N. 32 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 ottobre 1997
N. 32 Ordinanza emessa il 22 ottobre 1997 dal tribunale di Pordenone nel procedimento penale a carico di Moras Luigi ed altri Processo penale - Dibattimento - Esame di persone imputate in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione salvo l'accordo delle parti - Lamentata irripetibilita' e non utilizzabilita' di tali dichiarazioni per la decisione - Disparita' di trattamento rispetto al regime previsto per altre fonti di prova irripetibili nella fase dibattimentale ma utilizzabili per la decisione (artt. 354, 431 e 5l2 del cod. proc. pen.) - Lesione dei principi di indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale. Processo penale - Dibattimento - Valutazione delle prove - Nuova normativa - Disciplina transitoria - Lamentata sostanziale applicabilita' della novella ai procedimenti in corso - Irragionevolezza. Processo penale - Dibattimento - Valutazione delle prove - Nuova normativa - Disciplina transitoria - Esame di persone imputate in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Previsione di limiti alla valutazione come prove di tali dichiarazioni (attendibilita' confermata da altri elementi di prova) - Irragionevole disparita' di trattamento rispetto al regime previsto per altre fonti di prove - Lesione dei principi di indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale. Processo penale - Dibattimento - Valutazione delle prove - Modifiche normative - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Diversita' di regime a seconda se tali persone siano state esaminate per la prima volta o meno successivamente all'entrata in vigore della novella - Incidenza sul diritto di difesa - Lesione dei principi di indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale. (C.P.P. 1998, art. 513, modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1; legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 6, commi 2 e 5). (Cost., artt. 2, 3, 24, 101 e 112).(GU n.6 del 11-2-1998 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale. I. - Le premesse. Nell'ambito del giudizio penale di primo grado n. 165/1995 r.g. a carico di Moras Luigi, Lo Bue Ettore, Lo Bue Francesco, Stabile Rocco, Bernardin Antonio e De Ben Steno, in accoglimento delle richieste istruttorie avanzate dal p.m. in data 25 novembre 1996, nel corso dell'udienza del 17 febbraio 1997 si procedeva all'esame di Roncali Lino, Giuanuario Gianfranco, Gianuario Raffaele, Zaghet Dario, Silot Walter e Amadori Pasqua, e cio' nelle forme di cui all'art. 210 c.p.p., essendo soggetti imputati in procedimento connesso per i quali si era proceduto separatamente. Essendosi costoro avvalsi della facolta' di non rispondere, su richiesta del p.m. il Collegio disponeva l'acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese dai predetti a mente dell'art. 513 c.p.p. nel testo anteriormente vigente alla novella della legge 7 agosto 1997, n. 267. L'esame delle suddette dichiarazioni evidenzia, allo stato, la sussistenza di chiamate in correita' a carico di alcuni degli odierni imputati soprattutto da parte di Gianuario Gianfranco e, in misura minore, da parte di Gianuario Raffaele e Roncali Lino. All'udienza del 13 ottobre 1997, in accoglimento dell'istanza del p.m., veniva disposto un nuovo esame di Roncali Lino e Gianuario Gianfranco ai sensi dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, che veniva effettuato nel corso della medesima udienza, avvalendosi gli stessi ulteriormente della facolta' di non rispondere. Premetteva all'incombente il Collegio, con ordinanza allegata al verbale di udienza, di ritenere l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone di cui sopra, disposta all'udienza del 17 febbraio 1997, formalita' equipollente alla lettura per le stesse prevista dall'originaria formulazione dell'art. 513 c.p.p., essendo l'acquisizione finalizzata alla lettura dei verbali in questione (con cio' richiamandosi ai principi espressi sul punto dalla suprema Corte: cfr. Cass., sez. IV, 29 ottobre 1996, n. 10585; Cass., sez. I, 10 febbraio 1994, n. 1723), giustificandosi pertanto la rinnovazione dell'esame delle persone sopra indicate con il disposto della norma transitoria dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997 (che appunto presuppone l'avvenuta lettura delle dichiarazioni precedentemente rese). Parimenti, veniva disposta la citazione per l'udienza odierna di Gianuario Raffaele, Amadori Pasqua, Zaghet Dario e Silot Walter, per rendere nuovo esame, nel corso della quale i predetti (ad eccezione della Amadori Pasqua, non comparsa per un impedimento) si avvalevano ulteriormente della facolta' di non rispondere. Vale a questo punto precisare che, qualora si dovesse dissentire dall'orientamento espresso dal Collegio in ordine all'equipollenza tra l'acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese e la loro lettura prevista dall'art. 513 c.p.p. ante novella, la nuova audizione degli imputati in procedimento connesso sopra menzionati deve quantomeno essere ricondotta nell'ambito applicativo della formulazione dell'art. 513 c.p.p. nel testo attualmente vigente. II. - La rilevanza. In tale contesto processuale, la rilevanza delle dedotte questioni di incostituzionalita' e' evidente sia in fatto sia in diritto: in fatto, perche' le dichiarazioni di imputati di procedimento connesso, che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere, afferiscono all'oggetto del processo, come e' dato dimostrare sia da quanto sopra gia' evidenziato in ordine alle chiamate in correita' sia dalle liste testimoniali richieste dal p.m. in data 12 marzo 1996 e 13 novembre 1996 (quest'ultima depositata a seguito del mutamento del Collegio per effetto della pronunzia da parte della Corte, costituzionale della sentenza n. 131 del 24 aprile 1996, con conseguente ricelebrazione ab imo del giudizio), autorizzate dal presidente ed ammesse dal collegio giudicante, nonche' dall'esposizione introduttiva e dalle istanze istruttorie rassegnate dal p.m. all'udienza del 25 novembre 1996 (cfr. da pag. 31 a pag. 40 della trascrizione) con riferimento alla richiesta di audizione, tra gli altri, di coimputati nel medesimo procedimento che avevano chiesto l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.; in diritto perche' le norme delle quali si eccepisce l'incostituzionalita', l'art. 513 c.p.p. e l'art. 6 legge n. 267/1997, sono certamente applicabili al presente processo, che pende nel primo grado di giudizio. III. - La non manifesta infondatezza. La comprensione dei profili di incostituzionalita' oggetto di denuncia impone, preliminarmente, il richiamo di alcuni dei limiti posti al legislatore nella elaborazione di modelli processuali dal vigente assetto costituzionale, siccome individuati nel tempo dalla giurisprudenza della Consulta. La stessa Corte costituzionale, infatti, ha segnalato che "(...) va premesso, sul piano metodologico, che la considerazione dell'ordinamento processuale italiano va condotta a prescindere da astratte modellistiche sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa (...) richiede attuazione. Non va, cioe', dimenticato che il sistema processuale delineato nella legge delega ed attuato nel codice e' affatto originale, dato che tende bensi' ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma secondo i criteri ed i principi direttivi specificati nelle direttive che seguono; e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di attuare i principi della Costituzione, una adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare" (Corte cost., sentenza n. 111/1993). Al riguardo, si osservi che i principi contenuti nella sentenza n. 254 del 1992 (con la quale e' stata ritenuta l'incostituzionalita' dell'originaria formulazione dell'art. 513 c.p.p., nella parte in cui non consentiva la lettura in sede dibattimentale delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da alcuna delle persone indicate da quell'articolo), ben lungi dal rappresentare un novum negli orientamenti della Corte costituzionale, costituiscono al contrario espressione di una costante giurisprudenza. Ed invero il principio di non dispersione della prova ha, nella costante interpretazione del giudice delle leggi, significato costituzionale e trova fondamento negli artt. 2, 3 e 25, secondo comma, Cost., che in un sistema orientato dai principi di solidarieta', uguaglianza e legittimita' impongono, quale fine primario ed ineludibile del processo penale, quello della ricerca della verita' (cfr. Corte cost., sentenza n. 255/1992; cfr. in tal senso Corte cost., sentenze n. 179/1994, n. 111/1993, n. 24/1992, n. 258/1991). In considerazione di cio', la Corte ha invero affermato che "(...) l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta nella disciplina del codice il veicolo esclusivo della formazione della prova in dibattimento; cio' perche' - e' appena il caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia con i principi della Costituzione: come reso esplicito dall'art. 2, prima parte, e nella direttiva 73 della legge delega, tradottasi nella formulazione degli artt. 506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258/1991 di questa Corte), di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa di fatto prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatasi prima ed al di fuori del dibattimento. (...) Il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente o non genuinamente acquisibili con il metodo orale" (cfr. Corte cost. sentenza n. 255/1992). Del pari, il principio della obbligatorieta' dell'azione penale, nella sua ineliminabile connessione con il principio di legalita', e' incompatibile con "(...) norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione" (cfr. Corte cost., n. 111/1993). In conclusione, deve escludersi che sia stato costituzionalizzato un modello processuale di tipo accusatorio puro - nel quale il processo penale sarebbe "una tecnica di soluzione tra conflitti nel cui ambito al giudice sarebbe assegnato un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte ed il giudizio avrebbe la funzione di non accertare i fatti reali, onde pervenire ad una decisione il piu' possibile aderente al risultato del diritto sostanziale, ma di attingere a quella sola verita' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello" -; inoltre, il principio della oralita' del processo, nel vigente assetto costituzionale, e' limitato da principi ad esso sovraordinati, e tra essi vi e' certamente quello della conservazione delle prove. Orbene, gia' siffatte considerazioni sarebbero sufficienti ad evidenziare la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale prospettata. Del resto, la possibilita' di un contrasto tra le norme di cui alla legge n. 267/1997 e l'interpretazione delle norme costituzionali adottata dalla Corte costituzionale emerge con chiarezza dalla Relazione al disegno di legge e dai lavori preparatori: nella prolusione al disegno di legge n. 964, comunicato alla presidenza il 16 luglio 1996, si legge testualmente uno specifico riferimento alla sentenza n. 254/1992, nella quale, secondo gli autori, la Corte costituzionale "(...) ha visto, sbagliando, una irragionevolezza tra la disciplina prevista nel primo comma (dell'art 513 vecchia formulazione) per le dichiarazioni dell'imputato e la disciplina prevista dal secondo comma per le dichiarazioni di persone imputate in procedimenti connessi e ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del secondo comma dell'art. 513 c.p.p." (cfr. Relazione al disegno di legge n. 964 relativo alla modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove, p. 3, comma 1, ultimo periodo, ultimo capoverso); nella trentatreesima seduta della Commissione giustizia del Senato, in data 9 ottobre 1996, si prospettava la possibilita' di un nuovo intervento della Corte su qualsiasi soluzione tendente a tornare alla situazione di diritto antecedente alla sentenza della Consulta, possibilita' a cui si obiettava che "(...) la piu' volte citata sentenza della Corte costituzionale sarebbe stata sopravvalutata poiche' in quell'occasione il giudice della legittimita' costituzionale ha erroneamente ravvisato una sperequazione tra la disciplina di cui al primo comma e quella di cui secondo comma" (cfr. Lavori Parlamentari, resoconto della trentatreesima seduta). E tuttavia, una piu' attenta analisi del contenuto delle norme e degli effetti che esse producono all'interno del sistema processuale vigente, impone di individuare ulteriori profili di incostituzionalita', che si traducono in reiterate violazioni degli artt. 3, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione. III. A. - Le violazioni dell'art. 3 della Costituzione. 1.a. - La prospettazione delle censure d'incostituzionalita' alle norme introdotte con la legge n. 267/1997 muove da alcune premesse in diritto poste dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione al concetto di atto irripetibile. Al riguardo, la Consulta, nel respingere una questione di incostituzionalita', ha osservato come l'esercizio del diritto di astenersi dal rendere dichiarazioni costituisce una oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo: trattasi della sentenza n. 179 del 1994, nella quale veniva analizzato il problema, non dissimile dal punto di vista strutturale da quello oggetto della presente questione, delle conseguenze giuridiche connesse all'esercizio, in sede dibattimentale, del diritto di astensione dei prossimi congiunti, dopo che costoro, in sede di indagini preliminari abbiano deciso di rendere dichiarazioni. La Corte costituzionale, al riguardo, ha precisato che "(...) verificandosi quest'ultima ipotesi, pur se in seguito all'esercizio di un diritto, si determina comunque quella oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo che, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., consente di dare lettura degli atti assunti anteriormente al dibattimento". Orbene, se cosi e', se cioe' l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce un fatto oggettivo e non prevedibile, e' evidente la irragionevole disparita' di trattamento esistenze tra l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite nelle indagini preliminari in assenza di contraddittorio, irripetibili nella fase dibattimentale e pienamente utilizzatili per decidere - si pensi ai verbali degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (cfr. art. 431, primo comma, lett. b) c.p.p) quali gli accertamenti ed i rilievi sullo stato dei luoghi, delle cose o delle persone (art. 354, secondo e terzo comma, c.p.p.), verbali di arresto, perquisizione e sequestro, verbali degli atti irripetibili compiuti dal pubblico ministero (art. 431, lett., c), c.p.p) - e l'imputato raggiunto da fonti di prova quali le dichiarazioni di imputato di procedimento connesso, irripetibili per l'esercizio da parte di quest'ultimo del diritto di non rispondere e non utilizzabili per la decisione. 1.b. - Similmente, analoga ed irragionevole disparita' di trattamento si determina tra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di imputato connesso, assunte in assenza di contraddittorio, irripetibili a' sensi dell'art. 512 c.p.p. ed utilizzabili per la decisione, e l'imputato raggiunto dalle dichiarazioni di imputato connesso, irripetibili per l'esercizio del diritto di non rispondere e non utilizzabili per la decisione (l'irragionevolezza si dimostra ancora piu' evidente ove si pensi che le dichiarazioni rese da un imputato connesso o collegato sono garantite dalla presenza del suo difensore e dalla presenza del p.m., o di una delega di costui alla p.g., cosa che non accade in tutti i casi dinanzi richiamati di irripetibilita' degli atti). 1.c. - E siffatte censure assumono maggiore pregnanza con specifico riferimento alla norma transitoria, che sostanzialmente estende ai giudizi in corso la disciplina prevista dall'art. 513 c.p.p., giacche', nei procedimenti ai quali si applica l'art. 6 legge n. 267/1997, nel momento in cui sono stati assunti gli atti ed e' stata esercitata l'azione penale non solo era imprevedibile il contenuto dell'esercizio del diritto di non rispondere ma era addirittura ragionevolmete prevedibile l'esistenza di un regime probatorio, quale quello all'epoca vigente, di piena utilizzazione, nei limiti valutativi dell'art. 192 c.p.p., delle dichiarazioni di imputati connessi. 2.a. - Ancora, avuto riguardo al parametro costituzionale dell'art. 3, una ulteriore censura si pone con esclusivo riferimento alla disciplina transitoria, nella parte in cui, disposta la citazione delle persone che si siano gia' avvalse della facolta' di non rispondere e ribadito da parte di costoro l'esercizio di tale facolta', prevede che le dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari possono essere utilizzate se riscontrate da altri elementi di prova, presenti nel processo, che non siano dichiarazioni rese alla p.g., al p.m. o al g.i.p. da parte di soggetti che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere: orbene, anche sotto tale angolo di visuale si introduce una irragionevole disparita' di trattamento tra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di imputato connesso il cui contenuto sia riscontrato da fonti di prova irripetibili, anche aventi natura dichiarativa e provenienti da imputati connessi, per le quali non scatta il divieto previsto dalla norma transitoria, giacche' lettura ne e' data a' sensi dell'art. 512 c.p.p., formatesi in assenza di contraddittorio nella fase delle indagini preliminari; e l'imputato che sia raggiunto da dichiarazioni di imputato connesso riscontrate da altre dichiarazioni di imputati connessi, irripetibili per l'esercizio del diritto di non rispondere. 2.b. - Va quindi ulteriormente osservato che la norma transitoria di cui all'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, dispone che il nuovo esame delle persone indacate dall'art. 513 c.p.p. sia subordinato alla richiesta di una delle parti processuali. Qualora la summenzionata richiesta abbia luogo ed i coimputati si siano quindi ulteriormente avvalsi, nel corso del nuovo esame, della facolta' di non rispondere, l'art. 6, quinto comma, legge n. 267/1997, si preoccupa di segnalare la valenza probatoria da riservare alle dichiarazioni precedentemente rese dai predetti, disponendo che "(...) le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della presente legge" (cfr. art. 6, quinto comma, ultima parte, legge n. 267/1997). Va quindi rilevato che il precetto risultante dalla nuova formulazione dell'art. 513, secondo comma, c.p.p., siccome modificato dall'art. 1 legge n. 267/1997, risulta applicabile ai procedimenti penali in corso nei confronti delle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. che siano state esaminate per la prima volta successivamente all'entrata in vigore della legge n. 267/1997, trattandosi di norma processuale: cfr. artt. 2 c.p. ed 11 disp. sulla legge in generale. Ora, la disciplina dettata dall' art. 513, secondo comma, c.p.p., se da un lato subordina l'utilizzabilita' delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. - che nel corso dell'esame si siano avvalse della facolta' di non rispondere -, all'accordo delle parti, dall'altro lato induce l'applicazione della norma generale di cui all'art. 192, terzo comma, c.p.p. per quanto attiene alla valutazione probatoria delle dichiarazioni medesime. Stima il Collegio che i canoni di giudizio di cui all'art. 6, quinto comma, ultima parte, legge n. 267/1997 siano indubbiamente piu' restrittivi di quelli dettati dall'art. 192, terzo comma, c.p.p.: nel mentre, infatti, questi consentono al giudice di valutare come prove le dichiarazioni rese dalle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. la cui attendibilita' si deduca da elementi probatori di riscontro - intrinseci ed estrinseci, secondo quanto piu' volte affermato dalla giurisprudenza della suprema Corte: cfr. Cass. pen., ss.uu. 22 febbraio 1993, n. 1653 - anche desunti da dichiarazioni rese dal medesimo dichiarante o da altro soggetto al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della legge in commento; quelli, al contrario, escludono espressamente la facolta' del giudice di attingere elementi di riscontro, intrenseci ed estrinseci, alle dichiarazioni in commento desumendoli da quanto affermato dal medesimo dichiarante o da altro soggetto al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della legge in commento. Ne consegue che, nell'ipotesi processuale sin qui indagata, le dichiarazioni precedentemente rese dalle persone di cui all'art. 210 c.p.p. nei cui confronti sia stata disposto un nuovo esame a mente dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, sono soggette a canoni valutativi piu' restrittivi rispetto a quelli di cui all'art. 192, terzo comma, c.p.p., riservati al giudizio delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indacate dall'art. 210 c.p.p. che siano state sottoposte per la prima volta ad esame successivamente all'entrata in vigore della legge n. 267/1997 e si siano avvalse della facolta' di non rispondere, pur venendo i soggetti esaminati nell'ambito del medesimo giudizio penale in corso. Ritiene il Collegio che il sistema sin qui ricostruito si ponga in irriducibile contrasto con l'art. 3 della Costituzione, a motivo dell'irragionevole disparita' di trattamento tra le dichiarazioni rese, nel medesimo giudizio penale in corso, da persona indicata dall'art. 210 c.p.p. per la quale sia stato disposto un nuovo esame a mente dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, nel corso del quale si sia ulteriormente avvalsa della facolta' di non rispondere, rispetto a quelle rese nell'ambito del medesimo giudizio penale da persona indicata dall'art. 210 c.p.p. della quale sia stato disposto l'esame per la prima volta successivamente all'entrata in vigore della legge in commento, poiche' situazioni analoghe, verificatisi nel medesimo contesto processuale, ricevono trattamenti irrazionalmente diversi, con pregiudizio della posizione delle parti per quel che concerne non gia l'acquisizione delle prove, quanto piuttosto la loro valutazione, cio' ponendo in insanabile antinomia l'art. 6, quinto comma, legge n. 267/1997 con l'art. 1 legge n. 267/1997 e conseguentemente verificandosi contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione La sollevata questione di legittimita' costituzionale risulta ulteriormente rilevante ai fini della decisione del presente giudizio, ne' appare manifestamente infondata, ove si osservi che la diversa valenza probatoria riservata dall'art. 6, quinto comma, ultima parte, legge n. 267/1997 e dall'art. 1 legge n. 267/1997 alle dichiarazioni rese da persona indacata dall'art. 210 c.p.p., e' eventualmente idonea a provocare e condizionare i poteri collegiali di integrazione probatoria di cui all'art. 506, primo comma, c.p.p., nonche' quelli di istruzione suplettiva di cui all'art. 507 c.p.p. 2.c. - Censure di natura analoga a quelle precedentemente esposte e da aversi qui per integralmente trascritte, stima il Collegio di rassegnare in ordine alla norma di cui all'art. 6, quinto comma, legge n. 267/1997 con riferimento alla disposizione di cui all'art. 513, primo comma, c.p.p.: va infatti rilevato che il riferimento legislativo alle "(...) persone indicate dall'art. 513 del codice di procedura penale" operato dall'art. 6, quinto comma, legge n. 267/1997, nella parte in cui si richiama ai precedenti commi, inerisce sia alle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. - e della valutazione delle cui dichiarazioni si e' sopra indagato -, sia ai coimputati nei cui confronti l'ipotesi processuale della separazione del procedimento non sia stata adottata, verificandosi per costoro la contigenza del cd. simultaneus processus, dovendosi riprodurre in relazione alla diversa valutazione delle dichiarazioni rese dai coimputati non separati che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere anteriormente o posteriormente all'entrata in vigore della legge in parola, - ad esse riservata, rispettivamente, dagli artt. 6, quinto comma, legge n. 267/1997 e 192, terzo comma, c.p.p. - le doglianze sopra evidenziate. 3. - Infine, ulteriore ed irragionevole disparita' di trattamento ha tra l'ipotesi in cui un soggetto sia raggiunto da dichiarazioni di imputato connesso che ritratti o che decida di rispondere selettivamente alle domande e l'imputato raggiunto da dichiarazioni rese da imputati connessi che si avvalgono della facolta' di non rispondere: nel primo caso, infatti, a seguito delle contestazioni saranno pienamente utilizzabili ai fini del decidere le dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio in sede di indagini preliminari. III. B. - Le violazioni dell'art. 101 della Costituzione. L'esposizione delle violazioni dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione generate dalla introduzione della nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. e della norma transitoria di cui all'art. 6 legge n. 267/1997, deve necessariamente essere preceduta da un'analisi della giurisprudenza della Consulta in ordine al rapporto esistente tra l'integrale disponibilita' della prova in capo alle parti ed il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. Al riguardo, la Corte costituzionale ha osservato come un principio dispositivo non puo' dirsi neppure "(...) esistente sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la res iudicanda" (cfr. Corte cost., sentenza n. 111/1993). In particolare, la Consulta ha affermato che il potere di decisione del giudice del merito della causa non puo' essere condizionato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro (cfr. Corte cost., sentenza n. 92/1992). Orbene, se l'indisponibilita' dell'oggetto del processo penale si traduce in una indisponibilita' della prova per le parti; se il potere del giudice di decidere non puo' essere condizionato nel merito da scelte processuali delle parti, a fortiori il potere del giudice di decidere non puo' essere condizionato, nel merito, dal verificarsi di una condizione meramente potestativa, costituita dall'esercizio del diritto di non rispondere, rimessa alla volonta' di un soggetto che nel processo non assume neppure la veste di parte: ed e' appena il caso di osservare come il far dipendere l'esito di un processo dall'esercizio di un diritto siffatto esponga il titolare di questo diritto a pressioni, ricatti, blandizie di varia natura, che in ultima analisi finirebbero per essere la ragione vera di una sentenza di assoluzione o di condanna. Sempre sulla base di tali principi, deve ritenersi l'incostituzionalita' delle disposizioni, contenute nelle norme richiamate, che subordinano al consenso di entrambe le parti l'utilizzazione delle dichiarazioni rese da una delle persone indicate dall'art. 210 c.p.p.. Al riguardo, e' appena il caso di osservare la difficolta' di tradurre, nel processo penale, astratti schemi di parita' delle parti: sul punto, la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che "(...) mette conto anzitutto notare che la stessa caratterizzazione del processo penale come processo di parti, nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non puo' non considerare che il pubblico ministero e' un magitrato indipendente appartenente all'ordine giudiziario, che non fa valere interessi particolari ma che agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale dell'osservanza della legge" (cfr. Corte cost., sentenza n. 111/1993). III.C. - Le violazioni dell'art. 112 della Costituzione. La disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997, con riferimento sia alla nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. sia alla normativa transitoria, e' certamente idonea a violare, e sotto piu' profili, il principio di obbligatorieta' dell'azione penale. Per comprendere il grado di tali violazioni, anche in questo caso, e' opportuno richiamare la costante giurisprudenza della Corte costituzionale sul punto. La premessa fondamentale da cui muove il corpus giurisprudenziale della Consulta in materia di obbligatorieta' dell'azione penale e' che esso esprime, in connessione con il principio di legalita', l'indisponibilita' della tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale (cfr. Corte cost., sentenza n. 111/1993: "(...) e', per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta per i fatti realmente commessi"; in tale sentenza la Corte richiama altri suoi provvedimenti allineati sugli stessi principi, quali la sentenza n. 92/1992 e la sentenza n. 56/1993). Da tale assunto, la Consulta fa discendere l'inesistenza di un principio integralmente dispositivo sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda (cfr. Corte cost., n. 111/1993: "(...) il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale"). Orbene, se il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, nel suo ineliminabile nesso con il principio di legalita', preclude la possibilita' di una prova nella assoluta disponibilita' delle parti, a fortiori e' costituzionalmente illegittima una norma che rimetta ad una condizione meramente potestativa, costituita dalla volonta' di un soggetto che non e' neppure parte nel processo, l'utilizzabilita' di una prova ai fini del decidere. E tale censura di incostituzionalita' diviene ancora piu' pregnante se la si considera in riferimento alla norma transitoria, in conseguenza della quale ad azione penale gia' esercitata, la mera ed intollerabile volonta' di un soggetto esterno al processo determina le sorti della medesima, con ulteriore vulnus del principio di obbligatorieta' dell'azione penale nella sua connessione con il favor actionis di cui all'art. 24 della Costituzione (sui nessi tra obbligatorieta' dell'azione penale e favor actionis: cfr. Corte cost., sentenza n. 478/1993, dove esplicitamente si afferma "(...) il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige, quindi, che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice: in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor actionis, nello stesso senso, cfr. Corte cost., sentenza n. 88/1991; negli stessi lavori parlamentari, peraltro, era stata rappresentata la possibilita' di una lesione, derivante dalla disciplina transitoria, al diritto di azione di cui all'art. 24 della Costituzione, poiche' al pubblico ministero sarebbe sottratta l'aspettativa di una prova sulla quale aveva fatto affidamento nella previgente disciplina: cfr. lavori parlamentari, II commissione, 121 seduta del 17 aprile 1997, resoconto pag. 29, Il capoverso). Ulteriore profilo di violazione dell'art. 112 della Costituzione si trae dalla considerazione di esso in relazione ai principi di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Al riguardo, la Consulta ha rilevato che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il pincipio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di uguaglianza di f'onte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione". E certamente le previsioni di cui alle norme oggetto di censura costituzionale si pongono come limite irragionevole al processo di accertamento della realta', poiche' conferiscono ad un soggetto terzo, che ha gia' esercitato i suoi diritti di imputato o di indagato rendendo dichiarazioni con valenza accusatoria, un potere incontrollabile di determinare le sorti di un processo.
P .Q. M. Visti gli artt. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge 7 agosto 1997, n. 267, nonche' dell'art. 6, secondo e quinto comma, della medesima legge n. 267/1997, in relazione agli artt. 2, 3, 24, 101, 112 della Costituzione, nelle parti e per i profili di cui in motivazione; Sospende il presente procedimento; Manda alla cancelleria per la notificazione della presente ordinanza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e per le comunicazioni al Presidente della Camera dei deputati ed Presidente del Senato della Repubblica; Dispone la trasmissione degli atti del procedimento e della presente ordinanza alla Corte costituzionale; Alla cancelleria per gli incombenti. Pordenone, addi' 22 ottobre 1997 Il presidente: Pergola 98C0072