N. 89 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 marzo 2019

Ordinanza  del  1°  marzo  2019  della  Corte   di   cassazione   nel
procedimento penale a carico di M. M.. 
 
Ordinamento penitenziario  -  Detenzione  domiciliare  -  Divieto  di
  applicazione ai condannati per i reati di  cui  all'articolo  4-bis
  della legge n. 354 del 1975. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento  penitenziario
  e sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della
  liberta'), art. 47-ter, comma 1-bis. 
(GU n.24 del 12-6-2019 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        prima sezione penale 
 
    composta da: 
      Mariastefania Di Tomassi, Presidente; 
      Giacomo Rocchi; 
      Teresa Liuni; 
      Giuseppe Santalucia, 
      Francesco Centofanti, relatore;  
    ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto  da  M.
M.  nata  a  ...  il  ... detenuta  per  questa  causa  ...   avverso
l'ordinanza dell'8  marzo  2018  del  tribunale  di  sorveglianza  di
Firenze; 
    visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    udita la relazione svolta dal consigliere Francesco Centofanti; 
    lette le conclusioni  del  pubblico  ministero,  in  persona  del
sostituto Procuratore generale Marilia Di Nardo, che ha  chiesto,  in
accoglimento  del   secondo   motivo,   l'annullamento   con   rinvio
dell'ordinanza impugnata. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. M. M., detenuta presso la Casa circondariale di  Pisa,  e'  in
espiazione della pena detentiva di due anni e sei mesi di reclusione,
applicata, ai sensi  degli  articoli  444  ss.  codice  di  procedura
penale, con sentenza 20 giugno  2017  del  giudice  per  le  indagini
preliminari del Tribunale di Massa,  irrevocabile  dall'11  settembre
2017,  in  ordine  ai  seguenti  reati,  uniti  dal   vincolo   della
continuazione: 
      a) tentata rapina  aggravata,  ai  danni  del  gestore  di  una
stazione per  il  rifornimento  di  carburante,  realizzata  mediante
minaccia  consistita  nel  puntare  contro  la  vittima  una  pistola
giocattolo priva di tappo rosso; evento non  verificatosi  a  seguito
della pronta reazione della vittima stessa, che riusciva a  disarmare
il suo offensore; 
      b) rapina aggravata, ai  danni  del  gestore  di  un  esercizio
commerciale,  consumata  mediante  minaccia  consistita  nel  puntare
contro la vittima un  coltello;  per  effetto  di  essa  l'agente  si
impossessava della somma di 180 euro. 
    In sentenza erano riconosciute le circostanze attenuanti  di  cui
all'art. 62, primo comma, numeri 4) e 6), codice penale, in relazione
alla speciale tenuita' del danno e all'intervenuto suo  risarcimento,
nonche' le attenuanti generiche, equivalenti a  tutte  le  aggravanti
contestate. 
    2. Dall'istituto penitenziario la condannata, a fronte di un fine
pena fissato al 24 gennaio 2020, ha avanzato istanza  di  concessione
di misure alternative alla detenzione. 
    Con  l'ordinanza  in  epigrafe   il   competente   tribunale   di
sorveglianza di Firenze, per quel  che  rileva  in  questa  sede,  ha
negato l'affidamento in prova  al  servizio  sociale  e  ha  rilevato
l'inammissibilita' della domanda di detenzione domiciliare. 
    Quanto all'affidamento in prova, il  tribunale  di  sorveglianza,
pur rilevando come M. fosse alla sua prima detenzione  e,  a  seguito
degli accertamenti effettuati, non risultassero suoi collegamenti con
la criminalita' organizzata, ha reputato non sufficienti  le  risorse
socio-familiari a disposizione della medesima e ha ritenuto che, allo
stato, la misura non fosse in grado di assicurarne la rieducazione  e
prevenire il rischio di recidiva. 
    Quanto alla detenzione domiciliare, il tribunale di  sorveglianza
ha dato atto che la pena  in  espiazione  e'  tuttora  imputabile  al
delitto consumato di rapina contestato al capo b), aggravata ai sensi
dell'art. 628, terzo comma,  codice  penale  (minaccia  commessa  con
armi), e ha rilevato come la  misura  fosse  preclusa  ai  sensi  del
combinato disposto degli articoli 4-bis e 47-ter, comma 1-bis,  della
legge  26  luglio  1975,  n.  354,  recante  norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta' (di seguito legge n. 354 del 1975), non sussistendo le
condizioni per la concessione della misura stessa ad altro titolo. 
    3. Avverso tale ordinanza  M.,  con  il  ministero  dell'avvocato
Guido Bernieri,  propone  ricorso  per  cassazione,  affidato  a  tre
motivi. 
    3.1.  Con  il  primo  motivo  la  ricorrente  deduce   violazione
processuale. 
    I suoi difensori di fiducia  per  la  fase  svoltasi  dinanzi  al
tribunale di sorveglianza, avvocati  Alessandro  Stefanini  e  Serena
Crudeli, seppur tempestivamente designati non avrebbero  ricevuto  il
prescritto avviso di avvenuta fissazione  dell'udienza  camerale.  Ne
sarebbe derivata la nullita' assoluta e insanabile di quest'ultima, e
della successiva decisione, per violazione del diritto inviolabile di
difesa. 
    3.2. Con il secondo  motivo  la  ricorrente  deduce  vizio  della
motivazione, in relazione al diniego della misura dell'affidamento in
prova al servizio sociale. 
    Quest'ultimo   non   presupporrebbe   la   totale   assenza    di
pericolosita' sociale, realizzabile solo attraverso il  completamento
del percorso di rieducazione, ma soltanto l'esistenza di elementi  da
cui possa desumersi il proficuo avvio del medesimo percorso. 
    In ordine a tale ultimo  profilo  l'ordinanza  impugnata  sarebbe
carente, avendo essa omesso di valutare in modo compiuto la  condotta
della condannata successiva  ai  commessi  reati,  la  partecipazione
all'opera  di  rieducazione  attuata  in  istituto  e   le   concrete
possibilita' del suo reinserimento sociale. 
    3.3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia l'inosservanza ed
erronea applicazione degli articoli  4-bis  e  47-ter,  comma  l-bis,
legge n. 354 del 1975. 
    La  preclusione  all'ottenimento  della  detenzione   domiciliare
«generica», indotta da  tali  disposizioni,  sarebbe  legata  non  al
titolo di reato come tale, siccome  ricompreso  nell'elencazione  del
citato art. 4-bis, ma  al  ricorrere  delle  condizioni  ostative  da
quest'ultimo specificamente previste  in  rapporto  alla  particolare
categoria di reato. 
    Per la rapina  aggravata  sarebbe  dunque  sufficiente,  ai  fini
dell'accesso alla misura, il mancato  rilievo  della  sussistenza  di
collegamenti del  reo  con  la  criminalita'  organizzata,  sicche' -
essendosi l'ordinanza impugnata espressa  in  tali  esatti  termini -
l'istanza  non  avrebbe  potuto  essere  considerata  in  parte   qua
inammissibile. 
    4. Nella requisitoria,  presentata  a  norma  dell'art.  611  del
codice di procedura penale, il  Procuratore  generale  presso  questa
Corte ha concluso come in epigrafe. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. La numerazione  dei  motivi  riflette  l'ordine  logico  delle
questioni proposte e il collegio, movendo  dunque,  anzitutto,  dalla
censura processuale, oggetto del  primo  motivo,  deve  rilevarne  la
manifesta infondatezza. 
    Risulta dagli atti - cui e' in questa sede consentito,  a  fronte
della denuncia di un error in  procedendo  ai  sensi  dell'art.  606,
comma 1,  lettera  c),  codice  di  procedura  penale  ,  il  diretto
accesso -  che  gli  avvocati  Stefanini  e   Crudeli   parteciparono
regolarmente   all'udienza   tenutasi   dinanzi   al   tribunale   di
sorveglianza, ne' li' mossero eccezione alcuna  riguardante  la  loro
citazione o chiesero l'aggiornamento della trattazione del caso. 
    L'eventuale nullita', derivante dal  dedotto  mancato  avviso  ai
difensori medesimi, si  e'  dunque  in  ogni  caso  sanata,  a  norma
dell'art. 184, commi 1 e 2, codice di procedura penale. 
    2.  Analoga  considerazione  parrebbe  da  riservare  al  secondo
motivo, posto che la giurisprudenza di legittimita' ha  ripetutamente
affermato che la concessione delle misure alternative alla detenzione
e' rimessa  alla  valutazione  discrezionale  della  magistratura  di
sorveglianza, che deve verificare, al di fuori di  ogni  automatismo,
la meritevolezza del condannato in relazione al beneficio richiesto e
l'idoneita' di quest'ultimo a facilitarne  il  reinserimento  sociale
(tra molte, sez. 1, n. 8712 dell'8 febbraio 2012, Tanzi, rv. 252921).
Nel caso dell'affidamento  in  prova,  il  giudice,  basandosi  sulle
relazioni provenienti  dagli  organi  deputati  all'osservazione  del
condannato ma senza essere vincolato ai giudizi  ivi  espressi,  deve
apprezzare le riferite informazioni sulla personalita' e lo stile  di
vita dell'interessato, parametrandone  la  rilevanza  ai  fini  della
decisione alle istanze rieducative sottostanti la misura e ai profili
di pericolosita' residua dell'interessato (sez. 1, n.  23343  del  23
marzo 2017, Arzu, rv. 270016). 
    Nella specie, il tribunale di sorveglianza ha espressamente preso
in esame le risultanze del trattamento, senza sottacerne gli  aspetti
favorevoli; e tuttavia, con motivazione non  lacunosa  ed  esente  da
profili di illogicita', non le ha ritenute di  pregnanza  tale,  alla
luce del contesto ambientale  e  delle  risorse  a  disposizione,  da
giustificare  l'ammissione  alla  richiesta  misura  alternativa.  Si
tratta di motivazione nient'affatto mancante ne' contraddittoria, cui
la  ricorrente  contrappone  argomenti  che  appaiono  largamente  di
merito, e percio' estranei all'ambito  della  cognizione  che  questa
Corte puo' esercitare. 
    3. Viene allora in considerazione il terzo motivo, con  il  quale
si  censura  la  declaratoria  d'inammissibilita'   dell'istanza   di
detenzione domiciliare «generica», ai sensi dell'art.  47-ter,  comma
1-bis, legge n. 354 del 1975, adottata sulla sola base del titolo  di
reato, in  relazione  alla  sua  appartenenza  al  catalogo  indicato
nell'art. 4-bis della medesima legge. 
    Tale declaratoria e' allo stato conforme al dato normativa  e  al
diritto vivente. 
    La giurisprudenza di legittimita',  con  indirizzo  assolutamente
consolidato (sez. 1, n.  20145  del  27  aprile  2011,  Barbato,  rv.
250277-01; sez. 1, n. 44572 del 9 dicembre 2010, Allegra, rv. 248995;
sez. 1, n. 27557 del 27 maggio 2010, Mikovic, rv. 247723; sez. 1,  n.
30804 del 7 luglio 2006, Napolitano, rv. 234716),  afferma,  infatti,
che  l'art.  47-ter,  comma  1-bis,  legge  n.  354  del  1975,   nel
disciplinare le ipotesi espressamente preclusive  di  tale  forma  di
detenzione domiciliare, rinvia unicamente al menzionato catalogo  dei
reati, e non al contenuto della disposizione che lo contempla (l'art.
4-bis della stessa legge), relativa ad una pluralita'  di  situazioni
variamente articolate dal legislatore, e che e' pertanto di  ostacolo
all'applicazione della misura la condanna irrevocabile  per  uno  dei
delitti al catalogo appartenente, a  nulla  rilevando,  a  tal  fine,
l'insussistenza di collegamenti del condannato  con  la  criminalita'
organizzata, terroristica o eversiva. 
    Da tale interpretazione,  basata  su  logiche  argomentazioni  di
carattere letterale  e  logico-sistematico,  non  vi  e'  ragione  di
discostarsi in  questa  sede,  avuto  riguardo,  in  particolare,  al
rilievo,   che,   essendo   gia'   previsto   dall'art.   4-bis   che
l'assegnazione al lavoro esterno,  i  permessi  premio  e  le  misure
alternative alla detenzione possono essere  concessi  ai  detenuti  o
internati  solo  se  sussistono  le  condizioni   ivi   espressamente
enunciate, le ulteriori disposizioni, che in  relazione  a  specifici
benefici o misure escludono i soggetti condannati per i reati di  cui
all'art. 4-bis, non avrebbero ragion d'essere e significato alcuno se
fossero da intendere riferite alle condizioni preclusive  gia'  poste
dall'art. 4-bis anziche' al mero catalogo dei reati in esso indicati. 
    4. Il Collegio, tuttavia, dubita che tale assetto  normativo  sia
compatibile con gli articoli 3, primo comma,  e  27,  primo  e  terzo
comma, della Costituzione. 
    5. Come detto, l'art. 4-bis  legge  n.  354  del  1975  reca  una
disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione  dei
benefici penitenziari  a  determinate  categorie  di  detenuti  o  di
internati, che si presumono socialmente  pericolosi  in  ragione  del
tipo di reato per il quale la detenzione o l'internamento sono  stati
disposti;  disciplina   la   cui   genesi   risale   alla   «stagione
emergenziale»  in  tema  di  lotta  alla   criminalita'   organizzata
risalente al principio degli anni '90 dello scorso secolo. 
    Gia'  nella  versione  di  origine -   introdotta   dall'art.   1
decreto-legge n. 152 del 1991, conv. nella legge n. 203  del  1991  -
l'art. 4-bis distingueva le figure criminose di  riferimento  in  due
«fasce». Per i reati  di  «prima  fascia»,  a  matrice  o  sfondo  di
carattere  associativo,  l'accesso  alle   misure   alternative   era
subordinato  all'acquisizione   di   elementi   tali   da   escludere
l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata;  per  i
reati di «seconda fascia», privi di  tale  connotazione  ma  comunque
socialmente allarmanti, si richiedeva - in termini inversi, dal punto
di vista probatorio - la mancata emersione di elementi  tali  da  far
ritenere attuali detti collegamenti.  Erano  parallelamente  disposti
aggravamenti istruttori, di natura obbligatoria, ancorche' dall'esito
non vincolante. In relazione, era previsto l'innalzamento dei «tetti»
di  pena  stabiliti  per  i  benefici   penitenziari   caratterizzati
dall'accesso   subordinato    all'avvenuta    espiazione    di    una
predeterminata quotaparte della pena stessa. 
    5.1. A seguito della riforma operata dal decreto-legge n. 306 del
1992, conv. nella legge n. 356 del 1992, assunse un  ruolo  centrale,
nell'economia dell'istituto, la collaborazione con la giustizia. 
    L'utile collaborazione, nei sensi indicati dall'art. 58-ter legge
n. 354  del  1975,  divenne,  infatti,  condicio  sine  qua  non  per
l'accesso ai benefici penitenziari, in rapporto ai delitti di  «prima
fascia»,  salva -  anche  per  effetto  delle  pronunce  della  Corte
costituzionale e  delle  successive  conformi  modifiche  legislative
- l'equiparazione della collaborazione impossibile o  «oggettivamente
irrilevante»,  ove  al  condannato  fossero  state  concesse   talune
attenuanti, sintomatiche di una minore pericolosita'. 
    Il  meccanismo  poggia  sulla  presunzione  legislativa  che   la
commissione  di  determinati   delitti   dimostri   il   collegamento
dell'autore con la criminalita' organizzata e costituisca, quindi, un
indice di pericolosita' sociale incompatibile  con  l'ammissione  del
condannato  ai  benefici  penitenziari  extra-murari.  La  scelta  di
collaborare con la giustizia viene assunta,  in  questa  prospettiva,
come una sorta di prova legale,  la  sola  idonea  ad  esprimere  con
certezza la volonta' di emenda del condannato e, dunque, a  rimuovere
l'ostacolo alla  concessione  delle  misure,  in  ragione  della  sua
valenza  «rescissoria»  di  tale  legame,  ferma  in  ogni  caso   la
necessita' che risulti esclusa l'attualita' di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata. 
    Pur a seguito del successivo incremento del relativo catalogo dei
reati, l'assetto complessivo dell'istituto ha ripetutamente  superato
il vaglio di legittimita' costituzionale, ancorche'  talune  pronunce
della  Corte  costituzionale,  tra  le  quali  vanno  in  particolare
ricordate  quelle  in  tema  di  rieducazione  gia'  raggiunta  e  di
collaborazione impossibile e quelle relative  ai  minorenni,  abbiano
inciso su aspetti specifici (e limitati) della disciplina. 
    5.2.  Quanto  ai  reati  di  «seconda  fascia»,  il  loro  regime
giuridico,  nonostante   la   sempre   piu'   marcata   eterogeneita'
dell'elencazione,  via  via  aggiornata  dal  legislatore,   non   e'
sostanzialmente mutato dal 1991 ad oggi. 
    Si tratta, in sostanza, di reati considerati  espressivi -  nella
astratta valutazione, preventivamente operata  dal  legislatore -  di
accentuata pericolosita' sociale del loro autore, la quale giustifica
nel sistema legale la necessita' di verificare, presso le  competenti
autorita' di pubblica sicurezza, se sussistano  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, la  cui  emersione
soltanto opera, «in negativo», come fattore preclusivo del  beneficio
penitenziario. 
    5.3. Il decreto-legge n. 11 del 2009, conv. nella legge n. 38 del
2009, nel ridisegnare l'intera  impalcatura  della  disposizione,  ha
poi, tra l'altro, istituito una «terza fascia»,  solo  contrassegnata
dal condizionamento  dei  benefici  all'espletamento  di  un  periodo
minimo di osservazione in istituto di pena. 
    5.4. Attualmente il sistema delineato dall'art. 4-bis istituisce,
pertanto, un ventaglio  di  presunzioni  di  pericolosita'  ostative,
vincibili: per i delitti di  «prima  fascia»,  oggi  individuati  nel
comma l, solo in forza della esigibile e prestata collaborazione  con
la   giustizia,   ferma   la   necessita'   dell'accertamento   della
insussistenza di collegamenti  con  il  crimine  organizzato;  per  i
delitti di «seconda fascia», oggi identificati con quelli di  cui  al
comma  1-ter,   dall'assenza   di   elementi   deponenti   per   tali
collegamenti; per i delitti di  «terza  fascia»,  delineati  nel  suo
comma  1-quater,  sulla   scorta   di   una   complessa   valutazione
sull'evoluzione della personalita' del condannato. 
    6. In tale tessuto ordinamentale si inserisce la disposizione del
comma  l-bis  dell'art.  47-ter  legge  n.  354  del  1975,  la   cui
introduzione  risale  alla  legge  n.  165  del  1998,  che,  secondo
l'inevitabile  interpretazione   sopra   ricordata,   introduce   una
presunzione assoluta  di  inidoneita'  contenitiva  della  detenzione
domiciliare di tipo ordinario, rispetto  ai  condannati  per  certuni
titoli di reato, ritenuti di per se' espressivi  di  piu'  accentuata
pericolosita', in ragione del loro inserimento nel  catalogo  di  cui
all'art. 4-bis della citata legge n. 354 del 1975. 
    Per costoro, la detenzione domiciliare di cui si discute e',  per
definizione e in assoluto, ritenuta inadeguata ad evitare il pericolo
di recidiva. 
    Siffatto assetto appare tuttavia al Collegio non coerente con gli
articoli    3,    primo    comma,    e    27,    primo    e     terzo
comma, della Costituzione,   potendo   dubitarsi   della   intrinseca
ragionevolezza della preclusione assoluta cosi'  istituita,  e  della
sua conformita' ai principi  di  rieducazione  e  di  personalita'  e
proporzionalita' che dovrebbero sorreggere la  risposta  punitiva  in
ogni momento della sua attuazione. 
    7. La giurisprudenza costituzionale sembra, invero, orientata  in
linea di principio ad escludere, anche  nella  materia  dei  benefici
penitenziari, la legittimita' di rigidi automatismi, e  a  richiedere
invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata,  cosi'  da
collegare  la  concessione  o  meno  del  beneficio  a  una  prognosi
ragionevole sulla sua utilita' a far procedere  il  condannato  sulla
via dell'emenda e del reinserimento sociale (Corte costituzionale, n.
291 del 2010, n. 189 del 2010, n. 255 del 2006, n. 436 del  1999;  da
ultimo, sentenza n. 149 del 2018). 
    Le presunzioni di pericolosita' sono eccezionalmente  ammesse,  a
patto che non siano arbitrarie ne' irrazionali, in quanto rispondenti
a dati di  esperienza  generalizzati,  non  suscettibili  di  agevole
smentita, e che non siano neppure ad altro titolo  lesive  di  valori
costituzionali. 
    Incompatibili  con  tale  opzione  di  fondo  dovrebbero   allora
ritenersi  previsioni,  come  quella  oggetto   di   scrutinio,   che
precludano in modo assoluto l'accesso a un beneficio penitenziario in
ragione soltanto della  particolare  gravita'  del  titolo  di  reato
commesso, riflessa dall'inclusione di  quest'ultimo  in  un  catalogo
(quello  ex  art.  4-bis  della  legge  n.  354  del  1975)  cui   si
ricollegano, a vari livelli, indici presuntivi di pericolosita' che -
a prescindere da ogni considerazione  circa  l'estrema  eterogeneita'
dei titoli inclusi - parrebbero potersi ritenere legittimi solo nella
misura  in  cui  gli  stessi  risultino,  in  concreto,   agevolmente
vincibili: cosi' in  radice  impedendo,  la  disposizione  in  esame,
l'accesso alla misura alternativa anche ai condannati  per  i  quali,
per l'avverarsi dei presupposti risolutivi indicati dalla legge -  la
prestata utile collaborazione con la giustizia  (ove  richiesta),  la
rescissione o mancata instaurazione dei collegamenti con  il  crimine
organizzato e gli eventuali progressi nel percorso di rieducazione  -
la presunzione di perdurante pericolosita' sociale sarebbe invece  da
escludere  proprio  ai  sensi  dell'art.  4-bis,  in   sintonia   con
l'impostazione di fondo del regime ivi delineato. 
    Anche in questo caso, in realta', il legislatore  parrebbe  mosso
solo «d[a]ll'esigenza di lanciare un robusto  segnale  di  deterrenza
nei   confronti   della   generalita'    dei    consociati»    (Corte
costituzionale, n. 149 del 2018), che pero', come non puo' di per se'
giustificare presunzioni assolute nella fase di verifica del grado  e
dell'adeguatezza delle misure cautelari durante  il  processo  (Corte
costituzionale n. 331 del 2011), nemmeno parrebbe legittimare,  nella
fase di  esecuzione  della  pena,  operazioni  «in  chiave  distonica
rispetto all'imperativo  costituzionale  della  funzione  rieducativa
della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento  di
essa all'obiettivo ultimo  del  reinserimento  del  condannato  nella
societa' (sentenza n. 450 del  1998),  e  da  declinarsi  nella  fase
esecutiva come necessita' di costante valorizzazione,  da  parte  del
legislatore prima e del  giudice  poi,  dei  progressi  compiuti  dal
singolo condannato durante l'intero arco dell'espiazione della  pena»
(Corte cosituzionale n. 149 del 2018, cit.). 
    Si  coglie  appieno  allora,  sotto  gli   aspetti   considerati,
l'irragionevolezza  intrinseca  della  disposizione   censurata,   in
relazione al valore della responsabilita'  penale  personale  e  alla
necessaria  finalita'  rieducativa   della   pena.   Irragionevolezza
intrinseca non sfuggita, peraltro, in sede di attuazione della delega
contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103,  nella  parte  relativa
alle modifiche all'ordinamento penitenziario, se e' vero  che,  nello
schema originario del  conseguente  decreto  legislativo,  era  stata
prevista la soppressione della disposizione censurata.  E  nonostante
tale scelta non sia stata confermata nel testo definitivo,  non  puo'
omettersi in  questa  sede  di  rilevare  come  opportunamente  nella
relazione  illustrativa  governativa  (pag.  37)  si  rimarcasse  che
comunque  -  venuta  meno  l'esclusione   dell'applicabilita'   della
detenzione domiciliare  «comune»  ai  condannati  per  reati  di  cui
all'art. 4-bis, limite in grado di precludere l'accesso  alla  misura
anche ai condannati  che  avessero  collaborato  con  la  giustizia -
sarebbero rimaste ferme tutte le condizioni di accesso ordinariamente
stabilite dalla normativa speciale a tutela della sicurezza pubblica. 
    8. Tale irragionevolezza  intrinseca  si  accentua,  se  si  pone
specifica attenzione al delitto di rapina aggravata, per il quale  la
ricorrente deve ancora scontare parte di pena,  incluso  in  «seconda
fascia». 
    Sicuramente estraneo, nella fattispecie strutturale e nelle  piu'
frequenti   manifestazioni   empiriche,   a   contesti   di   crimine
organizzato - elemento che, in senso contrario, connota, di  massima,
i reati della fascia antecedente  -  la  rapina  aggravata  si  trova
indiscriminatamente, e illogicamente, ai  medesimi  reati  accomunata
nell'effetto  di  comprimere  in   modo   irrimediabile   lo   spazio
applicativo di una misura alternativa alla detenzione. 
    Con il paradosso che - se, per i reati della prima categoria,  il
risultato che si produce e' la mera  esasperazione  della  innegabile
sfiducia ordinamentale verso il buon esito  di  percorsi  rieducativi
estranei al sistema carcerario - per la  rapina  aggravata  non  vige
alcuna  generale  presunzione   di   immeritevolezza   del   relativo
condannato rispetto al beneficio penitenziario, la cui concessione e'
solo circondata da maggiori cautele,  temporali  e  istruttorie.  Per
essa, dunque, la disposizione  censurata  rappresenta  una  «rottura»
della filosofia cui si ispira il sotto-sistema  costituito  dall'art.
4-bis legge n. 354 del 1975. 
    La rapina aggravata, del resto, puo' assumere in concreto,  e  in
base a dati di comune esperienza giudiziaria moltissime volte assume,
una dimensione di ridotta offensivita' oggettiva e  puo'  non  essere
affatto sintomatica di una pericolosita' contenibile solo con  misure
carcerarie: come e' a dirsi con riferimento al caso  di  specie,  ove
con essa non concorsero delitti piu' gravi; le «armi» usate erano  un
coltello e una pistola giocattolo; la somma sottratta era  esigua  ed
ebbe luogo il risarcimento del danno; la pena patteggiata e'  modesta
ed e' stata gia' in  parte  espiata  in  regime  cautelare  attenuato
(arresti domiciliari); non  e'  stato  rilevato  collegamento  alcuno
della condannata  con  la  criminalita'  organizzata;  risulta  dalla
relazione dell'ufficio di esecuzione penale esterna  la  possibilita'
di reinserimento familiare. 
    Sicche' la constatazione che la possibile ricorrenza di  analoghi
indicatori non  e'  affatto  inusuale,  o  eccezionale,  «carica»  la
disposizione anzidetta di' contraddizioni interne ulteriori. 
    9. Non potrebbe neppure sostenersi che il divieto assoluto  della
detenzione domiciliare ordinaria, rispetto al condannato per uno  dei
delitti ex art. 4-bis, e comunque  rispetto  alla  rapina  aggravata,
trovi  la  sua  ragion  d'essere  nell'estraneita'  della  detenzione
domiciliare al circuito rieducativo e trattamentale. 
    La detenzione domiciliare, inserita  tra  le  misure  alternative
alla  detenzione  di  cui  al  Titolo  I,  Capo  VI  dell'ordinamento
penitenziario,  realizza,  come  sottolineato  dalla   giurisprudenza
costituzionale (sentenza n. 165 del 1996; v. altresi'  le  successive
nn. 532 del 2002 e 350 del 2003), una modalita'  meno  afflittiva  di
esecuzione della pena. 
    L'istituto, dopo l'ampia riforma realizzata con la legge  n.  165
del 1998 (cui si deve, come gia' si  ricordava,  l'introduzione,  nel
corpo dell'art. 47-ter ord. pen.  ,  del  comma  1-bis),  ha  assunto
aspetti piu' vicini e congrui alla ordinaria finalita' rieducativa  e
di reinserimento sociale della pena, non essendo esso  piu'  limitato
alla protezione dei «soggetti deboli» prima previsti come destinatari
esclusivi della misura, ed essendo applicabile in  tutti  i  casi  di
condanna a pena non superiore a due anni (anche se residuo di maggior
pena), purche' risulti in concreto idoneo ad evitare il  pericolo  di
recidiva (v. Corte costituzionale  n.  422  del  1999,  la  quale  ha
ritenuto che la concessione d'ufficio del  beneficio,  al  condannato
che ne abbia titolo, non soltanto non e' in contrasto,  ma  piuttosto
realizza lo scopo rieducativo di cui all'art. 27 della Costituzione). 
    E, secondo la Corte costituzionale n. 239 del 2014, la detenzione
domiciliare non solo non prescinde da contenuti trattamentali  ma  e'
partecipe a pieno titolo della finalita' di reinserimento sociale del
condannato,  costituente  l'obiettivo  comune  di  tutte  le   misure
alternative alla detenzione; il che e' comprovato tanto dal requisito
negativo  di  fruibilita',  rappresentato  dalla  insussistenza   del
pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina
delle modalita' di  svolgimento  della  misura  e  delle  ipotesi  di
revoca. 
    D'altronde,  in  linea   ancora   piu'   generale,   gia'   Corte
costituzionale n. 173 del 1997 osservava  che,  se  e'  vero  che  la
misura alternativa della  detenzione  domiciliare  «e'  indubbiamente
caratterizzata da una finalita' umanitaria ed assistenziale [  ...  ]
non  puo'  negarsi  che  essa  ha  in  comune  con  le  altre  misure
alternative - come avverte anche la  giurisprudenza  della  Corte  di
cassazione (e prima ancora - sia pure incidentalmente - la  ordinanza
n. 327 del 1989 di questa Corte) - la finalita' della rieducazione  e
del reinserimento sociale del condannato». E  alla  possibilita'  del
raggiungimento di tale finalita', ben puo' - e percio' deve  anche  -
guardarsi nel momento della concessione del beneficio. 
    Ne'  la   misura   e'   priva   di   prescrizioni   a   contenuto
risocializzante, alla cui formulazione e al cui controllo  concorrono
gli uffici di esecuzione penale esterna previsti dall'art.  72  legge
n. 354 del 1975. 
    Considerazioni, queste, che paiono  ulteriormente  confortare  il
dubbio circa l'irragionevolezza intrinseca di una previsione che, nel
precludere ai condannati per  i  reati  di  cui  all'art.  4-bis  (e,
comunque,  ai  condannati  per  rapina  aggravata)   l'accesso   alla
particolare forma di detenzione  domiciliare  prevista  per  le  pene
detentive inferiori a due  anni  di  reclusione,  non  riserva  alcun
rilievo alla concreta pericolosita' del  soggetto,  desumibile  dalla
sua condotta o dalla sussistenza di collegamenti con la  criminalita'
organizzata, cosi' violando altresi' i principi della personalita'  e
finalita' rieducativa della pena e il principio della  progressivita'
del  trattamento,  quali  affermati  dalla  costante   giurisprudenza
costituzionale. 
    10. Proprio in relazione a quest'ultimo principio,  quello  della
progressivita'  del  trattamento,  non  puo',  d'altra   parte,   non
evidenziarsi che il condannato per un delitto ricompreso  tra  quelli
elencati dall'art. 4-bis  legge  n.  354  del  1975  potrebbe  essere
ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale, ove  sussistano
le condizioni previste in tale norma, mentre gli e' inibito l'accesso
alla detenzione domiciliare prevista dal comma l-bis  del  successivo
art.  47-ter,  nonostante   quest'ultima   misura   abbia   carattere
maggiormente contenitivo e sia percio' semmai maggiormente  idonea  a
fronteggiarne la pericolosita' sociale eventualmente residua. 
    Vero e'  che  la  Corte  costituzionale,  giudicando  di  analoga
denunciata contraddizione, ha rilevato (sentenza n. 338 del 2008) che
l'affidamento in prova e' misura non «omogenea» rispetto alle  misure
gradate, quanto a requisiti soggettivi di ammissione. 
    Per la  concessione  dell'affidamento  in  prova  e'  necessaria,
infatti,  una  prognosi  di  rieducazione  del  reo,   opportunamente
assistito, e di ragionevole  assenza  del  rischio  di  recidiva.  Se
questa  e'  la  valutazione   effettuata   sulla   personalita'   del
condannato, nel caso concreto ed  alla  luce  di  tutti  i  parametri
indicati dalla legge, rispetto all'affidamento si giustifica - per il
giudice delle leggi - la parificazione tra coloro che hanno  commesso
reati in astratto valutati con  particolare  severita',  come  quelli
previsti dall'art. 4-bis citato, e tutti gli altri condannati, sempre
che la  pena  da  espiare  non  superi  i  tre  (ora  quattro)  anni;
parificazione che invece non sarebbe imposta allorche' il rischio  di
recidiva esista e abbia bisogno di contenimento (come era,  nel  caso
sottoposto allora a giudizio, per il condannato  ritenuto  meritevole
della sola semiliberta', accessibile a condizioni piu' gravose). 
    Lo schema di ragionamento potrebbe  essere  mutuato  a  proposito
della detenzione domiciliare, concessa in via gradata rispetto al pur
richiesto affidamento in prova. Anche qui il condannato non  presenta
le   caratteristiche   personali   e   comportamentali    di    piena
affidabilita', sufficienti a far ritenere che sia del  tutto  assente
il rischio di reiterazione. Il legislatore potrebbe dunque  ritenersi
legittimato a conformare, mediante piu' severe regole di accesso, una
misura alternativa siffatta, che presuppone  debba  fronteggiarsi  un
certo grado di pericolosita'. 
    Tuttavia tale aggravamento di disciplina - se rende «non [ ...  ]
manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di  pretendere
una congrua espiazione della pena inflitta, prima di  far  acquistare
[al condannato] una condizione che,  comunque,  implica  un  atto  di
fiducia dello Stato nei confronti di chi si sia reso responsabile  di
reati di particolare gravita'» (sentenza 338 del 2008, citata) -  non
sembra  invece  altrettanto  giustificabile   allorche'   arriva   ad
escludere, in maniera categorica, l'accesso alla  misura  alternativa
piu' contenitiva, e quindi anche alla forma di detenzione domiciliare
«comune», parte integrante, come sopra evidenziato, di un ordinamento
penitenziario partecipe dei valori della risocializzazione. 
    Una diversificazione dei requisiti  di  ammissione  alle  misure,
congegnata in termini cosi'  estremi,  parrebbe  eccedere  i  margini
della pur ampia discrezionalita' di cui  gode  il  legislatore  nella
conformazione degli  istituti  di  diritto  penitenziario  nella  pur
sempre necessaria prospettiva della risociallzzazione del condannato.
Ne' sembra coerente con l'assunto che tale prospettiva, come  «chiama
in   causa   la   responsabilita'    individuale    del    condannato
nell'intraprendere  un  cammino  di  revisione  critica  del  proprio
passato e di ricostruzione della propria personalita', in  linea  con
le esigenze minime di rispetto dei  valori  fondamentali  su  cui  si
fonda la convivenza civile», parimenti  «non  puo'  non  chiamare  in
causa - assieme - la correlativa responsabilita' della societa' nello
stimolare  il  condannato  ad  intraprendere  tale   cammino,   anche
attraverso la previsione da parte del legislatore  -  e  la  concreta
concessione da parte del giudice - di  benefici  che  gradualmente  e
prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento  gia'
avviato, il giusto  rigore  della  sanzione  inflitta  per  il  reato
commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella
societa'» (Corte costituzionale n. 149 del 2018, cit.). 
    11. Appare dunque non manifestamente  infondata,  in  riferimento
agli articoli 3, primo comma,  e  27,  primo  e  terzo  comma,  della
Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
47-ter, comma l-bis, legge n.  354  del  1975,  nella  parte  in  cui
prevede che tale disposizione non si  applica  ai  condannati  per  i
reati di cui all'art. 4-bis  della  medesima  legge,  avuto  riguardo
all'irragionevolezza intrinseca di tale disposizione, in relazione ai
principi della personalizzazione e finalita' rieducativa della  pena,
da cui consegue l'esigenza di  trattamenti  penitenziari  non  legati
esclusivamente a catalogazioni per tipi d'autore e  non  sbarrati  da
presunzioni invincibili, ma misurati in base alla  concreta  gravita'
dei  fatti-reato  commessi  e  alla   effettiva   pericolosita'   del
condannato, nonche' l'esigenza di  percorsi  di  responsabilizzazione
ispirati al principio di progressione e gradualita'. 
    12.  La  questione  appare,  quindi,  certamente  rilevante   nel
presente giudizio. 
    Soltanto  il   suo   accoglimento   consentirebbe   infatti,   in
accoglimento del petitum sostanziale  oggetto  del  terzo  motivo  di
ricorso,  l'annullamento  dell'ordinanza  impugnata  con  rinvio   al
tribunale di sorveglianza perche' valuti nel merito l'esistenza delle
condizioni per l'accesso della condannata alla detenzione domiciliare
da lei richiesta. 
    13. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte,  deve
conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata,
in riferimento agli articoli 3, primo comma,  e  27,  primo  e  terzo
comma,   della   Costituzione,   la   questione    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-bis, della legge  26  luglio
1975, n. 354 (recante norme sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta')  nella
parte in  cui  prevede  che  tale  disposizione  non  si  applica  ai
condannati per i reati di cui all'art. 4-bis della medesima legge. 
    A norma dell'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi  la  sospensione  del  procedimento   e   deve   disporsi
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    La cancelleria provvedera' alla notifica di copia della  presente
ordinanza alle parti e al Presidente del  Consiglio  dei  ministri  e
alla comunicazione  della  stessa  ai  Presidenti  della  Camera  dei
deputati e del Senato della Repubblica. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  in  riferimento   agli
articoli  3,  primo  comma,  e  27,  primo  e  terzo   comma,   della
Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
47-ter, comma 1-bis, della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (recante
norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle  misure
privative e limitative della liberta') nella parte in cui prevede che
tale disposizione non si applica ai condannati per  i  reati  di  cui
all'art. 4-bis della medesima legge. 
    Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Dispone altresi' che,  a  cura  della  cancelleria,  la  presente
ordinanza sia notificata alla  ricorrente,  al  Procuratore  generale
presso questa Corte e al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
      Cosi' deciso il 18 febbraio 2019 
 
                      Il Presidente: Di Tomassi 
 
 
                                 Il consigliere estensore: Centofanti