N. 161 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 aprile 2019
Ordinanza del 30 aprile 2019 del Tribunale di Brindisi nel procedimento penale a carico di M. C.. Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 - Inserimento di determinati reati contro la pubblica amministrazione tra i reati ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari - Applicabilita' al delitto di cui all'art. 314, primo comma, cod. pen. commesso anteriormente all'entrata in vigore della novella. - Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), art. 1, comma 6, lettera b), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), in relazione all'art. 314 [, primo comma,] del codice penale.(GU n.42 del 16-10-2019 )
TRIBUNALE DI BRINDISI Sezione Penale Il Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice dell'esecuzione penale, composto dai magistrati: dott. Francesco Cacucci - Presidente rel.; dott. Maurizio Rubino - giudice; dott. Ambrogio Colombo - giudice; Letti gli atti del procedimento di esecuzione in epigrafe indicato nei confronti di M. C., nato a...... il....... difeso di fiducia dagli avv.ti D. Vitale e S.G. Dellomonaco; Sentite le parti all'udienza del 17 aprile 2019; Osserva Premesso in fatto. Con sentenza del 25 marzo 2015 il Tribunale di Brindisi ha condannato il M. alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione in relazione ai delitti di cui agli articoli 110, 314, comma 1°, codice penale commesso il 3 agosto 2011 (Capo B), nonche' al delitto di cui agli articoli 110, 81, 56 e 314, comma 1°, codice penale commesso il 22 luglio 2011 ed il 13 agosto 2011 (Capo D). La sentenza e' divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019. In data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso nei confronti del M. - ex art. 656 comma 1° codice di procedura penale - l'ordine di esecuzione per la carcerazione in relazione alla pena detentiva su indicata, facendo applicazione dell'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019; in esecuzione di tale ordine il M. risulta attualmente detenuto presso un istituto penitenziario. Ha proposto incidente di esecuzione il difensore del M. richiedendo: in via principale dichiararsi «la temporanea inefficacia dell'ordine di carcerazione emesso nei confronti del M.»; in via subordinata, «sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656 comma 9° codice di procedura penale come integrato dall'art. 4-bis, comma 1°, dell'ordinamento penitenziario, recentemente modificato dall'art. 1, comma 6°, della legge n. 3/2019, per contrasto con i parametri di cui agli articoli 3, 25, 27, 111 e 117, comma 2°, della Costituzione». Il difensore istante ha dedotto, al riguardo: che l'art. 1 comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019, in vigore dal 21 gennaio 2019, ha novellato l'art. 4-bis della legge n. 354/75 previa inclusione trai reati ostativi alla sospensione dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione anche il delitto di cui all'art. 314, comma 1°, codice penale; che, di conseguenza, il M., pur essendo stato condannato ad una pena inferiore a quattro anni, atteso il rinvio operato dall'art. 656 comma 9 lettera A) codice di procedura penale all'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, come modificato dall'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019, non ha visto sospendersi l'ordine di esecuzione della pena nei suoi confronti; che l'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019 - che ha inserito nell'elenco dell'art. 4-bis ordinanza pen. anche l'art. 314, comma 1°, codice penale - non prevede alcuna norma di diritto intertemporale; che nonostante le norme dell'Ordinamento penitenziario abbiano natura processuale, trattasi in realta' di una norma «sostanziale», con la conseguenza che la sua applicazione retroattiva - cioe' anche in relazione a delitti commessi prima della sua entrata in vigore - comporterebbe una «evidente lesione del principio di affidamento e calcolabilita' delle conseguenze penali che e' posto a base del principio di irretroattivita' in materia penale», come stabilito dall'art. 25, comma 2° della Cost., nonche' dall'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali; che «il richiamo esplicito alle forme collaborative previste nel secondo comma dell'art. 323-bis codice penale implica che la norma debba essere interpretata necessariamente come rivolta al futuro, giacche' una diversa lettura determinerebbe le lesione di un fondamentale diritto di difesa nei confronti di un soggetto che avendo commesso un reato prima della entrata in vigore della nuova norma, non conosceva ne' poteva conoscere gli effetti ulteriori riconosciuti in fase esecutiva di una sua eventuale condotta collaborativa nella fase di merito»; che, infine, «la retroattivita' della disciplina appare in contrasto anche con le regole del giusto processo (art. 111 della Cost. e 6 CEDU) ; infatti la modifica retroattiva viola l'affidamento dell'imputato che magari ha optato per il rito ordinario prevedendo che la pena sarebbe rimasta entro i limiti di operativita' delle misure alternative». A scioglimento della riserva di cui all'udienza del 17 aprile 2019, ritiene il Tribunale doversi sollevare questione di legittimita' costituzionale in relazione agli articoli 24, 25, comma 2°, 117, 1° comma, della Cost., 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354, norma richiamata dall'art. 656, comma 9°, lettera a) codice di procedura penale, si applica anche al delitto di cui all'art. 314, comma 1°, codice penale commesso anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge. In punto di rilevanza della questione, sussistono i presupposti per l'applicazione dell'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019; infatti: M. C. e' stato condannato con sentenza del Tribunale di Brindisi del 25 marzo 2015, irrevocabile il 13 marzo 2019, alle pena di due anni e quattro mesi di reclusione in relazione a piu' delitti di cui all'art. 314, comma 1°, codice penale commessi in Brindisi nel luglio e nell'agosto del 2011; in data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso a carico del M. l'ordine di esecuzione per la carcerazione per la ridetta pena detentiva; cio' ha fatto in virtu' dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 che, come modificato dall'art. 6, comma 1°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, ha incluso il delitto di cui all'art. 314, comma 1° del codice penale tra i reati ostativi di «prima fascia» che impediscono la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena; senza la modifica operata dall'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019 - intervenuta, si ribadisce, in epoca successiva alla commissione dei delitti per vi e' stata condanna - il M. avrebbe potuto richiedere la concessione di una misura extramuraria senza un periodo di osservazione in carcere. Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della questione. 1 - L'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 ha modificato l'art. 4-bis, comma 1°, della legge 26 luglio 1975, n. 354, ricomprendendo tra i reati ostativi alla sospensione dell'esecuzione di cui all'art. 656, comma 5°, codice di procedura penale, taluni delitti contro la pubblica amministrazione tra i quali quello di peculato, nell'ipotesi di cui al comma 1° dell'art. 314 c.p. La condanna per una delle fattispecie elencate non potra', pertanto, piu' essere «sospesa» e, per l'effetto, potra' consentire l'accesso alle misure alternative solo a fronte dell'accoglimento - da parte del magistrato di sorveglianza - dell'istanza proposta dal condannato durante l'esecuzione della pena detentiva, accoglimento subordinato alla collaborazione del condannato ai sensi degli articoli 58-ter dell'Ordinamento penitenziario (ossia dopo la condanna definitiva), o dell'art. 323-bis, comma 2°, codice penale (norma, quest'ultima, che prevede come circostanza attenuante «la collaborazione» in relazione alle fattispecie previste dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis codice penale; dunque non per il peculato). In assenza di una disciplina transitoria, l'applicazione della disposizione in commento e' regolata dal principio del «tempus regit actum»; infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita', le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, bensi' le «modalita' esecutive della stessa» e, pertanto, nel caso in cui manchi una disciplina intertemporale, sono suscettibili di immediata applicabilita' anche ai fatti commessi in epoca precedente, in quanto sottratte alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 del codice penale e dall'art. 25 della Costituzione. Questo principio e' stato espressamente affermato da Cassazione SS.UU. n. 24561 del 30 maggio 2006: «Le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio «tempus regit actum», e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 del codice penale, e dall'art. 25 della Costituzione. (In applicazione di tale principio, le S.U. hanno ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il delitto di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell'art. 15 della legge 6 febbraio 2006, n. 38, tra quelli previsti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario in quanto tali, e non piu' soltanto come reati-fine di un'associazione per delinquere, comportasse l'operativita', altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 656, comma nono lettera a), codice di procedura penale, non essendo ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell'entrata in vigore della novella legislativa)»; nello stesso senso cfr.: Cassazione n. 37578 del 3 febbraio 2016; Cassazione n. 52578 dell'11 novembre 2014; Cassazione n. 6910 del 14 ottobre 2011; Cassazione n. 11580 del 5 febbraio 2013; Cassazione n. 46924 del 9 dicembre 2009; Cassazione n. 29155 del 10 giugno 2008; Cassazione n. 34040 del 22 settembre 2006; Cassazione n. 33062 del 19 settembre 2006; Cassazione n. 25113 dell'11 luglio 2006; Cassazione n. 24767 del 5 luglio 2006; Cassazione n. 31430 del 22 luglio 2006; Cassazione n. 30792 del 6 giugno 2006. Per opportuna completezza si segnala che la Corte d'appello di Milano (ordinanza del 27 marzo 2019), proprio in adesione al richiamato consolidato orientamento della S.C., dovendo fare applicazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 3/2019, ha ritenuto «priva di rilevanza ogni questione di legittimita' che muova dal presupposto che non puo' trovare applicazione retroattiva una legge che modifichi in senso sfavorevole al reo la disciplina di istituti che in vario modo incidano sul trattamento penale». 2 - Secondo il «diritto interno», quindi, le disposizioni che disciplinano l'esecuzione della pena e le misure alternative alla detenzione non attengono ne' alla cognizione del reato ne' all'irrogazione delta pena, bensi' alle modalita' esecutive di questa, tanto da non essere soggette, in caso di successione di norme diverse, alle regole stabilite dall'art. 2 codice penale ne' al principio di irretroattivita' delle modifiche in peius, bensi' a quelle vigenti al momento della loro applicazione. Il Tribunale ritiene, tuttavia, che le eccezioni stabilite dall'art. 656, comma 9°, lettera a) codice di procedura penale - attraverso il richiamo all'art. 4-bis legge n. 354/75 come modificato dall'art. 1, comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019 - alla regola generale della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva prevista dal comma 5° della stessa norma, non incidano esclusivamente sulle «modalita' esecutive della pena» ma anche sulla sua effettiva portata e natura, poiche' impongono al condannato che si trovi nelle condizioni per accedere ad una misura alternativa alla detenzione carceraria una temporanea anticipazione del regime detentivo («un assaggio di pena», e' stato detto con espressione icastica), in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul possibile accesso ad una di tali misure; il tutto, peraltro, con possibili frizioni con la finalita' rieducativa della pena prevista dall'art. 27 della Costituzione. Vale osservare, su quest'ultimo punto, che come di recente ribadito da Corte costituzionale n. 41/2018, la sospensione automatica dell'ordine di esecuzione e' conseguente alla sentenza n. 569/1989 con cui il Giudice delle leggi estese a chi si trovava in stato di liberta' la possibilita' di accedere all'affidamento in prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria; «il legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a perseguire al massimo grado l'obiettivo di risparmiare il carcere al condannato, sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all'art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), l'art. 656 codice di procedura penale e introducendo l'automatica sospensione dell'esecuzione della pena detentiva, entro un limite pari a quello previsto per godere della misura alternativa». D'altra parte, nemmeno pare ultroneo ricordare che il legislatore aveva limitato l'applicabilita' «ai soli reati commessi successivamente all'entrata in vigore della legge» in sede di emanazione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che circoscrisse l'applicabilita' della norma limitativa della concessione dei benefici penitenziari per taluni delitti (di cui all'art. 58-quater, 4° comma, della legge n. 354/1975); la previsione, in quel caso, di una specifica disciplina intertemporale equivale all'implicito riconoscimento del principio di irretroattivita' di una norma meno favorevole, anche se «concernente l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione». Ed allora l'art. 4-bis della legge n. 354/75, richiamato dall'art. 656, comma 9, lettera a) codice di procedura penale, benche' «nominalmente» processuale, nella «sostanza» ha un contenuto «afflittivo» per le ricadute sulla liberta' personale del condannato, nei termini evidenziati. 3 - Se, dunque, nella sostanza ci si trova al cospetto di una «norma penale» a tutti gli effetti, l'applicazione della deroga alla sospensione dell'ordine di carcerazione anche per chi abbia subito condanna per il delitto di peculato commesso prima dell'entrata in vigore della legge n. 3/2019, implica una violazione degli articoli 25, comma 2° e 117, comma 1°, della Cost., integrato dall'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali cosi' come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo; diversamente si consentirebbe agli Stati membri di applicare misure che ridefiniscono retroattivamente la portata e la natura della pena inflitta a detrimento della persona condannata. Come gia' rilevato nelle ordinanze che hanno sollevato analoga questione di legittimita' costituzionale (Tribunale di sorveglianza di Venezia, ordinanza dell'8 aprile 2019; Corte di appello di Lecce, ordinanza del 4 aprile 2019; giudice per le indagini preliminari di Napoli, ordinanza del 2 aprile 2019), ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali attribuisce alla nozione di «pena» una connotazione «sostanzialistica», privilegiando alla qualificazione formale assegnata dall'ordinamento una valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle modalita' di esecuzione della sanzione o della misura applicata. In particolare, l'esigenza della verifica dell'effettivo carattere «sostanziale» della norma oggetto di scrutinio e, come tale, suscettibile di rientrare «nella protezione offerta dall'art. 7 CEDU», e' stata affermata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 21 ottobre 2013, «Del Rio Prada c/ Spagna». Nell'occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilita' con l'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali della c.d. «doctrina Parot» (si trattava di un diverso e successivo orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimita' spagnola circa l'applicazione di alcuni benefici penitenziari), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha evidenziato che: «per rendere effettiva la protezione offerta dall'art. 7, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare da sola se una particolare misura equivale in sostanza a una «pena» ai sensi di questa disposizione»; conseguentemente, la Corte ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale riguardante un istituto qualificabile come «liberazione anticipata» in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo a sostenere che «ai fini del rispetto del principio dell'affidamento del consociato circa la prevedibilita' della sanzione penale, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata ma anche alla sua esecuzione». 4 - La stessa Corte costituzionale ha, in piu' occasioni, esteso la garanzia del regime di «retroattivita'», sancito dall'art. 25, comma 2°, Cost. a varie disposizioni a carattere «intrinsecamente punitivo», cio' in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che da tempo sottolinea la necessita' di «andare al di la' delle qualificazioni giuridiche» per valutare «se una determinata misura costituisce pena» (CEDU, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito); ne costituiscono esempi le sentenze n. 196/2010 e n. 223/2018. Con la prima pronuncia la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale, «per violazione dell'art. 117, primo comma, della Cost., dell'art. 186, comma 2, lettera c), cod. strada, come modificato dall'art. 4, comma 1, lettera b), del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente alle parole «ai sensi dell'art. 240, secondo comma, del codice penale»; infatti, «la confisca in esame, al di la' della sua qualificazione formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza in senso proprio, e riveste una funzione meramente repressiva e non preventiva»; conseguentemente, «il riferimento all'art. 240, secondo comma, codice penale - contenuto nella censurata disposizione, che prevede, in caso di condanna o di patteggiamento per il reato di guida sotto l'influenza dell'alcool, l'obbligatoria confisca del veicolo con il quale stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato - determina l'applicazione retroattiva della confisca anche a fatti commessi prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 92 del 2008, secondo il regime proprio delle misure di sicurezza che, ai sensi dell'art. 200 codice penale, sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». Tuttavia, «l'applicazione retroattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il principio di irretroattivita' della pena sancito dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo a tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo». Con la sentenza n. 223/2018, il giudice delle leggi ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall'art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorche' il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all'intervento di depenalizzazione risulti in concreto piu' sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente». Questa conclusione si fonda sulla premessa secondo cui: «E' generalmente riconosciuto che dall'art. 25, secondo comma, Cost. («Nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») discende un duplice divieto: un divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante; e un divieto di applicazione retroattiva di una legge che punisca piu' severamente un fatto gia' precedentemente incriminato. Tale secondo divieto e', del resto, esplicitato nelle parallele disposizioni delle carte internazionali dei diritti umani e, piu' in particolare, nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali («Parimenti, non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso»); nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, firmata a New York il 16 dicembre 1966, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881 (Patto internazionale sui diritti civili e politici), («Cosi' pure, non puo' essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso»); nonche' nell'art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE), che riproduce in modo identico la formulazione contenuta nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Entrambi i divieti in parola trovano applicazione anche al diritto sanzionatorio amministrativo, al quale pure si estende, come questa Corte ha gia' in piu' occasioni riconosciuto (sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del 2014), la fondamentale garanzia di irretroattivita' sancita dall'art. 25, secondo comma, Cost., interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto». 5 - La modifica in senso sfavorevole della disposizione della cui legittimita' costituzionale si dubita, inoltre, vanifica il legittimo «affidamento» del condannato per il delitto di peculato commesso sotto la vigenza dell'originario art. 4-bis legge n. 354/75, a vedersi sospeso l'ordine di esecuzione della pena detentiva nel caso - come quello in scrutinio - di condanna inferiore a quattro anni di reclusione. L'incidenza della modifica normativa in oggetto sull'affidamento da parte dell'imputato/condannato ad una regola di giudizio accessibile e prevedibile - da apprezzarsi in termini di violazione degli articoli 117 della Cost. e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e' stata evidenziata dalla Corte di cassazione; in un obiter della sentenza n. 12541 del 14 marzo 2019, i giudici di legittimita' hanno affermato che: «non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale, l'avere il legislatore cambiatoin itinere le «carte in tavola» senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e, quindi, con l'art. 117 della Cost., la' dove si traduce... nel passaggio «a sorpresa» - e, dunque, non prevedibile - da una sentenza patteggiata senza «assaggio di pena» ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il gia' rilevato operare del combinato disposto degli articoli 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale e 4-bis ordinanza pen. D'altronde in precedenza il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all'art. 4-bis, comma 1°, legge 23 dicembre 2002, n. 279 (che inseriva i reati di cui agli articoli 600, 601 e 602 codice penale nell'art. 4-bis cit.) limitandone l'applicabilita' ai soli reati commessi successivamente all'entrata in vigore della legge» «(nell'occasione la questione e' stata dichiarata non rilevante poiche' non afferente l'impugnazione della sentenza di applicazione della pena oggetto di quel giudizio). 6 - Da queste premesse discende che il procedimento di esecuzione riguardante l'ordine di carcerazione adottato ai sensi dell'art. 656 comma 1° del codice di procedura penale in relazione ad una condanna per uno dei reati ostativi introdotti dall'art. 1, comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019 - tra cui, come detto, il delitto di peculato - ha titolo per rientrare nel raggio di azione dell'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali in materia di «processo equo»; cio' in considerazione dello stretto legame tra la nozione di «pena» di cui all'art. 7 della Convenzione e quella di «accusa in materia penale» ex art. 6 citato. Ad esempio, nella sentenza Gurguchiani c/ Spagna del 15 dicembre 2009, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha qualificato come «pena» - ex art. 7 della Convenzione - la sostituzione della pena detentiva con quella dell'espulsione con divieto di reingresso per dieci anni nel territorio dello Stato applicata, in forza di una legge sopravvenuta rispetto alla condanna definitiva, ad un imputato che stava espiando una pena detentiva; conseguentemente, la Corte ha riscontrato una violazione dell'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali: «e' dunque possibile concludere che al pari della pena comminata in occasione della condanna dell'interessato, si configuri come pena anche la sostituzione della pena detentiva di diciotto mesi, inflitta al ricorrente, con la misura dell'espulsione e del divieto di ingresso nel territorio per la durata di dieci anni, senza che il medesimo fosse stato interrogato e senza tener conto di circostanze diverse dall'applicazione quasi automatica della nuova versione dell'art. 89 del codice penale in vigore dal 2003». La Corte europea dei diritti dell'uomo ha gia' avuto modo di ritenere in contrasto con la garanzia convenzionale stabilita dall'art. 6 citato taluni procedimenti giurisdizionali previsti dalla legislazione italiana (le censure riguardavano la mancata previsione della pubblicita' delle udienze); cio' e' avvenuto con riguardo al procedimento applicativo delle misure di prevenzione (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c/ Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella c/ Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone c/ Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e/ Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre c/ Italia) ed al procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti c/ Italia). Quanto alla possibilita' di attribuire al procedimento di esecuzione penale la natura di giudizio che verte sul fondamento di un'«accusa penale», gli organi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo avevano distinto tra la procedura relativa all'«esecuzione della sentenza» (che esulerebbe dall'ambito applicativo dell'art. 6; cfr. decisione del 7 maggio 1990 Aldrian c/Austria) e la procedura riguardante la «fissazione della misura della condanna gia' inflitta» (che, viceversa, vi rientrerebbe; cfr. sentenza Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali 5 luglio 2001 Phillips c/ Regno Unito). Sull'argomento, con la gia' citata sentenza nel caso Del Rio Prada c/ Spagna, la Grande Camera della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali seppure in relazione all'applicabilita' dell'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali con riferimento a mutamenti giurisprudenziali suscettibili di incidere sull'esecuzione della pena e sull'ottenimento di benefici penitenziari - ha operato «una distinzione tra la misura che costituisce in sostanza una «pena» e la misura relativa all'«esecuzione» o all'«applicazione» della pena. Di conseguenza, quando la natura e lo scopo di una misura riguardano la riduzione di una pena o un cambiamento nel sistema di liberazione condizionale, tale misura non fa parte integrante della «pena» ai sensi dell'art. 7 (si vedano, tra le altre, Hosein c. Regno Unito, nn. 26293/95, decisione della Commissione del 28 febbraio 1996, Grava c. Italia, n. 43522/98, § 51, 10 luglio 2003, Kafkaris, sopra citata, § 142, Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 98, 17 settembre 2009, e M c. Germania, n. 19359/04, § 121, 17 dicembre 2009)». La Corte, tuttavia, non ha mancato di rilevare che «nella pratica la distinzione tra le due non e' sempre netta (Kafkaris, sopra citata, § 142, e Gurguchiani»). Ed invero, come e' stato condivisibilmente evidenziato in dottrina, non vi sarebbero ostacoli ad estendere le garanzie dell'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali anche ad istituti rientranti nel «procedimento di esecuzione» che concorrono a determinare l'effettiva durata della privazione della liberta' da scontare; tra questi ultimi possono annoverarsi, oltre al procedimento di cui all'art. 671 del codice di procedura penale relativo all'applicazione della continuazione in sede esecutiva, anche quelli in cui si discuta della validita' e/o dell'efficacia del titolo esecutivo o dell'ordirle di carcerazione, apparendo, diversamente, irragionevole offrire all'imputato tutta una serie di garanzie nel processo di cognizione, per poi sottrargliele proprio nella fase in cui devono essere determinati gli effetti sulla sua persona dell'eventuale condanna. 7 - La Corte costituzionale ha offerto utili indicazioni in ordine alla qualificazione di una misura come «pena» o come relativa all'«esecuzione» o all'«applicazione» della pena, in funzione dell'estensione delle garanzie sul «processo equo»; ci si riferisce alle questioni di legittimita' costituzionale riguardanti procedimenti camerali in cui sia «in gioco» un bene primario dell'individuo quale la liberta' personale. In ben tre circostanze la Consulta ha, infatti, esteso le garanzie previste dall'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali a procedimenti di «esecuzione penale», ossia disciplinati dagli articoli 666 e ss.gg. codice di procedura penale; con le sentenze nn. 93/2010 e 135/2014, la Corte ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittime - per contrasto con l'art. 117, 1° comma, Cost. - le disposizioni relative al procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione (art. 4 legge n. 1423/56) ed al procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza (articoli 666, comma 3°, 678, comma 1°, 679, comma 1° c.p.p.) nella parte in cui non consentono, su istanza degli interessati, che le procedure si svolgano nelle forme dell'udienza pubblica; sulla stessa linea si colloca la sentenza n. 97/2015, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale degli articoli 666, comma 3°, 678, comma 1°, codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza, si svolga nelle forme dell'udienza pubblica. L'avere ricondotto i richiamati procedimenti camerali nel solco della norma convenzionale sul «processo equo» sottintende e presuppone, necessariamente, l'affermazione che tali procedure hanno natura di giudizi che vertono sul fondamento di un'«accusa penale»; non a caso la Corte ha evidenziato: che «si tratta di un procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell'individuo, costituzionalmente tutelato, quale la liberta' personale» (sentenza n. 135/2014); che «si tratta di provvedimenti in tema di esecuzione della pena distinti ed ulteriori rispetto a quelli adottati in sede di cognizione - anche se ad essi ovviamente collegati - i quali incidono, spesso in modo particolarmente rilevante, sulla liberta' personale dell'interessato» (sentenza n. 95/2017). Atteso il gia' evidenziato stretto legame tra la nozione di «accusa in materia penale» ex art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e quella di «pena» ex art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ove al procedimento di esecuzione penale azionato ex art. 666 codice di procedura penale avverso l'ordine di carcerazione emesso dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 656 codice di procedura penale si riconoscesse la natura di un giudizio che verte sul fondamento di un'«accusa penale», natura «penale» non potrebbe conseguentemente che assegnarsi alla disposizione di cui all'art. 656, comma 9 lettera a), cosi' come integrato dall'art. 1, comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019 che ha modificato l'art. 4-bis della legge n. 354/75 nei termini suindicati. Non e' revocabile in dubbio, invero, che anche in relazione agli effetti derivanti dalla disposizione in scrutinio la «posta in gioco» - per usare l'efficace espressione contenuta nelle sentenze della Corte costituzionale nn. 134/2015 e 97/2015 - sia particolarmente elevata; come premesso, infatti, le conseguenze dell'applicazione di tale norma si traducono in una anticipazione della pena detentiva che comporta la privazione della liberta' personale attraverso la carcerazione, anche se il condannato risultera' meritevole di una misura alternativa. 8 - Da ultimo, e' stato condivisibilmente evidenziato che l'applicazione retroattiva della disposizione peggiorativa potrebbe comportare una violazione del diritto di difesa (art. 24 della Cost.) in ordine alla effettuazione di strategie processuali che non siano vanificate o alterate da successive modifiche delle «regole del gioco»; si pensi al caso di chi, imputato per il delitto di cui all'art. 314, comma 1, codice penale, abbia optato per un rito alternativo confidando su di una condanna a pena rientrante nella soglia della sospensione dell'ordine di carcerazione e che per effetto della novella potrebbe inoltrare una richiesta di misura alternativa solo in corso di esecuzione della detenzione carceraria. 9 - E' noto che le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo non sono equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita in via pregiudiziale o nell'ambito di una procedura di infrazione. Il giudice ordinario, quindi, non puo' risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo cio' il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, analogo a quello conferito al diritto dell'Unione europea ed alle sentenze della Corte di giustizia, che incidono direttamente nell'ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze 348 e 349 del 2007, e' costante nell'affermare che «le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall' art. 117, comma 1°, della Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 1 e 113 del 2011; nn. 138, 187 e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008). La Consulta ha anche chiarito che «l'art. 117 della Cost., comma 1°, ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali» in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli articoli 10 ed 11 Cost. Cosi' interpretato, l' art. 117, comma Cost., ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, si traduce in una violazione dell'art. 117 comma 1° Cost.» (sentenza n. 311/2009, richiamata nella sentenza n. 236/2011). In presenza di un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, pero', «il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilita' di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 113/2011, n. 93/2010, nn. 239 e 311 del 2009). L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che non puo' disapplicare la norma interna ne' farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e quindi con la Costituzione - di sottoporre alla Consulta la questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117, comma 1°, Cost. (sentenza n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che l'eventuale operativita' della norma convenzionale, cosi come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, deve passare attraverso una declaratoria d'incostituzionalita' della normativa interna di riferimento o, se del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva. Competera', inoltre, al giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto tra norma interna e norma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, non risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta fondamentale, ipotesi questa che portera' ad escludere l'idoneita' della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n. 311 del 2009; nn. 348 e 349 del 2007). 10 - Delineati i rapporti tra Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e diritto interno, tornando al tema oggetto di scrutinio, ritiene il Tribunale che non sia superabile in via interpretativa il riscontrato contrasto tra l'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e l'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354 - norma richiamata dall'art. 656, comma 9°, lettera a) codice di procedura penale - si applica anche al delitto di cui all'art. 314, comma I°, codice penale commesso anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge. A questa conclusione si perviene sulla base della considerazione che, come evidenziato in premessa, per il «diritto vivente» consolidato in numerose e costanti pronunce della Suprema Corte, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, sicche' sfuggono «alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo... ...dall'art. 25 della Costituzione». Tale principio e' stato affermato dalla S.C. nel suo piu' autorevole consesso, la cui funzione nomofilattica - e' opportuno evidenziare - e' stata notevolmente accentuata a seguito della recente riforma operata con la legge 23 giugno 2017, n. 103, attraverso le modifiche introdotte con i commi 1-bis ed 1-ter dell'art. 618 c.p.p. Pertanto, la rigorosa applicazione del principio del tempus regit actum, che secondo il «diritto interno» dovrebbe regolare la materia in un contesto di affermata compatibilita' con l'art. 25 della Cost., risulta superabile solo attraverso una pronuncia della Corte costituzionale che, intervenendo sulla norma censurata, limiti l'applicazione della novella ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. Da ultimo, non puo' accedersi alla richiesta - proposta in via subordinata - di dichiarare la temporanea inefficacia dell'ordine di carcerazione, poiche' l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 dispone unicamente la «sospensione del giudizio», non anche la sospensione dell'efficacia del provvedimento adottato in forza di una disposizioni di legge della cui legittimita' costituzionale si dubita.
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 24, 25, comma 2°, 117, 1° comma, della Cost., 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354 - norma richiamata dall'art. 656, comma 9°, lettera a) codice di procedura penale - si applica anche al delitto di cui all'art. 314 del codice penale commesso anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del presente procedimento di esecuzione. Dispone che la presente ordinanza sia notificata al sig. Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata al sig. Presidente del Senato ed al sig. Presidente della Camera dei deputati; Dispone, altresi', la comunicazione della presente ordinanza a tutte le parti processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti. Brindisi, 17 aprile 2019 Il Presidente estensore: Cacucci