N. 348 SENTENZA 22 - 24 ottobre 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Trattati  e  convenzioni  internazionali - Convenzione europea per la
  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  (CEDU)  -  Intervenuta  pronuncia  della  Corte europea dei diritti
  dell'uomo  di  accertamento  della violazione, da parte dello Stato
  italiano,  delle  disposizioni della Convenzione in tema di criteri
  di determinazione dell'indennita' di espropriazione - Insussistenza
  del  dovere  del giudice nazionale di disapplicare le norme interne
  contrastanti  con  la  CEDU  -  Diversita'  delle  norme della CEDU
  rispetto  a quelle comunitarie ai fini della diretta applicabilita'
  nell'ordinamento    interno    -    Reiezione   dell'eccezione   di
  inammissibilita' basata su assunto contrario.
- D.L.  11 luglio 1992, n. 333, (convertito, con modificazioni, dalla
  legge 8 agosto 1992, n. 359), art. 5-bis.
- Costituzione, art. 11.
Trattati  e  convenzioni  internazionali - Convenzione europea per la
  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  (CEDU)  - Riconducibilita' all'ambito di operativita' dell'art. 10,
  primo comma, Cost. - Esclusione.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata  con legge 4 agosto 1955, n. 848; Costituzione, art. 10,
  primo comma.
Costituzione  e  leggi costituzionali - Potesta' legislativa - Limite
  del  rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
  dagli  obblighi  internazionali  (art. 117,  primo  comma, Cost.) -
  Obblighi   derivanti   dalla  Convenzione  europea  per  i  diritti
  dell'uomo  (CEDU)  -  Eventuale  contrasto  di norma interna con la
  norma internazionale - Disapplicazione della norma interna da parte
  del  giudice  comune  -  Esclusione  - Proposizione di questione di
  legittimita' costituzionale - Necessita'.
- Costituzione, art. 117, primo comma.
Costituzione  e  leggi costituzionali - Potesta' legislativa - Limite
  del  rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
  dagli  obblighi  internazionali  (art. 117,  primo  comma, Cost.) -
  Operativita'  del  limite  nel solo ambito dei rapporti tra Stato e
  Regioni - Esclusione.
- Costituzione, art. 117, primo comma.
Costituzione  e  leggi costituzionali - Potesta' legislativa - Limite
  del  rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
  dagli  obblighi  internazionali  (art. 117,  primo  comma, Cost.) -
  Obblighi  internazionali  derivanti  dalla  Convenzione europea dei
  diritti  dell'uomo (CEDU) - Obbligo di adeguamento dell'ordinamento
  interno  alle norme della Convenzione nella interpretazione ad essa
  data  dalla  Corte  europea per i diritti dell'uomo - Sussistenza -
  Limite  dell'accertamento  della  conformita'  a Costituzione delle
  norme   pattizie   integrative   del   parametro  costituzionale  -
  Fondamento.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata  con  legge 4 agosto 1955, n. 848, art. 32, paragrafo 1;
  Costituzione, art. 117, primo comma.
Espropriazione   per  pubblica  utilita'  -  Espropriazione  di  aree
  edificabili  -  Criteri di determinazione dell'indennizzo in misura
  ridotta  rispetto  al  valore  venale  degli immobili - Intervenuta
  pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo di accertamento
  della violazione dell'art. 1 del primo protocollo CEDU - Violazione
  degli   obblighi   internazionali   derivanti   dalla   CEDU,   non
  incompatibili  con  l'ordinamento  costituzionale  - Cessazione del
  carattere   di   transitorieta'   della  disposizione  censurata  -
  Determinazione  dell'indennita'  di espropriazione in assenza di un
  ragionevole  legame  con il valore venale del bene - Illegittimita'
  costituzionale.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge 8 agosto 1992, n. 359), art. 5-bis, commi 1 e 2.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata  con  legge  4 agosto  1955,  n. 848;  Primo  Protocollo
  addizionale  alla  Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
  1952; Costituzione, art. 117, primo comma.
Espropriazione   per  pubblica  utilita'  -  Espropriazione  di  aree
  edificabili   -   Illegittimita'  costituzionale  del  criterio  di
  determinazione  dell'indennizzo  di  cui  all'art. 5-bis  del  d.l.
  n. 333  del  1992  -  Conseguente  necessita' per il legislatore di
  commisurare  l'indennita'  di  espropriazione  al valore venale del
  bene - Esclusione.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge 8 agosto 1992, n. 359), art. 5-bis, commi 1 e 2.
- Costituzione, art. 117, primo comma.
Espropriazione   per  pubblica  utilita'  -  Espropriazione  di  aree
  edificabili  -  Criterio  di  determinazione dell'indennizzo di cui
  all'art. 5-bis  del  d.l. n. 333 del 1992 - Applicazione ai giudizi
  in  corso  al  momento  della  sua  entrata  in vigore - Denunciato
  contrasto  con  i principi del giusto processo - Superfluita' della
  relativa  valutazione  a seguito della intervenuta dichiarazione di
  illegittimita' costituzionale della norma censurata.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge 8 agosto 1992, n. 359), art. 5-bis, commi 1 e 2.
- Costituzione, art. 111; legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 30.
Espropriazione   per  pubblica  utilita'  -  Espropriazione  di  aree
  edificabili   -   Illegittimita'  costituzionale  del  criterio  di
  determinazione  dell'indennizzo di cui all'art. 5-bis, commi 1 e 2,
  del  d.l.  n. 333  del 1992 - Illegittimita' costituzionale, in via
  consequenziale,  delle identiche norme contenute nel testo unico di
  cui al d.P.R. n. 327 del 2001.
- D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 37, commi 1 e 2.
- Costituzione,  art. 117,  primo  comma; legge 11 marzo 1953, n. 87,
  art. 27.
(GU n.42 del 31-10-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei   giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 5-bis  del
decreto-legge   11 luglio   1992,   n. 333  (Misure  urgenti  per  il
risanamento  della  finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla  legge  8 agosto  1992,  n. 359,  promossi  con  ordinanze  del
29 maggio  e  del  19 ottobre  2006  (nn. 2  ordd.)  dalla  Corte  di
cassazione,  rispettivamente  iscritte  ai nn. 402 e 681 del registro
ordinanze  2006  ed  al n. 2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate
nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 42, 1ª serie speciale,
dell'anno 2006 e nn. 6 e 7, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di  R.A., di A.C., di M.T.G.,
nonche'  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 3 luglio 2007 il giudice relatore
Gaetano Silvestri;
    Uditi  gli  avvocati  Felice  Cacace  e Francesco Manzo per R.A.,
Nicolo'  Paoletti  per  A.C.,  Nicolo' Paoletti e Alessandra Mari per
M.T.G.  e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente
del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del
2006),  la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 5-bis  del  decreto-legge  11 luglio  1992,
n. 333  (Misure  urgenti  per il risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per
violazione  dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione,
in  relazione  all'art. 6  della  Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) firmata a Roma
il  4 novembre  1950,  cui  e'  stata  data  esecuzione  con la legge
4 agosto  1955,  n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per
la  salvaguardia  dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
firmata  a  Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla
Convenzione  stessa,  firmato  a  Parigi  il  20 marzo 1952), nonche'
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU
ed  all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato
a  Parigi  il  20 marzo  1952,  cui  e'  stata data esecuzione con la
medesima legge n. 848 del 1955.
    La  norma e' oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della
determinazione    dell'indennita'   di   espropriazione   dei   suoli
edificabili,  prevede  il criterio di calcolo fondato sulla media tra
il  valore  dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone
altresi' l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in
vigore della legge n. 359 del 1992.
    1.1.  - La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale
la  parte  privata  R.A.,  gia' proprietaria di suoli espropriati per
l'attuazione  di  un  programma  di edilizia economica e popolare nel
Comune  di  Torre  Annunziata,  e  firmataria  di un atto di cessione
volontaria  in  data  2 aprile  1982,  ha proposto ricorso avverso la
sentenza  della  Corte  di  appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per
censurare  la  liquidazione dell'indennita' ivi effettuata, in quanto
non  adeguata  al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata
rivalutazione della somma liquidata.
    Nel  giudizio  di  legittimita'  si  sono costituiti il Comune di
Torre  Annunziata,  il  quale  ha  proposto  ricorso  incidentale,  e
l'Istituto autonomo case popolari della Provincia di Napoli.
    Con   memoria   illustrativa   la  ricorrente  R.A.  ha  eccepito
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 5-bis  del  decreto-legge
n. 333  del  1992,  norma  applicata  ai  fini  della quantificazione
dell'indennita',  per  contrasto  con gli artt. 42, terzo comma, 24 e
102  Cost.,  in  quanto  il criterio ivi previsto non garantirebbe un
serio   ristoro  ai  proprietari  dei  suoli  espropriati  e  la  sua
applicazione   ai   giudizi  in  corso  costituirebbe  una  «indebita
ingerenza  del  potere legislativo sull'esito del processo». A questo
proposito  si  ricorda  come  la  Corte europea dei diritti dell'uomo
abbia  costantemente  rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis
con l'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea.
    La  censura  della  parte  ricorrente  e'  estesa all'art. 37 del
d.P.R.   8   giugno 2001,  n. 327  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilita),  in  quanto si tratta della disposizione, oggi vigente, che
ha perpetuato il criterio di calcolo censurato.
    1.2.  - Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente
ad  oggetto  la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai
procedimenti  espropriativi  iniziati  a  partire dal 1° luglio 2003,
secondo  la  previsione  contenuta  nell'art. 57  del medesimo d.P.R.
n. 327  del 2001. Nel caso di specie, invece, il giudizio e' iniziato
nel 1988.
    Al  contempo,  la  Corte  di  cassazione  ritiene rilevante e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
della  norma di cui all'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.
    1.3  -  In  merito  alla  rilevanza della questione sollevata, il
rimettente sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente»
di  suoli  edificabili, ai quali e' applicabile il citato art. 5-bis,
commi 1  e  2.  In  particolare,  si  evidenzia  come  l'oggetto  del
contendere  sia  costituito  dal  «prezzo della cessione volontaria»,
rectius,  «dal  conguaglio  dovuto  rispetto  a  quanto  a  suo tempo
convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il giudice a
quo  ricorda,  in  proposito, che il prezzo della cessione volontaria
deve    essere    commisurato    alla   misura   dell'indennita'   di
espropriazione;  da  cio'  consegue  che  nel  giudizio principale e'
ancora    in    contestazione   la   determinazione   dell'indennizzo
espropriativo  e  che  l'eventuale ius superveniens, costituito da un
nuovo  criterio  di  determinazione dell'indennita' di espropriazione
dei suoli edificabili, troverebbe senz'altro applicazione.
    1.4.  -  Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  la Corte di
cassazione  ritiene  di  dover  riformulare i termini della questione
prospettata  dalla parte privata ricorrente, individuando i parametri
costituzionali   di  riferimento  negli  artt. 111  e  117  Cost.  Il
ragionamento   e'  condotto  alla  luce  dell'esame  parallelo  della
giurisprudenza  della Corte europea dei diritti dell'uomo e di quella
costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.
    In  relazione  alla  prima,  sono  richiamate  in  particolare le
sentenze  del  29 luglio  2004  e  del 29 marzo 2006, entrambe emesse
nella causa Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano e'
stato condannato per violazione delle norme della Convenzione europea
dei  diritti dell'uomo. Nella pronunzia del 2004, la Corte europea ha
censurato    l'applicazione,    operata    dai   giudici   nazionali,
dell'art. 5-bis  ai  giudizi  in  corso,  stigmatizzando  la  portata
retroattiva  della norma in parola, come tale lesiva della certezza e
della   trasparenza   nella  sistemazione  normativa  degli  istituti
ablatori,  oltre che del diritto della persona al rispetto dei propri
beni. Infatti, l'applicazione di tale criterio ai giudizi in corso ha
violato l'affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito
in  giudizio  per  essere indennizzati secondo il criterio del valore
venale  dei  beni,  previsto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865,
n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilita), ripristinato a seguito
della   dichiarazione   di   incostituzionalita'   delle   norme  che
commisuravano in generale l'indennizzo al valore agricolo dei terreni
(sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983).
    Con  la  sentenza  del  2006,  invece,  la Corte di Strasburgo ha
rilevato  la  strutturale  e  sistematica  violazione,  da  parte del
legislatore   italiano,   dell'art. 1   del  primo  Protocollo  della
Convenzione    europea,    osservando    che    la    quantificazione
dell'indennita'  in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha
determinato,  appunto,  una  situazione strutturale di violazione dei
diritti   dell'uomo.   Nell'occasione   la  Corte  di  Strasburgo  ha
sottolineato  come, ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, lo Stato
italiano   abbia   il  dovere  di  porre  fine  a  siffatti  problemi
strutturali  attraverso  l'adozione  di  appropriate  misure  legali,
amministrative e finanziarie.
    Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma
oggetto  di  censura  sia  stata  piu'  volte  scrutinata dalla Corte
costituzionale,  che l'ha ritenuta conforme all'art. 42, terzo comma,
Cost.,  perche'  introduttiva  di un criterio mediato che assicura un
ristoro  «non  irrisorio» ai soggetti espropriati, nel rispetto della
funzione  sociale  della proprieta' (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442
del  1993).  Anche  sotto  il profilo dell'applicazione ai giudizi in
corso,  la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in
particolare  nella  sentenza  n. 283 del 1993, che l'irretroattivita'
delle  leggi, pur costituendo un principio generale dell'ordinamento,
non  e'  elevato  -  fuori  dalla  materia penale - al rango di norma
costituzionale.  Nel  caso di specie, attesa la situazione di carenza
normativa che caratterizzava al tempo la materia (dopo gli interventi
caducatori della stessa Corte, con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223
del  1983)  e  la  conseguente  applicazione  in  via  suppletiva del
criterio   del   valore  venale,  la  retroattivita'  dell'intervento
legislativo  non  poteva  dirsi  confliggente  con  il  canone  della
ragionevolezza.
    In  esito  alla  disamina  risulterebbe  evidente,  a  parere del
giudice   a  quo,  che  la  questione  debba  essere  posta  oggi  in
riferimento  ai  diversi  parametri individuati negli artt. 111 e 117
Cost., secondo una prospettiva inedita che e' quella del sopravvenuto
contrasto  della norma censurata con i principi del giusto processo e
del  rispetto  degli  obblighi  internazionali  assunti  dallo Stato,
attraverso   il   richiamo   delle   norme   convenzionali  contenute
nell'art. 6  CEDU  e nell'art. 1 del primo Protocollo, in funzione di
parametri interposti.
    1.5.   -   La  Corte  di  cassazione  svolge  poi  una  serie  di
considerazioni   per   giustificare   il   ricorso  all'incidente  di
costituzionalita',   sottolineando  come  spetti  al  legislatore  la
predisposizione   dei  mezzi  necessari  per  evitare  la  violazione
strutturale  e  sistematica  dei  diritti dell'uomo, denunciata dalla
Corte  europea  nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata
poco sopra.
    In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice
nazionale  possa  disapplicare  l'art. 5-bis,  sostituendolo  con  un
criterio  frutto  del  proprio  apprezzamento  o  facendo rivivere la
disciplina previgente.
    L'impossibilita'  di  disapplicare  la norma interna in contrasto
con  quella  della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche
da   altre  considerazioni.  In  primo  luogo,  va  escluso  che,  in
riferimento  alle  norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo idoneo a
stabilire  la  sottordinazione  della  fonte  del  diritto  nazionale
rispetto  a  quella  internazionale, assimilabile alle limitazioni di
sovranita'  consentite  dall'art. 11  Cost.,  derivanti  dalle  fonti
normative    dell'ordinamento   comunitario.   Non   sembra   infatti
sostenibile la tesi dell'avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai
sensi   del  par.  2  dell'art. 6  del  Trattato  di  Maastricht  del
7 febbraio  1992,  in  quanto  il  rispetto dei diritti fondamentali,
riconosciuti  dalla  Convenzione,  costituisce  una  direttiva per le
istituzioni  comunitarie  e  «non  una norma comunitaria rivolta agli
Stati  membri».  A  conferma  di  tale  ricostruzione,  il rimettente
richiama  il  parere  negativo  espresso  dalla  Corte  di  giustizia
allorche' fu prospettata l'adesione della Comunita' europea alla CEDU
(parere  28 marzo  1996,  n. 2/94). Il parere era fondato sul rilievo
che l'adesione avrebbe comportato l'inserimento della Comunita' in un
sistema  istituzionale distinto, nonche' l'integrazione del complesso
delle  disposizioni  della  CEDU  nell'ordinamento comunitario. Nella
stessa  direzione,  la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria
incompetenza  a fornire elementi interpretativi per la valutazione da
parte del giudice nazionale della conformita' della normativa interna
ai  diritti  fondamentali,  quali  risultano  dalla  CEDU, e cio' «in
quanto  tale  normativa  riguarda  una situazione che non rientra nel
campo  di  applicazione  del  diritto  comunitario» (Corte giustizia,
29 maggio 1998, causa C-299/95).
    Il  giudice a quo richiama altresi' il principio della soggezione
dei  giudici alla legge, sancito dall'art. 101 Cost., che impedirebbe
di  ritenere  ammissibile  un  potere  (a  fortiori,  un  obbligo) di
disapplicazione    della   normativa   interna,   atteso   che   cio'
significherebbe  attribuire  al  potere  giudiziario  una funzione di
revisione   legislativa   del   tutto   estranea  al  nostro  sistema
costituzionale,  nel  quale  l'abrogazione della legge statale rimane
«legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ.
e   136   Cost.»,   mentre   il  mancato  rispetto  della  regola  di
conformazione   si   traduce   nel  vizio  di  violazione  di  legge,
denunziabile  dinanzi  alla Corte di cassazione (e' richiamata Cass.,
26 gennaio   2004,  n. 1340),  anche  se  non  mancano  opinioni  che
attenuano  ulteriormente  l'efficacia vincolante delle pronunce della
Corte  europea dei diritti dell'uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600,
e 15 settembre 2005, n. 18249).
    A  tutto  concedere,  secondo  la  Corte  rimettente,  un vincolo
all'interpretazione  del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la
norma   interna   costituisca,   come   nella   disciplina  dell'equa
riparazione per irragionevole durata del processo, la riproduzione di
norme  convenzionali,  per  le  quali  i  precedenti  della  Corte di
Strasburgo  costituiscono  riferimento  obbligato,  ovvero  quando la
norma  convenzionale  sia  immediatamente  precettiva,  e comunque di
chiara  interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra
il giudice nazionale e quello europeo (e' richiamata Cass., 19 luglio
2002,   n. 10542).   Diversamente,   in   caso   di   disapplicazione
dell'art. 5-bis,  si  porrebbe  il  problema  della  sostituzione del
criterio ivi indicato con quello previsto dalla normativa previgente,
ovvero con un criterio rimesso all'apprezzamento del giudice.
    Al   riguardo,  il  giudice  a  quo  esprime  perplessita'  circa
l'incidenza,  in  ipotesi  di  disapplicazione dell'art. 5-bis, della
norma  suppletiva  costituita  dall'art. 39  della  legge n. 2359 del
1865,  che  fa  riferimento  al  valore  venale  dei  beni  e  che e'
richiamata  dalla  sentenza  29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo
come criterio sul quale poggiava l'affidamento delle parti ricorrenti
al momento dell'instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non
costituisce  «regola  tendenziale  dell'ordinamento»,  in  quanto non
essenziale per la funzione sociale riconosciuta alla proprieta' dalla
Carta    fondamentale,    secondo   l'affermazione   costante   della
giurisprudenza  costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del
1957,  n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del
1993),  mentre l'art. 5-bis, come gia' evidenziato, e' stato ritenuto
conforme  a  Costituzione  anche  sotto  il  profilo  della efficacia
retroattiva.  In  definitiva,  in caso di disapplicazione della norma
censurata,  il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di
determinazione  dell'indennizzo  che, pur non essendo coincidente con
il  valore  di  mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione
del diritto dominicale alla pubblica utilita', sia comunque idoneo ad
assicurare   un   quid   pluris   rispetto   al   criterio  contenuto
nell'art. 5-bis, cosi' compiendo un'operazione «palesemente ammantata
da  margini  di  discrezionalita' che competono solo al legislatore»,
anche  per  la  necessita'  di  reperire i mezzi finanziari per farvi
fronte.
    Il  rimettente  evidenzia  come la stessa giurisprudenza CEDU non
sia  univoca  con  riferimento alla identificazione del valore venale
dei  beni  quale  unico  criterio  indennitario ammissibile alla luce
dell'art. 1  del  primo  Protocollo.  Infatti,  mentre  nella  citata
pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha affermato che solo un
indennizzo  pari  al  valore  del  bene  puo'  essere ragionevolmente
rapportato  al sacrificio imposto, fatti salvi i casi riconducibili a
situazioni  eccezionali  di  mutamento del sistema costituzionale (e'
richiamata  la  sentenza  28 novembre  2002,  ex re di Grecia e altro
contro  Grecia),  la stessa Corte «di solito ha ammesso che il giusto
equilibrio  tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di
salvaguardia dei diritti dell'individuo non comporta che l'indennizzo
debba  corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono
richiamate  le  pronunce  rese  in  causa  James e altri contro Regno
Unito,  del 21 febbraio 1986; Les saint monasteres contro Grecia, del
9 dicembre  1994;  la  gia'  citata  sentenza  Scordino del 29 luglio
2004).
    Quanto  rilevato con riferimento all'art. 11 Cost., per negare la
«comunitarizzazione»  della  CEDU  e, quindi, la praticabilita' della
disapplicazione  della  norma interna, varrebbe altresi' ad escludere
l'utilizzo del predetto parametro ai fini dello scrutinio.
    Secondo il rimettente, il recupero del dictum della Corte europea
non  potrebbe  avvenire neppure attraverso il richiamo all'obbligo di
conformazione  del  diritto interno alle norme internazionali che, ai
sensi  dell'art. 10 Cost., impegna l'intero ordinamento; infatti, per
un  verso  il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio
e,  per  altro verso, la commisurazione dell'indennizzo espropriativo
al  valore di mercato del bene non costituisce principio generalmente
riconosciuto dagli Stati.
    L'intervento giudiziale, infine, secondo la Corte rimettente, non
potrebbe   trovare   giustificazione   nella  finalita'  di  supplire
all'inerzia  del  legislatore,  giacche'  quest'ultimo  ha di recente
reiterato   il   regime  indennitario  introdotto  con  l'art. 5-bis,
avendolo  trasfuso nell'attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. A
questo  proposito,  il giudice a quo rammenta come, gia' nel 1993, la
Corte  costituzionale  (con  la  sentenza  n. 283) avesse invitato il
legislatore  ad  elaborare  una  legge  atta  ad  assicurare un serio
ristoro,  ritenendo  l'art. 5-bis  compatibile con la Costituzione in
ragione  del  suo  carattere  urgente e provvisorio, desumibile anche
dall'incipit  della  disposizione che recita: «fino all'emanazione di
un'organica disciplina per tutte le espropriazioni».
    Dunque,  l'«inadeguatezza in abstracto» del criterio indennitario
contenuto  nell'art. 5-bis  a  compensare la perdita della proprieta'
dei   suoli   edificabili   per   motivi   di   interesse   pubblico,
definitivamente  sancita dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti  dell'uomo,  unitamente  alla  acquisita  definitivita' della
disciplina,  riproposta  dal  legislatore  nel  2001, all'art. 37 del
d.P.R.   n. 327,   renderebbe   necessario   un  nuovo  scrutinio  di
costituzionalita'.
    Le argomentazioni che dimostrano l'impercorribilita' della strada
della  disapplicazione  da parte del giudice nazionale varrebbero, al
tempo  stesso, ad escludere che il contrasto possa essere composto in
via interpretativa.
    1.6. - Su questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i
motivi  di  contrasto  della  norma  impugnata  rispetto ai parametri
costituzionali evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce
della  Corte  costituzionale  sul menzionato art. 5-bis, precisa che,
per  un  verso,  quest'ultimo  non  e'  stato  scrutinato rispetto al
parametro di cui all'art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge
costituzionale  23 novembre  1999, n. 2 (Inserimento dei principi del
giusto  processo  nell'art. 111 della Costituzione), e che, per altro
verso,  i contenuti della disposizione costituzionale in esame, avuto
riguardo   agli   aspetti  programmatici  (primo  e  secondo  comma),
sarebbero  in  gran  parte ancora da esplorare, cosi' come sarebbe da
chiarire  il  rapporto «di discendenza della nuova formulazione della
norma   costituzionale   dalla   Convenzione   europea   dei  diritti
dell'uomo».
    Seppure,     come    e'    noto,    l'originario    intento    di
«costituzionalizzare»   l'art. 6   della   Convenzione  abbia  subito
modifiche  nel  corso  dei lavori parlamentari, non di meno, a parere
della  Corte  rimettente,  andrebbe  avallata  la tesi secondo cui la
ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta
proprio alla luce della giurisprudenza della Corte europea. Pertanto,
nel  ricercare  il  significato  precettivo  del riformulato art. 111
Cost.  si  potrebbe  utilmente  fare ricorso all'interpretazione resa
dalla   Corte   di  Strasburgo  dell'analoga  disposizione  contenuta
nell'art. 6  della  Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese
nella   causa  Scordino  contro  Italia,  in  materia  di  indennizzo
espropriativo,  hanno  affermato che il principio della parita' delle
parti  dinanzi  al  giudice  implica  l'impossibilita'  per il potere
legislativo  di  intromettersi  nell'amministrazione della giustizia,
allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa o di una
circoscritta e determinata categoria di controversie.
    Il  giudice  a  quo  evidenzia come la vicenda giudiziaria che ha
dato  luogo  alle citate sentenze della Corte europea e quella che ha
originato   la  presente  questione  di  legittimita'  costituzionale
risultino  del  tutto  assimilabili:  in  entrambi i casi, infatti, i
soggetti  espropriati  hanno  agito  in giudizio sul presupposto che,
espunti  dall'ordinamento  (per  effetto  delle  pronunce della Corte
costituzionale  n. 5  del  1980  e  n. 223  del  1983) i penalizzanti
criteri  di  quantificazione  dell'indennizzo  previsti  dalla  legge
29 luglio   1980,  n. 385  (Norme  provvisorie  sulla  indennita'  di
espropriazione  di  aree edificabili nonche' modificazioni di termini
previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457, e
15 febbraio  1980,  n. 25),  si fosse determinata la reviviscenza del
criterio  del valore venale, con la conseguente nullita' dell'atto di
cessione   volontaria   per   indeterminatezza   dell'oggetto  e  con
l'insorgenza  del  diritto  all'indennita'  commisurata  al  predetto
valore.
    Il  giudice di merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della
cessione»  da commisurare all'indennita' di esproprio, ha dovuto fare
applicazione del sopravvenuto art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del
1992,  convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed
ha  di  conseguenza  condannato  il  Comune espropriante al pagamento
della  differenza,  a  titolo di conguaglio della somma in precedenza
corrisposta.
    Il  risultato  e'  stato  che  le  proprietarie  espropriate,  «a
giudizio  iniziato»,  si sono viste ridurre del 50 per cento la somma
per il conseguimento della quale si erano determinate ad agire.
    Per  le  ragioni  suesposte la Corte di cassazione ritiene che la
norma  censurata  sia  in  contrasto  con l'art. 111, primo e secondo
comma,  Cost.,  anche alla luce dell'art. 6 CEDU, nella parte in cui,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso  delle regole di
determinazione  dell'indennita'  di espropriazione in esso contenute,
viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di
parita' delle parti davanti al giudice.
    1.7.  - La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si
ponga  in  contrasto  anche  con l'art. 117, primo comma, Cost., alla
luce  delle  norme della Convenzione europea, come interpretate dalla
Corte di Strasburgo.
    Infatti   la   nuova  formulazione  della  norma  costituzionale,
introdotta  dalla  legge  di riforma del titolo V della parte seconda
della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell'ordinamento». In
tal   senso,   a  detta  della  rimettente,  la  sedes  materiae  non
risulterebbe   decisiva  per  «ridimensionare»  l'effetto  innovativo
dell'art. 117,  primo  comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto
di  competenze  legislative  tra Stato e Regioni. Al contrario, nella
norma  in  esame  «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di
tutta  la  funzione  legislativa,  anche  di  quella  contemplata dal
secondo  comma,  riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui
e'   riconducibile   la   normativa   in   tema   di   indennita'  di
espropriazione».
    Dunque,  secondo  il  giudice  a  quo, le norme della Convenzione
europea,   e   specialmente   l'art. 6  CEDU  e  l'art. 1  del  primo
Protocollo,  diverrebbero,  «attraverso  l'autorevole interpretazione
che ne ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente
giudizio   di  costituzionalita'.  In  particolare,  la  sopravvenuta
incompatibilita'  dell'art. 5-bis  con  le  norme  CEDU  e quindi con
l'art. 117,  primo  comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati
dalla  Corte  europea, ovvero la «contrarieta' ai principi del giusto
processo»  e  l'«incongruita' della misura indennitaria, nel rispetto
che e' dovuto al diritto di proprieta».
    2.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  di legittimita' costituzionale
siano dichiarate infondate.
    2.1.  -  La  difesa  erariale  individua  il thema decidendum nei
seguenti  punti:  a)  «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza
europea  e  la legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia
il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa al
primo  quesito,  la  soluzione  valga  anche  con riguardo alle norme
costituzionali».
    Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere dell'Avvocatura
generale,  occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte
europea  possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di
considerare ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di
diritto  di  esclusiva  che  farebbe  premio  sia sui procedimenti di
formazione dei patti internazionali sia sulla diretta interpretazione
del  giudice  nazionale, il quale pur si trova ad applicare le stesse
norme  [CEDU]  in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955
n. 848».
    La   difesa   erariale  contesta  che  tale  potere,  per  quanto
rivendicato dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali.
L'art. 32  del Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo
in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione
del  protocollo  n. 11  alla  convenzione di salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, recante ristrutturazione del
meccanismo   di   controllo  stabilito  dalla  convenzione,  fatto  a
Strasburgo   l'11 maggio   1994),  circoscrive  la  competenza  della
predetta  Corte «a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e
l'applicazione  della  Convenzione  e dei suoi protocolli». Ad avviso
dell'Avvocatura  generale,  si  tratterebbe  di  una  norma  posta  a
garanzia  dell'indipendenza  dei giudici di Strasburgo, che «non puo'
trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il
processo  e,  addirittura,  limitativa  dei  poteri istituzionali dei
Parlamenti  nazionali  o  della  nostra Corte di cassazione o perfino
della Corte costituzionale».
    La   pretesa   della   Corte  di  Strasburgo  di  produrre  norme
convenzionali  vincolanti  non  sarebbe compatibile con l'ordinamento
internazionale generale e ancor piu' con il sistema della Convenzione
di  Vienna,  cui  e'  stata  data esecuzione con la legge 12 febbraio
1974,  n. 112  (Ratifica  ed esecuzione della convenzione sul diritto
dei  trattati,  con  annesso,  adottata  a Vienna il 23 maggio 1969),
secondo  cui  l'interpretazione  di  qualunque  trattato  deve essere
testuale ed oggettiva.
    Pertanto,  la  difesa  dello  Stato  evidenzia  come le questioni
odierne  abbiano ragione d'essere soltanto se si riconosce alle norme
di  origine  giurisprudenziale  della  Corte  europea  il  valore  di
parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare
che,  ai  sensi  degli  artt. 25 e 42 Cost., il legislatore nazionale
possa  introdurre  norme di carattere retroattivo, operanti anche nei
processi  in corso, e conformare sistemi indennitari che contemperino
il  diritto  dei  singoli  con le esigenze della collettivita', cosi'
evitando  che  gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo
di mercato degli immobili.
    2.2.   -  La  difesa  dello  Stato  contesta  l'impostazione  del
ragionamento   della   Corte  rimettente  anche  con  riferimento  ai
parametri evocati.
    Secondo   l'Avvocatura  generale,  l'art. 111  Cost.,  una  volta
depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli "insegnamenti" CEDU
sulla  legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza
della  Corte  di cassazione e della stessa Corte costituzionale», non
stabilisce  affatto quello che il giudice a quo crede di leggervi. Il
«giusto  processo»  non  riguarda  le prerogative del legislatore, in
particolare   non  gli  impedisce  di  intervenire  sulla  disciplina
sostanziale  con  norme  di  carattere retroattivo, che il giudice e'
tenuto  ad  applicare in ossequio al disposto dell'art. 101 Cost. Del
resto,  osserva  la  difesa  erariale,  neppure l'art. 6 CEDU, che ha
ispirato  la  novella  dell'art. 111  Cost.,  contiene riferimenti al
divieto  di  leggi  retroattive  in materia extrapenale; tale divieto
esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la
quale, peraltro, secondo gli argomenti gia' esposti, sarebbe priva di
potere creativo di norme convenzionali.
    Discorso  parzialmente  analogo  varrebbe  per  l'art. 117, primo
comma,  Cost.,  il  quale  impone  il  rispetto dei vincoli derivanti
dall'ordinamento  comunitario  e  dagli  obblighi internazionali, la'
dove,  per  l'appunto,  le  predette  norme  configurino  limitazioni
all'esercizio della potesta' legislativa.
    La  difesa  erariale richiama in proposito l'art. 1 della legge 5
giugno 2003,  n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il
quale  stabilisce che costituiscono vincoli alla potesta' legislativa
dello  Stato  e  delle  Regioni «quelli derivanti [...] da accordi di
reciproca  limitazione  della  sovranita',  di  cui all'art. 11 della
Costituzione,    dall'ordinamento    comunitario   e   dai   trattati
internazionali».  Nulla di tutto cio', secondo l'Avvocatura generale,
e'  presente nella CEDU, sia con riferimento alla previsione di leggi
retroattive  di immediata applicazione ai processi in corso, e per le
quali  opera  quindi  la  sola  disciplina  delle fonti di produzione
nazionali,  sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato.
A  tale  proposito,  l'interveniente  rileva  che  l'art. 1 del primo
Protocollo,   diversamente   da   quanto   ritenuto  dalla  Corte  di
Strasburgo, si limita ad affermare il principio per cui il sacrificio
della  proprieta'  privata  e' ammissibile solo per cause di pubblica
utilita'  e  alle  condizioni  previste  dalla  legge  e dai principi
generali   del   diritto   internazionale.   La  norma  convenzionale
richiamata  non  imporrebbe  in  alcun modo, quindi, che l'indennizzo
dovuto  al  proprietario  espropriato  debba  corrispondere al valore
venale del bene.
    2.3.  -  In  conclusione,  la  difesa  erariale evidenzia come il
valore  venale  del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia
direttamente   collegato   agli   strumenti   urbanistici  e  percio'
determinato  in  funzione  della  utilizzabilita'  dell'area,  con la
conseguenza  che  un  sistema  indennitario  che imponga una drastica
riduzione  del  valore  del  bene non e' cosi' distante dalla realta'
degli scambi economici.
    3.  -  Si  e'  costituita  in  giudizio  R.A.,  ricorrente in via
principale  nel  giudizio  a  quo, richiamando genericamente tutte le
censure,   eccezioni   e  deduzioni  svolte  nei  diversi  gradi  del
procedimento,   ed   in  particolare  l'eccezione  di  illegittimita'
costituzionale  formulata  nel giudizio di cassazione, con riserva di
depositare successive memorie.
    4. - In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato
una  memoria illustrativa con la quale insiste affinche' la questione
sia dichiarata fondata.
    4.1.  -  In  particolare,  dopo  aver  riassunto l'intera vicenda
giudiziaria  dalla  quale  e'  originato il giudizio a quo, la difesa
della  parte  rileva  che  la  misura  dell'indennizzo  espropriativo
prevista  nella  norma  censurata, non presentando le caratteristiche
del  «serio  ristoro»,  sarebbe tutt'ora censurabile sotto il profilo
del  contrasto  con l'art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l'esito
dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti,
nelle pronunzie richiamate, la Corte costituzionale aveva fatto salva
la  norma censurata solo perche' caratterizzata da «provvisorieta' ed
eccezionalita».
    4.2.  - Con riferimento al profilo afferente l'applicazione della
norma censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati
gli  artt. 24 e 102 Cost. L'avvenuta modifica della norma sostanziale
in  corso  di  causa  e  la  conseguente variazione della «dimensione
qualitativa  e  quantitativa»  del  diritto  azionato costituirebbero
un'indebita ingerenza del potere legislativo sull'esito del processo,
in  violazione  della  riserva  contenuta  nell'art. 102 Cost. Non si
tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattivita', ma di vera e
propria  interferenza  nell'esercizio  della  funzione giudiziaria da
parte  del  legislatore,  «allo  scopo dichiarato di limitare l'onere
(legittimo) a carico della pubblica amministrazione».
    Inoltre, la censura prospettata in riferimento all'art. 42, terzo
comma,  Cost. andrebbe estesa all'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001,
nel  quale  e'  contenuto  un  criterio  di  calcolo  dell'indennizzo
espropriativo  che  conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento
rispetto al valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta
i  caratteri  di  provvisorieta'  e  urgenza  che  avevano  connotato
l'art. 5-bis,   trattandosi,   con   ogni   evidenza,  di  disciplina
definitiva.
    Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo
per  escludere  la  violazione  degli  ulteriori  parametri  indicati
nell'eccezione  di  parte  non  assumono  valore preclusivo, la parte
auspica  che  la  Corte  costituzionale  estenda il proprio scrutinio
anche a tali parametri.
    5. - Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del
2006),  la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 5-bis  del  decreto-legge  n. 333 del 1992,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  n. 359  del 1992, per
violazione  dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione
all'art. 6   della   Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  ed  all'art. 1 del primo
Protocollo  della  Convenzione  stessa,  nonche' dell'art. 117, primo
comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.
    La  norma e' oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della
determinazione    dell'indennita'   di   espropriazione   dei   suoli
edificabili,  prevede  il criterio di calcolo fondato sulla media tra
il  valore  dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone
altresi' l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in
vigore della legge n. 359 del 1992.
    5.1.  - La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale
il  Comune  di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della
Corte  di  appello  di  Brescia,  la  quale - dopo aver accertato che
l'area  di  proprieta'  di  A.C.,  occupata sin dal 21 maggio 1991 ed
espropriata  in  data  8 maggio  1996,  doveva  considerarsi  terreno
edificabile   da   privati   -   aveva   liquidato   l'indennita'  di
espropriazione  ai sensi dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.
    Il  Comune  ricorrente lamenta l'erronea qualificazione dell'area
espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione
della riduzione del 40 per cento, nonche' l'insufficiente motivazione
a  sostegno  del  computo  del  valore dei manufatti preesistenti. La
parte  privata  si e' costituita ed ha proposto, a sua volta, ricorso
incidentale  nel  quale censura la quantificazione dell'indennita' di
esproprio,  nonche'  il  mancato  riconoscimento  della rivalutazione
monetaria degli importi liquidati; chiede altresi' la disapplicazione
dell'art. 5-bis,  in  quanto  contrastante  con  l'art. 1  del  primo
Protocollo  (che  sarebbe  stato  «comunitarizzato»  dall'art. 6  del
Trattato  di  Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un mutamento
dell'orientamento giurisprudenziale in virtu' del quale «l'indennita'
viene   corrisposta   come   debito  pecuniario  di  valuta,  con  la
conseguenza  che nulla compete per la rivalutazione all'espropriato».
Con  successiva  memoria,  la  ricorrente  incidentale  ha formulato,
subordinatamente   al   mancato   accoglimento   della  richiesta  di
disapplicazione,    eccezione    di   illegittimita'   costituzionale
dell'art. 5-bis,  per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e
117 Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo ed all'art. 6
CEDU.
    5.2.  -  Preliminarmente,  la  Corte  di  cassazione  richiama le
argomentazioni   sviluppate   riguardo   all'analoga   questione   di
legittimita'   costituzionale   avente   ad   oggetto  il  menzionato
art. 5-bis,   sollevata   dalla  medesima  Corte  con  ordinanza  del
29 maggio  2006  (r.o.  n. 402  del  2006),  riservandosi soltanto di
integrarne il contenuto «in rapporto al contrasto della norma interna
con le citate norme della Convenzione europea».
    Il  giudice a quo procede, quindi, all'esame della giurisprudenza
della  Corte  di  Strasburgo,  citata  anche dalla parte ricorrente a
sostegno  sia della richiesta di disapplicazione della norme interna,
sia  dell'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale.  L'esame  e'
condotto  a  partire  dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio
2004,  in  causa Scordino contro Italia, alla quale e' seguita, nella
medesima  controversia,  la  pronuncia  definitiva  resa dalla Grande
chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo italiano.
    Tanto  premesso, la rimettente evidenzia l'analogia intercorrente
tra  la  fattispecie  oggetto del giudizio principale e quella che ha
dato  luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel
presente  giudizio,  infatti,  il  profilo  della  utilita'  pubblica
risulterebbe  di  modesta  rilevanza,  essendo  le  aree  espropriate
destinate  alla  costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di
«verde attrezzato».
    5.3.  - La Corte di cassazione procede, di seguito, a valutare il
profilo riguardante la disapplicazione dell'art. 5-bis, espressamente
richiesta  dalla  ricorrente  incidentale,  essendo  tale delibazione
presupposto   di   ammissibilita'   della   presente   questione   di
legittimita' costituzionale.
    Il  giudice a quo da' atto che la stessa Corte di cassazione, con
la  gia'  citata ordinanza n. 12810 del 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e
con  l'ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887 (r.o. n. 401 del 2006),
che  ha  rimesso analoga questione per la parte riguardante l'entita'
del   risarcimento   danni   da   occupazione   acquisitiva  illecita
(art. 5-bis,   comma 7-bis),  ha  negato  che,  in  mancanza  di  una
disciplina  specifica e precettiva in sede sopranazionale dei criteri
di  liquidazione,  il  giudice  nazionale possa disapplicare la legge
interna.
    Tale  conclusione  e' condivisa dall'attuale rimettente, la quale
rammenta  che  la  sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in
causa   Scordino  contro  Italia,  ha  rimesso  allo  Stato  italiano
l'adozione  delle  misure «legislative, amministrative e finanziarie»
necessarie   all'adeguamento   del   sistema   interno   alle   norme
sopranazionali  (par.  237),  cosi'  implicitamente  chiarendo che la
propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».
    Quanto  al  carattere  precettivo  delle  norme  contenute  nella
Convenzione,  il  giudice  a  quo  ritiene  debbano essere distinti i
diritti  da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come
«fondamentali»  anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle
modalita'  di  tutela  di  tali  diritti,  rimessi  ai  singoli Stati
aderenti.  In  caso  di  violazione,  anche  da parte di soggetti che
agiscono   nell'esercizio  di  funzioni  pubbliche,  l'art. 13  della
Convenzione  prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno
Stato,  salvo  l'intervento sussidiario della Corte di Strasburgo sui
ricorsi individuali ai sensi dell'art. 34 della stessa Convenzione, e
la conseguente condanna dello Stato inadempiente all'equa riparazione
di  cui  all'art. 41.  Nello  stesso  senso  deporrebbe la previsione
contenuta  nell'art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte
Parti  contraenti  s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive
della  Corte nelle controversie nelle quali sono parti», escludendosi
cosi' ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne.
    La  Corte  rimettente  evidenzia, inoltre, che la legge 9 gennaio
2006,  n. 12  (Disposizioni  in  materia di esecuzione delle pronunce
della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo),  ha  individuato nel
Governo  e nel Parlamento gli organi ai quali devono essere trasmesse
le  sentenze  della Corte europea, in quanto unici legittimati a dare
esecuzione  agli obblighi che da esse discendono. Sottolinea, infine,
che   il   disposto   dell'art. 56   della   Convenzione  ammette  la
possibilita'   che  l'applicazione  della  stessa  possa  non  essere
uniforme  in  tutto  il  territorio degli Stati aderenti, a fronte di
«necessita'  locali»,  con  la  conseguenza  che  nel  sistema  della
Convenzione,  pur  essendo  precettivo  il riconoscimento dei diritti
garantiti  nell'accordo per tutti gli Stati aderenti, le modalita' di
tutela  e  di applicazione di quei principi nei territori dei singoli
Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno.
    Risulterebbe   chiara,   pertanto,  l'esclusione  del  potere  di
disapplicazione  in  capo ai  singoli  giudici;  tanto piu' che nelle
fattispecie   riguardanti   l'indennizzo  espropriativo  si  porrebbe
l'esigenza  di  assicurare  copertura  finanziaria  alla  modifica di
sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario,
stante la previsione dell'art. 81 Cost.
    Il  giudice  a quo ribadisce, riprendendo le precedenti ordinanze
della  stessa  Corte  di  cassazione,  la  ritenuta impossibilita' di
assimilare  le  norme della Convenzione EDU ai regolamenti comunitari
ai   fini   di   applicazione   immediata   nell'ordinamento  interno
(sull'argomento  e'  richiamata  Cass.  19 luglio 2002, n. 10542). E'
condiviso anche l'assunto che il richiamo contenuto nell'art. 6, par.
2,  del Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali
quali   sono  garantiti  dalla  Convenzione  europea  [...]  e  quali
risultano  dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri,
in  quanto principi generali del diritto comunitario», non esclude la
diversita'  tra l'organo giurisdizionale preposto alla tutela di tali
diritti  (Corte  di  Strasburgo)  e  quello  cui  e' invece demandata
l'interpretazione   delle   norme  comunitarie,  cioe'  la  Corte  di
giustizia  del  Lussemburgo,  che  ha negato la propria competenza in
materia  di diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997,
C. 199-95, Kremzow).
    Del    resto,   aggiunge   il   rimettente,   la   stessa   Corte
costituzionale, prima delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU,
apportate  con  il  Protocollo n. 11, reso esecutivo in Italia con la
legge  n. 296  del  1997,  sembrava  aver  assunto  orientamenti  non
incompatibili   con  la  diretta  applicabilita'  delle  norme  della
Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235 del
1993).  Solo  successivamente,  anche  a  seguito della novella degli
artt. 111 e 117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a
dare  rilievo  indiretto  alle  norme  convenzionali,  come  fonti di
obblighi cui l'Italia e' da tali norme vincolata» (sono richiamate la
sentenza n. 445 del 2002 e l'ordinanza n. 139 del 2005).
    In  definitiva,  il  riconoscimento  con carattere precettivo dei
diritti  tutelati dall'accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini
dell'abrogazione  di  norme  interne  contrastanti,  fino a quando il
legislatore  interno  non  abbia  specificato  i rimedi a garanzia di
detti   diritti   (e'  richiamata  Cass.  12 gennaio  1999,  n. 254).
Nondimeno,  prosegue  il  giudice  a  quo,  i  diritti tutelati dalla
Convenzione  EDU  esistono  sin  dal  momento della ratifica, o anche
prima,  se  gia'  garantiti dal diritto interno, sicche' i successori
degli  originari  titolari  potranno  chiederne  la tutela al giudice
nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna.
    La  Corte  rimettente  osserva  infine  che,  se  pure il giudice
italiano disapplicasse l'art. 5-bis, non potrebbe imporre come giusto
indennizzo   quello   corrispondente   al   valore  venale  del  bene
espropriato,  e  questo  perche',  mentre in sede sopranazionale tale
criterio   e'   stato  piu'  volte  considerato  «l'unico  di  regola
applicabile», nell'ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto
che  la  nozione di «serio ristoro» sia compatibile con una riduzione
del  prezzo pieno del bene ablato, come sacrificio individuale dovuto
alla pubblica utilita'.
    5.4.  -  Esclusa la possibilita' di disapplicare l'art. 5-bis, la
Corte   di   cassazione  procede  alla  delibazione  delle  questioni
preliminari riguardanti la qualificazione delle aree espropriate come
edificabili,  discendendo  da  tale qualificazione la rilevanza della
norma censurata per la fattispecie in esame.
    Riaffermata l'edificabilita' delle aree espropriate, il giudice a
quo  ritiene  «certamente  rilevante»  la  questione  di legittimita'
sollevata,   dato   che,   nella  espropriazione  oggetto  di  causa,
l'indennita'  e'  stata  liquidata con i criteri di determinazione di
cui all'art. 5-bis.
    La  Corte  di cassazione evidenzia come la parte privata si dolga
del  fatto  che,  pure  in  assenza della riduzione del 40 per cento,
l'indennita'   riconosciutale   in  base  alla  norma  censurata  non
costituisce  un  serio  ristoro della perdita subita. All'opposto, il
ricorrente  Comune  di  Montello  lamenta  che  la Corte di merito ha
computato  il  valore  del  soprassuolo  ai fini della determinazione
dell'indennita'.  Cio'  dimostra,  ad avviso della rimettente, che il
giudizio   principale   non   puo'   essere   definito   prescindendo
dall'applicazione dell'art. 5-bis.
    5.5.  -  Con  riferimento  alla  non manifesta infondatezza della
questione,  il  giudice a quo procede all'esame delle pronunce con le
quali la Corte costituzionale ha definito i giudizi aventi ad oggetto
il   menzionato   art. 5-bis   del  decreto-legge  n. 333  del  1992,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  n. 359 del 1992. Sono
richiamate,  in  particolare,  le  sentenze n. 283 e n. 442 del 1993,
nelle   quali  e'  stata  esclusa  l'illegittimita'  dei  criteri  di
determinazione  dell'indennita'  di  esproprio dei suoli edificabili,
sulla  base del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa
di un'organica disciplina dell'espropriazione per pubblica utilita» e
giustificandoli  per  «la particolare urgenza e valenza degli "scopi"
che  [...] il legislatore si propone di perseguire» nella congiuntura
economica  in  cui  versava il Paese (sentenza n. 283 del 1993). Come
noto,  il  contenuto  della norma e' stato trasposto nell'art. 37 del
d.P.R.  n. 327  del  2001,  che  ha reso «definitivi» quei criteri di
liquidazione   dell'indennizzo,   sicche'  la  «provvisorieta»  degli
stessi,  che aveva sorretto il giudizio di non fondatezza, puo' dirsi
venuta meno.
    Nella  citata  pronuncia n. 283 del 1993, la Corte costituzionale
ha  riconosciuto,  a  differenza della Corte europea, il carattere di
principi  e  norme  fondamentali  di  riforma  economico-sociale alla
disciplina  dettata  dal  legislatore  con l'art. 5-bis, e difatti ha
ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con gli artt. 3
e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso,
non  prevedeva  una «nuova offerta di indennita», la cui accettazione
da  parte  dell'espropriato escludesse l'applicazione della riduzione
del    40   per   cento.   Quanto   alla   applicazione   retroattiva
dell'art. 5-bis, il Giudice delle leggi ha affermato che il principio
dell'irretroattivita' delle leggi, contenuto nell'art. 11 disp. prel.
cod.  civ.,  non  e'  recepito  nella  Costituzione,  escludendo  nel
contempo  il  contrasto  della  norma  censurata  con  l'art. 3 Cost.
Diversamente oggi, a parere della rimettente, il principio del giusto
processo, sancito dal novellato art. 111 Cost., garantirebbe anche la
condizione  di  parita'  tra  le  parti,  sicche'  appare  necessario
sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo scrutinio di
costituzionalita'.
    Assume  il  giudice a quo che la norma censurata, incidendo sulla
liquidazione    delle   indennita'   nei   procedimenti   in   corso,
«anteriormente   alla   futura  opposizione  alla  stima  ancora  non
proponibile  per  ragioni imputabili all'espropriante» (e' richiamata
la   sentenza   n. 67   del  1990  della  Corte  costituzionale),  ha
determinato  una  ingerenza  del  legislatore  nel processo a sfavore
dell'espropriato.  Questi,  infatti, in assenza della predetta norma,
avrebbe  potuto  pretendere  e  ottenere  una  maggiore  somma,  se i
procedimenti  amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati
conclusi prima della relativa entrata in vigore.
    Il  rimettente  richiama,  in proposito, l'affermazione contenuta
nella  sentenza  Scordino  del 29 marzo 2006, secondo cui l'ingerenza
del  legislatore  nei  procedimenti  in  corso  viola  l'art. 6 della
Convenzione,  in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo, poiche' la
previsione  della  perdita di una parte dell'indennita' con efficacia
retroattiva  non  risulta  giustificata  da  una  rilevante  causa di
pubblica utilita'.
    Quanto   al  merito  del  criterio  di  calcolo  dell'indennita',
contenuto  nella norma censurata, il rimettente osserva come la Corte
europea abbia ormai definitivamente affermato, con numerose pronunce,
il   contrasto   con   l'art. 1  del  primo  Protocollo  dei  ristori
indennitari  e  risarcitori  previsti  per  le  acquisizioni lecite e
illecite  connesse a procedimenti espropriativi, con o senza causa di
pubblica  utilita'. Ritiene la Corte rimettente, quindi, che la norma
censurata  debba  essere  nuovamente  scrutinata  alla luce del testo
vigente del primo comma dell'art. 117 Cost., sul rilievo che l'intera
normativa  ordinaria,  e  dunque anche le norme previgenti alla legge
costituzionale  18 ottobre  2001,  n. 3  (Modifiche al titolo V della
parte   seconda   della  Costituzione),  possa  essere  esaminata  ed
eventualmente     dichiarata     incostituzionale    per    contrasto
«sopravvenuto» con i nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale
(e' richiamata la sentenza n. 425 del 2004).
    6.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  il  quale  ha concluso per la non fondatezza delle questioni,
svolgendo  considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate
nel  giudizio promosso con l'ordinanza del 29 maggio 2006 della Corte
di   cassazione   (r.o.  n. 402  del  2006).  Pertanto,  si  richiama
integralmente quanto sopra riportato al punto 2.
    7.  -  Si  e'  costituita  in  giudizio  A.C., controricorrente e
ricorrente  in  via  incidentale  nel  giudizio  a  quo,  la quale ha
concluso  per  la  declaratoria di inammissibilita' delle questioni -
dovendosi  ritenere  che  spetti ai giudici nazionali disapplicare le
norme  interne in contrasto con quelle della Convenzione europea - ed
in subordine per l'accoglimento delle questioni medesime.
    7.1.  -  La  parte  privata  ritiene  che  il contrasto tra norma
interna e norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della
prima.   In   proposito  e'  richiamato  il  Protocollo  n. 11  della
Convenzione,  il  quale  ha  riformulato  il  meccanismo di controllo
istituito  dalla  stessa,  stabilendo  che  i singoli cittadini degli
Stati contraenti possano adire direttamente la Corte europea (art. 34
della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che «1. Le
Alte  Parti  contraenti  si  impegnano  a  conformarsi  alle sentenze
definitive  della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2.
La  sentenza  definitiva  della  Corte  e'  trasmessa al Comitato dei
ministri  che  ne sorveglia l'esecuzione» (art. 46 della Convenzione,
come modificato dal Protocollo n. 11).
    La  medesima  parte  privata  ricorda come l'intero meccanismo di
controllo  si  fondi  sul  principio di sussidiarieta', in virtu' del
quale   la   Corte  europea  «non  puo'  essere  adita  se  non  dopo
l'esaurimento   delle   vie   del  ricorso  interne»  (art. 35  della
Convenzione).  Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti ad applicare
il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, «spettando alla
Corte   europea,   invece,   in   via   sussidiaria   e   a   seguito
dell'esaurimento  dei rimedi interni, verificare se il modo in cui il
diritto interno e' interpretato ed applicato produce effetti conformi
ai principi della Convenzione».
    A   questo   proposito,  la  parte  privata  sottolinea  come  la
Risoluzione 1226  (2000)  dell'Assemblea  parlamentare  del Consiglio
d'Europa  abbia  affermato  che  gli  Stati contraenti sono tenuti ad
assicurare,  tra  l'altro,  «l'applicazione  diretta,  da  parte  dei
giudici  nazionali,  della  Convenzione  e delle sentenze della Corte
europea  che  la interpretano e la applicano». Nella stessa direzione
si  muovono  anche  la  Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del
Comitato  dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle sentenze
che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la
Raccomandazione  Rec (2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri
del  Consiglio  d'Europa,  relativa  alla verifica di conformita' dei
progetti  di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa
agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonche' la Raccomandazione
Rec(2004)6,  di  pari  data,  con  cui  il  Comitato  dei ministri ha
ribadito  che  gli  Stati  contraenti, a seguito delle sentenze della
Corte  che  individuano  carenze  di carattere strutturale o generale
dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono
tenuti  a  rivedere  l'efficacia  dei  rimedi interni esistenti e, se
necessario,  ad  instaurare  validi rimedi, al fine di evitare che la
Corte venga adita per casi ripetitivi.
    La  parte  privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza
29 marzo  2006  della  Corte  di  Strasburgo in causa Scordino contro
Italia,  in  riferimento sia alla inadeguatezza del criterio generale
di  cui  all'art. 5-bis,  applicato indipendentemente dalla tipologia
dell'opera   che   deve   essere   realizzata,   sia  all'effetto  di
interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si e'
determinato  con  l'applicazione  della  predetta norma ai giudizi in
corso.  Secondo  la  Corte  europea  tale  effetto  non  puo' trovare
giustificazione  nelle  ragioni  di natura finanziaria che il Governo
italiano  ha  prospettato nel ricorso alla Grande chambre. E' inoltre
richiamato  il  passaggio della menzionata pronunzia, ove sono citate
le  sentenze  n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali
la  Corte  costituzionale  ha invitato il legislatore ad adottare una
disciplina  normativa  che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed
ha  escluso  l'esistenza  di  un  contrasto  tra  l'art. 5-bis  e  la
Costituzione   «in   considerazione   della   sua  natura  urgente  e
temporanea».  Peraltro,  osserva l'interveniente, poiche' il criterio
contenuto  nella  norma  citata  e' stato trasfuso nel testo unico in
materia  di  espropriazioni  (d.P.R.  n. 327  del  2001), la Corte di
Strasburgo   non   ha   mancato  di  rilevare  come  sia  agevolmente
prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi.
    Tutto  cio'  premesso,  se  la  conformita'  dell'ordinamento  ai
principi  affermati  nella sentenza citata deve essere assicurata dai
giudici  nazionali,  come  rilevato  dal  Comitato  dei  ministri del
Consiglio  d'Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se
la  Corte  europea  ha  accertato, con sentenza che costituisce «cosa
giudicata interpretata», ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, che
la  norma interna rilevante e' causa di violazione strutturale di una
o  piu' norme della Convenzione medesima, allora tale norma, a parere
della   parte   privata,   deve  essere  «disapplicata»  dal  giudice
nazionale.   La  disapplicazione  della  norma  interna  contrastante
sarebbe   conseguenza   diretta   ed   immediata   del  principio  di
sussidiarieta'  dell'art. 46  della  stessa  Convenzione, sicche', in
definitiva,   con  riferimento  al  sistema  CEDU  si  deve  giungere
all'affermazione   di   principi  analoghi  a  quelli  che  la  Corte
costituzionale ha enucleato in relazione al diritto comunitario nella
sentenza n. 170 del 1984.
    La   diversa  conclusione  cui  e'  giunta  la  Corte  rimettente
contrasterebbe,  tra l'altro, con l'assunto, affermato dalla medesima
Corte,  della  vincolativita'  delle  norme della Convenzione e della
giurisprudenza della Corte europea.
    Sulla  base  delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C.
conclude  sollecitando  una  dichiarazione  di inammissibilita' della
questione di legittimita' costituzionale.
    7.2.  -  In  via  subordinata,  la  parte  privata insiste per la
declaratoria   di   incostituzionalita'  della  norma  censurata  per
contrasto   con   l'art. 117,   primo   comma,   Cost.,   sviluppando
argomentazioni   analoghe   a   quelle  contenute  nell'ordinanza  di
rimessione.
    8.  -  In data 20 giugno 2007 la parte privata A.C. ha depositato
una  memoria illustrativa con la quale insiste nelle conclusioni gia'
formulate nell'atto di costituzione.
    8.1.  -  In  particolare,  nella  memoria  si  evidenzia  come la
posizione  assunta  dalla  Presidenza  del Consiglio dei ministri nel
presente giudizio si ponga in contrasto con il «preciso obbligo dello
Stato  italiano  di eseguire la sentenza Scordino [del 29 marzo 2006]
adottando  misure  di carattere generale suscettibili di eliminare la
violazione  strutturale  accertata dalla Corte europea, nonche', piu'
in  generale,  con  il  solenne  obbligo  internazionale  a suo tempo
assunto  dallo  Stato italiano di cooperare efficacemente e lealmente
con  il  Consiglio  d'Europa  per  assicurare  il  funzionamento  del
meccanismo di tutela dei diritti umani che fa perno sulla Convenzione
europea  dei  diritti  dell'uomo  e  sulla  Corte europea dei diritti
dell'uomo».
    Al  riguardo,  la  parte  privata  sottolinea come l'art. 1 della
legge  n. 12  del  2006,  introducendo la lettera a-bis), nel comma 3
dell'art. 5   della   legge   23 agosto   1988,   n. 400  (Disciplina
dell'attivita'   di   Governo  e  ordinamento  della  Presidenza  del
Consiglio  dei  ministri), abbia individuato proprio nella Presidenza
del  Consiglio  dei  ministri l'organo deputato non solo a promuovere
«gli  adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce
della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello
Stato  italiano»,  ma anche a comunicare «tempestivamente alle Camere
le  medesime  pronunce  ai  fini dell'esame da parte delle competenti
Commissioni  parlamentari permanenti» ed a presentare «annualmente al
Parlamento  una  relazione  sullo  stato di esecuzione delle suddette
pronunce».
    Per  le  ragioni anzidette la parte privata reputa necessaria una
pronunzia  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 5-bis,  «che
consenta all'Italia di assolvere i propri obblighi internazionali, di
non  uscire dalla legalita' internazionale e di far recuperare unita'
all'ordinamento».
    8.2.  -  In  merito all'esistenza di un presunto contrasto tra la
giurisprudenza   della   Corte   europea   e   quella   della   Corte
costituzionale,  la  difesa  privata  ritiene  che  si  tratti di una
divergenza  soltanto  apparente,  determinata  dalla  diversita'  dei
parametri   di   giudizio   finora   adottati  dalle  due  Corti.  Si
tratterebbe,  pertanto,  di  «interpretare  (ed  applicare)  le norme
rilevanti  nel  presente  giudizio di costituzionalita' con lo stesso
parametro   di  tutela  dei  diritti  umani  utilizzato  dalla  Corte
europea»;  infatti  - osserva la parte costituita - se il giudizio e'
condotto  sulla  base  del parametro sopra indicato, l'esito non puo'
non essere identico.
    Peraltro,    le    divergenze   interpretative   tra   le   Corti
costituzionali  degli Stati membri e la Corte di Strasburgo «non sono
affatto   inusuali,   ma   sono  piuttosto  connaturate  allo  stesso
meccanismo  di tutela dei diritti umani previsto dalla Convenzione ed
ai principi di sussidiarieta' e solidarieta' sul quale e' basata».
    8.3.  -  La difesa della parte privata passa, poi, in rassegna la
piu'   recente   giurisprudenza   della  Corte  europea  in  tema  di
«violazioni  strutturali»,  evidenziando  le  condizioni  in presenza
delle  quali  ricorre  un  «problema  strutturale»  e  non  una  mera
violazione «episodica» della Convenzione europea.
    In  particolare,  si  rileva come finora siano state «per lo piu'
proprio   le   Corti  costituzionali  degli  Stati  contraenti  -  in
applicazione  dei  principi  di  sussidiarieta'  e  solidarieta'  - a
rimediare  ai  problemi  strutturali evidenziati nelle sentenze della
Corte   europea».   A  questo  proposito,  sono  richiamate  numerose
pronunzie  della  Corte  europea,  cui  hanno  fatto seguito svariate
decisioni delle Corti costituzionali degli Stati contraenti, tendenti
a  far  fronte  ai  problemi  strutturali  evidenziati dai giudici di
Strasburgo.
    In   alcuni  casi,  poi,  l'accertamento  dell'esistenza  di  una
violazione  strutturale  della  CEDU ha spinto lo Stato interessato a
modificare la propria Carta costituzionale.
    Con  specifico  riferimento  all'Italia,  sono richiamati il caso
Sejdovic (sentenza della Grande chambre del 1° marzo 2006), a seguito
del  quale si e' resa necessaria la modifica dell'art. 175 del codice
di   procedura  penale  a  seguito  dell'accertamento  di  violazione
strutturale  ai  sensi  dell'art. 46  CEDU, la modifica dell'art. 111
Cost.,  attuata  in  relazione  alle sentenze della Corte europea che
avevano  rilevato  violazioni  delle  garanzie  dell'equo processo, e
infine   le   sentenze   n. 152   e   n. 371  del  1996  della  Corte
costituzionale,   che  hanno  fatto  seguito,  rispettivamente,  alle
sentenze   CEDU   Cantafio  contro  Italia  del  20 novembre  1995  e
Ferrantelli/Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996.
    8.4.  -  In  merito  all'odierna questione, la difesa della parte
privata  osserva  che  la  tutela  del diritto di proprieta' prevista
nell'art. 1  del  primo Protocollo non differisce nel contenuto dalla
tutela  apprestata  dall'art. 42  Cost.,  posto che entrambe le norme
richiedono  un  giusto  bilanciamento  tra  interessi  del  singolo e
interesse della comunita'.
    Secondo   la  parte  costituita,  la  necessita'  di  un  «giusto
equilibrio»  porta  alla  conclusione  per  cui «ogni volta che venga
sacrificato   il   diritto   e  l'interesse  di  un  singolo  per  la
realizzazione di una singola opera pubblica e/o di pubblica utilita',
l'indennizzo  deve  essere  pari al valore venale integrale del bene,
mentre  e'  soltanto nei casi eccezionali, in cui la privazione della
proprieta'  riguardi  una serie indeterminata di soggetti e sia volta
ad  attuare  fondamentali  riforme politiche, economiche e/o sociali,
che   l'indennizzo   potrebbe,   se   del   caso,   essere  inferiore
all'integrale  valore  venale  del bene, fermo restando che, anche in
questi   casi,   l'indennizzo   deve  sempre  e  comunque  essere  in
ragionevole collegamento con detto valore».
    Dunque,  a  parere della parte privata, l'integrale compensazione
della   perdita   subita   dal   proprietario  sarebbe  perfettamente
compatibile  con  il  principio  contenuto  nell'art. 42  Cost., come
dimostrerebbe  la circostanza che il criterio seguito fino al 1992 e'
stato  quello previsto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che
fa riferimento al valore di mercato, con l'unica eccezione costituita
dalla  legge  15 gennaio  1885,  n. 2892 (Risanamento della citta' di
Napoli).   Peraltro,   si   sarebbe  trattato  di  un'eccezione  solo
apparente,   poiche'   la   legge   n. 2892   del   1885   riguardava
essenzialmente  l'espropriazione di edifici, sicche' l'indennita' era
determinata  «sulla  media  del  valore venale e dei fitti coacervati
dell'ultimo  decennio, purche' essi abbiano data certa corrispondente
al  rispettivo  anno  di  locazione»,  ed era assistita da una logica
legata alla contingente situazione della citta' di Napoli (fabbricati
di  scarso valore perche' degradati, che pero' producevano un reddito
alto  per  la condizione di sovraffollamento e di canoni elevati). Il
criterio   ivi   previsto   non   conduceva,  pertanto,  a  risultati
penalizzanti  per  gli espropriati, i quali, se si fosse applicato il
criterio    generale   del   valore   venale,   avrebbero   percepito
un'indennita' minore.
    Il  criterio  previsto  nel  censurato  art. 5-bis,  invece,  non
attuerebbe «il necessario ed imprescindibile giusto equilibrio tra il
diritto   umano   del  singolo  e  l'interesse  della  collettivita»,
assumendo, pertanto, un «carattere sostanzialmente "punitivo"».
    9.  -  Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 2 del
2007),  la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 5-bis  del  decreto-legge  n. 333 del 1992,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  n. 359  del 1992, per
violazione  dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione
all'art. 6   della   Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  ed  all'art. 1 del primo
Protocollo  della  Convenzione  stessa,  nonche' dell'art. 117, primo
comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.
    La  norma e' oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della
determinazione    dell'indennita'   di   espropriazione   dei   suoli
edificabili,  prevede  il criterio di calcolo fondato sulla media tra
il  valore  dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone
altresi' l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in
vigore della legge n. 359 del 1992.
    9.1.  -  Nel  giudizio  a  quo,  la  parte  privata  M.T.G., gia'
proprietaria di terreni siti nel Comune di Ceprano, occupati nel 1980
ed  espropriati  nel  1984,  ha  proposto ricorso avverso la sentenza
definitiva della Corte di appello di Roma del 22 novembre-18 dicembre
2000,    censurando    la    quantificazione    dell'indennita'    di
espropriazione,  determinata  ai  sensi  dell'art. 5-bis,  nonche' il
rigetto  della domanda di liquidazione degli interessi legali e della
rivalutazione  monetaria. La ricorrente chiede la disapplicazione del
citato art. 5-bis, per contrasto con gli artt. 1 del primo Protocollo
e   6   CEDU,   oltre  ad  invocare  il  mutamento  dell'orientamento
giurisprudenziale  nel  senso della qualificazione dell'indennita' di
espropriazione  come credito di valore anziche' di valuta. Avverso la
medesima  sentenza  ha  proposto  ricorso  incidentale  il  Comune di
Ceprano,  il  quale  lamenta, in via principale ed assorbente, che la
Corte  di  merito ha rideterminato l'indennita' di espropriazione, in
senso favorevole alla parte ricorrente, dopo che la stessa Corte, con
la  sentenza  non  definitiva  del 28 gennaio 1991, aveva respinto la
domanda  di  risarcimento danni per l'occupazione dei suoli e su tale
rigetto  si  era  formato  il  giudicato.  Il  ricorrente incidentale
censura  altresi'  la  mancata  applicazione dell'art. 16 del decreto
legislativo  30 dicembre  1992,  n. 504 (Riordino della finanza degli
enti  territoriali,  a  norma  dell'articolo 4 della legge 23 ottobre
1992, n. 421), in luogo dell'art. 5-bis, ai fini della determinazione
dell'indennita' di espropriazione.
    Con  successiva memoria, la parte ricorrente in via principale ha
formulato,  subordinatamente  al mancato accoglimento della richiesta
di   disapplicazione,   eccezione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 5-bis,  per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e
117  Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo e all'art. 6
CEDU.
    9.2.  - Il giudice a quo procede preliminarmente alla delibazione
del  motivo  del  ricorso  incidentale  relativo all'inammissibilita'
della  opposizione  alla indennita', e cio' in quanto l'eventuale suo
accoglimento  comporterebbe  l'inapplicabilita'  dell'art. 5-bis  nel
giudizio  in  corso. Superato il profilo preliminare, nel senso della
infondatezza del motivo di impugnazione, e' esaminata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 5-bis,  come  eccepita  dalla
parte ricorrente.
    Il  percorso  argomentativo,  in  esito  al  quale  la Cassazione
solleva la questione nei termini indicati in premessa, e' peraltro in
tutto  identico  a  quello  sviluppato nell'ordinanza r.o. n. 681 del
2006, e dunque puo' rinviarsi a quanto esposto nel paragrafo 5.
    9.3.  - Avuto riguardo alla rilevanza della questione, il giudice
a  quo  precisa che, essendo incontestata la natura edificabile delle
aree espropriate, nel giudizio principale trova applicazione, ratione
temporis,  la  norma  contenuta  nell'art. 5-bis, e non l'art. 37 del
d.P.R.  n. 327  del  2001, pure richiamato dalla parte ricorrente, il
quale  risulta applicabile ai soli giudizi iniziati dopo il 1° luglio
2003.  Il  giudizio di opposizione alla stima e' stato introdotto nel
1987,  in  esito  al procedimento espropriativo iniziato nel 1980. Il
riferimento   temporale   risulta  decisivo,  a  parere  della  Corte
rimettente,   ai   fini  della  rilevanza  del  denunciato  contrasto
dell'art. 5-bis  con  l'art. 111  Cost, in relazione all'art. 6 CEDU.
L'applicazione  retroattiva  del  relativo criterio di determinazione
dell'indennita' avrebbe comportato, nel caso di specie, l'alterazione
della  condizione  di  parita'  delle  parti  nel  processo, a favore
dell'espropriante,  e  dunque la lesione dell'affidamento della parte
privata,  la  quale  si era risolta a proporre il giudizio confidando
nell'applicazione delle piu' favorevoli regole allora vigenti.
    10.  - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  il  quale  ha concluso per la non fondatezza delle questioni,
svolgendo  considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate
nei giudizi promossi con le ordinanze del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402
del 2006) e del 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006) della Corte di
cassazione. Si rinvia, pertanto, a quanto esposto nel paragrafo 2.
    11.  - Con memoria depositata il 25 gennaio 2007 si e' costituita
M.T.G.,  ricorrente  principale  nel  giudizio  a  quo,  la  quale ha
concluso  per  la declaratoria di inammissibilita' delle questioni ed
in   subordine  per  l'accoglimento  delle  stesse,  con  conseguente
declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma censurata.
    La memoria della parte privata e' in tutto coincidente con quella
depositata nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si
rinvia a quanto esposto nel paragrafo 7.
    12.  -  In data 20 giugno 2007 la stessa M.T.G. ha depositato una
memoria integrativa, con allegata documentazione.
    Nella   memoria   si   contestano   il   contenuto  dell'atto  di
costituzione  della  Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri  e  le
conclusioni   ivi  raggiunte,  nel  senso  della  infondatezza  delle
questioni  poste  dalla  Corte  rimettente,  e  sono svolti ulteriori
argomenti  a  sostegno  delle conclusioni gia' rassegnate nel proprio
atto di costituzione.
    La   memoria   propone,   in   maniera  pressoche'  identica,  le
argomentazioni   svolte  nell'omologo  atto  depositato  dalla  parte
privata  A.C. nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto
si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 8.
    Viene segnalata, inoltre, la sproporzione ancor piu' grave che si
produrrebbe,  a  carico  dei  proprietari  espropriati,  per  effetto
dell'applicazione  nel  caso  di  specie  del  criterio  indennitario
contenuto  nell'art. 5-bis,  trattandosi  di  suoli  espropriati  per
essere  destinati a fini di edilizia residenziale pubblica. In virtu'
della   legge   17 febbraio   1992,   n. 179  (Norme  per  l'edilizia
residenziale pubblica), antecedente all'introduzione dell'art. 5-bis,
gli  assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica possono
liberamente cedere tali alloggi a terzi, a qualunque prezzo, dopo che
siano  trascorsi  cinque  anni  dall'assegnazione. Cio' fa si' che il
depauperamento   subito   dal   proprietario  del  suolo  oggetto  di
espropriazione  vada  a  beneficio  di  altri privati, rientrando gli
immobili  ivi  edificati nel mercato delle libere contrattazioni dopo
cinque  anni  dall'assegnazione,  con la conseguenza di rendere ancor
piu'  inaccettabile, perche' ingiustificato, il criterio indennitario
previsto dalla norma censurata.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Con  tre  distinte  ordinanze  la  Corte  di cassazione ha
sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis
del  decreto-legge  11 luglio  1992,  n. 333  (Misure  urgenti per il
risanamento  della  finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla  legge  8 agosto  1992,  n. 359,  per violazione dell'art. 111,
primo  e  secondo  comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6
della  Convenzione  per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui
e' stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica
ed  esecuzione  della  Convenzione  per  la  salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre
1950  e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a
Parigi  il  20 marzo  1952), ed all'art. 1 del primo Protocollo della
Convenzione  stessa,  firmato  a  Parigi  il  20 marzo  1952, nonche'
dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  in relazione ai citati artt. 6
CEDU e 1 del primo Protocollo.
    La  norma e' oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della
determinazione    dell'indennita'   di   espropriazione   dei   suoli
edificabili,  prevede  il criterio di calcolo fondato sulla media tra
il  valore  dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone
altresi' l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in
vigore della legge n. 359 del 1992.
    2.  -  I  giudizi,  per  l'identita' dell'oggetto e dei parametri
costituzionali  evocati,  possono  essere  riuniti  e  decisi  con la
medesima sentenza.
    3.   -   Preliminarmente,   occorre  valutare  la  ricostruzione,
prospettata  dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU,
obblighi  derivanti  dalle  asserite violazioni strutturali accertate
con sentenze definitive della Corte europea e giudici nazionali.
    3.1.  -  Secondo  la  suddetta  parte  privata, il contrasto, ove
accertato,  tra  norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto
con la disapplicazione delle prime da parte del giudice comune. Viene
richiamato,  in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU,
reso  esecutivo  in  Italia  con  la  legge  28 agosto  1997,  n. 296
(Ratifica  ed  esecuzione  del  protocollo  n. 11 alla Convenzione di
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali,
recante  ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla
Convenzione,  fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994). L'art. 34 di tale
Protocollo  prevede  la  possibilita'  di ricorsi individuali diretti
alla  Corte  europea  da  parte dei cittadini degli Stati contraenti,
mentre,  con  l'art. 46,  gli stessi Stati si impegnano a conformarsi
alle  sentenze  definitive della Corte nelle controversie delle quali
sono parti.
    Sono parimenti invocate la Risoluzione 1226 (2000) dell'Assemblea
parlamentare  del  Consiglio  d'Europa,  con  la  quale le Alte Parti
contraenti  sono  invitate  ad adottare le misure necessarie per dare
esecuzione  alle  sentenze  definitive  della Corte di Strasburgo, la
Risoluzione  Res(2004)3  del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri
del  Consiglio  d'Europa,  relativa  alle  sentenze  che accertano un
problema  strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione
Rec(2004)5,  di  pari  data,  del Comitato dei ministri del Consiglio
d'Europa,  relativa  alla  verifica  di  conformita'  dei progetti di
legge,  delle  leggi  vigenti  e  della  prassi  amministrativa  agli
standard  stabiliti  dalla  Convenzione,  nonche'  la Raccomandazione
Rec(2004)6,  di  pari  data,  con  cui  il  Comitato  dei ministri ha
ribadito  che  gli  Stati  contraenti, a seguito delle sentenze della
Corte  che  individuano  carenze  di carattere strutturale o generale
dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono
tenuti  a  rivedere  l'efficacia  dei  rimedi interni esistenti e, se
necessario,  ad  instaurare  validi rimedi, al fine di evitare che la
Corte venga adita per casi ripetitivi.
    3.2.  -  La  prospettata  ricostruzione  funge  da  premessa alla
richiesta,  avanzata  dalla  predetta parte privata, che la questione
sia dichiarata inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il
dovere  di  disapplicare  le norme interne che la Corte europea abbia
ritenuto essere causa di violazione strutturale della Convenzione.
    3.3. - L'eccezione di inammissibilita' non puo' essere accolta.
    Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie «debbano avere
piena  efficacia  obbligatoria  e  diretta  applicazione in tutti gli
Stati   membri,   senza   la  necessita'  di  leggi  di  ricezione  e
adattamento,  come  atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese
della  Comunita', si' da entrare ovunque contemporaneamente in vigore
e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i
destinatari»  (sentenze  n. 183  del  1973  e  n. 170  del  1984). Il
fondamento   costituzionale   di  tale  efficacia  diretta  e'  stato
individuato  nell'art. 11  Cost.,  nella  parte  in  cui  consente le
limitazioni  della  sovranita'  nazionale necessarie per promuovere e
favorire  le  organizzazioni  internazionali rivolte ad assicurare la
pace e la giustizia fra le Nazioni.
    Il  riferito  indirizzo  giurisprudenziale  non riguarda le norme
CEDU,  giacche'  questa Corte aveva escluso, gia' prima di sancire la
diretta   applicabilita'  delle  norme  comunitarie  nell'ordinamento
interno,  che  potesse  venire  in  considerazione, a proposito delle
prime,  l'art. 11  Cost.  «non essendo individuabile, con riferimento
alle  specifiche  norme  pattizie  in esame, alcuna limitazione della
sovranita'  nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra
le  norme  CEDU  e  le  norme  comunitarie  deve  essere ribadita nel
presente   procedimento   nei   termini   stabiliti  dalla  pregressa
giurisprudenza   di  questa  Corte,  nel  senso  che  le  prime,  pur
rivestendo  grande  rilevanza,  in  quanto  tutelano  e valorizzano i
diritti  e  le  liberta'  fondamentali delle persone, sono pur sempre
norme  internazionali  pattizie,  che  vincolano  lo  Stato,  ma  non
producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare
la  competenza  dei  giudici  nazionali  a  darvi  applicazione nelle
controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le
norme interne in eventuale contrasto.
    L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con
la  riforma  del  titolo V della parte seconda della Costituzione, ha
confermato  il  precitato  orientamento  giurisprudenziale  di questa
Corte.   La  disposizione  costituzionale  ora  richiamata  distingue
infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento
comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
    Si  tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche
sostanziale.
    Con  l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia e' entrata a far
parte  di  un  «ordinamento»  piu'  ampio,  di natura sopranazionale,
cedendo  parte  della  sua sovranita', anche in riferimento al potere
legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo
limite  dell'intangibilita'  dei  principi e dei diritti fondamentali
garantiti dalla Costituzione.
    La  Convenzione  EDU,  invece,  non crea un ordinamento giuridico
sopranazionale  e  non  produce quindi norme direttamente applicabili
negli  Stati  contraenti.  Essa  e'  configurabile  come  un trattato
internazionale  multilaterale  - pur con le caratteristiche peculiari
che  saranno  esaminate  piu' avanti - da cui derivano «obblighi» per
gli   Stati  contraenti,  ma  non  l'incorporazione  dell'ordinamento
giuridico   italiano  in  un  sistema  piu'  vasto,  dai  cui  organi
deliberativi  possano  promanare  norme vincolanti, omisso medio, per
tutte le autorita' interne degli Stati membri.
    Correttamente  il  giudice a quo ha escluso di poter risolvere il
dedotto  contrasto  della  norma  censurata  con una norma CEDU, come
interpretata  dalla  Corte  di  Strasburgo,  procedendo egli stesso a
disapplicare  la  norma  interna asseritamente non compatibile con la
seconda.   Le   Risoluzioni  e  Raccomandazioni  citate  dalla  parte
interveniente  si indirizzano agli Stati contraenti e non possono ne'
vincolare  questa  Corte, ne' dare fondamento alla tesi della diretta
applicabilita' delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni.
    3.4.  -  Si  condivide  anche  l'esclusione  -  argomentata nelle
ordinanze di rimessione - delle norme CEDU, in quanto norme pattizie,
dall'ambito  di  operativita'  dell'art. 10,  primo  comma, Cost., in
conformita'  alla  costante giurisprudenza di questa Corte sul punto.
La  citata  disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del
diritto   internazionale  generalmente  riconosciute»,  si  riferisce
soltanto   alle   norme   consuetudinarie   e  dispone  l'adattamento
automatico,   rispetto   alle   stesse,   dell'ordinamento  giuridico
italiano.   Le  norme  pattizie,  ancorche'  generali,  contenute  in
trattati  internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto
dalla  portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa
parte  la  CEDU,  con  la  conseguente «impossibilita' di assumere le
relative   norme   quali   parametri  del  giudizio  di  legittimita'
costituzionale,  di  per  se' sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero
come  norme  interposte  ex  art. 10  della  Costituzione» (ordinanza
n. 143  del  1993;  conformi,  ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987,
n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464
del 2005).
    4.  - La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis
del  decreto-legge  n. 333  del  1992, convertito, con modificazioni,
dalla  legge  n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., e' fondata.
    4.1.  - La questione, cosi' come proposta dal giudice rimettente,
si  incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l'art. 1
del  primo  Protocollo  della  CEDU,  quale  interpretato dalla Corte
europea  per  i diritti dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per
determinare  l'indennizzo  dovuto  ai proprietari di aree edificabili
espropriate  per  motivi  di  pubblico  interesse  condurrebbero alla
corresponsione  di somme non congruamente proporzionate al valore dei
beni oggetto di ablazione.
    Il   parametro  evocato  negli  atti  introduttivi  del  presente
giudizio  e'  l'art. 117,  primo  comma,  Cost., nel testo introdotto
dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo
V  della  parte  seconda  della  Costituzione). Il giudice rimettente
ricorda  infatti  che  la  stessa  norma  ora censurata e' gia' stata
oggetto  di  scrutinio di costituzionalita' da parte di questa Corte,
che  ha rigettato la questione di legittimita' costituzionale, allora
proposta  in  relazione  agli  artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117
Cost.  (sentenza  n. 283  del  1993).  La  sentenza  citata  e' stata
successivamente  confermata  da  altre  pronunce  di questa Corte del
medesimo   tenore.   Il   rimettente   non  chiede  oggi  alla  Corte
costituzionale  di  modificare  la propria consolidata giurisprudenza
nella  materia  de  qua,  ma  mette in rilievo che il testo riformato
dell'art. 117,  primo  comma,  Cost., renderebbe necessaria una nuova
valutazione  della  norma  censurata in relazione a questo parametro,
non   esistente  nel  periodo  in  cui  la  pregressa  giurisprudenza
costituzionale si e' formata.
    4.2.   -  Impostata  in  tal  modo  la  questione  da  parte  del
rimettente, e' in primo luogo necessario riconsiderare la posizione e
il  ruolo delle norme della CEDU, allo scopo di verificare, alla luce
della   nuova   disposizione   costituzionale,   la   loro  incidenza
sull'ordinamento giuridico italiano.
    L'art. 117,  primo  comma,  Cost.  condiziona  l'esercizio  della
potesta'  legislativa  dello  Stato e delle Regioni al rispetto degli
obblighi  internazionali,  tra i quali indubbiamente rientrano quelli
derivanti  dalla  Convenzione  europea per i diritti dell'uomo. Prima
della  sua  introduzione,  l'inserimento  delle  norme internazionali
pattizie   nel   sistema   delle   fonti  del  diritto  italiano  era
tradizionalmente  affidato,  dalla dottrina prevalente e dalla stessa
Corte  costituzionale,  alla legge di adattamento, avente normalmente
rango  di  legge  ordinaria  e  quindi potenzialmente modificabile da
altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come
naturale  corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte
quali  parametri  del  giudizio  di  legittimita'  costituzionale (ex
plurimis,  sentenze  n. 188  del  1980,  n. 315  del 1990, n. 388 del
1999).
    4.3.  -  Rimanevano  notevoli  margini di incertezza, dovuti alla
difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte
si  muovevano nell'ambito della tutela dei diritti fondamentali delle
persone,  e  quindi  integravano  l'attuazione  di  valori e principi
fondamentali   protetti   dalla   stessa  Costituzione  italiana,  ma
dall'altra  mantenevano  la  veste formale di semplici fonti di grado
primario.   Anche  a  voler  escludere  che  il  legislatore  potesse
modificarle  o  abrogarle  a  piacimento,  in  quanto  fonti atipiche
(secondo  quanto  affermato  nella  sentenza n. 10 del 1993 di questa
Corte,  non  seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore),
restava   il  problema  degli  effetti  giuridici  di  una  possibile
disparita'  di  contenuto  tra  le  stesse  ed  una norma legislativa
posteriore.
    Tale  situazione  di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a
disapplicare  direttamente  le  norme  legislative  in  contrasto con
quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'e' fatta
strada  in  talune  pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte
della giurisprudenza di legittimita' (Cass., sez. I, sentenza n. 6672
del  1998;  Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005), l'idea
che  la  specifica  antinomia  possa  essere  eliminata con i normali
criteri  di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre
parole,  si  e'  creduto  di  poter  trarre  da un asserito carattere
sovraordinato  della  fonte  CEDU la conseguenza che la norma interna
successiva,  modificativa  o abrogativa di una norma prodotta da tale
fonte,  fosse  inefficace,  per la maggior forza passiva della stessa
fonte   CEDU,   e   che  tale  inefficacia  potesse  essere  la  base
giustificativa  della  sua  non  applicazione  da  parte  del giudice
comune.
    Oggi   questa   Corte  e'  chiamata  a  fare  chiarezza  su  tale
problematica  normativa  e  istituzionale,  avente rilevanti risvolti
pratici  nella  prassi  quotidiana degli operatori del diritto. Oltre
alle considerazioni che sono state svolte nel paragrafo 3.3 (per piu'
ampi  svolgimenti  si  rinvia alla sentenza n. 349 del 2007), si deve
aggiungere che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost, se da
una  parte  rende  inconfutabile la maggior forza di resistenza delle
norme  CEDU  rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae
le  stesse  nella  sfera  di  competenza di questa Corte, poiche' gli
eventuali  contrasti non generano problemi di successione delle leggi
nel  tempo  o  valutazioni  sulla  rispettiva collocazione gerarchica
delle    norme   in   contrasto,   ma   questioni   di   legittimita'
costituzionale.  Il  giudice  comune  non  ha,  dunque,  il potere di
disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con
una  norma  CEDU,  poiche'  l'asserita incompatibilita' tra le due si
presenta  come  una  questione  di  legittimita'  costituzionale, per
eventuale  violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva
competenza del Giudice delle leggi.
    Ogni  argomentazione  atta  ad introdurre nella pratica, anche in
modo  indiretto,  una  sorta di «adattamento automatico», sul modello
dell'art. 10,  primo  comma, Cost., si pone comunque in contrasto con
il  sistema delineato dalla Costituzione italiana - di cui s'e' detto
al paragrafo 3.4 - e piu' volte ribadito da questa Corte, secondo cui
l'effetto  previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le
norme  pattizie  (ex  plurimis,  sentenze  n. 32 del 1960, n. 323 del
1989, n. 15 del 1996).
    4.4.  -  Escluso  che  l'art. 117,  primo comma, Cost., nel nuovo
testo,  possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di
norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11),
si  deve  pure  escludere  che lo stesso sia da considerarsi operante
soltanto  nell'ambito  dei  rapporti  tra  lo  Stato  e  le  Regioni.
L'utilizzazione  del  criterio  interpretativo  sistematico,  isolato
dagli  altri  e  soprattutto  in  contrasto  con  lo stesso enunciato
normativo, non e' sufficiente a circoscrivere l'effetto condizionante
degli  obblighi  internazionali,  rispetto alla legislazione statale,
soltanto   al  sistema  dei  rapporti  con  la  potesta'  legislativa
regionale. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide
globalmente  e  univocamente  sul  contenuto  della legge statale; la
validita'  di  quest'ultima  non  puo'  mutare  a  seconda  che la si
consideri  ai  fini  della  delimitazione  delle  sfere di competenza
legislativa  di  Stato  e  Regioni o che invece la si prenda in esame
nella  sua potenzialita' normativa generale. La legge - e le norme in
essa   contenute   -   e'   sempre   la   stessa   e   deve  ricevere
un'interpretazione   uniforme,   nei  limiti  in  cui  gli  strumenti
istituzionali  predisposti  per l'applicazione del diritto consentono
di raggiungere tale obiettivo.
    Del   resto,  anche  se  si  restringesse  la  portata  normativa
dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.  esclusivamente  all'interno del
sistema  dei  rapporti  tra  potesta' legislativa statale e regionale
configurato  dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non
si  potrebbe  negare  che  esso vale comunque a vincolare la potesta'
legislativa  dello Stato sia nelle materie indicate dal secondo comma
del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in quelle
indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiche', dopo la
riforma  del  titolo  V,  lo  Stato  possiede  competenza legislativa
esclusiva o concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e
dal terzo comma, rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza
residuale    delle    Regioni,   l'operativita'   del   primo   comma
dell'art. 117, anche se considerata solo all'interno del titolo V, si
estenderebbe   ad  ogni  tipo  di  potesta'  legislativa,  statale  o
regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione.
    4.5.  -  La  struttura  della norma costituzionale, rispetto alla
quale  e' stata sollevata la presente questione, si presenta simile a
quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta
operativita'  solo  se poste in stretto collegamento con altre norme,
di  rango  sub-costituzionale,  destinate  a  dare  contenuti  ad  un
parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualita' che
le  leggi  in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a
tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio
tra  questa  e  la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione,
per indicare tale tipo di norme, dell'espressione «fonti interposte»,
ricorrente  in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa
Corte  (ex  plurimis,  sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4
del  2000,  n. 533  del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269
del  2007),  ma  di  cui  viene  talvolta  contestata  l'idoneita'  a
designare   una  categoria  unitaria,  si  deve  riconoscere  che  il
parametro   costituito  dall'art. 117,  primo  comma,  Cost.  diventa
concretamente  operativo  solo se vengono determinati quali siano gli
«obblighi internazionali» che vincolano la potesta' legislativa dello
Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione
di  questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle
norme  della  CEDU,  la cui funzione e' quindi di concretizzare nella
fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato.
    4.6.   -   La   CEDU   presenta,  rispetto  agli  altri  trattati
internazionali,  la  caratteristica  peculiare  di  aver  previsto la
competenza  di  un  organo  giurisdizionale,  la  Corte europea per i
diritti  dell'uomo,  cui  e'  affidata la funzione di interpretare le
norme  della  Convenzione  stessa.  Difatti  l'art. 32,  paragrafo 1,
stabilisce:  «La  competenza  della  Corte  si  estende  a  tutte  le
questioni   concernenti   l'interpretazione  e  l'applicazione  della
Convenzione  e  dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle
condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47».
    Poiche'  le  norme  giuridiche vivono nell'interpretazione che ne
danno  gli  operatori  del  diritto,  i  giudici  in  primo luogo, la
naturale  conseguenza  che  deriva  dall'art. 32,  paragrafo 1, della
Convenzione   e'   che   tra   gli  obblighi  internazionali  assunti
dall'Italia  con  la  sottoscrizione  e  la ratifica della CEDU vi e'
quello  di  adeguare  la  propria  legislazione  alle  norme  di tale
trattato,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  specificamente
istituita  per  dare  ad esse interpretazione ed applicazione. Non si
puo'   parlare  quindi  di  una  competenza  giurisdizionale  che  si
sovrappone  a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma
di  una  funzione  interpretativa  eminente  che gli Stati contraenti
hanno  riconosciuto  alla  Corte  europea,  contribuendo  con  cio' a
precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.
    4.7. - Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU,
quali  interpretate  dalla  Corte  di Strasburgo, acquistano la forza
delle  norme  costituzionali  e  sono percio' immuni dal controllo di
legittimita'  costituzionale  di  questa  Corte.  Proprio  perche' si
tratta  di  norme  che  integrano  il  parametro  costituzionale,  ma
rimangono  pur sempre ad un livello sub-costituzionale, e' necessario
che  esse  siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle
stesse  norme,  diverse  sia  da  quelle  comunitarie  sia  da quelle
concordatarie, fa si' che lo scrutinio di costituzionalita' non possa
limitarsi   alla   possibile  lesione  dei  principi  e  dei  diritti
fondamentali  (ex plurimis,sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984,
n. 168  del  1991,  n. 73  del  2001, n. 454 del 2006) o dei principi
supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195
del  1972,  n. 175  del  1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e
n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo
di contrasto tra le «norme interposte» e quelle costituzionali.
    L'esigenza   che   le   norme   che  integrano  il  parametro  di
costituzionalita'  siano  esse  stesse  conformi alla Costituzione e'
assoluta  e  inderogabile,  per  evitare  il  paradosso che una norma
legislativa  venga  dichiarata  incostituzionale  in base ad un'altra
norma   sub-costituzionale,   a   sua   volta  in  contrasto  con  la
Costituzione.  In  occasione  di  ogni  questione nascente da pretesi
contrasti  tra  norme interposte e norme legislative interne, occorre
verificare congiuntamente la conformita' a Costituzione di entrambe e
precisamente   la   compatibilita'  della  norma  interposta  con  la
Costituzione  e  la  legittimita' della norma censurata rispetto alla
stessa norma interposta.
    Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con
una  norma  costituzionale,  questa  Corte ha il dovere di dichiarare
l'inidoneita'  della  stessa  ad integrare il parametro, provvedendo,
nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.
    Poiche',   come  chiarito  sopra,  le  norme  della  CEDU  vivono
nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea,
la verifica di compatibilita' costituzionale deve riguardare la norma
come  prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in se' e per
se'  considerata.  Si  deve  peraltro escludere che le pronunce della
Corte  di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del
controllo  di costituzionalita' delle leggi nazionali. Tale controllo
deve  sempre  ispirarsi  al  ragionevole bilanciamento tra il vincolo
derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117,
primo  comma,  Cost.,  e la tutela degli interessi costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
    In  sintesi, la completa operativita' delle norme interposte deve
superare  il  vaglio  della  loro  compatibilita'  con  l'ordinamento
costituzionale  italiano,  che  non  puo'  essere modificato da fonti
esterne,   specie   se   queste   non   derivano   da  organizzazioni
internazionali  rispetto alle quali siano state accettate limitazioni
di sovranita' come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione.
    5. - Alla luce dei principi metodologici illustrati sino a questo
punto,  lo  scrutinio  di  legittimita'  costituzionale chiesto dalla
Corte  rimettente  deve  essere condotto in modo da verificare: a) se
effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa
tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla
Corte  europea  ed  assunte  come fonti integratrici del parametro di
costituzionalita'  di  cui  all'art. 117, primo comma, Cost; b) se le
norme   della   CEDU   invocate   come  integrazione  del  parametro,
nell'interpretazione   ad  esse  data  dalla  medesima  Corte,  siano
compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano.
    5.1.   -   L'art. 5-bis   del   decreto-legge  n. 333  del  1992,
convertito,   con   modificazioni,   dalla  legge  n. 359  del  1992,
prescrive,  al  primo  comma, i criteri di calcolo dell'indennita' di
espropriazione  per  pubblica  utilita'  delle  aree edificabili, che
consistono  nell'applicazione  dell'art. 13, terzo comma, della legge
15 gennaio  1885,  n. 2892  (Risanamento  della  citta'  di  Napoli),
«sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il
reddito  dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del
testo   unico   delle  imposte  sui  redditi,  approvato  con  d.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917». L'importo cosi' determinato e' ridotto del
40  per  cento.  Il  secondo  comma aggiunge che, in caso di cessione
volontaria  del  bene  da  parte  dell'espropriato, non si applica la
riduzione di cui sopra.
    La  norma censurata e' stata oggetto di questione di legittimita'
costituzionale, definita con la sentenza n. 283 del 1993.
    Nel   dichiarare  non  fondata  la  questione,  questa  Corte  ha
richiamato la sua pregressa giurisprudenza, consolidatasi negli anni,
sul  concetto  di  «serio  ristoro», particolarmente illustrato nella
sentenza  n. 5  del  1980.  Quest'ultima  pronuncia  ha stabilito che
«l'indennizzo  assicurato  all'espropriato dall'art. 42, comma terzo,
Cost., se non deve costituire una integrale riparazione della perdita
subita  -  in  quanto  occorre  coordinare il diritto del privato con
l'interesse  generale  che  l'espropriazione  mira a realizzare - non
puo'  essere,  tuttavia,  fissato in una misura irrisoria o meramente
simbolica  ma deve rappresentare un serio ristoro. Perche' cio' possa
realizzarsi,   occorre   far   riferimento,   per  la  determinazione
dell'indennizzo,   al   valore   del   bene  in  relazione  alle  sue
caratteristiche    essenziali,    fatte   palesi   dalla   potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo puo'
assicurarsi  la  congruita'  del ristoro spettante all'espropriato ed
evitare  che  esso  sia  meramente  apparente o irrisorio rispetto al
valore del bene».
    Il   principio   del  serio  ristoro  e'  violato,  secondo  tale
pronuncia,  quando,  «per  la  determinazione dell'indennita', non si
considerino  le  caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti
un diverso criterio che prescinda dal valore di esso».
    5.2.  -  L'effetto  della  sentenza da ultimo richiamata (e della
successiva  n. 223  del  1983)  e' stato quello di rendere nuovamente
applicabile   il   criterio   del   valore   venale,  quale  previsto
dall'art. 39  della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per
causa  di  utilita'  pubblica) sino all'introduzione, nel 1992, della
norma censurata.
    A  proposito  di  quest'ultima,  la  Corte, con la gia' ricordata
sentenza  n. 283  del  1993,  ha  confermato  il  principio del serio
ristoro,   precisando   che,  da  una  parte,  l'art. 42  Cost.  «non
garantisce  all'espropriato  il  diritto ad un'indennita' esattamente
commisurata  al  valore  venale  del bene e, dall'altra, l'indennita'
stessa   non   puo'  essere  (in  negativo)  meramente  simbolica  od
irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata».
    Posto  che,  in  conformita'  all'ormai  consolidato orientamento
giurisprudenziale,  deve  essere  esclusa  «una valutazione del tutto
astratta  in  quanto  sganciata  dalle caratteristiche essenziali del
bene ablato», questa Corte ha ritenuto ammissibili criteri «mediati»,
lasciando  alla discrezionalita' del legislatore l'individuazione dei
parametri  concorrenti  con quello del valore venale. La Corte stessa
ha  tenuto  a  precisare  che la «mediazione tra l'interesse generale
sotteso  all'espropriazione  e  l'interesse  privato,  espresso dalla
proprieta'  privata,  non  puo' fissarsi in un indefettibile e rigido
criterio quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui
storicamente   si   colloca,  sia  dello  specifico  che  connota  il
procedimento  espropriativo,  non essendo il legislatore vincolato ad
individuare  un  unico  criterio  di  determinazione dell'indennita',
valido in ogni fattispecie espropriativa».
    Come  emerge  chiaramente  dalla  citata pronuncia, questa Corte,
accanto  al  criterio  del  serio  ristoro  -  che  esclude la pura e
semplice  identificazione dell'indennita' espropriativa con il valore
venale  del  bene  - ha pure riconosciuto la relativita' sincronica e
diacronica  dei criteri di determinazione adottabili dal legislatore.
In  altri  termini,  l'adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere
valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al
momento  del giudizio. Ne' il criterio del valore venale (pur rimasto
in  vigore  dal  1983  al  1992),  ne'  alcuno  dei criteri «mediati»
prescelti  dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza
e  della  definitivita'.  La  loro collocazione nel sistema e la loro
compatibilita'  con  i  parametri costituzionali subiscono variazioni
legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale
e   normativo,  che  non  possono  restare  senza  conseguenze  nello
scrutinio di costituzionalita' della norma che li contiene.
    La  Corte  ha concluso affermando: «anche un contesto complessivo
che risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura economica -
che   il   legislatore   mira  a  contrastare  con  un'ampia  manovra
economico-finanziaria   -   puo'   conferire   un   diverso  peso  ai
confliggenti  interessi oggetto del bilanciamento legislativo. Questa
essenziale  relativita'  dei  valori  in  giuoco  impone una verifica
settoriale  e legata al contesto di riferimento nel momento in cui si
pone  il  raffronto  tra  il  risultato del bilanciamento operato dal
legislatore  con la scelta di un determinato criterio "mediato" ed il
canone  di  adeguatezza  dell'indennita'  ex  art. 42, comma 3, della
Costituzione».
    5.3.  -  La  Corte  rimettente  ha  posto  in evidenza proprio la
relativita' delle valutazioni, che richiede di verificare nel tempo e
nello  spazio  normativo  il  punto  di equilibrio tra i contrastanti
interessi  costituzionalmente  protetti.  Si  impongono  pertanto due
distinti  approfondimenti: a) l'incidenza del mutato quadro normativo
sulla  compatibilita' della norma censurata con la tutela del diritto
di  proprieta';  b)  il  legame tra la contingente situazione storica
(economica  e finanziaria) esistente al momento della sentenza n. 283
del  1993 e l'esito del giudizio di legittimita' costituzionale sulla
stessa norma.
    5.4.  -  Sul primo punto, si deve rilevare che l'art. 1 del primo
Protocollo   della   CEDU   e'   stato  oggetto  di  una  progressiva
focalizzazione interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che
ha  attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti
dalla   stessa   Corte   incompatibili  con  la  disciplina  italiana
dell'indennita' di espropriazione.
    In  esito  ad  una  lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande
Chambre,  con  la  decisione  del 29 marzo 2006, nella causa Scordino
contro  Italia, ha fissato alcuni principi generali: a) un atto della
autorita'  pubblica,  che  incide  sul  diritto  di  proprieta', deve
realizzare  un  giusto  equilibrio  tra  le  esigenze  dell'interesse
generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
degli  individui (punto 93); b) nel controllare il rispetto di questo
equilibrio,  la  Corte  riconosce  allo  Stato  «un  ampio margine di
apprezzamento»,  tanto  per  scegliere  le  modalita'  di attuazione,
quanto  per  giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione,
nell'interesse  generale, dalla necessita' di raggiungere l'obiettivo
della  legge  che  sta  alla  base dell'espropriazione (punto 94); c)
l'indennizzo  non  e'  legittimo, se non consiste in una somma che si
ponga  «in  rapporto  ragionevole  con il valore del bene»; se da una
parte  la  mancanza  totale  di  indennizzo e' giustificabile solo in
circostanze  eccezionali,  dall'altra  non  e' sempre garantita dalla
CEDU   una   riparazione   integrale   (punto  95);  d)  in  caso  di
«espropriazione  isolata»,  pur  se a fini di pubblica utilita', solo
una   riparazione  integrale  puo'  essere  considerata  in  rapporto
ragionevole  con  il  valore  del  bene  (punto  96);  e)  «obiettivi
legittimi  di  utilita' pubblica, come quelli perseguiti da misure di
riforma  economica  o  di  giustizia  sociale possono giustificare un
indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo» (punto 97).
    Poiche'  i  criteri  di calcolo dell'indennita' di espropriazione
previsti  dalla  legge  italiana porterebbero alla corresponsione, in
tutti  i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato
(o  venale), la Corte europea ha dichiarato che l'Italia ha il dovere
di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1
del  primo  Protocollo  della  CEDU,  anche  allo  scopo  di  evitare
ulteriori  condanne  dello  Stato  italiano in un numero rilevante di
controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
    5.5.  -  Per stabilire se e in quale misura la suddetta pronuncia
della  Corte  europea  incide  nell'ordinamento  giuridico  italiano,
occorre    esaminare    analiticamente   il   criterio   di   calcolo
dell'indennita' di espropriazione previsto dalla norma censurata.
    L'indennita'  dovuta  al  proprietario  espropriato,  secondo  la
citata  norma,  e'  pari  alla media del valore venale del bene e del
reddito  dominicale  rivalutato  riferito  all'ultimo  decennio,  con
un'ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra cosi' ottenuta.
    Si  deve,  in  primo  luogo,  osservare  che  e' stato modificato
l'originario  criterio  previsto  dalla  legge n. 2892 del 1885, che,
essendo  mirata  al  risanamento  di  una  grande  citta',  prevedeva
coerentemente  il ricorso, ai fini della media, alla somma risultante
dai  «fitti  coacervati»  dell'ultimo  decennio.  C'era  l'evidente e
dichiarata  finalita'  di  indennizzare  i  proprietari di fabbricati
ricadenti nell'area urbana, tenendo conto che gli stessi erano per lo
piu'  degradati, ma densamente abitati da inquilini che pagavano alti
canoni  di  locazione.  Si  intendeva,  in  tal  modo, indennizzare i
proprietari  per  il venir meno di un reddito concreto costituito dai
fitti che gli stessi percepivano. L'indennizzo cosi' calcolato poteva
essere  anche  piu'  alto del valore venale del bene in se' e per se'
considerato.
    La sostituzione dei fitti coacervati con il reddito dominicale ha
spostato verso il basso l'indennita' rispetto a quella prevista dalla
legge  per  il  risanamento  di Napoli, con il risultato pratico che,
nella  generalita'  dei  casi,  la  somma ottenuta in base alla media
prevista  dalla  legge  e' di circa il 50 per cento del valore venale
del  bene.  A  cio'  si  aggiunge l'ulteriore decurtazione del 40 per
cento, evitabile solo con la cessione volontaria del bene.
    5.6.  - Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana
sia  quella  della Corte europea concordano nel ritenere che il punto
di  riferimento  per  determinare l'indennita' di espropriazione deve
essere  il  valore  di  mercato (o venale) del bene ablato. V'e' pure
concordanza  di  principio  -  al  di  la'  delle diverse espressioni
linguistiche  impiegate - sulla non coincidenza necessaria tra valore
di  mercato  e indennita' espropriativa, alla luce del sacrificio che
puo'  essere  imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del
raggiungimento di fini di pubblica utilita'.
    Rispetto  alla  pregressa giurisprudenza di questa Corte, si deve
rilevare   un   apparente   contrasto  tra  le  sentenze  di  rigetto
(principalmente  la  n. 283  del 1993) sulle questioni riguardanti la
norma  oggi  nuovamente censurata e la netta presa di posizione della
Corte  di  Strasburgo circa l'incompatibilita' dei criteri di computo
previsti in tale norma e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU.
    In  realta',  come  rilevato,  questa  Corte - nel dichiarare non
fondata la questione relativa all'art. 5-bis del decreto-legge n. 333
del  1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992
-  ha  posto  in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina,
giustificata  dalla  grave  congiuntura  economica che il Paese stava
attraversando  ed ha precisato - come s'e' ricordato al paragrafo 5.2
-  che  la  valutazione  sull'adeguatezza dell'indennita' deve essere
condotta   in   termini   relativi,   avendo   riguardo   al   quadro
storico-economico ed al contesto istituzionale.
    Sotto   il   primo  profilo,  si  deve  notare  che  il  criterio
dichiaratamente   provvisorio   previsto  dalla  norma  censurata  e'
divenuto   oggi  definitivo,  ad  opera  dell'art. 37  del  d.P.R.  8
giugno 2001,  n. 327  (Testo  unico  delle disposizioni legislative e
regolamentari  in  materia  di espropriazione per pubblica utilita) -
non censurato ratione temporis dal giudice rimettente -, che contiene
una norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto
normativo  compilativo.  E'  venuta  meno,  in  tal  modo,  una delle
condizioni  che  avevano  indotto  questa  Corte  a ritenere la norma
censurata non incompatibile con la Costituzione. Ne' si puo' ritenere
che  una  «sfavorevole  congiuntura  economica»  possa  andare avanti
all'infinito, conferendo sine die alla legislazione una condizione di
eccezionalita' che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura
ed  entra  in  contraddizione con la sua stessa premessa. Se problemi
rilevanti  di  equilibrio  della finanza pubblica permangono anche al
giorno  d'oggi - e non si prevede che potranno essere definitivamente
risolti nel breve periodo - essi non hanno il carattere straordinario
ed  acuto  della situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992,
che  indusse  Parlamento  e Governo ad adottare misure di salvataggio
drastiche e successivamente non replicate.
    Un'indennita'  «congrua, seria ed adeguata» (come precisato dalla
sentenza  n. 283 del 1993) non puo' adottare il valore di mercato del
bene  come  mero  punto  di  partenza  per  calcoli successivi che si
avvalgono  di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in
modo  tale  da  lasciare  alle  spalle  la  valutazione iniziale, per
attingere  risultati  marcatamente lontani da essa. Mentre il reddito
dominicale  mantiene  un  sia  pur  flebile  legame  con il valore di
mercato  (con  il risultato pratico pero' di dimezzare, il piu' delle
volte, l'indennita), l'ulteriore detrazione del 40 per cento e' priva
di  qualsiasi  riferimento,  non  puramente aritmetico, al valore del
bene.  D'altronde tale decurtazione viene esclusa in caso di cessione
volontaria  e  quindi  risulta  essere  non  un  criterio, per quanto
«mediato»,  di valutazione del bene, ma l'effetto di un comportamento
dell'espropriato.
    5.7.  -  Da quanto sinora detto si deve trarre la conclusione che
la norma censurata - la quale prevede un'indennita' oscillante, nella
pratica,  tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene
-  non  supera  il  controllo  di  costituzionalita'  in  rapporto al
«ragionevole   legame»   con   il  valore  venale,  prescritto  dalla
giurisprudenza  della  Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con
il  «serio  ristoro»  richiesto  dalla  giurisprudenza consolidata di
questa  Corte. La suddetta indennita' e' inferiore alla soglia minima
accettabile  di  riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche
in  considerazione  del  fatto  che la pur ridotta somma spettante ai
proprietari  viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale,
la  quale - come rileva il rimettente - si attesta su valori di circa
il  20  per cento. Il legittimo sacrificio che puo' essere imposto in
nome  dell'interesse  pubblico  non  puo'  giungere sino alla pratica
vanificazione dell'oggetto del diritto di proprieta'.
    Non  emergono,  sulla  base  delle considerazioni fin qui svolte,
profili  di  incompatibilita' tra l'art. 1 del primo Protocollo della
CEDU,  quale  interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento
costituzionale  italiano,  con  particolare  riferimento  all'art. 42
Cost.
    Si  deve tuttavia riaffermare che il legislatore non ha il dovere
di commisurare integralmente l'indennita' di espropriazione al valore
di  mercato  del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla legge di
riconoscere  e  garantire  il  diritto  di proprieta', ma ne mette in
risalto  la  «funzione  sociale».  Quest'ultima deve essere posta dal
legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all'art. 2 Cost.,
che   richiede   a   tutti   i  cittadini  l'adempimento  dei  doveri
inderogabili  di  solidarieta'  economica  e  sociale. Livelli troppo
elevati  di  spesa per l'espropriazione di aree edificabili destinate
ad  essere  utilizzate  per  fini  di  pubblico  interesse potrebbero
pregiudicare  la  tutela  effettiva  di diritti fondamentali previsti
dalla  Costituzione  (salute,  istruzione,  casa,  tra  gli  altri) e
potrebbero   essere  di  freno  eccessivo  alla  realizzazione  delle
infrastrutture   necessarie   per   un   piu'   efficiente  esercizio
dell'iniziativa economica privata.
    Valutera'   il   legislatore   se  l'equilibrio  tra  l'interesse
individuale  dei  proprietari  e la funzione sociale della proprieta'
debba    essere    fisso   e   uniforme,   oppure,   in   conformita'
all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo
differenziato,  in  rapporto  alla  qualita'  dei  fini  di  utilita'
pubblica   perseguiti.   Certamente  non  sono  assimilabili  singoli
espropri  per finalita' limitate a piani di esproprio volti a rendere
possibili  interventi  programmati  di  riforma  economica o migliori
condizioni  di  giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della
spesa  per  espropriazioni  renderebbe  impossibili  o troppo onerose
iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una
riparazione,  ancorche' piu' consistente, per gli «espropri isolati»,
di cui parla la Corte di Strasburgo.
    Esiste  la possibilita' di arrivare ad un giusto mezzo, che possa
rientrare  in  quel «margine di apprezzamento», all'interno del quale
e'  legittimo,  secondo  la  costante  giurisprudenza  della Corte di
Strasburgo,  che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti
in  via  generale  dalle  norme  CEDU,  cosi' come interpretate dalle
decisioni  della  stessa  Corte.  Cio'  e' conforme peraltro a quella
«relativita' dei valori» affermata, come ricordato sopra, dalla Corte
costituzionale  italiana.  Criteri di calcolo fissi e indifferenziati
rischiano  di  trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto
alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto
riguardo  alla  portata  sociale  delle  finalita'  pubbliche  che si
vogliono  perseguire,  pur sempre definite e classificate dalla legge
in via generale.
    E'   inoltre   evidente  che  i  criteri  per  la  determinazione
dell'indennita' di espropriazione riguardante aree edificabili devono
fondarsi  sulla  base  di  calcolo rappresentata dal valore del bene,
quale  emerge  dal  suo  potenziale  sfruttamento non in astratto, ma
secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei
diversi territori.
    6.  -  La  dichiarazione  di  illegittimita' costituzionale della
norma  censurata  in  riferimento  all'art. 117,  primo comma, Cost.,
rende superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l'art. 111
Cost.,  in  rapporto all'applicabilita' della stessa norma ai giudizi
in  corso  al  momento della sua entrata in vigore, poiche', ai sensi
dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non
potra'   avere   piu'   applicazione   dal   giorno  successivo  alla
pubblicazione delle presente sentenza.
    7.  -  Ai  sensi  dell'art. 27  della  legge n. 87 del 1953, deve
essere    dichiarata    l'illegittimita'   costituzionale,   in   via
consequenziale,  dei  commi 1  e 2 dell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del
2001, che contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto
con la Costituzione dalla presente sentenza.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    Dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1
e  2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento  della  finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359;
    Dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l'illegittimita' costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 37,
commi 1  e  2,  del  d.P.R.  8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilita).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.
                         Il Presidente: Bile
                       Il redattore: Silvestri
                       Il cancelliere: Melatti
    Depositata in cancelleria il 24 ottobre 2007.
                       Il cancelliere: Melatti
07C1244