguenza del pagamento della maggior somma di L. 534.191.980. Ha, quindi condannato i Preziosi a restituire all'I.A.C.P. la somma di Euro 29.151,15 a titoli di maggior capitale incassato ed interessi ed il comune al pagamento in favore di detti proprietari della complessiva somma di Euro 63.493,37 a titolo di indennita' di occupazione legittima, oltre interessi legali dal 7 gennaio 1985. Che per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso il comune di Avellino per due motivi, e l'I.A.C.P. per quattro motivi; e che ad entrambi i ricorsi hanno resistito con contraddittorio i Preziosi, i quali a loro volta hanno formulato ricorso incidentale per due motivi. 2. - Ritenuto che con il ricorso incidentale che si articola in due motivi, da esaminare con precedenza per evidenti ragioni di logica giuridica, Elsa Preziosi e consorti, deducendo violazione dell'art. 5-bis, comma 7-bis della legge n. 359 del 1992, n. 936 e n. 2059 del codice civile, 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, si dolgono che la sentenza impugnata abbia applicato all'espropriazione del loro terreno il criterio risarcitorio riduttivo introdotto dalla prima norma senza considerare: a) che esso pone l'istituto dell'occupazione acquisitiva in contrasto con i precetti dell'art. 42 Cost., nonche' dell'art. 1 della Convenzione; b) che comporta altresi' una violazione dell'art. 53 Cost., facendo gravare il concorso alla spesa pubblica in ragione non della capacita' contributiva, ma delle sole necessita' della finanza pubblica, estranee alla finalita' della norma; c) che in ogni caso detta norma e' stata implicitamente abrogata dagli artt. 111 Cost. e dalla legge n. 89 del 2001 sulla durata ragionevole del processo che ne avrebbe consentito una durata massima di tre anni ovvero, al piu', fino al luglio 1991: con la conseguente inapplicabilita' di norme successive che hanno influito sull'entita' del pregiudizio che avrebbe dovuto essere tempestivamente ristorato, altrimenti verificandosi la violazione dei precetti contenuti negli artt. 10 e 111 Cost., il Collegio osserva: i Preziosi con la citazione introduttiva del giudizio del 30 luglio 1985 hanno chiesto la condanna in solido del comune di Avellino e dell'I.A.C.P. al risarcimento del danno derivante dalla perdita della proprieta' di un loro fondo sul quale erano stati realizzati alcuni alloggi popolari, pur in mancanza di un provvedimento di espropriazione. La domanda e' stata interamente accolta dalla Corte del primo appello nei confronti del solo I.A.C.P., condannato con sentenza 27 marzo 1995 al pagamento a tale titolo della complessiva somma di L. 308.193.980, equivalente al valore venale dell'immobile alla data della pronuncia. Con la quale veniva, altresi', confermata la condanna del Comune di Avellino a depositare l'indennita' di occupazione legittima determinata in L. 68.040.000. La decisione e' stata impugnata esclusivamente dagli enti pubblici, e questa corte, con la ricordata sentenza n. 457 del 1998, ne ha parzialmente accolto il ricorso enunciando il principio che il giudice di rinvio avrebbe dovuto liquidare il danno risarcibile (nonche' l'indennita' di occupazione temporanea, pur essa parametrata sul valore venale dell'immobile) in base al criterio riduttivo «della ulteriore normativa sopravvenuta di cui al comma 7-bis, introdotto dall'art. 3, comma 65 della legge n. 662/1996, la quale e' applicabile a tutte le occupazioni illegittime di suoli per causa di p.u., intervenute anteriormente al 30 settembre 1996». 3. - Ora, detta norma cui si e' pacificamente attenuta la sentenza impugnata per il calcolo di entrambi gli indennizzi, non puo' considerarsi abrogata ne' dal nuovo testo dell'art. 111 Cost. (primo e secondo comma), ne' tanto meno dall'art. 2 della legge n. 89/2001: non dalla sopravvenuta legge costituzionale n. 2 del 1999 che ha inserito i principi del giusto processo nell'art. 111 Cost., in quanto neppure i ricorrenti pongono in discussione la regola che la legge costituzionale, essendo di rango superiore a quello della legge ordinaria, non puo' produrre un effetto abrogativo della disciplina con essa incompatibile; e che l'abolizione di questa puo' avere luogo soltanto in esito allo scrutinio di costituzionalita' davanti alla Corte costituzionale. E neppure per effetto della sopravvenuta legge n. 89/2001, dato che l'abrogazione tacita di una legge ricorre ai sensi dell'art. 15 disp. prel. cod. civ., quando sussiste incompatibilita' fra le nuove disposizioni e quelle precedenti, ovvero quando la nuova legge disciplina la materia gia' regolata da quella anteriore (Cass. n. 14129/2002; n. 2502/2001; n. 1760/1995). Laddove la legge c.d. Pinto e' rivolta, esclusivamente, a disciplinare il giusto processo e ad attribuire un'equa ripartizione alle parti che per effetto della violazione del termine ragionevole di durata di esso hanno subito danni patrimoniali e/o non patrimoniali: senza percio' influire su alcun istituto di diritto sostanziale e quindi sulla materia delle espropriazioni per p.u.; ne' in particolar modo su una norma, peraltro di natura speciale, che in tale specifico settore ha introdotto un meccanismo di calcolo riduttivo dell'indennizzo. Il quale infine proprio con riguardo alle menzionate occupazioni antecedenti alla data avanti indicata e' stato recepito e confermato dall'art. 55 t.u. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, come modificato dall'art. 1, d.lgs. n. 302 del 2002, successivo alla legge n. 89/2001. Il fatto poi che il criterio riduttivo suddetto abbia potuto trovare applicazione a causa della durata eccessiva del processo - iniziato dai Preziosi nel 1985 e non ancora definito con sentenza passata in giudicato al momento in cui l'art. 3, comma 65 della legge n. 662/1996 e' entrato in vigore - dimostra semmai che e' proprio tale irragionevole durata ad esso estranea ed esterna al meccanismo liquidatorio introdotto da questa disposizione, a porsi in contrasto con l'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e con la legge n. 89/2001; ed a rilevare autonomamente come fatto produttivo di danno per la violazione del diritto al giusto processo sancito da dette norme: percio' comportando un'autonoma riparazione da far valere con apposita domanda in un diverso processo (artt. 3 e 4 della legge n. 89/2001). 4. - Cio' posto, questo Collegio non ignora che la Corte costituzionale con sentenza n. 146 del 1999 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, della legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate da diversi giudici di merito in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 della Costituzione, rilevando in particolare: a) che la regola generale di integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale: potendo il legislatore in casi eccezionali ritenere equa e conveniente una limitazione al risarcimento del danno; e che l'eccezionalita' del caso appariva nella fattispecie giustificata soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunciata; b) che deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla norma suddetta, avendo la stessa realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco, con l'eliminazione della ingiustificata coincidenza, da parte della precedente legge n. 549/1995, della entita' dell'indennizzo per l'illecito della pubblica amministrazione con quello relativo al caso di legittimita' procedura ablativa; c) che la disposta applicazione del nuovo e riduttivo regime risarcitorio anche ai giudizi pendenti, pur incidendo sfavorevolmente su posizioni di diritto soggettivo perfetto, non configge con specifici canoni costituzionali, primo fra i quali quello della ragionevolezza: non potendo costituire limite invalicabile della discrezionalita' legislativa l'aspettativa dei titolari delle aree occupate a vedersi liquidato il danno secondo un criterio piu' favorevole di quello ragionevolmente adottato dal legislatore nell'attuale momento storico (e peraltro diretto a sostituire una disciplina dichiarata incostituzionale ed a regolare i rapporti pregressi). La legittimita' costituzionale della norma e' stata confermata anche dalle successive sentenze n. 396 del 1999 e n. 24/2000 della stessa Corte, che con ordinanze n. 251/2000 e n. 158/2002 ha altresi' dichiarato inammissibile la riproposizione di analoghe questioni. Principi non dissimili aveva espresso negli anni precedenti la Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale nella nota decisione James contro Regno Unito del 21 febbraio 1986 aveva affermato (1/2 54): I) che l'art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione in caso di espropriazione per pubblica utilita' non garantisce sempre e comunque un risarcimento integrale del danno subito: in quanto legittime ragioni di pubblica utilita', come quelle che perseguono obiettivi di riforma economica o di giustizia sociale possono indurre a stabilire un ristoro inferiore al valore venale dell'immobile, II) che la norma esige in ogni caso la previsione di un indennizzo ragionevolmente proporzionato al valore del bene e che raggiunga un giusto equilibrio tra i diversi interessi in contrasto; III) che il controllo da essa devoluto in tal caso alla Corte consiste proprio nel valutare se le modalita' di ristoro scelte dagli Stati accedano o meno il largo margine di discrezionalita' loro riservato al riguardo. Gli stessi precetti sono stati riaffermati nelle successive sentenze 9 dicembre 1994 in causa Les saints monasteres contro Grecia, e 2 marzo 1999 in causa Papachelas contro Grecia. 5. - Tuttavia gia' nella decisione Papamichalopoulos contro Grecia del 31 ottobre 1995, la Corte introduceva nella materia una profonda distinzione, limitandone l'applicazione alle sole espropriazioni legittime in cui e' sufficiente il pagamento di un'indennita' «equitable»; ed osservando che il carattere illecito di un'occupazione si ripercuote necessariamente sui criteri da utilizzare per determinare la riparazione dovuta all'espropriato, nonche' sulle conseguenze finanziarie da risarcire non assimilabili a quelle di una espropriazione legittima (1/2 36). Sicche', invocando la giurisprudenza internazionale risalente all'anno 1928, enunciava la regola che in caso in cui non sia possibile la restituzione in natura, all'espropriato e' comunque dovuta una somma corrispondente al valore attuale dei beni perduti (al valore cioe' che avrebbe avuto la restituzione in natura). In coerenza con il nuovo principio nella successiva sentenza Zubani conto Italia del 7 agosto 1996, esaminando una fattispecie analoga a quella in esame, di c.d. occupazione espropriativa per la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ritenne ragionevole la scelta della legge n. 458 del 1988 di privilegiare gli interessi della collettivita' in caso di espropriazione o occupazione illegittima di immobili e dichiara che la stessa risultava compatibile con i precetti dell'art. l del Protocollo soprattutto perche' l'art. 3 delle legge attribuisce ai proprietari l'indennizzo integrale del danno subito (comprendente anche quello da svalutazione monetaria): percio' considerato un ristoro soddisfacente (1/2 49); e per converso nella decisione Carbonara e Ventura contro Italia del 30 maggio 2000, lo stesso istituto fu dichiarato in contrasto con la Convenzione perche', pur comportando per i proprietari la perdita definitiva dell'immobile, non aveva consentito loro di ottenere il risarcimento dei danni a causa del maturare della prescrizione quinquennale fatta decorrere, in base alla giurisprudenza delle Corte di cassazione, dalla data - ritenuta dal giudice europeo incerta ed imprevedibile - dell'irreversibile trasformazione dell'immobile; sicche' agli espropriati fu riconosciuto a titolo di danno materiale un ristoro corrispondente al valore venale del terreno rivalutato alla data della decisione (1/2 75). Siffatto criterio di liquidazione e' stato a maggior ragione ribadito dalla decisione Belvedere-Alberghiera del 30 ottobre 2003, cui l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 1/1996 aveva negato la restituzione dell'immobile malgrado l'occupazione illegittima non fosse assistita neppure dalla dichiarazione di pubblica utilita' (sent. 30 maggio 2000 della CEDU); ed alla quale fu percio' attribuito un risarcimento pari al valore attuale dell'immobile (e non al valore che aveva al tempo dell'occupazione: 1/2 35), oltre ad ogni altro pregiudizio subito fra cui una somma pari al mancato godimento del terreno a decorrere dalla data dello spossessamento (anno 1987), nonche' al mancato guadagno per l'attivita' alberghiera non potuta esercitare (1/2 36). 6. - Negli ultimi anni sono stati, quindi, riconsiderati anche criteri che in passato legittimavano l'attribuzione di un indennizzo «ridotto» nelle espropriazioni legittime: in quanto nella sentenza 28 novembre 2002, ex re di Grecia ed altri, la Corte europea, dopo aver riaffermato che il carattere lecito o meno dell'occupazione necessariamente si ripercuote sui criteri cui commisurare il ristoro, e che nelle espropriazioni rituali quest'ultimo non deve necessariamente raggiungere «il valore pieno ed intero dei beni», ha circoscritto queste regole alle sole ipotesi di espropriazioni rivolte a perseguire legittimi obbiettivi di pubblica utilita': tali considerando espressamente le misure di riforme economiche o di giustizia sociale, nonche' (a maggior ragione) quelle rivolte a provocare cambiamenti del sistema costituzionale (fra cui ha incluso la fattispecie esaminata di apprensione di beni privati disposta al fine di modificare il sistema costituzionale dello Stato greco dalla monarchia alla repubblica). Laddove per ogni altro fine di pubblica utilita', come l'espropriazione isolata di un terreno per la costruzione di una strada, i precedenti principi sono stati rettificati nel senso che solo un indennizzo pari al valore venale del bene puo' essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto (1/2 74-78). Il nuovo arresto e' stato ribadito nelle successive decisioni 22 gennaio 2004, Jahn e 22 giugno 2004, Broniowski; e subito dopo nella sentenza Scordino del 29 luglio 2004, ove la Corte ha valutato la compatibilita' con l'art. l del Protocollo, proprio del criterio riduttivo di calcolo dell'indennizzo delle aree aventi destinazione edificatoria introdotto dall'art. 5-bis della legge italiana n. 359 del 1992, che pur traeva origine da una manovra finanziaria perseguita dal legislatore italiano. E, richiamando nuovamente il principio che il precetto comunitario non garantisce in tutti i casi il diritto ad una compensazione integrale perche' specifici obbiettivi di utilita' pubblica possono giustificare un rimborso inferiore al pieno valore di mercato (1/2 97), ha condannato lo Stato italiano al risarcimento (sulla base della differenza tra indennita' percepita e valore venale del bene) a favore di soggetto espropriato, che a causa del lungo tempo trascorso aveva visto sfumare il proprio affidamento ad essere indennizzato secondo quest'ultimo parametro: posto che, a seguito della dichiarazione d'incostituzionalita' delle norme commisuranti in via generale l'indennizzo al valore agricolo (art. 16, legge 22 ottobre 1971, n. 865, per effetto di Corte cost. 30 gennaio 1980, n. 5 e 15 luglio 1983, n. 223), il criterio generale di stima delle aree edificabili era ridiventato quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita (art. 39, legge n. 2359/1865, appunto). Laddove l'art. 5-bis, pur applicato in quella vicenda senza l'ulteriore decurtazione del 40% prevista dal primo comma, e' apparso ai giudici europei inadeguato e lesivo del diritto della persona al rispetto dei propri beni, in considerazione del trattamento fiscale che ne seguiva (la sua ulteriore riduzione del 20% ex art. 11 legge n. 413/1991: 1/2 100) e della complessiva attesa degli espropriati, dal provvedimento ablativo alla sentenza di determinazione dell'indennizzo (1/2 101): cosi' introducendosi nel giudizio di congruita' della riparazione una nuova variabile costituita dalle «modalita' d'indennizzo previste dal legislatore nazionale» (1/2 97), la cui considerazione ha indotto la Corte a giudicare nel caso concreto il prezzo percepito dall'espropriato «non ragionevolmente in rapporto con il valore della proprieta' espropriata»; di talche' «il giusto equilibrio» risultava «rotto» (1/2 102). Questo quadro normativo, cosi' articolato, e' stato condiviso anche dalla Grande Chambre della Corte nelle recenti decisioni Kopecky, 28 settembre 2004; Jahn, 30 giugno 2005, e Broniowski, 28 settembre 2005, in ciascuna delle quali sono stati «ricapitolati» i suddetti principi tratti dall'art. l del Protocollo n. 1 cui le legislazioni dei singoli Stati, pur nell'ampio margine di discrezionalita' loro riconosciuto dalla Convenzione, devono attenersi nella previsione delle modalita' dell'indennita' di espropriazione. 7. - Esso non sembra percio', allo stato, modificabile in termini conformi al sistema riduttivo della legge n. 359 del 1992, ed ha necessariamente influenzato in modo decisivo la disamina, nello stesso periodo di tempo, delle fattispecie di occupazioni illegittime: in relazione alle quali la Corte nella successiva sentenza Scordino del 17 maggio 2005 ha dichiarato incompatibile con l'art. l del Protocollo l'espropriazione indiretta (fondata sull'occupazione definitiva di fatto di un bene privato), ammessa dalla giurisprudenza e dalla legislazione italiana (ricordando in particolare l'art. 43 del T.U. appr. con d.P.R. n. 327/2001), perche' non supportate da norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, percio' in violazione del principio di legalita'. Fra le ragioni dell'incompatibilita' ha incluso, infatti, proprio il criterio di calcolo dell'indennizzo introdotto dal comma 7-bis dell'art. 5-bis, osservando: a) che la norma aveva modificato la regola della riparazione integrale del pregiudizio subito stabilita per questa tipologia di espropriazione, fin dalla nota decisione n. 1464/1983 delle sezioni unite di questa Corte, equiparandola all'indennizzo riconosciuto per l'espropriazione rituale con l'aumento minimo del 10%; b) che detto meccanismo riduttivo consente all'espropriante che omette di versare durante la procedura l'indennizzo, di avvantaggiarsi ulteriormente del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una porzione sostanziale del ristoro dovuto: percio' non favorendo la buona amministrazione e non contribuendo a prevenire episodi di illegalita' (1/2 96); c) che la violazione del principio della riparazione integrale e' resa ancor piu' palese dall'espressa estensione dell'applicazione retroattiva della norma anche ai giudizi in corso, che si traduce in una mera ablazione retroattiva di una porzione consistente dell'indennita' dovuta in base al sistema legislativo antecedente (1/2 100). I medesimi principi si trovano pedissequamente ripetuti nelle successive sentenze Binotti, Colazzo e Serrao del 13 ottobre 2005, Sciarrotta del 12 gennaio 2006 e soprattutto S.A.S. del 23 febbraio 2006: sicche' non par dubbio che l'affermazione di non conformita' al principio del rispetto del diritto di proprieta' della disciplina indennitaria delle espropriazioni illegittime antecedenti al 30 settembre 1996, come modificata dal comma 7-bis dell'art. 5-bis, e ribadita dall'art. 55 T.U. del d.P.R. n. 327/2001, per un verso, risulti comunque generalizzata nell'argomentazione dei giudici di Strasburgo, anche oltre le peculiarita' delle fattispecie esaminate. E, per altro verso, addebiti alla norma la violazione del diritto della persona al rispetto dei propri beni, di cui all'art. 1, del I prot. add. alla Convenzione, sotto diversi profili, e cioe': I) per essersi profondamente discostata - onde sopperire a mere esigenze di bilancio (la legge e' definita «budgetaire») e senza la ricorrenza di un contesto di riforme economiche o sociali - dalla regola dell'integralita' della riparazione corrispondente al valore venale dell'immobile, ritenuta dalla Corte imprescindibile nelle occupazioni non aventi base legale onde contemperare il giusto equilibrio tra i contrapposti interessi, di cui si e' detto; II) per avere, quindi, recepito un criterio riduttivo collegato ad un parametro considerato gia' irrazionale nelle espropriazioni legittime, comportante un sostanziale dimezzamento del valore del bene (per di piu' soggetto ad ulteriore tassazione): percio' non avente alcuno dei requisiti minimi per rientrare nel novero delle soluzioni considerate ragionevoli; III) ed ancora, per averlo slealmente introdotto in giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi, si' da incorrere anche nella violazione dell'art. 6, 1/2 1, della Convenzione, per il mutamento delle regole «in corsa»: posto che la Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una nuova normativa possa avere efficacia retroattiva, aveva ripetutamente considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa soltanto in presenza di «imperieux motifs d'interet general»; ed affermato che in ogni altro caso essa si concreta nella violazione del principio di legalita' nonche' del diritto ad un processo equo perche' consente al potere legislativo di introdurre nuove disposizioni specificamente dirette ad influire sull'esito di un giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica), ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonche' fra le piu' recenti Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio 2004; e la stessa Scordino, 29 luglio 2004, 1/2 78). 8. - La giurisprudenza della Corte europea, conclusivamente, appare ormai del tutto consolidata nel ritenere il criterio indennitario stabilito dal comma 7-bis dell'art. 5-bis in contrasto con i menzionati precetti della Convenzione; e, d'altra parte nella ricordata decisione Scordino, 29 luglio 2004 ha affermato che sia la Corte d'appello che la Corte di cassazione «non hanno omesso di fare riferimento alle disposizioni della legge criticata per suffragare le loro decisioni», si' da rendere possibile «l'ingerenza del potere legislativo nel funzionamento del potere giudiziario al fine d'influenzare la risoluzione dalla lite»: in tal modo lasciando intendere che sussistesse l'obbligo, da parte del giudice nazionale, di non applicare una legge dello Stato sopravvenuta all'inizio della lite ed espressamente dichiarata applicabile ai giudizi in corso, quando invece doveva applicarsi la disciplina previgente (tanto piu' che «essi» (gli organi giudiziari) «hanno modificato a danno degli interessati, con effetto retroattivo, l'indennizzo che essi potevano legalmente attendersi»). Cio' malgrado, il collegio non ritiene che nella specie possa disapplicarsi una legge vigente dello Stato, per far riemergere la disciplina previgente, risalente alla regola enunciata dalla ricordata decisione n. 1464/1983 delle Sezioni Unite della Corte e sostanzialmente incentrata sul disposto dell'art. 39 della legge generale n. 2359 del 1865, muovendo da una pretesa violazione delle aspettative dell'avente diritto al quantum di una prestazione patrimoniale: tanto piu' che la Corte costituzionale, proprio in relazione alla prevista retroattivita' dell'art. 5-bis, legge n. 359/1992, ne ha giudicata la conformita' alle norme costituzionali (Corte cost. 16 giugno 1993, n. 283; 16 dicembre 1993, n. 442; 30 aprile 1999, n. l48, e succ.). Cio' perche' l'abrogazione della legge dello Stato si verifica nelle sole ipotesi, gia' ricordate, dell'art. 15 disp. prel. cod. civ. e n. 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur quando si avvalga della autorevole interpretazione del giudice internazionale. Ed il giudice, d'altra parte, e' soggetto unicamente alla legge (art. 101 Cost.), per cui ammettere un potere (o addirittura un obbligo) di non applicarla, significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale. Vero e' che in altra occasione questa Corte ha ritenuto che il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e' legato a come essa vive nelle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, da cui e' ricavabile una regola di conformazione, ed essendo espressione dell'obbligo della giurisdizione nazionale di interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, conformemente alla Convenzione e alla giurisprudenza di Strasburgo, essa ha natura giuridica; onde il mancato rispetto di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (Cass. 26 gennaio 2004, n. 1340). Non mancano, peraltro, spunti per una lettura critica dei precedenti della Corte europea e dichiarazioni di non stretta vincolativita' di essi (Cass. 26 aprile 2005, n. 8600 e 15 settembre 2005, n. 18249). E tuttavia, un vincolo all'interpretazione del giudice nazionale e' ravvisabile ove la norma nazionale costituisca, come nella disciplina dell'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, riproduzione delle norme convenzionali, per le quali i precedenti del giudice europeo costituiscono riferimento obbligato (cfr., art. 2, comma 1 della legge n. 89/2001): cosi' come e' consentita la diretta applicazione alla fattispecie della norma convenzionale, ove essa sia immediatamente precettiva e comunque di chiara interpretazione, e non emergano conflitti interpretativi tra il giudice nazionale e il giudice europeo (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). Ma la questione deve ricevere diversa impostazione ove si discuta della legalita' di un istituto, quale quello dell'indennizzo espropriativo, non direttamente regolato dalla Convenzione europea dei diritti, ma giudicato in contrasto con i principi dalla stessa desumibili: non e', infatti, ravvisabile nell'ordinamento, riguardo al preteso contrasto del diritto interno con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte di diritto nazionale, rispetto alla fonte di diritto internazionale, ove la prima sia ritenuta in contrasto con questo da una Corte sopranazionale cui gli Stati abbiano attribuito tale potesta', assimilabile alle limitazioni di sovranita' consentite dall'art. 11 Cost., derivanti dal Trattato della Comunita' europea e di consequenza dalle fonti normative dell'ordinamento comunitario. E' appena il caso di notare, a tal proposito, che non sembra sostenibile neppure l'avvenuta «comunitarizzazione» della Convenzione europea dei diritti, in virtu' del par. 2 dell'art. 6 del trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992: il rispetto dei diritti fondamentali della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da parte dell'Unione, costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie, non una norma comunitaria rivolta agli stati membri, onde, non potendo ritenersi che le disposizioni della suddetta Convenzione e quella del Trattato costituiscano parte integrante del diritto comunitario, non puo' demandarsene l'interpretazione alla Corte di giustizia della Comunita' (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542): ne e' riprova la circostanza che nella prospettiva di adesione della Comunita' europea alla Convenzione sui diritti e le liberta' fondamentali, il parere negativo della Corte europea fu dettato dalla riflessione per cui l'adesione avrebbe comportato l'inserimento della comunita' in un sistema istituzionale distinto, nonche' l'integrazione del complesso delle disposizioni della convenzione nell'ordinamento comunitario (Corte giust. CE, parere 28 marzo 1996, n. 2/94). E ancora, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria incompetenza a fornire elementi interpretativi necessari per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformita' di una normativa nazionale ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l'osservanza (nel contesto comunitario), quali risultano dalla C.E.D.U., e cio' «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (Corte giust. CE, 29 maggio l998, cause C-299/1995). Va osservato, peraltro, che la diretta efficacia nel nostro ordinamento dei poteri normativi, amministrativi e giurisdizionali degli organi comunitari, non puo' essere tale da modificare l'assetto costituzionale, dal quale comunque emergono controlimiti alle limitazioni di sovranita': fra questi la Corte costituzionale ha individuato i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale, oltre che i diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 183 del 1973, n. 232 del 1989; n. 168 del 1991). Sicche' potrebbe sostenersi, alla luce delle pronunce della Corte costituzionale (ma anche della Corte europea dei diritti dell'uomo) in tema di indennizzo espropriativo che la misura di esso ragguagliata al valore di mercato, non tiene conto del principio costituzionale per cui il diritto di proprieta' si trova in posizione recessiva rispetto all'interesse primario dell'utilita' sociale (Cass. 27 marzo 2004, n. 6173). Conclusivamente, la fissazione di una riparazione commisurata al valore venale non puo' basarsi, nel recupero del dictum della Corte europea nelle pronunce avanti esaminate, come conformazione alle norme di diritto internazionale che secondo l'art. 10 Cost. impegna tutto l'ordinamento: anche perche' si riconosce generalmente che la norma costituzionale non ha ad oggetto il diritto pattizio, e d'altro canto, il prezzo di mercato come compenso espropriativo non e' un valore generalmente riconosciuto dagli Stati. E neppure vale trasferire la problematica sulla legge 4 agosto 1955, n. 848, che ha reso esecutiva la convenzione, perche', anche ove si accettasse l'interpretazione nel senso indicato dalla Corte europea, il giudice non avrebbe comunque il potere di creare una disciplina indennitaria sostitutiva, che resta comunque soggetta a margini di discrezionalita' che competono solo al legislatore. La subordinazione della legge nazionale alle fonti internazionali e', invece, ora da riconoscere alla luce dell'art. 117, primo comma, Cost., ma la questione non puo' porsi, sotto tale profilo, se non a livello legislativo, come piu' avanti si dira'. Le ragioni che precedono, riassumibili nell'impossibilita' da parte di questa Corte, e piu' in generale del giudice nazionale, di disapplicare una legge dello Stato pur ritenuta in contrasto con la C.E.D.U. dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, escludono che la questione possa essere risolta in via interpretativa, con l'adozione di una lettura secundum constitutionem, atteso che l'art. 5-bis, comma 7-bis di cui si discute, e' gia' stato ritenuto non in contrasto con i parametri costituzionali, e che il criterio di cui i ricorrenti chiedono l'applicazione in alternativa, quello del valore venale, e' stato dichiarato dalla Consulta privo «di copertura costituzionale». Neppure sembra sostenibile un ruolo di supplenza, da parte del giudice, nelle funzioni del legislatore, per lungo tempo inadempiente all'impegno autoimposto, di predisporre una riforma in materia espropriativa (l'art. 5-bis esordisce: «fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere...»), anche perche' nel caso non si tratta piu' di inerzia, ma ora di consapevole reiterazione del regime indennitario delle espropriazioni illegittime antecedenti al 30 settembre 1996, essendo stato per esse il criterio riduttivo definitivamente raccolto e confermato nell'art. 55, d.P.R. n. 327/2001, in vigore dal 1° luglio 2003, pur dopo le modifiche apportate dall'art. l, d.lgs. n. 302 del 2002. Si puo' dunque configurare un intervento del legislatore che nella sua discrezionalita' provveda a individuare un nuovo sistema indennitario tale da allinearsi agli obblighi internazionali e cosi' evitare condanne per responsabilita' derivanti dalla violazione della Convenzione, mentre deve escludersi la sussistenza a carico del giudice nazionale di un obbligo di disapplicare la disciplina legale, e supplire alla funzione del legislatore mediante un coordinamento delle fonti nel senso di affermare la prevalenza di quella convenzionale su quella interna (vedi Cass. 27 marzo 2004, n. 6173, cit.). 9. - Vi sono tuttavia motivi per dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis del d.l. n. 333/1992, conv. in legge n. 359/1992. Nella sentenza n. 148/1999 della Corte costituzionale, e nelle ulteriori pronunce che richiamandosi al precedente non hanno ravvisato elementi nuovi per distaccarsene, la norma di determinazione del risarcimento del danno nelle occupazioni c.d. espropriative di suoli edificatori antecedenti alla data indicata, non e' stata scrutinata secondo il parametro dell'art. 111 Cost. Nella prima delle sentenze citate il Giudice delle leggi, ha interamente richiamato la propria precedente pronuncia n. 283/1993, la quale verificando la legittimita' della disposizione transitoria di cui ai commi 6 e 7 dell'art. 5-bis, secondo il parametro dell'art. 3 Cost., aveva osservato che l'applicabilita' del nuovo criterio di determinazione dell'indennita' secondo che la relativa misura fosse divenuta incontestabile prima dell'entrata in vigore della legge ovvero a tale momento fosse ancora sub iudice, corrispondeva ad una differenziazione dipendente dalla successione di leggi nel tempo; e che l'irretroattivita', pur costituendo un principio dell'ordinamento, non e' elevato (fuori dalla materia penale) al rango di norma costituzionale, sicche', in una situazione, come quella della materia espropriativa, caratterizzata dalla carenza normativa e dell'applicabilita' solo suppletiva del criterio del valore venale, la prevista retroattivita' dell'intervento legislativo non confliggeva con il canone della ragionevolezza. La stessa sentenza, pero', concluse che la questione non era fondata «nei termini cosi' puntualizzati». Sembrano esistere gli elementi per una rivalutazione della questione, alla luce del diverso parametro dell'art. 111 Cost., riscritto in epoca successiva alle pronunce sull'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992, che negli ideali del giusto processo incarna la lealta' che alla parte in giudizio e' dato attendersi dal sistema, senza che le vengano mutate le regole in corso. I contenuti dell'art. 111 Cost., particolarmente nelle sue parti programmatiche (primo e secondo comma), sembrano ancora in gran parte da esplorare. Cosi' come e' ancora da chiarire fino in fondo il rapporto di discendenza della nuova formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se l'originario intento di costituzionalizzare l'art. 6 della Convenzione pare modificato nel corso dei lavori parlamentari, giacche' nel risultato testuale dell'art. 111 Cost. si ritrovano solo assonanze o similitudini rispetto alla formula internazionale, non di meno, sembra da avallare la tesi di riscontrare nella giurisprudenza della Corte dei diritti, il materiale utile alla ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali. La collocazione della Convenzione europea nella gerarchia delle fonti non e' mai stata chiarita appieno, giacche' la qualificazione di essa come fonte atipica (Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10) non risolve fino in fondo le non infrequenti ipotesi di conflitto, non solo con le norme di legge ordinaria, precedenti e successive, ma con le stesse norme costituzionali: e la concezione liberale del diritto di proprieta' che fa da sfondo all'interpretazione resa dalla Corte dei diritti sull'art. 1, I prot. add. (si veda, oltre alle sentenze Scordino del 29 luglio 2004 e 17 maggio 2005 anche l'altra sentenza, sempre in causa Scordino, del 15 luglio 2004, sulla reiterazione dei vincoli urbanistici) non appare perfettamente in linea con il disegno dell'Assemblea costituente (nell'art. 42, ma anche, piu' in generale, nell'art. 41 Cost.), di mediare le facolta' dominicali (e imprenditoriali) con l'utilita' pubblica. Cio' non toglie che alla ricerca del significato precettivo del parametro costituzionale, possa utilmente ricorrersi all'interpretazione che dell'analoga disposizione dell'art. 6 della Convenzione (dalla quale la stessa modifica costituzionale e' stata indotta) ha reso la Corte europea: il senso della pronuncia Scordino del 29 luglio 2004, e di quelle del 2005 e 2006 sulla sopravvenienza del criterio riduttivo di cui al comma 7-bis dell'art. 5-bis, e' che la parita' delle parti davanti al giudice implichi la necessita' che il potere legislativo non si intrometta nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa, o di una circoscritta e determinata categoria di controversie. Le fattispecie conosciute dai giudici di Strasburgo sono del tutto similari ai fatti della causa di cui questo collegio e' chiamato a conoscere, nei termini ricostruiti dalla Corte d'appello di Napoli: i proprietari espropriati nell'anno 1985 in forza della c.d. occupazione acquisitiva o appropriativa agiscono in giudizio per ottenere l'indennizzo di natura risarcitoria loro riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (fondata sull'art. 39 della legge n. 2359/1865) ed ancor piu' specificamente dall'art. 3 della legge n. 458 del 1988, nella misura corrispondente al valore venale dei beni sottoposti a procedimento ablatorio. La Corte di appello di Napoli ha accolto la domanda e liquidato il risarcimento del danno loro dovuto in base al criterio suddetto. Nel corso del primo giudizio davanti a questa Corte e' sopravvenuto l'art. 3, comma 65 della legge n. 662 del 1996 che ha aggiunto il comma 7-bis all'art. 5-bis, d.l. 11 luglio 1992, conv. in legge 8 agosto 1992, con il quale ha commisurato l'indennizzo in questione ai criteri di determinazione dell'indennita' di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento, ed aumento del 10 per cento; e stabilito l'applicazione del nuovo criterio anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato, percio' disposto dalla precedente sentenza n. 457 del 1998 di questa Corte: con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, di poco meno del 50% la somma per il conseguimento della quale i proprietari si erano determinati ad agire in giudizio. La norma si presta ulteriormente, alla luce della Convenzione dei diritti, come interpretata dalla Corte europea, alla censura di contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. La nuova formulazione della norma costituzionale appare diretta a colmare una lacuna dell'ordinamento, difficilmente superabile - come sopra accennato - alla luce dell'art. 10 Cost. Ne' puo' trarre in inganno la sedes materiae, per ridimensionare l'effetto della disposizione al riparto di competenze legislative Stato-regioni: in essa sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui e' riconducibile la normativa in tema di indennita' di espropriazione. Il ravvisato contrasto della vigente normativa indennitaria con la Convenzione ne determina una sopravvenuta ragione di incostituzionalita' con l'art. 117, primo comma; le norme della Convenzione, in particolare gli artt. 6 e 1, prot. I add., divengono norme interposte, attraverso l'autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalita': la sopravvenuta incompatibilita' dell'art. 5-bis attiene ai profili evidenziati dalla Corte europea dei diritti, ovvero alla contrarieta' ai principi del giusto processo, e alla incongruita' della misura indennitaria, nel rispetto che e' dovuto al diritto di proprieta'. 10. - Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente infondate la questioni di legittimita' costituzionale riguardanti l'art. 5-bis, comma 7-bis, d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. in legge 8 agosto 1992, n. 359: per contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nella parte in cui, disponendo l'applicabilita' ai giudizi in corso delle regole di determinazione del risarcimento del danno per occupazione illegittima in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parita' delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e' determinata categoria di controversie; per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I prot. add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nella parte in cui, disponendo l'applicabilita' ai giudizi in corso delle regole di determinazione del risarcimento del danno per occupazione illegittima in esso contenute, ed assicurando un trattamento indennitario lesivo del diritto di proprieta', viola i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 65 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che ha aggiunto il comma 7-bis all'art. 5-bis, d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. in legge 8 agosto 1992, n. 359, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonche' 117, primo comma, Cost., anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I prot. add. della Convenzione. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio. Dispone altresi' che la presente ordinanza sia notificata, cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri ed alle parti, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei deputati, nonche' al Presidente del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma, il 22 marzo 2006. Il Presidente: Plenteda 06C0856