N. 164 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 marzo 2015

Ordinanza del 4 marzo 2015 del Tribunale di Milano  nel  procedimento
civile promosso da B.R. e S.D. contro  Fondazione  IRCCS  Ca'  Granda
Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. 
 
Procreazione medicalmente assistita - Accesso alle tecniche - Divieto
  per le coppie non affette da sterilita' o infertilita', (pur  se  )
  portatrici di patologie geneticamente trasmissibili  -  Conseguente
  impossibilita' per tali coppie di valersi della  diagnosi  e  della
  selezione  preimpianto,   evitando   la   gravidanza   naturale   e
  l'eventuale aborto terapeutico  -  Lesione  di  diritti  soggettivi
  inviolabili, quali il diritto della coppia a un figlio "sano" e  il
  diritto all'autodeterminazione nelle scelte procreative - Ingerenza
  indebita nella vita della  coppia  -  Violazione  dei  principi  di
  uguaglianza e di ragionevolezza -  Incoerenza  tra  il  divieto  di
  ricorso alla PMA e la possibilita' di aborto terapeutico quando  il
  feto risulti affetto da gravi  patologie  -  Discriminazione  delle
  coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile,
  rispetto alle coppie sterili  o  infertili  o  in  cui  l'uomo  sia
  affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili -  Violazione
  del diritto alla  salute  della  donna,  per  difetto  di  adeguato
  bilanciamento con la tutela della salute dell'embrione -  Contrasto
  con la  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo
  (CEDU), in relazione al diritto al rispetto della  vita  privata  e
  familiare e al divieto di discriminazione - Richiamo alla  sentenza
  della Corte di Strasburgo 28 agosto 2012, Costa e Pavan c. Italia. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, in relazione  agli
  artt. 8 e 14 della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
  dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
(GU n.36 del 9-9-2015 )
 
                         TRIBUNALE DI MILANO 
                          Sezione I Civile 
 
    R.B. e S.D., elettivamente domiciliati in  Milano,  via  Giovanni
Battista Carta n. 36, presso lo studio  dell'avv.  Lara  Giglio  che,
unitamente all'avv. Gianni Baldini, li rappresenta e difende come  da
procura in calce al ricorso introduttivo; 
    Ricorrenti contro Fondazione IRCCS Ca' Granda  Ospedale  Maggiore
Policlinico di Milano,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro
tempore, elettivamente domiciliata in Milano, via XX Settembre n. 24,
presso lo studio dell'avv. Valerio Onida e dell'avv. Barbara Randazzo
che la rappresentano e difendono come  da  procura  a  margine  della
comparsa di costituzione; 
    Resistente il  giudice,  a  scioglimento  della  riserva  assunta
all'udienza del 12 febbraio 2015, letti gli atti di causa e vista  la
documentazione prodotta ha emesso la seguente; 
 
                              Ordinanza 
 
    Con  ricorso  ex  art.  700  del  codice  di  procedura   penale,
depositato il 2 ottobre  2014  R.B.  e  S.D.  evocavano  in  giudizio
l'Ospedale Maggiore Policlinico, in persona del legale rappresentante
pro tempore, deducendo, in fatto: ehe erano conviventi sin dal  2001;
che il sig. S. era affetto da  esostosi  multiple  ereditarie  (EME),
patologia irreversibile, trasmissibile  geneticamente  con  modalita'
autosomica dominante che coinvolgeva  tutto  l'apparato  scheletrico;
che volevano accedere  alle  tecniche  di  procreazione  medicalmente
assistita, precedute da diagnosi pre-impianto, in  quanto  la  natura
della malattia avrebbe determinato un rischio  di  trasmissione,  con
mutazioni anche piu' gravi, nella misura pari al 50%;  che,  a  causa
della patologia del sig. S. la  coppia  doveva  essere  ritenuta  non
fertile, in quanto vi sarebbe stato un alto rischio di trasmettere la
patologia genetica incurabile, con esiti infausti, alla  prole;  che,
il 2 luglio 2014, si erano rivolti all'Ospedale Maggiore  Policlinico
(di seguito,  per  brevita',  solo  Policlinico)  per  accedere  alla
fecondazione  medicalmente  assistita  e  per  effettuate  l'indagine
clinica diagnostica sull'embrione; che, con  referto  n.  1155642,  a
firma della dott.ssa  R.B.  ai  ricorrenti  era  stato  suggerito  di
rivolgersi  a  centri  per  la  diagnosi  genetica  preimpianto   per
l'esostosi multipla ereditaria; che  il  Policlinico  era  un  centro
pubblico autorizzato ad applicare tecniche di II livello,  dotato  di
tutta la strumentazione e le attrezzature necessarie e che, pertanto,
ben poteva eseguire la diagnosi preimpianto richiesta  dalla  coppia;
che, a fronte del diniego  della  struttura  pubblica  resistente,  i
ricorrenti si erano recati, per due  volte,  in  Grecia  ove  avevano
effettuato  la  diagnosi  preimpianto  in  vista  della  procreazione
medicalmente assistita (sostenendo costi pari ad euro 13.097,54),  ma
che tali tentativi non avevano dato esito positivo; che i  ricorrenti
non avevano la possibilita' di  realizzare  in  altro  modo  il  loro
diritto a diventare  genitori,  non  avendo  condizioni  personali  e
lavorative o mezzi economici sufficienti per effettuare  la  diagnosi
preimpianto nei centri privati. 
    Premessi tali elementi di fatto, in diritto,  e  con  particolare
riferimento al requisito del fumus boni iuris, evidenziavano: che  il
diniego  opposto  dalla  struttura  sanitaria  convenuta  determinava
l'impossibilita' di conoscere lo  stato  di  salute  dell'embrione  e
provocava  la  lesione  di   diritti   costituzionalmente   garantiti
(articoli 2, 13, 29  e  32  Cost.)  alla  salute  dei  genitori,  del
nascituro, all'autodeterminazione (consentita dalla conoscenza  dello
stato di salute dell'embrione), alla realizzazione della personalita'
attraverso la  genitorialita';  che,  in  particolare,  era  leso  il
diritto  all'eguaglianza  dei  cittadini,  atteso  che  solo  i  piu'
abbienti potevano recarsi in strutture di  procreazione  medicalmente
assistita private; che si era realizzata,  altresi',  una  violazione
dell'art. 9 Cost. in quanto il rifiuto opposto dal Policlinico  aveva
impedito ai ricorrenti di valersi  dello  sviluppo  della  cultura  e
della ricerca scientifica; che tali principi  erano  stati  affermati
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (nella sentenza Costa Pavan
c. Italia) e  dalla  giurisprudenza  nazionale;  che  il  diritto  di
procreare senza il concreto  ed  attuale  rischio  di  compromissione
della  salute  del   nascituro   e   della   donna   costituiva   una
specificazione dell'art. 8  della  Cedu,  avente  natura  di  diritto
fondamentale  della  persona;  che  il  divieto  di  ricorrere   alla
procreazione   medicalmente   assistita   per   effettuare   diagnosi
preimpianto per le coppie  portatrici  di  grave  patologia  genetica
trasmissibile   alla   prole   costituiva   una    irragionevole    e
sproporzionata compressione di un  fondamentale  diritto  soggettivo;
che, a fronte della pronuncia della Corte  Edu,  il  giudice  avrebbe
dovuto  disapplicare  la  normativa  nazionale  contrastante  con  le
disposizioni Cedu oppure, non ritenendo possibile  un'interpretazione
adeguatrice   alla   norma   interposta,   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale;  che  la  legge  n.  40/2004  presentava
numerosi  profili  di   illegittimita'   costituzionale,   risultando
contraria al disposto degli articoli  2,  3,  32,  117,  comma  1  in
relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu. 
    In merito al periculum in  mora  evidenziavano  che,  in  ragione
dell'eta' della sig.  B.  (35  anni)  e  della  grave  patologia  del
ricorrente, che aveva delle ripercussioni anche sul piano psicofisico
della coppia, il trascorrere del tempo avrebbe comportato un  aumento
della  percentuale  di  insuccesso  delle  tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita. Concludevano,  pertanto,  chiedendo:  1)  nel
merito e, in via principale, dichiarare il diritto dei ricorrenti di:
a) ricorrere alle metodiche di procreazione  medicalmente  assistita;
b)  ottenere  l'esecuzione   di   indagini   cliniche   diagnosticate
sull'embrione; c) sottoporsi ad un  protocollo  di  PMA  adeguato  ad
assicurare le piu' alte chances di  risultato  utile  compatibilmente
con quanto stabilito nella sentenza Corte Cost. 151/09; d) sottoporsi
ad un  trattamento  medico  eseguito  secondo  tecniche  e  modalita'
compatibili con un elevato livello di tutela della salute della donna
nel caso concreto;  ordinare  all'Ospedale  Policlinico  Maggiore  di
Milano di ottemperare agli obblighi previsti dalla legge  n.  40/2004
eseguendo le indagini cliniche e diagnostiche sull'embrione  previste
per legge ed il trasferimento in utero  della  sig.ra  B.R.  solo  di
embrioni sani, nonche' pronunciare ogni altro provvedimento  ritenuto
opportuno e conseguente; 2)  in  via  subordinata,  disapplicare  gli
articoli 1, commi 11 e 2, 4  comma  1  della  legge  n.  40/2004  per
contrasto con l'art. 8 della  Cedu  e  per  l'effetto  dichiarare  il
diritto dei ricorrenti come sopra declinato; 3) in via  ulteriormente
subordinata, sollevare la questione  di  legittimita'  costituzionale
degli articoli 1, commi 1 e  2  e  4  della  legge  n.  40/2004,  per
contrasto con gli articoli  11  e  117  Cost,  per  violazione  degli
articoli 2, 3, 13 e 32 Cost.; in ogni caso accertare il  diritto  dei
ricorrenti, stante l'indisponibilita' del Policlinico ad eseguire  la
metodica di diagnosi preimpianto, al rimborso delle  spese  sostenute
per effettuare le dette analisi  nei  centri  medici  stranieri,  con
vittoria di spese, competenze ed onorari, da distrarsi in favore  dei
difensori che si dichiarano antistatari. 
    Con decreto  del  7  ottobre  2014  il  giudice  fissava  per  la
comparizione delle parti l'udienza del 23 ottobre 2014. 
    La Fondazione 1RCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore  Policlinico  di
Milano,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro  tempore,  con
comparsa depositata il 22 ottobre 2014, si costituiva deducendo:  che
non sussisteva il requisito del  fumus  boni  iuris,  atteso  che  il
Policlinico  non  aveva  rifiutato  la  prestazione  in  ragione  del
disposto della legge n. 40/2004, ma  solo  a  causa  di  problemi  di
ordine  tecnico  legati  alla  mancanza  di  strumentazione  e  delle
specifiche  competenze  necessarie;  che  difettava,   altresi',   il
requisito del periculum in mora in quanto le diagnosi  preimpianto  e
la procreazione medicalmente assistita, in una coppia giovane come  i
ricorrenti, erano procedimenti ripetibili indefinitamente  nel  tempo
in caso di insuccesso; che  la  malattia  genetica  dalla  quale  era
affetto il sig. S. era una malattia rara, non mortale ne'  gravemente
invalidante e che il test genetico volto  a  verificare  la  presenza
della detta malattia  avrebbe  richiesto  l'adozione  di  particolari
tecniche e strumentazioni, non in possesso dell'ente  convenuto;  che
il test genetico e le tecniche di procreazione medicalmente assistita
richieste dai ricorrenti non rientravano tra le prestazioni  poste  a
carico del Servizio sanitario nazionale;  che  l'eventuale  contrasto
tra una disposizione di legge interna e la  Convenzione  europea  non
avrebbe potuto dar luogo  al  potere-dovere  di  disapplicazione,  da
parte  del  giudice  il  quale  avrebbe  dovuto,  invece,   sollevare
questione di legittimita' costituzionale; che, nel caso in esame tale
questione  sarebbe  stata  comunque  inammissibile  per  difetto   di
rilevanza, atteso che il Policlinico non aveva contestato il  diritto
dei ricorrenti, coppia fertile, ad accedere alla diagnosi preimpianto
in  vista  della  procreazione  medicalmente  assistita,   ma   aveva
evidenziato  che  tale   prestazione   non   rientrava   tra   quelle
obbligatorie  per  il  Servizio  sanitario  nazionale  e   che,   per
difficolta'  tecniche,  l'ente  resistente  non   poteva   eseguirla.
Concludeva, pertanto, chiedendo dichiarare inammissibili  e  comunque
infondate le richieste di parte ricorrente, con vittoria di spese  ed
onorari. 
    Nel  corso  del  procedimento  le  parti   depositavano   memorie
integrative. 
    Con  memoria  depositata  il  15  dicembre  2014   i   ricorrenti
evidenziavano che: la domanda era volta  ad  ottenere  una  specifica
prestazione sanitaria in quanto parte integrante della prestazione di
procreazione  medicalmente  assistita,  incidente  sul  diritto  alla
salute del paziente  in  modo  primario;  le  censure  relative  alla
tipologia della malattia genetica che affliggeva il sig. S. erano del
nato inconferenti  attese  le  numerose  limitazioni  che  la  stessa
comportava e la necessita' di valutare tale patologia alla luce della
rappresentazione del proprio progetto genitoriale  e  dell'integrita'
psico fisica della coppia e del  nascituro;  che  l'esecuzione  della
diagnosi  preimpianto  non  avrebbe  richiesto  strumentazioni  cosi'
sofisticate, come allegato dalla difesa dell'ente resistente. 
    Con memoria di replie,a il Policlinico deduceva:  che  era  stato
istituito un tavolo di lavoro  presso  la  DG  salute  della  regione
Lombardia, con lo  scopo  di  elaborare  una  proposta  di  linee  di
indirizzo per l'applicazione della diagnosi  preimpianto  all'interno
di un percorso assistenziale completo relativo alla coppia che accede
alla procreazione medicalmente assistita; che, con determinazione del
12  dicembre  2014  si  era   stabilito,   altresi',   di   procedere
all'effettuazione della diagnosi preimpianto, ancorche'  non  dovuta,
nei confronti delle coppie che potevano accedere alla PMA,  ai  sensi
della legge n. 40/2004 per le malattie genetiche che, in ragione  del
grado di trasmissibilita', del rischio di trasmissione e del  livello
di espressivita' siano mortali o avessero un rilevante impatto  sulla
qualita' della vita; che il  diritto  invocato  dai  ricorrenti,  non
affermato da alcuna disposizione di legge, potrebbe essere  affermato
solo all'esito di una pronuncia della Corte  costituzionale;  che  la
questione di legittimita' costituzionale sarebbe comunque irrilevante
in ragione del fatto che i ricorrenti hanno agito  per  ottenere  dal
Policlinico una prestazione per la quale lo stesso non dispone,  allo
stato, di condizioni tecniche ed organizzative necessarie. 
    All'udienza del 12 febbraio 2015 le parti  discutevano  oralmente
la causa - anche con riferimento all'elemento sopravvenuto,  noto  ad
entrambe, relativo all'inclusione della PMA nei livelli essenziali di
assistenza - ed il giudice riservava la decisione. 
1. Il diritto vantato dai ricorrenti. 
    Prima di esaminare il  contenuto  del  diritto  azionato  in  via
cautelare, appare opportuno chiarire che la domanda volta ad ottenere
la restituzione delle somme versate dai ricorrenti  per  eseguire  la
diagnosi  reimpianto  presso  centri  siti  all'estero  deve   essere
dichiarata inammissibile per difetto dei requisiti previsti dall'art.
700 del codice di  procedura  civile  (requisiti,  peraltro,  neanche
specificamente  allegati  in  merito  alla  detta  domanda  da  parte
ricorrente). 
    Cio' posto, con il ricorso in esame  R.B.  e  D.S.,  premesso  di
essere una coppia fertile nella quale  uno  dei  futuri  genitori  e'
affetto da una grave  patologia  geneticamente  trasmissibile,  hanno
chiesto  al  tribunale  di  Milano  di  ordinare  al  Policlinico  di
consentire ai ricorrenti di ricorrere alle metodiche di  procreazione
medicalmente assistita e di eseguire,  come  parte  integrante  delle
stesse, le necessarie indagini cliniche  preimpianto  al  fine  poter
mettere  al  mondo  un  figlio  non  affetto  da  esostosi   multiple
ereditarie. 
    Hanno rappresentato la sussistenza dei requisiti del periculum in
mora e del fumus boni iuris. 
    Del tutto preliminare,  sebbene  non  specificamente  argomentato
dalle parti, l'esame del nesso di strumentalita' tra il  procedimento
cautelare (anticipatorio, come nel caso in esame) e quello di merito. 
    In via generale deve condividersi l'orientamento seguito da buona
parte  della  giurisprudenza  di  merito,  secondo  cui  il   ricorso
contenente una domanda cautelare  proposta  prima  dell'inizio  della
causa di merito deve contenere l'esatta indicazione  di  quest'ultima
o, almeno, deve consentirne l'individuazione in modo certo, in quanto
solo tale indicazione consente di accertare il carattere strumentale,
rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta (cfr.  in  tal
senso: tribunale di Torino, 7 maggio 2007; tribunale  di  Torino,  23
agosto 2002; tribunale Bari, 12 dicembre  2002;  tribunale  Roma,  14
giugno 2001; tribunale Monza, 24 gennaio 2000; tribunale  Napoli,  30
aprile 1997). 
    Nel caso in esame  ricorrenti  hanno  precisato  le  domande  che
avrebbero  svolto  nel  giudizio  ordinario,  evidenziando  che   «e'
intenzione  dei  ricorrenti  agire  in  via  ordinaria  per  ottenere
l'affermazione  del  loro  diritto  di  accedere  alle  pratiche   di
procreazione assistita con  PGD  ed  ottenere  un  provvedimento  che
consenta al centro medico di adempiere alla loro richiesta». 
    Deve, pertanto, ritenersi soddisfatto il requisito relativo  alla
necessaria strumentalita' tra il procedimento cautelare e  quello  di
merito. 
    Cio' posto, i ricorrenti chiedono di accedere  alle  tecniche  di
procreazione  medicalmente  assistita,  in  quanto  coppia   fertile,
portatrice di patologia geneticamente  trasmissibile,  e  di  potersi
avvalere del servizio di diagnosi preimpianto in  modo  da  conoscere
l'eventuale trasmissione della patologia all'embrione. 
    Solo per completezza, si rileva che - come allegato dalla  difesa
dei ricorrenti all'udienza di discussione e non contestato  dall'ente
resistente - la procreazione medicalmente assistita  e'  ora  inclusa
tra le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale  e'  tenuto  a
fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di  una
quota di partecipazione. 
    Nel merito, si  osserva  che  la  c.d.  diagnosi  preimpianto  e'
disciplinata dagli articoli 13  e  14  della  legge  n.  40/2004.  In
particolare l'art. 13, comma 2, dispone che: «la  ricerca  clinica  e
sperimentale su ciascun embrione umano e' consentita a condizione che
si perseguano finalita' esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad
essa collegate  volte  alla  tutela  della  salute  e  allo  sviluppo
dell'embrione stesso, e qualora  non  siano  disponibili  metodologie
alternative», mentre l'art. 14, comma 5, prevede che «i  soggetti  di
cui all'art. 5 sono informati sul numero e, su loro richiesta,  sullo
stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell'utero». 
    La ricerca clinica sull'embrione e' dunque consentita, con limiti
ben determinati,  all'interno  di  un  procedimento  di  procreazione
medicalmente assistita che, come evidenziato poco sopra,  costituisce
l'oggetto della domanda cautelare spiegata dalle parti. 
    Ritiene, pertanto, questo giudice  che  la  valutazione  relativa
alla possibilita'  di  interpretare  le  disposizioni  relative  alla
diagnosi preimpianto in modo conforme alla Costituzione  (cosi'  come
fatto da parte della giurisprudenza  di  merito,  cfr.  tribunale  di
Cagliari, ord.  22-24  settembre  2007,  tribunale  Firenze  ord.  17
dicembre 2007, tribunale Firenze,  ord.  11  luglio  2008,  tribunale
Milano, ord. 8 marzo  2009)  non  consentirebbe  di  rispondere  alle
domande spiegate dai ricorrenti, i  quali  hanno  promosso  l'odierno
ricorso allo scopo di eseguire un test (mirato alla diagnosi  di  una
specifica  malattia   genetica),   preliminare   alle   tecniche   di
procreazione medicalmente assistita (funzionali ad evitare di mettere
al mondo un figlio affetto dalla grave patologia genetica dalla quale
e' affetto il sig. S. 
    Del tutto preliminare,  quindi,  e'  accertare  se  i  ricorrenti
abbiano  diritto  di   accedere   alle   tecniche   di   procreazione
medicalmente assistita. 
    La legge n. 40/2004, all'art. 4, dispone che:  «il  ricorso  alle
tecniche di procreazione medicalmente assistita  e'  consentito  solo
quando sia accertata  l'impossibilita'  di  rimuovere  altrimenti  le
cause impeditive della procreazione ed e'  comunque  circoscritto  ai
casi di sterilita' o di infertilita' inspiegate documentate  da  atto
medico nonche' ai casi di  sterilita'  o  di  infertilita'  da  causa
accertata e certificata da atto medico». Secondo le nuove linee guida
dettate dal Ministero della salute nel 2008 (decreto 11 aprile  2008,
n. 31639, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  il  30  aprile  2008),
inoltre, il ricorso alle tecniche di PMA e' consentito anche ai  casi
in  cui  l'uomo  sia  portatore  di  malattie   virali   sessualmente
trasmissibili. 
    Le disposizioni appena richiamate circoscrivono il  ricorso  alle
tecniche di procreazione  medicalmente  assistita  ai  soli  casi  di
sterilita', infertilita' o di coppia in cui l'uomo sia  portatore  di
malattie virali sessualmente trasmissibili. 
    I ricorrenti, come evidenziato poco  sopra,  non  si  trovano  in
alcuna delle fattispecie in cui  e'  riconosciuto  il  diritto  della
coppia a ricorrere alle tecniche  di  PMA  in  quanto  la  coppia  e'
fertile  e  l'uomo  e'  portatore  di  una  patologia   geneticamente
trasmissibile. 
    La stessa conclusione si ricava dalla lettura dell'art. 1,  commi
1 e 2, della legge in esame. L'accesso alla procreazione medicalmente
assistita,  come  specificamente   argomentato   dalla   difesa   dei
ricorrenti,  e'  il  presupposto  perche'  la  coppia  fertile  possa
accedere alla  diagnosi,  alla  quale  il  ricorso  alla  tecnica  e'
finalizzato, e conoscere se l'embrione sara' affetto dalla  patologia
genetica prima di accedere all'impianto in utero, cosi' da evitare la
scelta di una eventuale interruzione di gravidanza. 
    Il limite al ricorso alla PMA, posto alle  coppie  fertili  dagli
articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio  2004,
n. 4, appare dunque in contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 Cost.  in
quanto violerebbe  il  diritto  all'autodeterminazione  nelle  scelte
legate  alla  procreazione,   il   principio   di   eguaglianza,   di
ragionevolezza e il  diritto  alla  salute,  costringendo  le  coppie
fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, come  la
coppia B. S., ad una  gravidanza  naturale  ed  all'eventuale  aborto
terapeutico. 
    Il predetto limite si pone altresi' in contrasto con l'art.  117,
comma 1 Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu. 
2. Superamento del limite di accesso alla PMA per le coppie  fertili,
attraverso  la  disapplicazione  delle   disposizioni   ritenute   in
contrasto   o   attraverso   una   lettura    costituzionalmente    o
convenzionalmente orientata. 
    Per valutare la possibilita' di superare  il  predetto  contrasto
attraverso la disapplicazione degli articoli 1, commi 1  e  2,  e  4,
comma   1   della   legge   n.   40/2004   e   dunque   una   lettura
costituzionalmente orientata delle  disposizioni  in  esame,  occorre
esaminare quanto affermato dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo
nella sentenza Costa e Pavan c. Italia 28 agosto 2012. 
    La Corte Edu, senza operare distinzioni tra diagnosi  preimpianto
e   procreazione   medicalmente   assistita,   essendo    la    prima
necessariamente  funzionale  alla  seconda,  ha  chiarito   che   «il
desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un  figlio  non  affetto
dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere,  a
tal fine, alla procreazione medicalmente assistita  e  alla  diagnosi
pre-impianto rientra nel campo  della  tutela  offerta  dall'art.  8»
della Convenzione. Ha poi ritenuto con riferimento  alla  fattispecie
sottoposta al suo esame (il diritto invocato dai  ricorrenti,  coppia
fertile, di accedere alla diagnosi preimpianto per poter generare  un
figlio non affetto da mucoviscidosi) l'irragionevolezza  del  divieto
imposto dall'art. 4 alle coppie non affette  da  sterilita',  ma  che
siano portatrici di malattia ereditaria con  conseguente  rischio  di
trasmissione al concepito, di accedere alla procreazione medicalmente
assistita e, segnatamente, alla tecnica  di  fecondazione  vitro  con
selezione degli embrioni attraverso la diagnosi preimpianto,  laddove
«l'orientamento italiano permette di ricorrere all'aborto terapeutico
nel caso in cui il feto risulti affetto da patologie  di  particolare
gravita' quali  la  fibrosi  cistica».  Tale  ultimo  riferimento  e'
chiaramente da intendersi fatto  alle  disposizioni  della  legge  n.
194/1978  che  consentono  l'interruzione   della   gravidanza   gia'
avanzata, ovverosia oltre i primi novanta giorni, nel caso in cui  il
feto risulti affetto da patologie, quali quelle relative a  rilevanti
anomalie del nascituro, che determinano  un  grave  pericolo  per  la
salute fisica o psichica della donna. «Non si comprende - continua la
Corte - lo  scopo  della  proibizione  considerato  che  l'aborto  ha
conseguenze sicuramente  piu'  gravi  della  selezione  dell'embrione
successivamente a PDG sia per il nascituro che si trova in  stato  di
formazione piu' avanzato, sia per i genitori in  particolare  per  la
donna».  Tale  argomentazione  porta  i  giudici  sopranazionali   ad
escludere la funzionalita' del  divieto  imposto  dall'art.  4  della
legge n. 40/2004 rispetto allo scopo perseguito dalla stessa legge  -
consistente nella tutela  del  nascituro  -  e,  conseguentemente,  a
concludere che la disciplina in vigore, traducendosi  in  un'indebita
ingerenza nella vita privata e familiare dei  ricorrenti,  non  possa
ritenersi proporzionale ne' necessaria alla  protezione  dei  diritti
cui si assume sia sottesa. 
    Cio' posto, questo  giudice  deve  verificare  se,  nel  presente
procedimento, sia possibile  disapplicare  i  piu'  volte  richiamati
articoli 1 e 4 della legge n. 40/2004 in applicazione  diretta  delle
statuizioni contenute nella sentenza Edu sopra citata. 
    In  merito  al  rapporto  tra  ordinamento   interno,   normative
internazionali  e  Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo,  la
giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze n. 348  e  n.
349 del 2007, e' costante nel ritenere che le norme  della  Cedu  nel
significato  loro  attribuito  dalla  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione)  -  integrino,
quali  «norme  interposte»,  il  parametro  costituzionale   espresso
dall'art. 117, primo comma,  Cost.  nella  parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
«obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009,  n.  39
del 2008).  In  questa  prospettiva,  ove  si  profili  un  eventuale
contrasto fra una norma interna e una norma della  Cedu,  il  giudice
comune  deve  verificare   anzitutto   la   praticabilita'   di   una
interpretazione della  prima  in  senso  conforme  alla  Convenzione,
avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e,  ove
tale verifica dia esito negativo  -  non  potendo  a  cio'  rimediare
tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante
- egli  deve  denunciare  la  rilevata  incompatibilita',  proponendo
questione di legittimita' costituzionale in riferimento  all'indicato
parametro. A sua volta,  la  Corte  costituzionale,  investita  dello
scrutinio, pur non potendo  sindacare  l'interpretazione  della  Cedu
data dalla Corte europea, resta legittimata a  verificare  se,  cosi'
interpretata, la norma della  Convenzione  -  quale  si  colloca  pur
sempre a un livello sub-costituzionale - si  ponga  eventualmente  in
conflitto con altre norme della  Costituzione:  «ipotesi  eccezionale
nella  quale  dovra'  essere  esclusa  la   idoneita'   della   norma
convenzionale  a   integrare   il   parametro   considerato»   (Corte
costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80). 
    Alla luce  della  citata  giurisprudenza  costituzionale  (citata
anche dalla difesa dell'ente resistente), deve ritenersi che le norme
della Cedu,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, integrano, quali  norme  interposte  il  parametro
costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma Cost., nella parte
in cui impone la conformazione della legislazione interna ai  vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali. 
    Pertanto il giudice ordinario deve, in primo luogo, verificare se
il conflitto tra disposizione legislativa e norma internazionale puo'
essere  eliminato  adeguando,  in  via   interpretativa,   la   norma
legislativa a questa particolare norma interposta; se cio' si  rivela
impossibile,  deve  sollevare  dinanzi  alla   Corte   costituzionale
questione   di   legittimita'   costituzionale   della   disposizione
legislativa rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1 Cost. 
    Ne' a diverse conclusioni puo'  giungersi,  come  invocato  dalla
difesa dei ricorrenti,  affermando  che,  per  effetto  dell'adesione
dell'Unione europea alla Cedu (e,  in  particolare  in  virtu'  delle
modifiche apportate dal trattato di Lisbona), i diritti  fondamentali
garantiti dalla Convenzione diventano diritto dell'Unione, in  quanto
principi generali, con le dovute conseguenze relative ai rapporti tra
sistemi normativi, non piu' regolati dall'art. 117,  comma  1  Cost.,
bensi' dall'art. 11 Cost. 
    Come chiarito dalla Corte  costituzionale,  infatti,  «l'adesione
dell'Unione europea alla Cedu non e' ancora  avvenuta  rendendo  allo
stato improduttiva di effetti la  statuizione  del  paragrafo  2  del
nuovo art. 6 del trattato dell'Unione europea,  come  modificato  dal
trattato di Lisbona» (Corte Cost. 210/2013). La Corte ha, inoltre, da
tempo precisato che in linea di principio, dalla  qualificazione  dei
diritti fondamentali oggetto di disposizioni della Cedu come principi
generali  del  diritto  comunitario  non  puo'  farsi  discendere  la
riferibilita' alla Cedu del parametro di cui all'art. 11 Cost.,  ne',
correlativamente, la spettanza del giudice comune  del  potere-dovere
di non applicare  la  norme  interne  contrastanti  con  la  predetta
Convenzione» (Corte cost. 303/2011). 
    Le argomentazioni che precedono consentono di affermare  come  la
via  della  disapplicazione,  invocata  dai   ricorrenti,   non   sia
percorribile. 
    Del pari non possibile appare l'interpretazione degli articoli 1,
commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004 orientata  in  senso
conforme alle disposizioni costituzionali. 
    Gli articoli 1 e 4 della  legge  n.  40/2004,  infatti,  limitano
espressamente il ricorso alle tecniche di  procreazione  medicalmente
assistita ai casi in cui sia accertata l'impossibilita' di  rimuovere
altrimenti le cause impeditive della procreazione.  E'  espressamente
circoscritto il ricorso alle predette tecniche ai casi di  sterilita'
o di infertilita' inspiegate documentate da atto medico,  nonche'  ai
casi di sterilita' da causa accertata e certificata da atto medico. 
    La chiara lettera della legge, confermata anche dall'utilizzo  di
espressioni dal senso univoco  (quali  circoscrivere),  non  consente
l'interpretazione estensiva richiesta dai ricorrenti (interpretazione
possibile  solo  ove  il  significato  letterale  delle   espressioni
utilizzate dal legislatore non sia chiaro). 
    Ne'   a   diverse   conclusioni   puo'   giungersi   in   ragione
dell'ampliamento della nozione di infertilita' derivante dalle  nuove
linee guida del Ministero della salute (decreto dell'11 aprile  2008,
n. 31639), che hanno esteso l'accesso alla procreazione  medicalmente
assistita anche alle coppie in cui  l'uomo  e'  affetto  da  malattie
virali sessualmente trasmissibili. 
    In tali ultimi casi, infatti, sussiste un elevatissimo rischio di
infezione per la madre e per il feto, conseguente a rapporti sessuali
non protetti per il partner,  rischio  che,  di  fatto,  preclude  la
possibilita' di avere un  figlio  a  queste  coppie,  imponendo  loro
l'adozione di precauzioni che si  traducono  necessariamente  in  una
condizione ascrivibile all'infertilita' previsti dalla legge  n.  40.
L'impossibilita'  di  estendere  il  concetto  di  infertilita'   ha,
pertanto, richiesto l'adozione di  uno  specifico  decreto  idoneo  a
consentire l'accesso alla PMA, anche alle coppie  in  cui  l'uomo  e'
affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili. 
    In conclusione, si ritiene che il  presente  giudizio  non  possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione  della  questione
di legittimita' costituzionale che, pertanto, si solleva dell'art. 1,
commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004, per  contrasto  con
gli articoli 2, 3 e 32 Cost, nonche' per contrasto  con  l'art.  117,
comma 1 Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu. 
3. Ammissibilita' della questione in sede cautelare. 
    In via generale si osserva che  il  giudice  della  cautela  ante
causam ha i requisiti per poter  essere  considerato  giudice  a  quo
poiche' nella  giurisdizione  cautelare  vi  e'  pieno  rispetto  del
contraddittorio  con  contrapposizione  di  interessi  fra  le  parti
(interesse dei ricorrenti ad ottenere la prestazione medica richiesta
ed  interesse  della  parte  resistente  a  non   porre   in   essere
comportamenti sanzionati dal legislatore  trovandosi  ad  operare  in
condizione di potenziale contrasto con  quanto  previsto  dal  codice
deontologico) la  cui  composizione  -  seppur  in  via  d'urgenza  -
richiede comunque l'intervento del giudice istituzionalmente deputato
al controllo della legittimita' costituzionale  qualora,  come  nella
fattispecie oggetto di valutazione, non si intenda  accedere  ad  una
lettura  costituzionalmente  orientata   di   norme   sospettate   di
incostituzionalita' (Corte costituzionale sentenza n.  457/93;  Corte
costituzionale sentenza n. 186/76). 
    A  tale  considerazione  deve  poi  aggiungersi  che   la   Corte
costituzionale, con la pronuncia n.  151/2009  ha  chiarito  che  «la
giurisprudenza di questa Corte  ammette  la  possibilita'  che  siano
sollevate questioni di legittimita' costituzionale in sede cautelare,
sia quando il giudice non provveda sulla domanda, sia quando  conceda
la relativa misura, purche'  tale  concessione  non  si  risolva  nel
definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella  sede
il giudice fruisce» (sentenza 161 del 2008 e  ordinanze  n.  393  del
2008 e 25 del 2000). 
4. Rilevanza. 
    In merito alla rilevanza, osserva il tribunale che  i  ricorrenti
sono  una  coppia  fertile  (come  dagli  stesso   allegato   e   non
contestato),  con  il  rischio  di  trasmettere  l'esostosi  multiple
ereditarie, patologia genetica ereditaria dalla quale e'  affetto  il
sig. S. al figlio con una  probabilita'  del  50%  (come  certificato
dalla dott.ssa S.M., e dalla dott.ssa N.V., dell'Ospedale San Gerardo
di Monza, centro di consulenza genetica). 
    Per poter decidere sulla richieste dei ricorrenti, di ordinare in
via d'urgenza, anche in considerazione dell'eta' della  sig.  B.  (35
anni) e delle caratteristiche della patologia che  affligge  il  sig.
S., all'ospedale resistente di consentire l'accesso alla procreazione
medicalmente assistita, presupposto imprescindibile per effettuare la
diagnosi preimpianto, e' necessario applicare la  legge  19  febbraio
2004, n. 40. 
    In  merito   alle   censure   di   parte   resistente,   relative
all'irrilevanza della questione  di  legittimita'  costituzionale  in
ragione  della  non  contestazione  sull'esistenza  del   diritto   e
dell'esistenza di problemi di ordine tecnico all'effettuazione  della
ricerca clinica richiesta, si osserva quanto segue. 
    Osserva il tribunale che l'art. 4 della legge n.  40/2004  limita
il ricorso alla PMA  ai  soli  casi  di  sterilita'  o  infertilita'.
L'estensione del diritto in  esame  a  casi  non  disciplinati  dalla
legge, e dunque in violazione di una norma  di  legge  espressa,  non
rientra nella disponibilita' delle parti. Il diritto  dei  ricorrenti
di accedere alle tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita,
pertanto, non costituisce oggetto di un diritto disponibile a  fronte
del quale la controparte puo' non contestare  l'astratta  sussistenza
del diritto, opponendo in fatto ostacoli di ordine tecnico. 
    La «non contestazione» del Policlinico sul  diritto  vantato  dai
ricorrenti non priva, pertanto, di rilevanza la questione  in  esame,
in quanto il diritto di  una  coppia  fertile  affetta  da  patologia
geneticamente  trasmissibile  ad  accedere  alla  PMA  potra'  essere
riconosciuto  solo  in  seguito  ad   una   pronuncia   della   Corte
costituzionale che ravvisi un contrasto tra l'art. 4, comma  1  della
legge n. 40 e i sopra enunciati articoli della Costituzione. 
    Con  riferimento  agli  ostacoli  di   ordine   tecnico,   legati
all'indisponibilita'  delle  strumentazioni  tecniche  necessarie  ad
eseguire la specifica analisi preimpianto richiesta  dai  ricorrenti,
si osserva quanto segue. 
    In via generale, non  pare  inutile  ricordare  che,  secondo  un
principio desumibile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale,
il diritto ai trattamenti sanitari  necessari  per  la  tutela  della
salute   e'   «garantito   ad   ogni   persona   come   un    diritto
costituzionalmente condizionato all'attuazione che il legislatore  ne
da' attraverso  il  bilanciamento  dell'interesse  tutelato  da  quel
diritto con gli  altri  interessi  costituzionalmente  protetti»  (ex
plurimis, sentenze n. 267 del 1998, n.  304  del  1994,  n.  218  del
1994). Bilanciamento che, tra l'altro, deve tenere conto  dei  limiti
oggettivi che il  legislatore  incontra  in  relazione  alle  risorse
organizzative e finanziarie di cui dispone, restando salvo,  in  ogni
caso, quel «nucleo irriducibile  del  diritto  alla  salute  protetto
dalla Costituzione come  ambito  inviolabile  della  dignita'  umana»
(sentenze n. 309 del 1999, n. 267 del 1998,  n.  247  del  1992),  il
quale impone di impedire  la  costituzione  di  situazioni  prive  di
tutela,  che  possano  appunto  pregiudicare  l'attuazione  di   quel
diritto. 
    Cio' posto, nel caso di specie, in assenza  di  una  legislazione
che, in relazione alle suddette risorse organizzative e  finanziarie,
disciplini il trattamento sanitario per cui e'  causa  (eventualmente
graduando e stabilendo delle linee guida sui criteri da  seguire  per
l'inserimento delle  patologie  genetiche  da  sottoporre  a  ricerca
clinica in vista della PMA e dunque - in merito alla censura relativa
alla non gravita'  della  patologia  che  affligge  il  ricorrente  -
prevedendo un ordine di inclusione delle patologie in  ragione  della
maggiore o minore gravita' delle stesse), le eccezioni spiegate dalla
struttura sanitaria convenuta, eventualmente rilevanti da un punto di
vista amministrativo, seguono, da un punto di vista logico giuridico,
la  risoluzione  della  questione  di  costituzionalita'   in   esame
(attenendo, infatti, ad una valutazione che il legislatore, nel solco
delle pronunce sopra  citate,  potra'  fare  una  volta  stabiliti  i
requisiti per l'accesso alle tecniche  di  procreazione  medicalmente
assistita). 
5. Non manifesta infondatezza. 
    Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, circoscritto
ai soli casi di sterilita' o infertilita', appare  in  contrasto  con
gli articoli 2, 3, 32, 117, comma 1, in relazione  all'art.  8  e  14
della Cedu. 
    In particolare: 
    in merito al contrasto con l'art. 2 Cost., si rileva  che  tra  i
diritti  soggettivi  inviolabili  vi  e'  il  diritto,  fondamentale,
costituzionalmente   garantito   e   personalissimo,   della   coppia
all'autodeterminazione nelle  scelte  procreative  (diritto  ribadito
anche dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014).
Nell'ambito di tale diritto non puo' che essere ricompreso il diritto
ad essere informato in merito alle condizioni di salute dell'embrione
e, segnatamente, in merito alla possibilita'  che  il  futuro  figlio
sara' affetto dalla patologia geneticamente trasmissibile dalla quale
e'  affetto  uno  dei  due  genitori  (patologia   con   rischio   di
trasmissione pari al 50%, fatto non contestato), cosi' da  consentire
l'esercizio di un consenso realmente informato. A  tal  proposito  si
osserva, in particolare, che la selezione preventiva degli  embrioni,
nel caso che ci occupa, non e' volta alla selezione  di  un  embrione
«sano» o dotato di particolari caratteristiche biotipiche  (e  quindi
per il perseguimento di «illegittimi fini eugenetici», come ricordato
dalla citata sentenza n.  162/2014),  ma  alla  scelta  dell'embrione
privo della specifica e grave patologia  geneticamente  trasmissibile
di cui e' portatore uno dei genitori. Il  diritto  alla  procreazione
sarebbe irrimediabilmente leso dalla  limitazione  del  ricorso  alle
tecniche di PMA da parte di coppie che, pur non sterili o  infertili,
rischino pero' concretamente di  procreare  figli  affetti  da  gravi
malattie, a causa di patologie geneticamente  trasmissibili,  di  cui
sono portatori. Il limite  rappresenta  un'ingerenza  indebita  nella
vita della  coppia,  come  affermato  anche  dalla  Corte  Edu  nella
richiamata sentenza Costa Pavan c. Italia, nella quale  la  Corte  ha
precisato che il desiderio di generare un figlio  non  affetto  dalla
patologia genetica di cui sono  portatori  rientra  nel  campo  della
tutela dell'art. 8 della Cedu; 
    l'esclusione delle coppie fertili dalla PMA risulta in  contrasto
con  l'art.  3  della  Costituzione,   inteso   come   principio   di
ragionevolezza, quale coronario  del  principio  di  uguaglianza,  in
quanto  comporta  la  conseguenza  irragionevole  ed  incoerente   di
costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non  affetto
alla  grave  patologia  geneticamente  trasmissibile,  di  avere  una
gravidanza naturale e ricorrere alla scelta  dell'aborto  terapeutico
del feto, consentita dalla legge n. 194/1978. Nel necessario giudizio
bilanciamento tra diritti fondamentali -  giudizio  di  bilanciamento
tra  diritti  che   deve   essere   compiuto   secondo   criteri   di
ragionevolezza  e  proporzionalita'  e  deve  preservare  il   nucleo
essenziale dei valori in gioco - ritiene questo giudice che  impedire
alle coppie fertili il ricorso alla  PMA,  presupposto  per  accedere
alla diagnosi preimpianto e consentire invece, come fa  la  legge  n.
194/1978 alla donna di abortire, nel caso  in  cui  il  feto  risulti
affetto  da  gravi  patologie,  rappresenti  una  scelta  del   tutto
irragionevole, che provoca conseguenze  molto  gravi  per  la  salute
fisica  e  psichica  della  donna  (costretta  a  scelte   ben   piu'
drammatiche,  quali  una   dolorosa   interruzione   di   gravidanza,
successiva ad una scoperta che, in  caso  di  accesso  alla  diagnosi
preimpianto, avrebbe potuto tempestivamente  evitare).  In  relazione
alla  violazione  dell'art.  3  Cost.   si   rileva,   inoltre,   una
discriminazione  delle  coppie  fertili,   portatrici   di   malattia
geneticamente   trasmissibile    -    discriminazione    del    tutto
ingiustificata ed irragionevole alla luce delle considerazioni  sopra
svolte - rispetto  alle  coppie  sterili  o  infertili  che,  invece,
possono  ricorrere  alle  tecniche   di   procreazione   medicalmente
assistita; 
    le norme sopra  indicate  appaiono,  inoltre,  in  contrasto  con
l'art. 32 Cost. in particolare sotto il profilo  della  tutela  della
salute  della  donna  (salute  psichica  e  fisica),  costretta   per
realizzare il desiderio di mettere al mondo un figlio non affetto  da
una specifica grave patologia (che ha un rischio elevato  di  avere),
ad una gravidanza naturale ed a un eventuale aborto terapeutico,  con
conseguente aumento dei rischi per la salute fisica e  psichica,  per
effetto della scelta di procedere,  all'occorrenza,  all'interruzione
volontaria di gravidanza, in assenza  di  un  adeguato  bilanciamento
della tutela della salute della donna con quella dell'embrione; 
    in merito  al  contrasto  con  l'art.  117,  comma  1  Cost.,  in
relazione all'art. 8 della Cedu, si  osserva  che,  come  evidenziato
dalla Corte di  Strasburgo  nella  citata  sentenza  Costa  Pavan  c.
Italia, il divieto imposto dall'art. 4 della legge  n.  40/2004  alle
coppie fertili  affette  da  patologia  geneticamente  trasmissibile,
laddove «l'ordinamento  italiano  permette  di  ricorrere  all'aborto
terapeutico nel caso in cui il feto risulti affetto da  patologie  di
particolare gravita' quale la fibrosi cistica» irragionevole. Per  le
ragioni sopra esposte, la Corte  Edu  ha  evidenziato  che  l'attuale
disciplina si traduce in un'indebita ingerenza nella vita  privata  e
familiare dei ricorrenti e non puo' ritenersi ne'  proporzionale  ne'
necessaria alla protezione dei diritti cui  si  assume  sia  sottesa.
Ricorrono,  pertanto,  le  condizioni  per  sollevare  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e  4,  comma  1
della legge n. 40/2004, per contrasto con l'art. 117, comma 1,  Cost.
in relazione all'art. 8 della Cedu; 
    con  riferimento  all'art.  117,  comma  1  Cost.  in  ordine  al
parametro normativo interposto di cui  all'art.  14  della  Cedu,  si
osserva come l'attuale  disciplina  crei  una  discriminazione  delle
coppie fertili, portatrici di malattie  geneticamente  trasmissibili,
rispetto alle coppie sterili o infertili (o  in  cui  l'uomo  risulti
affetto da patologie sessualmente trasmissibili), che invece  possono
ricorrere alle tecniche di PMA in base alla legge n. 40 del  2004  ed
alla diagnosi preimpianto.  Le  coppie  infertili,  infatti,  possono
ricorrere alla diagnosi preimpianto entro i  limiti  stabiliti  dagli
articoli 4 e 5 della legge n. 40/2004,  mentre  il  divieto  sussiste
solo per le coppie  fertili.  Si  ritiene,  pertanto,  integrata  una
violazione del principio di eguaglianza,  atteso  che  il  differente
trattamento giuridico di soggetti posti in una determinata materia in
situazioni  tra  loro  comparabili  e'  da  ritenersi  privo  di  una
giustificazione oggettiva e ragionevole. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
    Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza,  rimette
alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art.  4,  comma  1  della  legge  19
febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 Cost.,
nonche' con l'art. 117, comma 1 della Costituzione, in relazione agli
articoli 8 e 14 della  Cedu  nella  parte  in  cui  dette  norme  non
consentono il ricorso alla  procreazione  medicalmente  assistita,  e
dunque  anche  alla  diagnosi  preimpianto,  alle   coppie   fertili,
portatrici di malattia geneticamente trasmissibile. 
    Sospende il giudizio e  dispone  l'immediata  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che la presente ordinanza  sia  notificata  a  cura  della
Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio  dei  ministri  e
sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Cosi' deciso in Milano il 4 marzo 2015 
 
                         Il giudice: Flamini